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Il magistrato che fece tremare il Duce

Le Memorie e la Cronistoria del processo Matteotti  di Mauro Del Giudice in un volume curato da Teresa Maria Rauzino

Fresco di stampa il nuovo libro curato da Teresa Maria Rauzino dal titolo: “Il magistrato che fece tremare il Duce. Mauro Del Giudice – Memoria e Cronistoria del processo Matteotti”, con prefazione  e coordinamento editoriale di Silverio Silvestri e postfazione di Michele Eugenio Di Carlo (Ediz. Amazon Italia Logistica S.r.l., Torrazza Piemonte (TO), pp. 286, prezzo € 18,72).

In questo ultimo lavoro che ha richiesto anni di impegno, peraltro basato su fonti inedite, per la prima volta L’Autrice, attraverso il rinvenimento delle Memorie inedite del magistrato, ripercorre le fasi salienti della Sua vita professionale e personale.

Di grande rilievo è poi il periodo, molto sofferto e turbolento, trascorso durante l’istruttoria del processo per l’assassinio dell’onorevole Matteotti nel quale il principale responsabile fu il Regime Fascista.

Del Giudice consapevole di questo, da uomo integerrimo, cercò di far emergere una verità scomoda, una verità che doveva essere celata a tutti i costi. L’Autrice nell’ introduzione scrive:

«Questo manoscritto inedito, donato da Del Giudice al Comune di Rodi Garganico, lo abbiamo fortunosamente ritrovato nella locale biblioteca, dove sono collocati, in ordine sparso, i libri del magistrato, alcune sue opere pubblicate a stampa e le sue “carte inedite”. Un’ulteriore ricerca in varie biblioteche italiane ci ha permesso di recuperare in fotocopia i volumi mancanti. Soltanto così, già in un precedente nostro saggio, pubblicato da Giuseppe Cassieri nella collana “Gli ori del Gargano”, abbiamo potuto avviare una prima analisi del pensiero giuridico-letterario del magistrato rodiano».

Nel Proemio delle Memorie inedite, datato Trani 26-XII-1928, Del Giudice sottolinea le motivazioni che lo hanno spinto a raccontarsi, ad affermare le sue verità. Giunto alla fine di una lunga, travagliata e spesso dolorosa carriera, reputando di aver assolto il compito da Dio assegnatogli in questo mondo, vuole mettere a profitto i pochi giorni che gli restano da vivere, “per buttare, così alla buona, sulla carta, le memorie della vita trascorsa. Scrivo per dire il vero sul mio conto e non già per odio di altrui o per disprezzo”, tende a precisare. Il magistrato rodiano è amaramente persuaso che il mondo volti le spalle agli uomini virtuosi, facendo loro scontare questo pregio, mentre celebra il successo raggiunto “per la via più rea” dagli uomini mediocri. Spetta ai posteri l’ardua sentenza: “La posterità è un giudice severo, ma giusto, imparziale e illuminato. La verità è insopprimibile, viene sempre alla luce”».

«Il mezzo migliore perché la verità risplenda – sottolinea Del Giudice – è raccontare i fatti salienti della propria vita, offrendo al pubblico un’ampia copia di dati e documenti, atti a frustrare le nefaste azioni dei detrattori e di chi ha interesse a nascondere la verità». Ma questo lavoro anche se riuscirà a terminarlo, difficilmente vedrà la luce negli anni della dittatura fascista, e comunque prima della sua morte: forse rimarrà per sempre inedito se, chi lo amò e gli sopravvivrà, non avrà cura di pubblicarlo, per rivendicare la sua memoria che, forse, il dente della calunnia cercherà di lacerare (ovvero offuscare del tutto)».

