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Microstorie

Slavi ed ebrei nel campo di concentramento di Manfredonia

Il silenzio sulle foibe, e sull’esodo forzato di dalmati e istriani dalle loro terre, è forse la pagina più oscura della nostra storia repubblicana. Ma ancora più oscure sono le pagine che l’Italia ha scritto tra il 1919 e il 1944 in Slovenia e Croazia – sulle quali continua ipocritamente il silenzio – a cui va fatta risalire la feroce reazione degli Slavi di cui si parla in questi giorni.

È singolare che a sollevare la questione (solo delle foibe e dell’esodo, ovviamente) siano, anche a Foggia e in Capitanata, proprio gli “eredi” di quel regime che fu il primo responsabile della sanguinosa e sanguinaria reazione slava.

A tutti coloro che vogliono saperne di più su questa storia “dimenticata” consigliamo la lettura di un libro (a cura) di Costantino di Sante: Italiani senza onore (edizioni Ombre Corte, pp. 270) che pubblica documentazione inedita sui crimini compiuti dall’esercito del Duce in Jugoslavia. Ci fornisce una dettagliata, illuminante cronistoria dell’antislavismo viscerale perseguito dal regime fascista nei Balcani, brutto retroscena della bruttissima storia delle foibe.

La politica di occupazione italiana si contraddistinse per una serie ripetuta di violenze, angherie e sopraffazioni che non furono il risultato di scelte isolate dei comandi militari, ma componente essenziale della strategia di dominio territoriale dell’Italia fascista il cui scopo era arrivare alla «distruzione totale e integrale dell’identità nazionale slovena e croata».

«Di fronte ad una razza inferiore e barbara come la slava – scriveva Benito Mussolini già dal 1920 – non si deve seguire la politica che dà lo zuccherino, ma quella del bastone. I confini dell’Italia devono essere il Brennero, il Nevoso e le Dinariche: io credo che si possano sacrificare 500.000 slavi barbari a 50.000 italiani».

In una lettera spedita in data 8 settembre 1942 (N. 08906) dal generale Roatta al Comando supremo, viene proposta, addirittura, la deportazione dell’ intera popolazione slovena.

Nella riunione di Fiume del 23-5-1942, lo stesso Roatta aveva riferito le direttive di Mussolini: «Il DUCE è assai seccato della situazione in Slovenia perchè Lubiana è provincia italiana. Ha detto di ricordarsi che la miglior situazione si fa quando il nemico è morto. Occorre quindi poter disporre di numerosi ostaggi e applicare la fucilazione tutte le volte che ciò sia necessario. /…/ Il Duce concorda nel concetto di internare molta gente – anche 20-30.000 persone. Si può quindi estendere il criterio di internamento a determinate categorie di persone. Ad esempio: studenti. L’azione però deve essere fatta bene cioè con forze che limitino le evasioni. /…/ Ricordarsi che tutti i provvedimenti di sgombero di gente, li dovremo fare di nostra iniziativa senza guardare in faccia nessuno».

Tutti conosciamo Auschwitz e Buchenwald, ma decenni di censure ci hanno impedito di sapere che noi, italiani, costruimmo e gestimmo i lager di Kraljevica, Lopud, Kupari, Korica, Brac, Hvar, Rab (isola di Arbe). Alla fine del Ventennio gli occupanti italiani costruirono nelle terre slave campi di concentramento che, seppur non scientificamente predisposti allo sterminio, furono la causa di migliaia di morti e di infinite sofferenze. Furono creati campi anche in Italia, per esempio a Gonars (Udine), a Monigo (Treviso), a Renicci di Anghiari (Arezzo) e a Padova. Secondo stime rapportate nel volume dell’A.N.P.P.I.A. “Pericolosi nelle contingenze belliche”, i fascisti internarono quasi 30.000 sloveni e croati, uomini, donne e bambini .

SLAVI INTERNATI A MANFREDONIA

Facendo riferimento a uno studio effettuato da Viviano Iazzetti (funzionario dell’archivio di Stato di Foggia), sul campo di concentramento pugliese di Manfredonia (che funzionò dal 1940 alla fine dell’estate del 1943) possiamo confermare che un gruppo consistente delle persone ivi internate proveniva dalla provincia di Fiume erano cittadini italiani “slavofili“ sospetti di attività antinazionale; ex jugoslavi sospetti di attività antitaliana. Per ex jugoslavi – precisa Iazzetti– si intendevano gli internati originari dei territori dell’Istria annessi all’Italia in seguito allo smembramento dell’impero austro-ungarico conseguente il primo conflitto bellico mondiale.

