L’artista italo-tedesco Bortoluzzi scelse Peschici come buen retiro
Un teorema urbanistico risolto in chiave di scenografia funzionale: quinte di case inverosimili, strette ed alte come torri, oppure a un solo piano, senza tegole, con tetto a cupola rivestito d’intonaco e i margini voltati ad onda per convogliare le piogge entro le cisterne sottostanti alle grondaie. Case scialbate a calce, o dal colore grigio- rosato dei muri antichi. Bianchi e azzurri che richiamano un’isola greca, il villaggio di Oia, a Santorini, nelle elleniche Cicladi. Scoprono improvvisi scorci luminosi aperti tra valli e mare.
Così si presentò Peschici per la prima volta ad Alfredo Bortoluzzi, in viaggio nel 1953 verso l’isolato selvaggio, mitico Gargano. Secondo il critico Carlo Munari, che andò a trovare Bortoluzzi a Peschici dopo aver curato una sua mostra nel 1967, la luce e i colori “italiani” di Peschici giovarono alla pittura di Bortoluzzi, per le sottili, segrete corrispondences interiori che riuscirono ad evocargli. Per l’artista il Gargano rappresentò l’incontro con la mediterraneità. Fu la Magna Grecia ad affascinarlo, così come aveva affascinato i voyageurs del Grand Tour che provenivano dal Nord Europa. Sbaglierebbe chi credesse Bortoluzzi un semplice “vedutista”: Peschici, i monti, le valli ed il mare sono soltanto pretesti per evocare la Stimmung della solarità. Un tentativo continua Munari – di sfuggire all’incanto opposto, della selva e delle saghe, del culto della Luna, del romantico chiuso e disperato della Kultur.
Una Kultur che Bortoluzzi non riconosceva più come sua: aveva prodotto il buio della chiusura della Bahuaus, la scuola in cui aveva imparato tutto; aveva causato la distruzione dei suoi quadri, di quelli di Klee e di Kandinsky, reputati arte degenerata “dall’artista fallito Hitler”.
Una Kultur che aveva prodotto il buio dei pogrom.
Nato a Karlsruhe nel 1905 da genitori italiani, figlio di artigiani, il padre mosaicista e la madre stilista, Bortoluzzi non intraprese la carriera universitaria come il padre avrebbe desiderato, ma quella artistica. Frequentò dapprima l’Accademia di Karlsruhe e in seguito, a partire dal 1927, il Bauhaus dove sarà allievo di Albers, di Kandinsky, di Schlemmer e soprattutto di Klee, che lascerà un’impronta inconfondibile nella sua opera grafica e pittorica.
Quando nel 1933 il nazismo trionfante ordinò la chiusura dell’istituto di Dessau, Bortoluzzi non seguì nella diaspora verso l’America gli artisti della sua scuola, né il suo grande maestro Paul Klee in Svizzera: riparò a Parigi. Su suggerimento della madre, mise a frutto l’esperienza teatrale fatta alla Bauhaus, perfezionandosi all’Ecole de danse di madame Egorova. Di lì a poco diventò primo ballerino nel balletto russo di Serge Lifar all’Opéra di Parigi.
Girò molti teatri d’Europa a fianco di future grandi personalità. Ad Aquisgrana lavorò con Herbert von Karajan, che gli lasciò un ricordo negativo: «Von Karajan, che era all’inizio della carriera, lavorava molto, ma era senza cuore, forse perché il mondo del teatro era a quel tempo pieno di così tanti intrighi. Finì che mandarono via il mio intendente ed io andai via con lui. Erano gli anni della guerra e, se ricordo bene, era il periodo in cui l’Italia tradì la Germania… e ci fecero prigionieri».
Bortoluzzi fu catturato nei pressi di Auschwitz. La testimonianza di Alfredo è drammatica: «Di giorno facevamo trincee e di sera dovevo ballare con i miei ballerini per i soldati tedeschi. Il mio intendente, vedendo che non ne potevo più, mi fece spostare e mi mandarono a stirare le divise in una fabbrica.
Di lì a poco giunsero i russi nelle vicinanze della città: Fritz Lang (un filosofo e tenore che poi seguì Bortoluzzi a Peschici, ndr ) con documenti falsi, sfruttando il mio doppio nome, si procurò due biglietti per Karlsruhe. C’era tanta neve, la gente fuggiva per le strade… e la mia casa non c’era più. Andai da mio fratello e anche qui sembrava tutto distrutto ma, avvicinandomi vidi un tubo di un camino fumante … Lui era rifugiato di sotto…
Arrivarono prima i francesi, poi gli americani e così diventai coreografo della VII Armata Americana per i festeggiamenti e i loro show».
Queste testimonianze di Alfredo Bortoluzzi emergono da una tesi di laurea discussa presso l’Università di Siena nell’anno accademico 1997-98 da Anna Maria Mazzone, che ha raccolto altresì la documentazione e le “carte” che vanno dal periodo 1905 al 1995 nell’archivio privato donato dall’artista al fratello, il pittore Domenico Mazzone, erede universale di Bortoluzzi.
La tesi della Mazzone è inedita: oltre a contenere fitti carteggi in tedesco tratti dalle corrispondenze di Bortoluzzi con i suoi amici rimasti in Germania, è ricca dei bozzetti e degli studi scenografici che l’artista, mettendo a frutto gli insegnamenti di Schlemmer, realizzò durante il lungo periodo (1933-58) in cui abbandonò pennelli e monotipia per dedicarsi al balletto classico. Questi schizzi e disegni sono stati esposti per la prima volta esposti al pubblico in occasione di una retrospettiva inaugurata il 13 Novembre 2004 alla “Galleria provinciale di arte moderna e contemporanea” di Palazzo Dogana a Foggia. L’importante mostra ha ospitato circa 80 lavori di Bortoluzzi ed una ricca collezione di materiali riguardanti i rapporti con la Bauhaus e la sua attività di ballerino.
Attualmente la Galleria foggiana ha una saletta che ospita alcuni dipinti di Bortoluzzi.
IL RICORDO DI ALFREDO BORTOLUZZIAdesso sono diventato meridionale«Sono arrivato a Peschici nel 1953 per la prima volta, era in febbraio… Il mio critico d’arte Egon Vietta mi aveva raccontato del Gargano… molto bello, verde e selvaggio e così mi sono messo in viaggio fino a Roma. A una agenzia di viaggi ho chiesto come si arriva nel Gargano. Mi hanno detto: “Si può andare fino a San Severo e là non c’è più un mezzo per andare più avanti; prenditi una bicicletta”. Ma abbiam trovato un trenino e un pullman che ci hanno portato fino a Peschici. Siamo andati subito alla spiaggia, era dopo una pioggia, avevano messo le barche ad asciugare e le vele erano tutte dipinte dagli stessi pescatori con colori molto vivaci, anche una Madonna. Era bellissimo, mi ha impressionato molto. La gente aveva una cultura rustica, erano molto gentili. Quello che mi è piaciuto molto a Peschici erano le cupolette delle case, quasi orientali, mi sembrava che le onde e le cupole avevano lo stesso movimento. E mi sono innamorato di Peschici. Adesso sono diventato proprio meridionale e mi sento a casa, qui…». .
Testimonianza raccolta nel documentario La Montagna del sole. Visioni di luce di Maria Maggiano
Khair ad-din, il mitico corsaro del Saladino, assaltò l’abbazia di Kàlena
«Is Morus! Is Morus! Li turchi Li turchi».
Così gridavano i torrieri del mar Tirreno e dell’Adriatico quando avvistavano le navi dei pirati all’orizzonte. E gli abitanti dei paesi costieri fuggivano verso l’interno, cercando di salvare il salvabile… Niente di nuovo sotto il sole. La pirateria era praticata sin dall’antichità dai «popoli del mare»: i Cretesi, i Fenici, i Greci e gli Etruschi, forti della loro talassocrazia, attaccavano le navi nemiche per impossessarsi di merci e uomini. I Romani, non riuscendo a debellare il fenomeno, avevano varato un’apposita legge, la “Lex Gabinia de piratis persequendis” (67 a.C.), che diede a Pompeo i pieni poteri. Ci fu una tregua, ma a partire da VII sec. d.C. il Mediterraneo tornò ad essere “infestato” dai pirati, questa volta musulmani: la “Gihàd” islamica (lotta contro gli infedeli) si tradusse in attacchi alle navi cristiane, costrette a ridurre i traffici nel Mediterraneo. Il Gargano e le Tremiti furono più volte oggetto di questo assalto. L’abbazia di Santa Maria di Kàlena fu assalita da Khair ad- din. Raccontiamo qui brevemente la storia di questo mitico corsaro del Saladino.
Dopo il 1492 le isole e le coste del Mediterraneo divennero il rifugio di centinaia di migliaia di mori, cacciati dopo l’unificazione della Spagna da Ferdinando il Cattolico e Isabella di Castiglia. La politica spietata dei “re cattolicissimi” contro i moriscos contribuì alla fondazione di veri e propri stati barbareschi, che trovarono nei pirati e corsari dei leader spregiudicati e intelligenti, strenui oppositori degli spagnoli.
Essi si spinsero nel Mediterraneo, effettuando sbarchi e saccheggi lungo le sue coste. I nomi dei pirati che terrorizzavano le popolazioni del Gargano sono ancora vivi nell’immaginario collettivo dei paesi di mare. Fra i più noti vi fu Kair ad-Din (1475–1546), detto il Barbarossa [1].
Non mancano suggestioni e leggende legate a questo famoso corsaro, riferibili a un luogo-simbolo dell’immaginario collettivo di Peschici. Dall’abbazia benedettina di Santa Maria di Kàlena, un camminamento sotterraneo portava alla “caletta” del Jalillo: serviva ai frati per sfuggire alle frequenti scorribande saracene. Si racconta di un antico tesoro di Kair ad-Din: un vitello d’oro posto come cuscino a una fanciulla morta e seppellita nella cripta nell’abbazia di Peschici (probabilmente la giovane moglie del corsaro). Denominato il Barbarossa [2], questi fu al servizio del sultano Solimano (1520-1566), che gli affidò il comando supremo della flotta ottomana.