«Un compito – scrive la Rauzino – che ci accingiamo ad assolvere noi, dopo novantaquattro anni dall’inizio della stesura delle “Memorie” – perché la figura di Mauro Del Giudice merita di essere portata a conoscenza di tutti come fulgido esempio di onestà intellettuale. Le “Memorie”, attraverso la filigrana della sua vita, testimoniano esemplarmente la sua irruente forza morale. Del Giudice spera che la sua esperienza sia di aiuto agli uomini probi, onesti ed amanti del vero. Sarà un documento utile per far loro capire quanto sia dura la strada da percorrere …  specie per chi, come lui, ha avuto la disgrazia “di nascere sotto gravoso e pesante cielo, in terreno servo e soggetto e ferace di pungenti spine e d’inestricabili pruni e triboli”. Il magistrato cita letture, frasi di poeti e scrittori classici, passi danteschi, non per sfoggiare la sua erudizione, ma per validare le sue azioni. Il corpus di testi e autori spazia in diverse aree: filosofia, teologia, storia dei popoli, diritto civile, letteratura, mitologia, cronaca dell’età contemporanea, raccolte di studi storico-giuridici sul pensiero illuminista. Le recensioni ai suoi libri sono la prova della circolazione delle sue idee e del suo nome».

Dopo travagliate vicende di vita vissuta in diverse regioni d’Italia, verso il calare della tarda età, Mauro Del Giudice si ritirò a Vieste dove completò i Suoi scritti narrando gli avvenimenti della propria vita, specie quelli che lo avevano coinvolto nell’istruttoria dell’assassinio di Giacomo Matteotti.

A tale riguardo la narrazione si fa esplicita ed interessante. La Rauzino analizza con rigore scientifico le cronache dell’epoca ad iniziare da quelle locali. Ella, tra le tante, riporta alcuni brani del giornale “Il Foglietto” di Lucera e scrive:

Il «Foglietto», giornale della Daunia, il 22 giugno 1924, nell’articolo “La commossa indignazione della Capitanata per l’orrendo assassinio dell’on. Matteotti“, commenta così il delitto politico più eclatante del Ventennio, che farà vacillare seriamente il governo fascista:

«Un crimine truce e fosco senza precedenti nella storia politica del nostro paese – la barbara uccisione dell’onorevole Matteotti – ha intensamente commosso la nazione tutta. Anche perché dall’istruttoria vengono giorno per giorno fuori gravi e tremende responsabilità, dirette e indirette, di personaggi del partito dominante che occupavano posti eminenti nelle gerarchie del Partito e nella Politica. All’indignazione dell’Italia e del mondo civile si è associata la nostra Capitanata che con virile compostezza segue ora ansiosa le vicende delle indagini e gli eventi politici, nella fiduciosa speranza che l’opera della giustizia voglia rintracciare e colpire gli assassini e che – ristabilito sovrano l’imperio della legge per tutti – il sangue dell’onorevole Matteotti voglia fecondare l’auspicata normalizzazione che sola potrà assicurare alla nazione un periodo di tregua, di pace e di lavoro. La Nazione sovratutto».

L’editorialista del foglio lucerino informa i lettori che la grave e delicata istruttoria del processo è stata avocata dalla Sezione di accusa di Roma, presieduta da un magistrato di «altissimo valore morale e giuridico»: Mauro Del Giudice. L’insigne magistrato, autore di numerose, apprezzate pubblicazioni, è un comprovinciale, nativo della «forte» terra garganica, pubblicista del settimanale: «È titolo d’orgoglio di questo giornale essere stato onorato della collaborazione e della simpatia del commendator Del Giudice. Alla sua opera illuminata e alla sua coscienza adamantina son rivolti, in vigile e fiduciosa attesa, l’interesse e la dignità della Nazione. L’illustre figlio della Capitanata renderà ancora un gran servizio alla giustizia e alla civiltà».