Nel campo di concentramento di Manfredonia la libertà degli internati era limitatissima. Essi potevano passeggiare liberamente soltanto per alcune ore della giornata ed esclusivamente nell’ambito della zona delimitata. Quando i reclusi si trovavano in quest’area venivano attivati sei posti fissi di guardia per la loro vigilanza e contemporaneamente degli agenti in bicicletta percorrevano la nazionale per Foggia, lungo il tratto antistante il campo, onde evitare contatti con estranei. Al rientro degli internati nelle camerate venivano chiuse finestre e porte applicando a queste ultime dei lucchetti dall’esterno. Durante la notte funzionava un servizio di ronda sia all’esterno che all’interno del campo.

Una immagine dell’ex campo di concentramento di Manfredonia

Per gli internati non era possibile intrattenere rapporti epistolari con i familiari senza la preventiva autorizzazione ministeriale e subordinatamente al vaglio della posta per motivi di censura. Gli internati avevano l’obbligo di presentarsi negli Uffici della Direzione, ogni qualvolta invitati, a capo scoperto, abbigliati compostamente e salutando romanamente.

Per poter leggere dei libri italiani occorreva l’autorizzazione della direzione, mentre, per i giornali ed i libri in lingua straniera, quella del ministero. Era vietato usare lingue straniere nelle conversazioni. Della traduzione della corrispondenza degli internati serbo-croati e Sloveni si occupava la signora Maria Nannut presso il campo di concentramento di Fabriano.

Il campo di Manfredonia fu una “cosa all’Italiana”, non furono uccisi internati come nei famigerati campi nazisti. Ma non dimentichiamo che il 1° luglio 1940 nel campo suddetto giunsero 31 ebrei tedeschi. Iazzetti, nel suo saggio, ne ha citato nomi e cognomi e paternità:

Pressburger Alfred di Leopold
Rector Arthur fu Simon
Scharf Iakob di Jonas
Winkler Ugo Israele di Iulius
Zeilinger Leopold fu Gustavo
Morgestern Hans di Mauritz
Moser Louis fu Heinric
Kollmann Carl di Sigfrid
Kerbes Lemel fu Wilhelm
Hutzler Ludwig fu Leopold
Gluecksmann Eugen fu Antonio
Heinz Paul di Leopold
Leer Oskar di Franz
Mandel David fu Leiser
Mausner Iakob fu Leiser
Josesfsberg Iakob fu Zaibel
Kollmann Hans di Sigfrid
Schwarz Iulius fu Samuel
Tsch Oskar fu Albert
Aussemberg Chaskel fu Kaim
Lueksmann Ferdinand fu Filippo
Zilberstein Markta fu Habraham
Sommerfeld Leo fu Max
Koldegg Erwin fu Max
Samek Arthur di Adolfo
Halperin Benjamin di Giuseppe
Lawetzky Franz di Adolfo
Nussbaum Ernest Ludwig di Josef
Roth Leon di Wolf
Schwarzwald Norbert di Isacco
Wollner Sieghard di Max

Il 18 settembre 1940 gran parte di essi furono trasferiti presso il campo di concentramento di Tossicia in provincia di Teramo. Restarono a Manfredonia Halperin, Lawetzky, Roth, Swarzwald e Wolner che a loro volta, ad eccezione dell’ultimo di cui si perdono le tracce, furono trasferiti nel campo di concentramento di Campagna (in provincia di Salerno) il 26 febbraio 1942.

Viviano Iazzetti si chiede quale sorte toccò a queste persone ( di cui comunicò i nominativi alla Comunità ebraica di Roma fin dal 1984-85), invitando gli studiosi ad effettuare questa ulteriore ricerca.

Oggi finalmente questo ci è stato reso possibile dalla consultazione di una banca dati delle vittime della Shoa postata in Internet. Da una nostra personale ricerca sul sito www1.yadvashem.org, ben 16 su 31 ebrei tedeschi risultano periti nei famigerati campi di concentramento nazisti dove si consumò la Shoa. Sono Pressburger Alfred, Rector Arthur, Scharf Iakob, Winkler Ugo Israele, Zeilinger Leopold, Kollmann Carl, Kerbes Lemel, Gluecksmann Eugen, Mandel David, Mausner Iakob, Kollmann Hans Schwarz Iulius, Sommerfeld Leo, Halperin Benjamin, Nussbaum Ernest Ludwig, Roth Leon.

Nelle schede on line non sempre è riportata la paternità, oltre che la nazionalità, e talvolta ci sono omonimie: speriamo vivamente che il numero delle vittime sia stato inferiore al numero da noi rilevato.

Al Comune di Manfredonia chiediamo che sia posta almeno una targa a loro ricordo nel luogo (l’ex macello comunale, oggi dismesso) che li ospitò.

    
PER APPROFONDIRE:
Una memoria dimenticata. Il campo di concentramento di Manfredonia

©2005 Teresa Maria Rauzino. L’articolo è stato pubblicato sul mensile «Sudest» (n. 5, marzo 2005,  pp. 98-101). Le foto dell’ex macello comunale, sede del campo di concentramento di Manfredonia, sono state scattate dal fotografo del «Corriere del Golfo».