Khair-ad-din e i suoi fratelli Arug e Isac ereditarono lo spirito combattivo e l’amore per il mare dal padre Giacobbe (un giannizzero musulmano che dopo aver partecipato alla spedizione per la conquista dell’isola di Lesbo, stabilita qui la sua residenza, si era trasformato in un marinaio dedito al commercio nell’arcipelago greco); la madre, figlia di un prete copto, inculcò loro una forte religiosità, che si tradusse nello stimolo alla guerra santa (gihad). Al comando di una galea, i fratelli Barbarossa esercitarono il commercio e la pirateria al largo di Rodi. In seguito ad un attacco dei Cavalieri di Malta (irriducibili nemici dei musulmani), Isaac morì; Arug e gli uomini dell’equipaggio furono catturati. Incatenati ai banchi di voga delle galee, per un paio d’anni, remarono a suon di scudisciate come tutti i “galeotti” di quel tempo.
Arug, liberato dopo il pagamento di un riscatto, si diede alla pirateria con i fratelli, concludendo un accordo con il sultano di Tunisi: in cambio di un decimo del bottino, trovò un sicuro rifugio in quel porto. Il commercio cristiano subì perdite considerevoli.
I fratelli Barbarossa spadroneggiavano sul tratto di costa da Tripoli a Tangeri. Arug si proclamò re di Algeri. Quando questi fu sconfitto e ucciso con tutti i suoi uomini, fu un momento di tragedia e di lutto per la sua famiglia. Khair ad-din dopo averlo atteso invano ad Algeri, assunse il comando della flotta. Selim I, sultano di Costantinopoli ricevette la notizia della morte di Arug da una galea inviata da Khair ad-din alla “Sublime Porta”, che gli donò le province del nord Africa da lui conquistate. Il Barbarossa sapeva che il sultano era impegnato nella conquista della Siria e dell’Egitto, e non poteva occuparsi di questi territori. Selim, infatti, lo ringraziò e lo nominò suo “Beylebey” vale a dire governatore. Khair ad-din ottenne così la protezione della potenza ottomana, e, di fatto, il riconoscimento del governo personale su queste terre.
Carlo V di Spagna corse ai ripari: nel 1519 incaricò l’ammiraglio Ugo de Moncada di procedere alla riconquista d’Algeri, ma la sua flotta fu distrutta da una violenta tempesta. Khair ad-din consolidò il suo potere conquistando, tra gli anni 1520 al 1529, tutta la costa africana. Organizzò una flotta potente, che operò nel Mediterraneo con azioni mirate, seguendo un piano generale, e attaccando le navi cristiane dalle Baleari alla Sicilia, dalla Sardegna al Lazio e alle coste spagnole. Con lui vi erano i migliori marinai musulmani: Draguth; Sinam (“l’ebreo di Smirne”); Aydin (cristiano rinnegato detto il “terrore del diavolo”) e molti altri. Tutte le navi che incapparono nella potente flotta dei luogotenenti di Khair ad-din furono saccheggiate e gli uomini dell’equipaggio schiavizzati.
Nel 1533 Solimano invitò a corte Khair ad-din, affidandogli un incarico importante: la ricostruzione e l’organizzazione della flotta ottomana. Il Barbarossa si gettò con entusiasmo in questa nuova impresa. Gli arsenali della Sublime Porta lavorarono a ritmo serrato per tutto l’inverno del 1534: in primavera più di 80 navi furono pronte agli ordini del nuovo ammiraglio. Quando Khair ad-din lasciò il “Corno d’Oro”, accompagnato dall’ammirazione dei figli di Maometto, il terrore corse lungo le isole cristiane dell’Egeo, e si propagò man mano sui lidi più lontani dove, dalle torri di guardia, vedette timorose scrutavano il mare. Le acque azzurre dello Ionio furono rotte dalla voga ritmata dei turchi, il Barbarossa si diresse a nord, mise a sacco le coste italiane, attaccò Sperlonga. A Fondi (in provincia di Latina) cercò di rapire Giulia Gonzaga, augusta preda destinata a Solimano, che riuscì a fuggire nella notte.
La Tunisiain mano del Barbarossa era una minaccia talmente grave per i possedimenti spagnoli di Sicilia e dell’Italia meridionale che Carlo V ordinò un attacco decisivo. Una spedizione al comando di Andrea Doria investì La Goletta: il 14 giugno del 1535, navi spagnole, del papa, del vicerè di Napoli e dei cavalieri di San Giovanni, sbarcarono uomini e cannoni. Una sommossa interna di schiavi cristiani accelerò la caduta di Tunisi. In Europa un sospiro di sollievo salutò questa vittoria cristiana. A Bona, dove si era ritirato, il Barbarossa armò prontamente 26 galeotte e prese il mare, arrivò alle Baleari. Il saccheggio fu spietato, uomini e donne trasportati ad Algeri, furono rivenduti come schiavi.
Il Doria e il Barbarossa non si scontrarono mai direttamente: ora è Andrea Doria che cattura navi turche nello Jonio, ora è il Barbarossa che infierisce sulle coste pugliesi.
Nel 1537 i turchi cinsero d’assedio Corfù con un grande spiegamento di forze, 100 galee e 25.000 uomini, i cristiani resistettero. Nel 1538 una nutrita flotta di navi venete, genovesi, spagnole e pontificie si concentrò nei pressi dell’isola, e attese Andrea Doria con i suoi 50 galeoni. Khair ad-din aveva già schierato le proprie navi, 150 galee nel golfo di Arta, su una linea a mezzaluna che consentiva di concentrare il fuoco di tutti i cannoni sullo stretto canale d’ingresso. Gli avversari studiarono le rispettive mosse: Andrea Doria si diresse verso sud con l’intenzione di attaccare i possedimenti del sultano, Kair ad-Din salpò e inseguì la flotta cristiana, che per il cattivo tempo si disperse lungo le coste.
Solo a Lepanto ci sarà la riscossa cristiana. Il 19 ottobre del 1540, 200 galeoni, 50 galee, 25.000 uomini al comando di Andrea Doria circondarono la città. Barbarossa era assente: il suo vice Hasan assunse la difesa, le navi spagnole furono disperse da un’improvvisa tempesta. Carlo V non aveva seguito i consigli di chi riteneva la stagione inadatta alla spedizione, e si ripetè il disastro della spedizione di Moncada: il vento di burrasca distrusse 140 navi. Gli equipaggi spagnoli furono decimati dai turchi. I Cavalieri di Malta furono gli ultimi a lasciare il campo, coprendo la ritirata. Ancora oggi quel luogo è chiamato “sepolcro dei cavalieri”.
Un fatto nuovo portò la costernazione nel mondo cristiano, Kair ad-Din si alleò, per conto del Sultano, con la cattolicissima Francia di Francesco I: nel 1543, 100 galee turche aiutarono i francesi contro Carlo V.
Mentre navigava alla volta di Marsiglia, Khair ad-din assalì Reggio Calabria dove rapì un’avvenente fanciulla diciottenne, Dona Maria, figlia di un governatore spagnolo, e la sposò. Assalì poi Gaeta e Nizza. Nella primavera del 1544 saccheggiò le isole d’Elba, di Ischia e Procida, e impose dei tributi alle isole Lipari. Il suo rientro a Costantinopoli fu un vero trionfo: venne acclamato “re del mare”. Per merito suo, la potenza ottomana si impose su tutto il Mediterraneo. Nel luglio del 1546, una violenta febbre lo uccise, all’età di 63 anni. Ancora oggi i Turchi ne ricordano le gesta. Nelle vicinanze di Galata, ad Istanbul, una maestosa cupola ricopre la tomba del protettore dell’Islam: il suo spirito indomito aleggia ancora sul Mediterraneo.
Agli inizi del 1500, numerosi naviganti di popolazioni vicine, lontane e straniere “facevano vela” per le Isole Diomedee e per il porto di Peschici. Vi si fermavano, oltre che per motivi di commercio e di momentanea sosta, anche spinti dalla devozione.
Prima di proseguire il viaggio via mare, oppure via terra per il Santuario dell’Arcangelo del Monte Gargano, si fermavano nel monastero di San Nicola di Tremiti ed in quello di Santa Maria delle Grazie di Kàlena, nella piana di Peschici.
Nei due monasteri, ricostruiti dai Canonici Regolari di Sant’Agostino, adoravano la Beatissima Vergine e la Gloriosa Madre di Dio.
Uomini famosi ed illustri “matrone” avevano offerto alle due prestigiose abbazie, nel corso dei secoli, consistenti “beni solidi”: oltre a numerose chiese con le loro rendite e i relativi diritti, il possesso perpetuo di castelli, terre, pascoli, boschi. Avevano donato, per il vantaggio e il divertimento della pesca, addirittura un lago, i diritti sui fiumi comprensivi dell’impianto dei mulini, e persino delle imbarcazioni per la pesca, il commercio e gli spostamenti in mare aperto.
Erano stati indotti a ciò dalla speranza di redimere, grazie alle preghiere quotidiane dei monaci, i loro peccati, ma molti lo avevano fatto per i più terreni motivi di stretta convenienza “politica”, per salvare le loro proprietà nei momenti delicati di passaggio tra vecchi e nuovi dominanti. Per salvare il salvabile.
I beni venivano “donati”, ma l’usufrutto vita naturaldurante era a favore degli ex proprietari e della loro discendenza. I documenti di ratifica, redatti da scrivani e notai pubblici, erano le cosiddette “tavole antiche”.
Sottoscritte da nobili, principi e re, vennero conservate con quanta più cura possibile negli archivi di Kàlena e di Tremiti. È qui che prima il Cochorella e poi il Mainardi le consultarono, il primo per stilare, nel 1508, la Tremitanae olim Diomedae Insulae accuratissima descriptio [1]; il secondo, nel 1592, per compilare un accurato Regesto in cui si rivendicavano le proprietà delle abbazie di Tremiti e di Peschici usurpate nel corso dei secoli [2].
Per la comprensione di quella che fu la storia dell’abbazia di Kàlena nel corso del Cinquecento e dell’azione dei Canonici Lateranensi che in quel periodo la governarono, analizzeremo proprio questi due fondamentali documenti, integrandoli con le notazioni desunte dal Codice Diplomatico di Armando Petrucci [3].
Benedicto Cochorella e Timoteo Mainardi appartenevano all’ordine dei Canonici Regolari di Sant’Agostino, detti Lateranensi del Salvatore. Questi monacierano subentrati ai Cistercensi alla guida del monastero di Tremiti fin dal 1412.