Il 10 giugno 1924, quando per Roma si sparse la voce che una banda di criminali fascisti aveva rapito il deputato socialista Giacomo Matteotti, Mauro Del Giudice ebbe l’immediata premonizione che «una tegola stesse per cadere sulla sua povera testa». L’indagine, avviata dalla Procura generale, aveva dato scarsi risultati. Come era accaduto in precedenza per i delitti politici di eccezionale gravità, il procuratore Crisafulli presentò l’istanza per l’avocazione dell’istruttoria alla Sezione di accusa, della quale Del Giudice era presidente. Quella mattina, questi trovò il documento sul suo tavolo. Il suo amico Donato Faggella, primo presidente della Sezione di accusa, con aria apparentemente indifferente, gli domandò: «Che intendi fare?». Del Giudice non era abituato a tirarsi indietro. Non lo fece neppure quella volta. Sebbene avesse sessantotto anni, non delegò ad altri la responsabilità di un’istruttoria scottante che coinvolgeva il Direttivo del Partito nazionale fascista e il Capo del Governo. Faggella aveva ricevuto fortissime pressioni per esercitare tutta la sua influenza su Del Giudice, per indurlo a rinunciare all’incarico. Stimava troppo il magistrato rodiano per insistere, ma lo mise in guardia sull’alta posta in gioco, la credibilità della Giustizia: «Del processo che tu istruisci non rimarranno che le sole carte, però da esso deve uscire intatto l’onore della Magistratura di Roma». Del Giudice era ancora più pessimista: di quell’istruttoria, molto probabilmente, non sarebbero rimaste neppure le carte, il Regime le avrebbe fatte sparire dopo aver operato il salvataggio degli assassini, dei loro complici e mandanti. Rassicurò Faggella: avrebbe reso onore alla Corte d’appello di Roma. Il suo nome sarebbe uscito illibato. Si augurava che anche i suoi colleghi facessero altrettanto.

Mauro del Giudice alla Quartarella alla ricerca del cadavere di Matteotti

Il 19 giugno 1924 iniziò l’istruttoria. Il procuratore Crisafulli, che riceveva direttive dal ministro Oviglio, gli affiancò il sostituto Umberto Guglielmo Tancredi. Del Giudice temeva interferenze, ma i suoi dubbi sparirono quando vide che quest’ultimo era disponibile ad accertare le responsabilità degli esecutori materiali del delitto e anche degli alti mandanti, compreso Mussolini.

La sera stessa, Del Giudice e Tancredi si recarono al carcere di Regina Coeli. Interrogarono Amerigo Dumini, il quale, appena li vide, con spavalderia disse: «Ma loro cosa sono venuti a fare? Il Presidente (Mussolini) è informato di quanto loro stanno facendo?». Del Giudice lo fissò severamente. L’inquisito capì che, se avesse mancato di rispetto ai magistrati, per lui era pronta la cella di rigore; mise da parte i suoi modi arroganti, ma negò ogni responsabilità. Quando, due mesi dopo, la giacca di Matteotti fu trovata sotto un ponte della Flaminia, Del Giudice tornò a interrogarlo ponendogli sotto gli occhi l’indumento macchiato di sangue, ma anche questa volta Dumini non mostrò alcun cedimento.

Mauro del Giudice alla Quartarella alla ricerca della giacca di Matteotti

La vicenda Matteotti suscitò un forte interesse pubblico e mediatico. Quando l’Agenzia Stefani annunciò che Del Giudice aveva emesso i mandati di cattura contro Cesare Rossi (direttore dell’ufficio stampa, eminenza grigia del Duce) e contro Giovanni Marinelli (segretario amministrativo del Partito fascista), si registrò immenso stupore e vivissima soddisfazione non solo a Roma, ma in tutta Italia. Si capì che l’autorità giudiziaria sarebbe andata fino in fondo.”

Furono tante le testimonianze raccolte sul caso, ma alla fine:

“Mussolini, tramite il segretario del Partito fascista Roberto Farinacci, avvocato di Amerigo Dumini, ottenne che il processo fosse trasferito a Chieti «per ragioni di ordine pubblico». Con sentenza del 24 marzo 1926, la Corte d’Assise teatina, addomesticata dal Regime fascista, mise fine alla vicenda processuale dell’assassinio Matteotti: assolse Malacria e Viola, e condannò a poco più di 5 anni di reclusione Dumini, Volpi e Poveromo. Non potendo smontare il corposo impianto accusatorio raccolto nei quarantaquattro fascicoli dell’istruttoria, si operò la separazione tra responsabilità del rapimento e responsabilità dell’omicidio, orientando così la sentenza verso il meno grave reato preterintenzionale.