Papa Eugenio IV incorporò l’Abbazia di Peschici alla venerabile Chiesa di Santa Maria di Tremiti nel 1445. In quell’anno, la rinunzia del Cardinale Pietro Balbo (il futuro papa Paolo II) e la cessione dell’abate Corrado di Capece, monaco di Sorrento (erano gli ultimi abati cui l’abbazia di Peschici era stata affidata in commenda), vennero formalizzate e l’abbazia ritornò sotto l’ala protettiva di quella che un tempo era stata la sua casa madre.
I Canonici Regolari presero effettivo possesso di Kàlena giusto un anno dopo, nel 1446.
Di origine lombardo-veneta, questi monaci esibirono un livello culturale notevolmente alto. I Canonici si adoperarono a ricostruire tutti gli edifici sacri e civili distrutti dagli anni, sia per poterli abitare loro stessi in modo sicuro, sia perché potessero accogliere i pellegrini.
Timoteo Mainardi, conscio della grave crisi economica che travagliava Tremiti e le sue pertinenze in terraferma, espose un suo piano di riforme, un progetto per risanarne le collassate finanze.
Egli consigliò di eliminare, nei territori sotto la giurisdizione tremitense, l’importazione di grano, di carne, di animali, aumentando progressivamente le colture ad orzo e frumento e promuovendo l’allevamento intensivo del bestiame.
L’isola di San Nicola di Tremiti, che a quell’epoca era l’unico porto sicuro dell’Adriatico, d’estate diveniva scalo obbligato di tutte le navi che facevano rotta da Venezia in Puglia e dalla Dalmazia a Manfredonia.
Le galee della flotta veneziana, mentre erano impegnate nella loro campagna di perlustrazione delle coste adriatiche, usavano rifornirsi a Tremiti di biscotto (gallette) e di pane fresco, confezionati con il grano che affluiva al monastero dalle pertinenze in terraferma, che erano soprattutto le terre cerealicole appartenenti a Santa Maria di Kàlena.
TREMITANAE OLIM DIOMEDAE INSULAE ACCURATISSIMA DESCRIPTIO
Il Canonico Regolare Benedetto Cochorella, originario della città di Vercelli, morì nelle isole Tremiti nell’anno 1540. Il “libretto” descrittivo delle Diomedee e soprattutto delle opre dei canonici, da lui scritto nel 1508, fu pubblicato postumo, «per grazia dell’Abate Matteo», suo mecenate e conterraneo, con l’imprimatur di Basilio Sereno, canonico di Santa Maria della Passione a Milano.
In esso il Cochorella aveva descritto con dovizia di particolari, fra i possessi di Tremiti, l’abbazia di Kàlena e tutte le sue pertinenze.
Nel corso del tempo, molti dei favori e dei benefici ecclesiastici erano venuti a mancare all’amministrazione e alla contribuzione tremitense. Ma all’inizio del Cinquecento, epoca in cui Cochorella scrive il suo manoscritto, Tremiti «conservava ancora tranquillamente sotto la sua autorità parecchie chiese apprezzabili istituite in diversi territori e molti altri beni».
Di tutte queste chiese, la prima per valore era l’Abbazia di Kàlena [4]. Cochorella fornì anche le coordinate geografiche per localizzarla: ubicata nella diocesi di Siponto, distava circa 22.000 passi dal monte Gargano e 4 stadi dal mare Adriatico. Era senza dubbio la più antica, «da gran tempo assai famosa per il nome e le ricchezze». Tenuta, fin dalla sua fondazione, in grandissimo onore da molti re famosi e parecchi imperatori, dotata di innumerevoli privilegi, essa era stata oggetto di “incredibile devozione”. A questa Abbazia, un tempo, erano sottoposte molte popolazioni, ville, villaggi, città e una grandissima quantità di boschi, selve, campi e beni immobili.
All’inizio del Cinquecento, Kàlena conservava ancora le vestigia di questo glorioso passato: possedeva diversi terreni, ampi boschi, vari campi, molte vigne e oliveti qua e là: «Sul monte Sant’Angelo (che gli antichi chiamavano Gargano), si trovava un’estensione così lunga e ampia di terre soggette alla sua amministrazione che superava i 40.000 passi sia in larghezza che in lunghezza» [5].
Il Cochorella era rimasto colpito dai secolari uliveti appartenenti all’abbazia di Peschici: «famosissimi per una tale abbondanza di olive e, così cresciuti negli anni, che alcuni di essi suscitano in chi guarda ammirazione e stupore, perché non possono essere cinti neanche da quattro uomini uniti per le braccia» [6].
Un dato che ci lascia perplessi, ma che testimonia la presenza di eccezionali uliveti nelle campagne di Peschici. Gli alberi erano dei veri e propri “patriarchi verdi”, stupivano i Canonici Lateranensi che come il Mainardi provenivano dalle regioni del Nord Italia dove, per ragioni climatiche, l’ulivo non cresceva bene come nel Gargano.
Nel 1508, il tempio di Kàlena, «consacrato alla Gloriosa madre di Dio», è ancora degno di venerazione e «straordinario per l’antichità e per la sua bellezza». Gli altri edifici del Convento sono quasi crollati per l’eccessiva vetustà, tranne quelli che i Canonici hanno avuto cura, con grandissima sensibilità e “dispendio”, di restaurare o di ricostruire ab imis, cioè dalle fondamenta [7].
LE PERTINENZE DI TREMITI NEL GARGANO NORD
Il Cochorella fa una minuziosa ricognizione delle chiese (allora si denominavano con il termine cappelle), che l’abbazia di Kàlena aveva sotto la sua autorità. Un tempo erano tantissime, tuttavia col passare del tempo o per l’avidità di certi principi o per colpa dei predecessori, la maggior parte di esse era stata usurpata oppure era caduta in rovina.
Quelle possedute all’inizio del Cinquecento non erano poche. Erano tutte “prosperamente” passate ai Canonici regolari di Santa Maria di Kàlena (i monaci continuavano a denominarsi col titolo di quella Abbazia).
Due chiese ad essa soggette erano «dedicate al santo sacerdote Nicola». Una di queste, situata ai confini del Monte Negro (Montenero), distava 16 stadi dal villaggio di Vico [8]. Minacciata di rovina a causa della sua vetustà, da parecchi anni (presumibilmente dalla seconda metà del Quattrocento), era stata rinnovata ed ornata dentro e fuori con bellissimi stucchi. Era altresì stata sopraelevata “a volta” con un’elegante impalcatura, «sicché – commenta il Cochorella – uno potrebbe dire che sia stata integralmente ricostruita più che restaurata».
L’abbazia di Montenero era diventata davvero una chiesa “notevole”: aveva edifici eleganti, un doppio chiostro, splendidi giardini e quasi ogni genere di mele e altri frutti. Soprattutto arance, ma anche cedri e limoni molto succosi. Le sorgenti d’acque zampillanti e la dolcezza dell’aria salubre rendevano fruttuose le varie coltivazioni. Possedeva anche parecchie vigne «eccellenti per la qualità del vino prodotto», un mulino col frantoio e parecchi alveari di api.
L’altra chiesa, titolata a San Nicola, era ubicata sulle rive del lago Varano vicino ad un «villaggio distrutto» chiamato Imbuti, non lontano dai castelli di Cagnano e di Carpino [9]. Dominava un’ampia e larga zona pianeggiante, «circondata da monti fitti e ben protetti da grandi boschi e gole», tra i quali spiccava il monte Devio”.
Intorno, un paesaggio caratterizzato dalla presenza di molte selve ed oliveti. Per la natura del luogo, si poteva trarre profitto «dall’uccellagione e dalla caccia alla selvaggina».
Per il piacere ed il vantaggio della pesca, lo stesso grandissimo lago di Varano era alla portata di tutti, e «produceva ottimi pesci» [10]. Alle sue foci, mentre tentavano di passare dall’acqua salata del mare a quella dolce del lago, si catturavano moltissime anguille e, tra le loro varietà, alcune più grosse che chiamano “capitoni”. Di tutto ciò, per antico diritto, era pagata una decima alla chiesa di Imbuti.
Il Cochorella ci fornisce una notizia interessante sulla lavorazione in loco del pescato: «Per salare questi pesci vi sono nelle vicinanze anche parecchi vivai, cioè dei luoghi vicino al mare in un lago stagnante, dove i pesci vengono catturati e subito dopo salati». Viene fuori uno spaccato inedito dell’economia del Varano all’inizio del Cinquecento.
Oltre a notizie sull’ecosistema. Anche allora il lago era il luogo ideale di “svernamento” per molte specie di volatili migratori e stanziali: “D’inverno questo lago nutre varie specie di uccelli, per esempio parecchie anatre selvatiche, uccelli noti del resto a tutti e molto saporiti da mangiare».
Il Cochorella cita, a questo proposito, una frase di Marziale che esalta le peculiarità gastronomiche di alcuni “parti” particolarmente pregiate per i palati sopraffini: «Si porti pure tutta l’intera anatra, ma gustane soltanto il petto e il collo, il resto restituiscilo al cuoco!» [11].
Il Cochorella registra anche la presenza dei cigni, con la seguente notazione: nessun uccello (come si racconta) è più candido di questi; è più grande di un’oca, con una voce acuta e quando sta per morire emette un flebile canto. E cita il noto verso di Ovidio: «Dolci melodie modula con debole voce/il cigno che canta la propria morte» [12].
Il Varano nutre innumerevoli folaghe, uccelli acquatici neri poco più grandi di una colomba e quanto mai gradevoli da mangiare.
In un punto delle terre prospicienti il Varano, vi è una pianura molto estesa sia in lunghezza che in larghezza, graditissima alle pecore per i pascoli più abbondanti; la chiamano “Insula Imbuti”. E’ simile ad un’isola in quanto domina il lago Varano dalla parte più alta, il mare Adriatico da quella più bassa; qui le mandrie di bestiame e le greggi del Monastero tremitano «svernano pascolando» [13].
UN SOLO CORPO, UNA SOLA REGOLA, UNA SOLA CONGREGAZIONE
Il Cochorella, parlando del suo ordine monastico, attesta le preferenze che i papi del tempo avevano ad esso riservato. Eugenio IV aveva concesso e affidato ai Canonici la chiesa del Salvatore in Laterano, di Roma, affinché la restaurassero. Fu questo Papa che decise di chiamarli «Canonici Regolari del Salvatore Lateranense». Li rese famosi, fregiandoli di numerosi straordinari privilegi e favori, confermati dai papi Nicola V e Sisto IV.
Quali insegnamenti di vita, quali le regole etiche erano seguite da questi monaci? Secondo il Cochorella, “il sapientissimo, santissimo padre e dottore Agostino» nella regola dei Canonici non aveva inserito nulla che non potesse essere osservato facilmente da tutti.
Chiunque, il povero e il ricco, il vecchio e il giovane di qualsiasi condizione, «ignobile o nobile» e di qualsiasi altro stato economico, avrebbe potuto impegnarsi senza difficoltà nell’apprendimento della regola; «compiere tutto non in modo difficile ma con letizia e in maniera egregia». Secondo il proprio voto [14].
Tutti i Canonici Regolari del Salvatore Lateranense avevano adottato questo nobile tenore di vita, sebbene li dividesse la diversità dei luoghi, la lontananza delle strade, la separazione delle terre. Essi avevano un solo corpo, una stessa regola, una sola congregazione.
Dal Collegio dell’Ordine provenivano anche tutti i monaci che reggevano con grande prudenza, saggezza e virtù la canonica di Tremiti. «Con incredibile impegno e attenzione, essi avevano reso noto a tutti, per mare e per terra, questo santissimo luogo. Il suo nome era noto fino alle parti più remote del mondo e ai popoli barbari».
Tutti avevano sentito parlare della bellezza e della magnificenza degli edifici e delle costruzioni straordinarie di Tremiti e delle sue abbazie. Secondo il Cochorella ciò era avvenuto per la “grazia divina” ricevuta dai Canonici: «A loro accordò ininterrottamente il favore eterno la Vergine Madre del Salvatore, Maria Beatissima, eccezionale custode e particolarissima protettrice di quel santissimo luogo» [15].
Cochorella esalta, quasi ai limiti dell’agiografia, l’“incredibile umanità” dei Canonici. Contraddicendo i suoi intenti: aveva premesso che in stile, succinto, da gustare (come si dice), con la punta delle labbra, avrebbe scritto poco, piuttosto che tacere del tutto: le lodevoli imprese dei monaci non potevano “passare sotto silenzio”. I Canonici, infatti, erano abituati a produrre spesso, più che vane parole, esempi di vivere virtuoso [16].
I monaci si danno tanto da fare, oltre che per innata santità, anche per evitare il giudizio malevolo dell’opinione pubblica, solitamente ipercritica nei confronti di chi manovra cotanta ricchezza. Ce lo testimonia il Cochorella, il quale afferma: «Dal momento che la situazione del Convento migliora ogni giorno, i monaci per non dare all’esterno l’impressione di desiderare e interessarsi solo delle ricchezze, si danno anima e corpo a celebrare con più ardore non soltanto i riti divini, ma si impegnano anche a restaurare le rovine del Convento e del tempio e ad abbellirlo» [17].
Emblematica è un’altra sua frase: «I Canonici non smettono di escogitare ogni anno qualcosa di nuovo per costruire edifici a ornamento e decoro di tutta l’isola; e spendono molto denaro come facilmente salta agli occhi di chi guarda» [18].
Esempi virtuosi quasi obbligati, quindi, quasi forzati? No, perché le realizzazioni concrete erano visibili anche agli occhi del visitatore più distratto. I Canonici del Salvatore ricostruirono gli edifici distrutti dagli anni, sia per poterli abitare in modo sicuro, sia perché le foresterie potessero accogliere comodamente i pellegrini.
Anche a Kàlena, prima della loro venuta, le rovine erano talmente evidenti che non era più riconoscibile nessuna forma dell’antico Convento e del tempio. Furono i monaci a fortificare l’abbazia, con mura alte e solide, per difenderla dai pericoli esterni e dai nemici.
LE “RAGGIONI” DI SANTA MARIA DI KÀLENA
Nel corso del tempo, molti dei favori e dei benefici ecclesiastici erano venuti a mancare, per l’avidità di certi principi o per colpa dei monaci predecessori dei Canonici, che non avevano adeguatamente vigilato affinché le proprietà di Tremiti e di Kàlena non venissero usurpate oppure non cadessero in rovina.
Fu il canonico Timoteo Mainardi, bibliotecario dell’abbazia di Tremiti ad assolvere l’arduo compito di effettuare il minuzioso riordino dell’archivio dell’abbazia, e di procedere ad un’attenta ricognizione degli antichi diritti goduti un tempo in terraferma dai Benedettini e dai Cistercensi.
Rispolverò vecchi documenti per dimostrare «le raggioni» della Madonna di Kàlena e le ricostruì confine per confine, chiedendo la reintegra dei termini lapidei, che molto spesso erano stati deliberatamente “spiantati” dagli usurpatori, con metodi violenti e minacce contro chi tentava di impedire queste loro azioni.
Tutti questi documenti furono rimessi in circolo dal Mainardi, per dimostrare le «raggioni», cioè i diritti usurpati, affinché i Canonici li rivendicassero, per riacquistare le terre perdute di Tremiti e di Kàlena [19]. A sostenerlo nelle sue tesi c’era un quadro normativo favorevole, mai applicato: i papi Eugenio IV e Nicolò V avevano emanato, su sollecitazione dei Canonici, due specifiche “bolle” contro gli usurpatori e occupatori, detrattori, malfattori dei beni spettanti ed appartenenti alle chiese abbaziali di Santa Maria di Tremiti e di Càlena.
Papa Giulio II, nell’anno 1504, aveva emanato un’altra bolla contro coloro che si erano impossessati “ingiustamente” dei beni di Tremiti.
Oltre a non rispettare le bolle papali,gli usurpatori di Kàlena contravvenivano agli indulti, agli ordini ed ai privilegi dei re Ruggiero e Guglielmo e di altri sovrani, i quali avevano confermato ed ampliato le donazioni dell’arcivescovo Leone.
Costui aveva donato all’Abbazia di Peschici i territori, i Casali, le terre, i Castelli limitrofi, con boschi e selve tagliati e non tagliati, liberi da ogni gravame, affinché, libera, ne godesse in perpetuo. Perché gli usurpatori avevano continuato, nel frattempo, ad appropriarsi dei beni dell’abbazia?
La risposta del Mainardi è la seguente: «Perché hanno visto che nessuno le cerca tali ragioni, nessuno muove loro lite». Ad esempio, non era consentito, se non su espressa licenza degli Agenti del monastero, andare a caccia di animali «selvadeghi» nei territori di Càlena, nei suoi boschi e nelle sue selve.
Invece accadeva il contrario: i baroni si erano prepotentemente arrogati questo diritto spettante solo al monastero. Erano giunti al punto che non solo li usurpavano per sé, ma addirittura pretendevano che i cacciatori pagassero la ricognizione della quarta parte della caccia direttamente a loro, «se no li mettono in prigione e li fanno pagare quello che vogliono». Essi non si usurpavano soltanto le predette cose, «ma anche la decima delle pescagioni delle sarde ed altri pesci».
Il Mainardi denuncia un altro fatto gravissimo: «I fattori di Kàlena non possono reclamare alla Regia Udienza, perché con scuppette sarebbero ammazzati”. Ecco perché tacciono: ne va della loro vita.
Che fare allora? Conviene che gli “Abbati” di Tremiti e per loro i Procuratori generali che stanno addetti a risolvere le controversie a Napoli e a Roma la denuncia la facciano loro. In alto loco. Essi possono, con una forte azione legale, «farli scomunicare» dal Pontefice, se non restituiranno ogni ragione e giurisdizione della Madonna nel territorio di Peschici.
Dopo aver affermato che tutte le «raggioni» di Tremiti e di Kàlena in questi luoghi e altri sono state smarrite, perse e usurpate, il Mainardi rimprovera duramente la persistente inerzia e la grande incuria di chi era tenuto a vigilare affinché ciò non accadesse: «Voglio dire quattro parole per tale misfatto e ignoranza o negligenza degli agenti e anche degli abati, i quali dovrebbero molto vigilare e cercare di ben considerare e vedere le ragioni e o i confini dei territori della Madonna di Tremiti e Kàlena e dove i trovano i confini o luoghi usurpati, cercare di reintegrarle con la ragione, e rinnovare dappertutto i termini a poco a poco, acciò non siano fatti maggiori usurpazioni. Le “raggioni” della Madonna di Tremiti e di Kàlena sono state affidate alla cura della Congregazione lateranense, non ai signori baroni».
Chi sono gli usurpatori? Il Mainardi li elenca uno ad uno: «Sono i signori Marchesi di Vico e di Ischitella, che godono e usurpano o personalmente, o attraverso l’Università che fa loro capo, tutti i territori. Essi sono soltanto degli usurpatori, vogliono godersi tali beni della Madonna senza alcun scrupolo di coscienza. Gli attuali baroni usurpano i diritti della Madonna peggio dei loro predecessori.
I baroni attuali che ora godono (i baroni Turbolo) pretendono di godere giustamente perché hanno comprato dalla Corte la Baronia di Peschici e d’Ischitella, i quali diritti pretendono che “fossero” del signor Don Ferrante di Sanguine (de Sangro), e lui don Ferrante de Sangro dal suo avo, che fu Giovanni de Sangro e costui ancora dal suo avo, padre di sua madre, che fu il Signor Giovanni Dentice. Furono costoro che cominciarono ad usurpare tali ragioni».
Il Mainardi lancia un forte j’accuse contro questi feudatari garganici che calpestano i diritti delle due abbazie: «Usurpano tutti i territori della Madonna di Tremiti e Kàlena e ne ricavano frutto ed entrata come se fosse loro. Se non sono fittavoli della Madonna né livellari, né censuari, né renditori di cosa alcuna, com’è possibile che sia permesso loro di perseverare in tale ingiustissimo misfatto e possesso? Non è questa una balordaggine troppo grande, non è questa una grandissima sciocchezza degli agenti e dei prelati che lasciano scorrere tale danno senza ricercare i debiti rimedi? E reiteramenti delle ragioni della Madonna, così come sono state lasciate dall’arcivescovo Leone, e dai serenissimi re di Napoli Ruggero, Guglielmo e Vincalmutalljo?».
Nella sua ricognizione archivistica, il Mainardi elenca le numerose vertenze che avevano contraddistinto il conflittuale rapporto dell’abbazia di Tremiti e di Càlena con i baroni.