Pene di fatto scontate per pochi mesi dai condannati, grazie al provvido decreto emanato il 31 luglio 1925 – quindi dopo il deposito dell’istruttoria e prima dell’inizio del processo – che dichiarava non punibile l’omicidio preterintenzionale e i reati ad esso connessi. La tragedia del delitto Matteotti finì in una farsa”.

Come poteva il processo avere un finale diverso? Il Regime doveva “Imperare” e i colpevoli, nonostante le prove schiaccianti, non potevano essere condannati con pene gravi. Così tutto fu messo a tacere e la questione si risolse senza che la giustizia trionfasse. 

A questo punto viene da chiedersi, rapportandoci ai giorni nostri, cosa sia cambiato da allora. La Rauzino nel testo pone in evidenza gli aspetti più reconditi di una vicenda che se fosse stata trattata in un periodo diverso forse avrebbe avuto altri risvolti. Ma forse anche no.

Questi ed altri sono gli avvenimenti che emergono dalle Memorie del personaggio oggetto dello studio. A tale riguardo a noi piace evidenziare che c’è differenza fra un libro di Storia ed un romanzo storico. Il romanzo storico utilizza personaggi realmente vissuti ma le storie sono frutto della pura fantasia dell’autore, così menzioniamo il famoso romanzo de: “I promessi Sposi”, dove suor Virginia de Leyva (nata Marianna) (Gertrude), Bernardino Visconti (l’Innominato), Gian Paolo Osio (Egidio), solo per citare alcuni personaggi, restano un punto fermo nel romanzo, ma le vicende sono frutto dell’immaginazione di Alessandro Manzoni che, su suggerimento dell’amico Walter Scott, ritiratosi nella villa di Brusuglio dopo i moti del marzo 1821,  decise di utilizzare i personaggi descritti dall’abate Giuseppe Ripamonti nella sua Historiae Patriaae, (Libri X,Milano 1641), creando quello che poi sarebbe diventato un capolavoro della letteratura italiana, studiato ancora oggi.

Diversamente, il libro di storia ripercorre fasi di ricerca documentale basate su fatti accaduti ma senza aggiunte.  Facendo parlare i documenti. Quello dell’Autrice riteniamo che appartenga di certo alla tipologia del libro di Storia. Un libro avvincente e coinvolgente, una preziosa testimonianza che si aggiunge alla doviziosa produzione dell’Autrice sulla Storia del Gargano e non solo. Una ricca Appendice con documenti ed immagini inedite, infine, completa ed impreziosisce il volume. A Teresa Maria Rauzino va il nostro augurio di un meritato successo.

@Lucia Lopriore

su bonculture.it 17 0ttobre 2022

Il volume è disponibile su Amazon:

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Storia del Regio Liceo Lanza di Foggia

Teresa Maria Rauzino ricostruisce in un innovativo lavoro storiografico la vita del prestigioso Istituto classico di Foggia

Copertina del volume Il Regio Liceo Lanza. Dalle Scuole Pie agli anni del Regime

Il Regio Liceo Lanza. Dalle Scuole Pie agli anni del Regime. Questo il titolo del libro di Teresa Maria Rauzino, nota ricercatrice e presidente del Centro Studi “Giuseppe Martella” di Peschici, edito per i tipi delle Edizioni Parnaso di Foggia (ill., pp. 400, prezzo € 20,00).