Nel 1518 c’era stato un accordo tra il monastero di Tremiti, il Magnifico Galeazzo Caracciolo, il magnifico Giovanni di Sangro e madama Adriana Dentice, baroni di Peschici ed Ischitella, per la lite che aveva loro mosso il detto monastero di Tremiti, a causa della decima della pesca ed emolumenti del lago di Varano che per molti anni non avevano pagato all’abbazia di Kàlena [20].
Si giunse alla seguente convenzione: ogni anno i feudatari avrebbero dovuto sborsare:
· una decima di 100 scudi d’oro ovvero 115 ducati;
· 50 capitoni freschi;
· 4 sacchette di anguille;
· 20 paia di avi (polli e galline);
· un numero imprecisato di uova.
Il Mainardi contesta l’entità del risarcimento che, secondo il suo parere, è molto basso: tale rendita arriva appena al pagamento di 200 ducati, mentre la decima dovrebbe fruttare sino a 600 ducati all’anno. I proventi del lago raggiungevano infatti la considerevole cifra di 5.000 ducati.
Un altro reddito fruito al minimo derivava dai numerosi pascoli di proprietà di Tremiti e di Kàlena. Fu ribadito che gli “estranei” che li utilizzavano, dovevano pagare una certa somma.
Anche la Regia Dogana era tenuta a pagare a Tremiti somme variabili a seconda che si trattasse di capo grosso, cioè buoi, vacche, giumente, cavalli, muli e simili o capo piccolo, cioè pecore e capre.
Le somme stabilite, in verità, non venivano rispettate, in quanto Tremiti e Kàlena ne ricevevano soltanto una minima parte. C’era però, da parte della Regia Dogana, il riconoscimento della “proprietà” dei pascoli. Cosa che non facevano i signori baroni, che volevano fruire dei pascoli senza pagare alcunché.
Con quali ragioni? – si chiede il Mainardi – Essi non ne hanno alcuna. Si assiste all’assurdo. Mentre sua Maestà il re Filippo ammette il pagamento della fida alla Madonna, i signori baroni vogliono loro farsi padroni assoluti dei luoghi, boschi e pascoli della Madonna”.
Una copia di una lettera antica, ritrovata l’anno 1584 a Tremiti attestava che i pascoli e gli erbaggi dei territori della Madonna di Tremiti e di Kàlena erano stati usurpati ingiustamente dai Turbolo, baroni di Peschici ed Ischitella nelle seguenti località:
1. Isola dell’Imbuti, sul lago di Varano. Roberto, conte di Lesina, l’aveva venduta al reverendo abate Roberto di Càlena con il castello distrutto e tutte le sue pertinenze. Qui i confini furono posti “in gran danno” della chiesa perché “furono ristretti assai” quando il signor Francesco Maistrillo, commissario deputato del Sacro Regio Consiglio, aveva fatto piantare arbitrariamente i termini lapidei.
2. Lago Pantano e fiume di Varano. I baroni Turbolo dovrebbero pagare l’integral decima, perché l’abate Roberto, abate di Kàlena l’aveva pagati 150 scudi di oro schiffato. Questi due territori li aveva acquistati con tutte le loro pertinenze di terre, selve, boschi, olivi, lago Pantano sino al mare con un corso dell’acqua del lago sino al mare dall’uno e dall’altro lato.
3. Manatec, Montecalena, Circaprete ed altri luoghi della Madonna. Si dovrebbero far pagare agli usurpatori: gli usufrutti, gli alberi tagliati e far loro notificare un Ordine regio di divieto per l’avvenire.
4. Valle, colline del Gravalone e Monte Kàlena, nel luogo detto il Cacciatore. In questi luoghi erano stati usurpati più di quattro e sei carra di territorio in semenze. Lo avevano testimoniato sei periti eletti dal Magnifico e Reverendissimo signor Commissario. Questi uomini “dabbene ed esperti” dichiararono che questi tre luoghi erano tutti di Tremiti e di Càlena, ma i baroni continuavano impunemente a possederli.
Cosa propone Timoteo Mainardi? Che i baroni “devono” restituire tutti i territori usurpati alla Madonna di Tremiti e di Kàlena, Liberamente, senza scandalo, né danno alcuno, ma sotto la pena di scomunica e della perdita dei propri beni. Gli abati presenti e futuri non devono mai più «subire e tenere tali sfrisi in faccia», umiliazioni così cocenti.
Lo sfriso in faccia più eclatante è che, nei luoghi boscosi di Peschici, i signori baroni Turbolo fecero tagliare, e continuano ancora a farlo, tanti legnami da opera che «coglie uno stupore»… Con l’aggravante che anche i “fattori” di Kàlena «fanno anche loro tagliare tanti legnami da opera e ne fanno vendita in modo di mercanzie».
Per Mainardi è un fatto inaccettabile: «È uno scandalo, un vituperio grandissimo che per tre o quattro carlini danno tale legname che a volerlo utilizzare nei luoghi bisognosi di Tremiti e Càlena varrebbero di più di tre o quattro scudi d’oro». E questo accade mentre «la casa di Kàlena sta scoperta e senza solaro, con travi vecchi nudi».
La cosa è talmente eclatante che «i contadini che lavorano nei sopraddetti tre luoghi, e anche tutti gli altri che pagano il terratico a detti signori baroni, si meravigliano e si stupiscono del modo in cui Tremiti e Kàlena sopportino tale ignominia e danno, e che non ne facciano risentimento in Napoli alla giustizia, sicché in ogni modo si provveda a imporre il rispetto delle ragioni, eliminando disordini e danni».
Ad usurpare le «raggioni» di Kàlena non erano soltanto i feudatari, ma anche il Clero di Peschici [21]. La Chiesa di Sant’Elia era officiata da preti “morlacchi”, cioè appartenenti alla comunità slava che all’inizio del Cinquecento aveva rifondato il paese dopo l’assalto dei Turchi.
Questi preti avevano usurpato trecento tomoli di terra, aggiungendoli agli altri trecento tomoli che gli abati di Kàlena avevano loro regolarmente concessi nella località denominata “Coppe Gentili”.
Ne fa fede un documento del Regesto del 1588. Si riferisce di una pietra piana con l’impronta del marchio di Tremiti (che limitava la proprietà) spezzata e spiantata. Gli agenti del monastero di Tremiti e Càlena, con licenza del commissario della Regia Sommaria (esaminatore dei testimoni per parte di Tremiti nella causa di Sfilzi contro i Morlacchi di Peschici), si recarono sul posto per rimettere al posto la pietra predetta, ritrovata vicino alla fondazione di una «fabbrica in piano», vicino circa venti passi dalla Grotta del Fico.
Ma, ad un tratto, per impedire che simile “piantumazione” venisse effettuata si presentò l’arciprete di Peschici con tutta la Corte, armata di tutto punto. Con cotte e campanelle, com’era usanza a quel tempo, l’arciprete slavo gettò una scomunica e minacciò di scomunicare chiunque avesse osato rimettere al suo posto originario il termine lapideo con il marchio di Tremiti e Kàlena.
Lo fece a nome, anzi, come disse, “per ordine” dell’arcivescovo di Manfredonia, il quale, però, interpellato successivamente dagli agenti di Kàlena, smentì categoricamente tale circostanza. Il termine di confine intanto fu portato via e non fu “piantumato”. Il luogo restò sfornito della demarcazione che ne denotava la proprietà, con grave danno per Kàlena.
Per di più, i Morlacchi, istigati da qualche malo spirito e forse come sospetta il Mainardi, proprio dalla Corte di Peschici, continuarono a “levare anche i termini lapidei fatti piantare per ordine di Bahordo Carafa, viceré della Puglia al tempo della controversia tra il venerabile monastero di Tremiti e Kàlena e Giovanni Dentice, barone di Peschici”, quando anche costui aveva usurpato le «raggioni» e i territori di detti monasteri.
Il Mainardi chiude la sua filippica contro chi è inadempiente o usurpatore con un lapidario verrà un giorno: certamente tutti costoro dovranno rendere ragione nell’aldilà di questo loro comportamento così lassista e negligente nei confronti delle sacre proprietà.
A chi? Alla «maestà del Signore Iddio ed alla Madonna».
Per avallare la tesi del divino redde rationem il Mainardi cita un episodio penitenziale, ricordato in una lettera antica del 20 maggio 1471 firmata da Gabriele da Vercelli, abate di Tremiti e di Kàlena [22] .
Vi si racconta di due periti che, insieme ad altri quattro esperti, avevano giurato il falso a danno “evidentissimo” della Chiesa di Tremiti e di Kàlena. Si erano venduti per 10 vili ducati, attestando diritti inesistenti a favore Giovanni Dentice, signore di Peschici e di Ischitella.
I due spergiuri, pur essendo sinceramente pentiti di questa loro dissacrante azione, non vennero assolti dal padre predicatore Don Giovanni da Cremona se “primieramente” non avessero chiesto perdono e misericordia ai padri di Tremiti.
I due fedrifaghi, prima di essere perdonati, dovettero sottostare ad una sorta di Canossa garganica. Il priore Gabriele da Vercelli, che si trovava allora Sant’Agata, racconta così la scena del pentimento: «Vennero a noi due uomini di Vico, Pietro di Giorgio e Bartolomeo di Giacomo di Calandra, i quali subito arrivati a noi, inginocchiatosi in terra con una corda al collo pendente a ciascuno di loro, con le lacrime agli occhi, salutandoci, dimandarono con gran pianto, misericordia e perdonanza del loro errore commesso e fatto». Soltanto così furono finalmente assolti.
Ma la vicenda non si concluse senza danno per chi aveva ispirato la nefanda azione dei due periti a sfavore dell’abbazia calenense. Il feudatario Giovanni Dentice ricevette ben presto nel suo castello di Peschici la visita di una delegazione composta dall’abate di Tremiti e da maggiorenti di Rodi Garganico e di Vasto.
Costoro «andarono a parlargli sopra tal fatto, dolendosi assai di un tale inganno che avrebbero posto alla Regia Corte del serenissimo re Ferdinando (d’Aragona), affinché fosse revocata tale sentenza e testimonianza fatta nei beni della Madonna di Tremiti e di Càlena». Giovanni Dentice tentò di giustificarsi, arrampicandosi sugli specchi. Aveva dato sì 60 ducati al suo servitore, ma non sapeva della corruzione da questo operata sui sei periti… e a suo favore.
Non gli cedettero più di tanto se fu comunque costretto a sottoscrivere che «se tutto fosse stato vero, egli si sarebbe ritirato dal possesso dei beni di Kàlena, disposto a farne nuovo istrumento». Come accadde.
Le usurpazioni continuarono, come abbiamo visto, anche con i nuovi feudatari. Col passare degli anni le condizioni di vita sulle isole ed in terraferma divennero sempre più difficili.
I Canonici di Roma, impegnati più a curare gli altri monasteri che ad occuparsi delle lontane isole diomedee, si disinteressarono della sorte delle loro abbazie e della fortezza di Tremiti, che caddero in pessimo stato.
Nel 1763 il comandante del presidio tremitense Tenente Colonnello Carlo Brogli chiese, in una particolareggiata relazione, che si provvedesse ai necessari restauri. Visto che continuarono a non essere effettuati, essi furono decisi d’imperio.
Furono effettuati nel marzo dell’anno seguente, a spese dell’Erario, che si rivalse economicamente sui Canonici che avevano mostrato un palese disinteresse alla sorte di quella loro antica casa. Nel 1782 l’abbazia di Tremiti fu soppressa. I suoi beni, che comprendevano anche quelli dell’abbazia di Kàlena, furono incamerati dal Regio Demanio. Li amministrò un funzionario di nomina regia [23].
Nel corso dell’Ottocento molti demani, un tempo facenti parte delle pertinenze di Càlena, furono usurpati dalle famiglie più in vista di Peschici. Così come avvenne anche in altri luoghi del Gargano. Posta così potrebbe sembrare un’altra storia.
In realtà non è così. Le denunce cinquecentesche del Mainardi rappresentano solo il punto di partenza di incuria da una parte e sopraffazione dall’altra di Tremiti e di Kàlena, quest’ultima oggetto di attenzione oggi. Le sue condizioni testimoniano che lo sfruttamento e l’abbandono durano da cinque secoli. Un po’ troppi in verità.
NOTE
1 B. COCHORELLA, Descrizione accuratissima delle Isole Tremiti, un tempo Isole Diomedee, a cura di G. Radicchio, edito da Palomar, Bari 1998.
2 A.S.V. (Archivio di Stato di Venezia): T. MAINARDI, Raggioni del monastero di S. Maria di Tremiti cavate da diversi Istromenti, donazioni et altre, 1592, manoscritto inedito.
3 A. PETRUCCI, Codice diplomatico del monastero benedettino di S. Maria di Tremiti (1005-1237), Roma 1960.
4 Segnaliamo che, nel testo curato da Radicchio, l’espressione «Abbatia Calen(en)sis» del Cochorella viene tradotta erroneamente in «Abbazia di Calvi» anziché «Abbazia di Càlena».
Saggio tratto dagli Atti del Convegno del Centro Studi Martella: Salviamo Kàlena. Un’agonia di pietra, a cura di Liana Bertoldi Lenoci, Edizioni del Parco, Claudio Grenzi editore, Foggia 2003, pp. 67-81, dal quale sono tratte le due immagini pubblicate in questa pagina.
Nell’Archivio comunale (dismesso) di Peschici sono presenti alcuni documenti interessanti: una ventina di lettere che, fra il 1934 ed il 1936, furono inviate direttamente a Mussolini dagli abitanti del piccolo borgo garganico. Madri, sposi, vedove, anziani, giovani, disoccupati si rivolgevano direttamente al Duce per ottenere sussidi di vario genere, sgravio di tasse, richieste di danaro per comprare i mobili o la casa, richieste di pensioni di vecchiaia o di cure specialistiche, richieste di lavoro anche all’estero, come si evince da una lettera di 69 disoccupati che chiedono di partire come volontari per l’Africa Orientale.
Questa corrispondenza, come si può verificare dai vari timbri appostivi, arrivava al Ministero degli Interni, dove veniva smistata dalla Segreteria Particolare del Duce, catalogata in diverse sezioni (Assistenza, Finanze, Agricoltura, ecc.) ed inoltrata al Prefetto di Foggia, il quale trasmetteva al Podestà di Peschici gli esposti, per i possibili provvedimenti, con preghiera di farne diretta comunicazione agli interessati.
Dall’esame della grafia, che in alcune lettere si presenta simile, possiamo affermare con sicurezza che molti dei “supplicanti” erano analfabeti. Per farsi scrivere queste lettere, in cui riponevano le loro più vive e forse uniche speranze, si rivolgevano alle persone più istruite del paese, che arrotondavano i magri stipendi di impiegati facendo gli scrivani. Alcune missive, però, sono scritte dagli stessi mittenti e questo lo si deduce chiaramente dal fatto che, alla fine della lettera, essi si scusano dei possibili errori ortografici, dicendo che hanno potuto frequentare solo le prime classi della scuola elementare.
Tutte le lettere, in ogni caso, sono testimonianze preziose, utili per conoscere lo stato d’animo degli strati più umili di una popolazione che si trovava a vivere un periodo di acuta crisi economica. Abbiamo scelto le più significative. Le riportiamo così come sono state scritte, con gli “errori” d’italiano: anche il modo in cui si esprimevano i Peschiciani, il modo in cui la lingua veniva scritta, è certamente degno di nota.
Scrive un giovane ardito:
«A S.E. il Capo del Governo – Roma.
Il sottoscritto Lamargese Pietro, della classe 1910, fà a Vostra Eccellenza il seguente esposto. Sono Barbiere di professione, da ragazzo nel mio paese vidi per la prima volta una squadra di camicie nere, infervorato dall’entusiasmo di detta squadra feci domanda al mio Centurione, Turi Riccardo, per essere messo nelle file degli squadristi; avevo appena 12 anni e fui accettato per miracolo e quindi inquadrato nei ranghi delle C.N. di Peschici e per la mia età mi chiamavano la mascotta della squadra. Quando fu istituita l’opera nazionale Balilla indossai il fazzoletto azzurro, poi infilai i cordoni degli avanguardisti e nel 1928 passai alla Milizia. E sono Milite con vero entusiasmo.
La condizione della mia famiglia è molto disagiata; mio padre ha sette figli ed è già vecchio (anni 70) e non può sostenere la mia famiglia. Il 3 marzo U.S. scappai con una ragazza di nome Di Maria Maria. Avrei l’intenzione di sposarmi ma le condizioni della famiglia della mia congiunta è poverissima e non può disporre di mezzi per farci vivere in una casa pulita, igienica ed addobbata decentemente, nonché numerosa (11 persone). V.E. nel discorso della”Assemblea Quinquennale” del Regime ha detto che ogni cittadino Italiano deve avere un’abitazione propria ed igienica, su questa parola la mia speranza si fa più viva nel chiedere a V.E. un sussidio per beneficenza. Detto sussidio servirà per il necessario che ogni casa ha bisogno».
Sempre del 1934 è la lettera di Elia Biscotti, di anni diciannove:
«Son giovane fascista e da due anni mi trovo con una gamba ammalata, visitatomi diversi medici del paese e nessuno mi ha saputo dire la mia malattia. Son figlio di famiglia ed ho altri sei fratelli e mio padre povero non può mandarmi a farmi osservare da qualche specialista. Così io mi rivolgo a lei di dare disposizioni onde farmi osservare da qualche specialista di qualche ospedale e farmi curare perché sono giovane e non posso vivere così. Lei che desidera vedere la Gioventù FascistaItaliana forte e robusta mi aiuti così sarò utile alla nostra Patria (…). Son certo che mi aiuterà perche son Giovane Fascista ed è un peccato farmi perdere così»[2].
Il 22/11/1934 Rocco Verderame si rivolge al Duce per chiedere l’esonero dalle tasse:
«Sono padre di sette figli, cinque maschi e due femmine e per tirare la vita avanti chissà quanto lavoro mi toca di fare. Il mio mestiere è macellaio, ma in un piccolo paese non è sufficente per poter portare avanti una famiglia di nove persone e perché non ho capitale per poterlo esercitare, tanto che due dei miei figliuoli esercitano il mestiere a vendere aqua nel paese. Ora, se non posso vivere, posso io pagare le tasse che mi hanno gravato? Quindi mi rivolgo a sua Eccellenza di essere esendato da queste tasse, perché mi trovo proprio a non poterli pagare. I miei figli sono tutti iscritti al partito e perché non posso pagare la tessera me li hanno tutti cancellati. Il più grande tiene 14 anni è dovrebbe essere Avanguardista, il secondo anni 12, il terzo anni 10, il quarto anni 8 e il quinto anni 6. Tutti desiderano di appartenere nelle file del partito Fascista, ma per mancanza di mezzi, poveri figli stanno ritirato a casa loro”. Alla fine della lettera, il mittente chiede a Mussolini di disporre di non fargli pagare, per i suoi bambini, la tessera di iscrizione al Partito, e non solo per un anno, altrimenti si sarebbe trovato sempre nella stessa situazione[3].
Un ex combattente della Grande Guerra, Domenico Costantino, chiede anch’egli, il 20 agosto del 1935, di essere esentato dalle pesanti tasse a suo carico. Egli è un pescatore, soggetto alle stagioni incostanti proprie di questo mestiere:
«S’immagina sua Eccellenza – lamenta il supplicante – quale tenore di vita che percorro, con moglie e figlio, con l’aggiunto di tanti pagamenti adempiere, e cioè tassa esercizio, tassa famiglia, ed altre, con l’aggiunto di questa ultima che alligo alla presente, che sua Eccellenza potrà esaminare. Umanamente non posso adempiere tali impegni, e non essendo avvezzo a fare delle cattive figure, ricorro a S.E. per alienarmi da tanti pagamenti»[4].
Una donna, abbandonata dal marito, così scrive al Duce in data 1/10/34:
«Rivolgo vivissima domanta per avere un sussidio date che mi trova povera, ed abbandonata dai miei tutti, motivo che da tempo mio marito in america senza sapere notizie, date la mia necessità del proprio pane, sono state costretta a quello che non doveva trasciendere e mi trova con una bambina avanda e percepiscie, mensilmente lire 20 dall’opera della Maternità ed Infanzia che non bastano a niente (…). Mi rivolgo a V.E. di prendere accura la mia posizione, di avere possibilmente un sussidio straordinario perché non so propia come fare. Con molta preghiera la risposta possibilmente averla direttamente»[5].