Questo lavoro inaugura la prestigiosa collana editoriale intitolata “Anni di Scuola” della neonata casa editrice di Luigi Pietro Marangelli che tiene a “battesimo”, con questa pubblicazione, l’Autrice. È questo infatti, il primo lavoro monografico di Teresa Maria Rauzino, che finora è stata impegnata a lungo nel recupero della storia e delle tradizioni della sua cittadina d’origine e del Gargano. Non nuova alle iniziative editoriali (ha curato alcuni volumi de “I luoghi della memoria” del Centro Studi Martella) è stata, recentemente, protagonista di una “battaglia” che l’ha vista e la vede impegnata, con la sua associazione e la professoressa Liana Bertoldi Lenoci, nel recupero dell’antica abbazia benedettina di Kàlena.

Il volume appena editato, frutto di una difficile ricerca durata tre anni e mezzo, racconta la storia del mitico Liceo “Vincenzo Lanza” di Foggia dalle origini fino agli anni immediatamente successivi al regime fascista. Un lavoro unico nel suo genere, che rappresenta una pietra miliare non solo per lo storico Istituto e per la città, ma anche per la storia dell’ordine classico.       

La Rauzino, ex allieva dell’Istituto, ha voluto rendere omaggio alla sua scuola, ricostruendo uno spaccato di vita, di storia, di costumi, di usi e di consuetudini della città di Foggia. Lo studio, meticoloso e capillare per la metodologia storiografica seguita, traccia, attraverso un lungo excursus storico, derivante dalla consultazione delle carte degli archivi pubblici e privati, una nuova strada per acquisire conoscenze sulla storia della scuola.

Varie le tematiche proposte dall’autrice in questo lavoro: in primis affronta il tema della importanza degli archivi scolastici come fonte di ricerca, dove paragona l’esperienza della ricerca storica ad una «entusiasmante avventura che può portare alla scoperta di piccoli tesori o, come più spesso è probabile, al deludente nulla». Nel capitolo relativo, parla degli archivi scolastici e dell’importanza di preservarli dalla distruzione e dall’incuria.

Per il “Liceo Lanza” è successo proprio questo: il trasferimento delle sedi, gli eventi bellici, l’incuria da parte di chi, insensibile al problema del recupero cartaceo, non si è preoccupato nel tempo della conservazione dei documenti, preziosa fonte per tutti gli storici, utile alla ricostruzione degli eventi del passato. Per l’Istituto di Foggia, l’avventura della dispersione documentaria cominciò con lo storico incendio della sede del Palazzo di Città, nel 1898, quando il popolo foggiano insorse contro gli amministratori a causa delle tasse troppo alte. Allora il Liceo “Lanza”, che nel 1868 aveva rimpiazzato le Scuole Pie nell’attiguo Palazzo San Gaetano, antica sede dei Padri Scolopi, si era appena spostato a Palazzo Lanza, attuale sede dell’Università. Nell’incendio del municipio furono bruciate tutte le carte dell’archivio comunale. Il danno fu di una tale entità che, ancora oggi, i ricercatori trovano difficoltà a colmare il vuoto storico lasciato dalla distruzione di quell’archivio.

I PRESIDIDUCE

La parte centrale del volume interessa tematiche varie che vanno dalle politiche scolastiche postunitarie, alla didattica nell’Ordine classico, al sorgere della scuola come Liceo, ai primi docenti, alla fondazione del convitto, fino a tracciare una curva ascendente che arriva agli anni del Ventennio fascista, in cui la scuola era funzionale alla cosiddetta “fabbrica del consenso”. Ed è proprio dalla lettura di queste pagine che emerge la personalità dei “presididuce” come vengono definiti, in quel periodo, i capi d’Istituto.

«I Presidi dell’epoca – si legge nel libro – ci forniscono notizie sugli studenti e le loro famiglie, e soprattutto sulla classe docente, sottoposta ad un controllo che oggi ci sembra davvero poco rispettoso della libertà di insegnamento e della privacy […]. La documentazione di prima mano, ci ha permesso la ricostruzione di una tranche de vie, che illustra il “fare scuola” negli anni del Regime. La storia del Regio Liceo “Lanza” diventa storia emblematica di una scuola, più o meno allineata alle direttive di un governo dittatoriale. Diventa storia di un gruppo significativo della classe dirigente italiana, i Presidi, in un periodo cruciale della storia nazionale, in cui la scuola è un binario privilegiato per veicolare una “missione forte”: forgiare il “nuovo italiano di Mussolini”».

In questo contesto, si evince il tratto umano dei personaggi protagonisti della vita scolastica.

Uno fra tutti, può senz’altro essere rappresentato dal prof. Oronzo Marangelli, docente dissidente degli anni del Regime. Il professore, grazie alla segnalazione negativa e di un ispezione ministeriale sollecitata dai “presideduce” del Lanza e del Poerio, viene volutamente allontanato da Foggia e confinato a Benevento perché personaggio ritenuto “pericoloso” per la scuola. Chi la pensava in modo diverso dall’ideologia in quel tempo dominante non poteva quindi insegnare nel “Palazzo degli Studi”, allineato su strette posizioni governative. Esperto paleografo, autore di opere elogiate dal Kehr, Marangelli era stato già allontanato dalla Biblioteca Minuziano di San Severo a causa delle sue idee politiche: nei suoi articoli sul «Popolo nuovo» si era permesso di “ignorare” i meriti del fascismo e di Postiglione quando aveva parlato dell’importanza dell’Acquedotto Pugliese per “l’arsa Puglia”.

Certo il “caso” Marangelli doveva costituire “l’esempio” della sorte toccata ai dissidenti, affinché nessuno di essi potesse agire autonomamente manifestando le proprie idee, soprattutto a scuola, ma fu davvero soltanto questo il motivo dell’allontanamento di Marangelli dal Palazzo degli Studi foggiano? A nostro avviso, il motivo dell’emarginazione del professore poteva derivare dalla celata paura di essere “scavalcati” da una persona molto più colta, più intelligente, più sensibile e più lungimirante di coloro che, accecati dall’ottusità derivante dal ruolo del momento, applicavano alla lettera le paradossali ed inaccettabili idee imposte dal regime.

Confinato a Benevento, non riuscendo a sopportare tale situazione, Marangelli pur di ritornare a Foggia dalla sua famiglia, si era imposto di “rientrare nei ranghi”… ma tutto fu inutile. Dovette rifare il concorso nazionale (risultò primo) per tornare ad insegnare in Puglia. Dalla lettura di queste dense pagine di storia, il professor Marangelli emerge come la vittima sacrificale di un regime limitativo della libertà di pensiero.

Un altro aspetto che evidenzia le peculiarità del clima politico di quegli anni, è dato dai frequentatori della “Libreria Pilone” di Foggia, che riuniva gli intellettuali dissidenti della città. Costoro andavano contro il regime fascista, ed erano persone costrette a mascherare il loro pensiero politico in nome degli “ideali imposti dal Regime”. Si riunivano segretamente mettendo a rischio la libertà personale, come accadde per i professori Francesco Perna ed Antonio Vivoli che vennero tradotti a Bari dall’Ovra quando fu scoperta la loro appartenenza al Partito Liberal Socialista di Tommaso Fiore.

Dal libro della Rauzino emerge uno spaccato di vita e di consuetudini che oggi ci sembra lontano anni luce. Inconcepibile risulterebbe oggi, ai nostri occhi, il ruolo della donna nella società durante gli anni del regime: era relegata al ruolo di madre e moglie, di angelo del focolare, di massaia votata all’arduo compito di educare i figli per la “Patria”. Queste idee, durante gli anni del regime, vengono proiettate anche nella scuola. I presididuce, in quegli anni convinti sostenitori delle idee del regime, fecero di tutto per mettere in difficoltà le colleghe: nelle loro relazioni al Ministero dell’Istruzione pubblica e dell’Educazione Nazionale non mancano di sottolineare quale fosse il ruolo della donna: non nella scuola o negli uffici, ma a casa! A curare i figli. Tutto questo però si rivela un fallimento, la donna non abbandona il proprio ruolo di educatrice e di madre ma non lascia nemmeno che le idee misogine dei presidi prendano il sopravvento.