La vedova di un milite, in data17 febbraio 1936, scrive:
«Duce.
Sono una povera donna priva di ogni mezzo con a carico tre figli di piccola età. Ho lavorato per otto anni di vedovanza per procurare un onesto pane ai tre figli e inoculare loro i santi principi del Fascismo, per cui il padre ha vissuto ore di passione. Ora sento le forze diminuire, il lavoro manca e soffro coi miei figli la fame. In nome dei miei figli ed in memoria di mio marito mi rivolgo alla pietà dell’E.V. che non è mai stato sordo alla voce dei poveri e non per me, ma per essi io chiedo un aiuto. Iddio benedica l’E.V.» [6].
Ed un’altra donna, poverissima e debilitata dai numerosissimi parti:
«Sono una madre che o data alla luce N. 15 figli più volte gemelli, però me necampano N.5 figli tutti mali ridotta per il motivo che non anno sostenimento.Come questo qui presente Certificato Medico condotto di questo comune, la mia saluta non permetta annessun lavore per la troppa debolezza e nel momento stesso mi trova di bel nuovo inginta, e per la mi granda debolezza sto più giorni alletto che non ne posso regermi in piede, perciò mi son permesso domandare a V.E. onde potrà risolvere la mia posiziona».
Il certificato del dottor Giovanni Del Viscio, medico condotto di Peschici, attesta che la signora Triggiani Maria, autrice della lettera, «è malata di anemia, con deperimento organico, che la rendono inidonea a qualsiasi lavoro muliebre». Tale stato, secondo il medico, è dovuto ai molti parti e ai consecutivi allattamenti,«senza che le sue misere condizioni finanziarie le permettano una dieta corroborante e le necessarie cure medicamentose»[7].
La signora Triggiani, non avendo ricevuto risposta, in data 14/6/36, riscrive a Mussolini. Riespone la supplica e prega di accoglierla, anche se è in carta libera:
«L’altra volta – fa notare – la domanta la feci in carta da bollo di lire quattro soldi che non ce li aveva, o dovuto ricorrere ai miei amici, onde con la speranza che avesse qualche cosa di sussidio»[8].
Nel 1921 Peschici è il più piccolo centro del Gargano.
Non si sono reperiti documenti scritti sulla reale consistenza dei partiti socialista e comunista. Fonti orali ne hanno confermato tuttavia la presenza tre i numerosi braccianti.
L’eco di una “certa presenza sovversiva” è ravvisabile in una corrispondenza del «Il Foglietto» del 1923/10/23, dal significativo titolo: Peschici fuori legge:
«Proprio così. Peschici è fuori legge! Un’intera seduta è stata occupata da questo consiglio comunale per oppugnare una esatta e chiara interpretazione di legge e sopraffarla con un sofistico ragionamento che definiamo senz’altro un colossale monumento di malafede.
In una votazione definitiva per la nomina di un assessore, la minoranza chiedeva che a parità di voti riportati nella seconda votazione libera, entrasse in ballottaggio l’anziano di età. Norma espressa e chiara nell’ultimo comma dell’articolo 56 Regolamento per l’esecuzione della Legge Comunale e provinciale. Ma tale interpretazione veniva contraddetta e sopraffatta dalla maggioranza che scartava l’anzianità d’età ritenendo invece… (nientemeno!!!) l’anzianità per voti riportati nella elezione a … consiglieri comunali.
Tutto ciò si perpetra da amministratori che hanno portato il paese sull’orlo del fallimento, sovvertendo l’ordine ed il principio di disciplina, proteggendo le peggiori camarille, istigando allo sperpero nelle forme più volgari ed indecenti.Per mero capriccio il paese è da due anni senza una farmacia».
Si nega la rinnovazione d’un contratto esattoriale al 30% per dare il 4 dopo due aste deserte, gravando d’inutili spese i contribuenti; si permette la distruzione dei boschi comunali sotto gli occhi di tutti, nonostante le autorità locali fossero avvertite da una clamorosa interpellanza consigliare. Così si vive in questo lembo di terra soviettista mentre la popolazione attende l’opera della Nemesi purificatrice. Alle cure sapienti ed alla provata energia del Comm. Mormino denunziamo la illegale condizione del Comune di Peschici, quale ci viene descritta dal nostro corrispondente»[9].
A Peschici l’avvento del Fascismo fu indolore, nel senso che non si registrarono le violenze verificatesi nei paesi più popolosi del Gargano. Come in tutti i centri della provincia, al PNF aderì tutta la vecchia classe dirigente, sempre disponibile a compromessi, pur di non farsi estromettere dal gioco del potere. Dalle testimonianze orali non risulta che gli antifascisti fossero attivi per riorganizzare i partiti cui tenevano sempre fede. Se qualche contatto mantenevano fra loro lo facevano solo in occasione di lavoro, approfittando del fatto che non erano controllati da nessuno. Avevano la tessera del partito, perché altrimenti non avrebbero potuto lavorare.
Il numeroso bracciantato pagò duramente l’avvento del nuovo regime.
Sui registri delle delibere delle Giunte comunali e podestarili conservati in Archivio comunale, che vanno dal 1920 al 1940, vi sono gli elenchi dei poveri agli effetti dell’assistenza sanitaria gratuita. Nel 1920 gli iscritti risultavano 49, nel 1926 salirono a 67, nel 1929 il numero raggiunse quota 99. Nel 1930 gli iscritti furono ancora più numerosi: 104; nel 1931 il numero restò invariato, scese a 79 nel 1936, risalì a 96 nel 1937, ancora a 108 nel 1938; scese a 106 iscritti del 1939. Considerando il fatto che agli elenchi erano segnati solo i capifamiglia nullatenenti, che erano i più prolifici e costituivano l’elemento bracciantile, possiamo senz’altro affermare che, specie negli anni centrali del fascismo, la grande maggioranza degli abitanti del paese versava in condizioni poverissime.
La percentuale dei disoccupati agricoli aumentò in modo impressionante nel corso degli anni Trenta. Una vera e propria protesta di massa si verificò nell’estate del 1931. Vennero effettuati parecchi arresti, per manifestazione e grida sediziose. La maggioranza fu rilasciata dopo pochi giorni. Ben sei persone (Del Duca Matteo, Corso Fabrizio, Frantuma Matteo, Giocondo Rocco, Maggiano Maria Teresa, Santoro Matteo) vennero dimesse in libertà provvisoria dalle carceri di Foggia soltanto il 12 gennaio 1932, con ingiunzione di presentarsi al Commissario Prefettizio Colonnello Principe [10].
Non avendo rinvenuto il verbale dell’arresto, siamo ricorsi alle testimonianze orali. Secondo queste fonti, parecchie persone, in maggioranza donne, si rivoltarono contro il Commissario Prefettizio che aveva ordinato di convogliare in tubi chiusi l’acqua dei canali di scolo dei tetti delle case. In un periodo in cui l’acqua piovana era vitale per le famiglie, serviva avere una certa riserva d’acqua permanente. Sotto i canali venivano posti tutti i recipienti utili per le provviste domestiche, e il provvedimento di far convogliare l’acqua in tubi chiusi, anche se giustificato da motivi di ordine igienico (l’acqua bagnava i muri, e in caso di gelo provocava i ghiaccioli), provocò una veemente reazione. Ci fu “uno sciopero generale”, durante il quale tutti i dimostranti si recarono sotto la sede municipale, gridando:«Abbasso, abbasso il Commissario!».
A proposito dei fatti del 1931, abbiamo rintracciato una lettera dattiloscritta, inviata al Commissario Prefettizio in data 26/11/1931 da Rocco Tavaglione, un barbiere trasferitosi, da qualche tempo, da Peschici ad Adorno Micca (Vercelli). Doveva rivestire una certa importanza, se il Commissario prefettizio la trasmise, in via riservata, al Prefetto e si sentì in dovere di inviare una lettera di ringraziamento al mittente. Riportiamo, quasi integralmente questo documento, perché emblematico della situazione politica del paese:
«Pregiatissimo signor Commissario.
Mi giungono notizie da Peschici di malumori, avvenuti in seguito ai suoi comandamenti sagaci e giusti, come vuole Lui il Duce, e si sono ribellati i buoni popolani… Veda che grande errore! Si dovevano ribellare ai Martucci, Collotorto, Rauzino, Diana e quanti furono sul Municipio: sono questi i responsabili di tanta anarchia.
Volevo scrivere al Duce delle cose del mio povero paese disgraziato (…). Quell’ondata di balda giovinezza che conquistò Roma e l’Italia nel 1922 non arrivò neanche il più piccolo soffio a Peschici, regna tuttora il feudalesimo e l’infausto liberalismo. Come dovevano saperlo i poveri ed ingenui Peschiciani, se i responsabili non facevano altro che i bellimbusti? Il Fascio a Peschici non è altro che un circolo da gioco, ma se domanda a quelli che ci sono dentro:“che cos’è il Fascio?” non lo sanno e non è colpa loro, bensì di quelli che occupavano cariche di responsabilità.
Il sottoscritto come tutti i Peschiciani maledivano al Duce e al Fascismo, perché l’ignorava, ma ora che vivo quassù in Piemonte, e che constato con mia meraviglia tanto rinnovamento e tanta vita che giorno per giorno si perfeziona, perché governati con disciplina veramente ferrea e militare, la Cartadel lavoro, L’Assistenza Maternità e Infanzia sono tanti fatti compiuti, dovunque, in ogni ramo della vita c’è attività. E a Peschici? La pigrizia! Scellerati! Degni del confino e dell’obbrobrio popolare. Eppure (a) Peschici, data la sua piccola popolazione, la miseria non dovrebbe esistere, perché possiede tante cose, la pesca, l’agricoltura; se i sindacati facessero applicare la Cartadel Lavoro come la forgiò il Duce, regnerebbe sovrana l’armonia e il benessere e allora come succede in tutto il mondo anche i bravi Peschiciani griderebbero osanna la Ducee al fascismo che salvò l’Italia dalla corsa fatale allo sfacelo.