Non mancano nel volume della Rauzino momenti densi di pathos, che emergono dal ricordo dei protagonisti delle interviste, personaggi che oggi costituiscono le classi dirigenti e non solo, nomi come Renzo Arbore, Antonio Pellegrino, Gustavo de Meo, Gaetano Matrella, Mario Pellegrini, Emilio Benvenuto, Mario Sarcinelli, solo per citarne alcuni. Ciascuno, secondo la propria esperienza, si è raccontato ed ha raccontato il modo di vivere della scuola dagli anni Trenta agli anni Cinquanta. Oggi sono tutti valenti professionisti noti a livello nazionale ed internazionale… se solo si pensa ad Arbore e a Sarcinelli. Gli alunni del Liceo sono diventati gli uomini pensanti di oggi, questo dalla fondazione ad oggi è l’intento precipuo della “Scuola”: quello di “forgiare” le classi dirigenti del “domani”.

Questa idea di “ammaestrare” è stata sempre presente nelle classi dirigenti scolastiche fin dal periodo postunitario, nella seconda metà dell’Ottocento. Anche quando fu fondato il Regio Istituto Tecnico “Pietro Giannone” di Foggia, nel 1885, in una relazione relativa agli anni 1887-88, il Preside Narciso Mencarelli affermava che il compito dei docenti dell’Istituto era quello di «Ammaestrare la gioventù ai principi del vero». (n. d. r.)

La frequenza al “Liceo Lanza” non fu solo appannaggio di chi poteva permettersi di “studiare”. Con le imposizioni dei Presidi che si sono succeduti, non si è voluto distinguere, ma si è sempre cercato di “uniformare” tutti gli studenti. Basti consultare, nel volume, la lista del corredo di cui gli “Ospiti” del Convitto Lanza dovevano “dotarsi”. Negli anni a venire, tutti ebbero l’obbligo di vestire in modo uniforme, furono aboliti i pantaloni corti per i ragazzi, mentre le ragazze dovevano portare i grembiuli. Anche le insegnanti dovevano, secondo alcuni presidi, vestirsi in modo “decoroso” senza stimolare gli “appetiti” maschili.

Il volume è impreziosito dalla trascrizione di documenti rinvenuti nei vari archivi, da quello di Stato di Foggia, a quello del Museo Civico per la parte antica, a quello del Comune. Il periodo ottocentesco della scuola emerge attraverso l’analisi documentaria della carte rinvenute tra i manoscritti custoditi al Museo Civico della città. L’autrice trascrive alcune parti delle relazioni di padre Marcangelo; non mancano inoltre: gli Statuti del Convitto, la scuola che precede il “Liceo”, i relativi Bilanci con i Rendiconti degli introiti del Convitto, il quadro orario delle lezioni, i voti d’esame degli allievi del 1868, ecc. Notizie inedite che tratteggiano i primi anni della vita della scuola. Anche queste sono pagine importanti, pagine che descrivono per la prima volta la situazione storica del momento: i contrasti, le scelte derivanti da una politica che contrapponeva le Scuole Pie degli Scolopi a quelle pubbliche, la Destra storica alla Sinistra. E, se riflettiamo, tutto ciò non si discosta molto dalla situazione politica di oggi. 

Un profilo di Vincenzo Lanza, scienziato e patriota tratteggiato da Nazario Barone, studioso di storia militare risorgimentale, chiude questo bellissimo lavoro con una serie di cartoline d’epoca a lui dedicate, che testimoniano il radicale cambiamento dell’assetto urbano, avvenuto nel corso del Novecento anche a Foggia. Le planimetrie e le incisioni antiche delle varie sedi del Liceo ritraggono la Scuola nei vari passaggi epocali.

Il libro può essere richiesto direttamente all’autrice teresa.rauzino@gmail.com

©2004 Lucia Lopriore