(…) Vedo che il suo compito è arduo, ma se vuole sentire un mio mediocre e sincero consiglio, governi con fermezza e senza egoismo, e schivi i luoghi infetti da vecchiume, e ce lo addito pure, la Farmacia, è questa il focolare di tutti gli errori passati, dato che il proprietario è Lui il primo nemico del buon popolo che suda e lavora, se vuole persuadersi di quello che dico domandi agli operai che lavorano alle paludi malariche senza assistenza, e senza nessuna norma umanitaria e i poveri operai lavorano dal sorgere del sole al tramonto e quando sono colpiti dalla malaria sono lasciati al destino senza paga e senza niente. Se vuole avere un buon consiglio» – continua il latore della lettera – «c’è proprio alle sue dipendenze un bravo e leale uomo, che risponde al nome di Fasanella Domenico, Segretario, ebbene costui è l’unico che sia immondo da compromessi, perché compie il suo ufficio con lealtà e severità».
A questo punto, la missiva denuncia la totale inosservanza delle norme sull’assistenza invernale, da parte dei datori di lavoro: «Vedrà lei signor Commissario che viso le faranno quei proprietari peschiciani quando saranno invitati da Lei a provvedere ai disoccupati. Inviterà anche un signore che chiamasi Della Torre Achille: è questo il creso di Peschici e Vieste, che non pensa ad altro che spassarsela su e giù con una fiammante Fiat. Domandate pure se la causa di tanto malumore popolare…».
L’autore della lettera, infine, mette in guardia il Commissario: «Bada ai voltafaccia e agli ex imboscati che sono tutti in generale a Peschici, esclusi pochi; ci sono tanti oscuri eroi contadini, ma i signori furono tutti imboscati»[11].
Le autorità locali si barcamenavano tra varie difficoltà: la questione della disoccupazione si imponeva come la più importante e la più urgente cui dovevano far fronte.
Le esigue somme, disponibili in bilancio sotto questa voce, erano usate per alleviare lo stato di indigenza, miseria e fame di chi non lavorava.
Nel 1930 il Podestà, in vista «della maggiore e preoccupante disoccupazione invernale dei braccianti, causata in massima parte dalla totale distruzione del raccolto oleario», delibera «alcuni lavori di sistemazione e miglioramento di talune vie e piazze principali» del nuovo abitato di Peschici. Riguardavano, in particolar modo, semplice livellamento di dette strade e piazze con relativo taglio di roccia più o meno profondo e susseguente imbrecciamento: 1) piazza 4 Novembre; 2) Piazza Rimembranza; 3) Corso Umberto; Via Malacera[12]. Sempre nel 1930 si assegnarono altri fondi per la sistemazione della strada Peschici-Cimitero-Madonna di Loreto.
Nel 1932 il P.N.F. aveva istituito un Ufficio di Collocamento gratuito per i disoccupati del Comune. Dopo accordi, presi con i datori di lavoro agricoli, era riuscito a far assumere una sessantina di braccianti. Ma ne restavano disoccupati altri 150, tutti capi di famiglia. A questo proposito, il Commissario Prencipe chiese al Prefetto «di voler ottenere al Comune da parte del Comando di Centuria Milizia forestale, l’autorizzazione ad eseguire dei lavori idonei a migliorare la praticabilità dei tratturi dei boschi, assai rovinati dalle alluvioni» [13].
Nel 1935, altro anno di profonda crisi occupazionale, si deliberò di sistemare via Malacera, molto frequentata perché conduceva alla spiaggia e al porto ed era in condizioni di vera impraticabilità, essendo ingombra di enormi massi di roccia e di ruderi delle vecchie mura.
L’inadempimento degli obblighi assicurativi da parte dei datori di lavoro privati trova conferma in un altro documento. Il 13/08/1936 l’Istituto Nazionale Fascista per le Assicurazioni contro gli infortuni sul lavoro lamenta, in una lettera al Podestà Campanozzi, «la resistenza che ancora in questo Comune si verifica da parte dei datori di lavoro», invitandolo ad intensificare l’azione di vigilanza su di essi, «visto che l’assicurazione è obbligatoria anche per gli operai avventizi, assunti per breve tempo»[14].
Le somme disponibili per i premi di nuzialità e natalità venivano utilizzate più a scopi assistenziali che per l’intensificazione della campagna demografica disposta dal governo. Significativa, a questo riguardo, è la delibera dell’8/12/1935 [15]. In data 24/12/1935 si era stabilito di concedere quattro premi di nuzialità di lire 500 ciascuno, e vari premi di natalità. Le domande furono molto numerose e per evitare malumori e risentimenti il Podestà, sentito il parere dell’OMNI, deliberò di ridurre la misura dei premi, al fine di beneficare il maggior numero possibile di persone, «tenuto presente che tutti versavano nelle condizioni più miserevoli e la maggioranza era sprovvista delle più elementari necessità della vita». Altro motivo di questa decisione fu: «il delicato momento politico che si attraversava e la cruda stagione invernale, portatrice di disoccupazione»[16].
Anche per l’anno 1936, visti gli ottimi risultati dell’anno precedente, il Podestà adottò lo stesso criterio, ma a questo punto il Prefetto Vendittelli intervenne per salvaguardare le direttive governative. Approvò la delibera con la seguente modifica: i premi di nuzialità non dovevano essere inferiori a lire 250 (Il Comune aveva deliberato 100) e dovevano essere concessi agli sposi fino ai 32 anni d’età (Il Comune aveva fissato il limite a 30 anni)[17].
Il Podestà, a questo punto, poté ripartire solo le somme per la natalità. Le divise il più possibile, cercando di accontentare tutti, «visto che anche l’esiguo premio di lire venti, consegnato proprio alla vigilia di Natale, arrecava un certo sollievo ed allietava la mensa natalizia delle poverissime famiglie di pescatori e braccianti»[18].
I rimedi, purtroppo, non erano che piccoli palliativi e non risolvevano il problema di fondo.
Agli inizi del secolo l’emigrazione aveva incominciato a portare via i primi Peschiciani disoccupati, ma il fenomeno non assunse l’aspetto di vero e proprio esodo, come nei centri vicini: Rodi, Vieste e Vico.
Al censimento del 1911 gli assenti erano stati 23, di cui solo 8 all’estero. Tra il 1921 ed il 1931 le partenze aumentarono a 92, di cui 25 all’estero [19].
In Archivio comunale, nel fascicolo Esteri del 1931, abbiamo ritrovato numerosi nulla-osta per gli Stati Uniti, per il Sudamerica e addirittura per la Bulgaria. Nonostante il blocco dell’emigrazione transoceanica, i permessi continuavano ad essere concessi largamente. Questi erano limitati ad un anno, ma gli emigrati non tornarono, perché da alcuni documenti del 1936 i giovani in età di leva risultano “disertori”.
Non è stato possibile verificare se, dopo le severe leggi antimigratorie del fascismo, l’esodo verso le Americhe si sia definitivamente bloccato. Molti braccianti e pescatori disoccupati, come testimonia questa lettera inviata al Duce in data 29/10/1935, facevano domanda di partire per l’Etiopia:
«A S.E. Benito Mussolini
I sotto elencati cittadini di Peschici, con rispettosa divozione, rapportano a V.E. quanto segue:
Essi appartengono tutti alla categoria dei braccianti poveri, che vivono col solo lavoro delle proprie braccia, aventi quasi tutti famiglia più o meno numerosa ed a proprio carico. I lavori nei quali essi impiegano più comunemente l’opera loro quotidiana sono quelli per la raccolta delle olive, che in questo comune è il prodotto che offre il maggior lavoro dall’autunno alla primavera; ma quest’anno tale rendita, poiché il prodotto è biennale, è scarsa.
Gran parte dei reclamanti si dedica qua e là pure alla pesca littoranea del pesce mugino, con reti a strascico o fisse, ma da due anni, specie per la chiusura delle foci del Varano tale pesca, che era in certo qual modo rimunerativa, è divenuta quasi del tutto passiva: nonché alla pesca delle sardelle, la quale, se ancora potrebbe dare mediocri rimunerazioni, è disturbata e seriamente ostacolata da enorme quantità di delfini, stabilitasi in questo settore del nostro Adriatico, ove tale pesca si esegue, che a fitti battaglioni assalgono le reti quando in esse si trova imprigionato la massa del pesce e strappano avidamente coi loro morsi reti e pesce, cagionando danni rilevanti e tali, da rinunziare alla stessa pesca. Questo anno poi non è consentito neppure il raccattare taluni prodotti dei nostri boschi, come diverse qualità di funghi, di lumache ed altri frutti boscaioli e di prati, poiché la persistente siccita ci nega anche tali risorse, per quanto di misero ricavo (…). In così eccezionale stato di fatto, in cui si trovano i derelitti supplicanti, invocano dall’E.V. un qualche provvedimento, che possa tornare di sollievo a noi poveri onesti braccianti, procurando un mezzo onde offrire lavoro con modeste ed oneste retribuzioni, che ci renda più calmi e meno preoccupati nella rude prospettiva di veder mancare il pane alle nostre innocenti prole».
Alla fine della lettera si faceva notare, sempre da parte dei sessantanove supplicanti, che molti di essi avevano presentato domanda come volontari per l’Africa Orientale[20].
Nel 1936 il podestà Campanozzi, invitato dal P.N.F. di Foggia ad inviare i nominativi dei militari combattenti in Etiopia, mandò un elenco di sedici persone. Altri documenti reperiti in Archivio Comunale testimoniano che nel 1936 partirono per L’Africa Orientale Italiana cinque operai, altri sei partirono nel 1937.
Rispondendo a una nota dell’ISTAT del 3I/I/37, il podestà Campanozzi riferì che nel comune di Peschici non v’erano stati deceduti in A.O.I. e in Libia dal 1° gennaio 1935 in poi né tra i militari né tra gli operai ed i civili in genere [21]. Alcuni, secondo le testimonianze orali da noi raccolte, non tornarono e restarono lì per sempre, abbandonando la famiglia.
Durante il Ventennio fascista, precisamente nel 1931, in occasione della festa del Carnevale, venne inviata a tutti i Podestà della Capitanata, da parte della Regia Questura di Foggia, una circolare che ribadiva l’assoluto divieto ai cittadini di “comparire mascherati in luoghi pubblici”; si potevano usare maschere soltanto nei teatri e in altri luoghi strettamente privati. Questa ordinanza, nel Gargano nord, non veniva rispettata. I Peschiciani, anche in tempi magri come quelli degli anni Trenta, festeggiavano il Carnevale con grande entusiasmo: gli uomini si travestivano da donna e le donne da uomo ed andavano girando per il paese, fermandosi in tutte le case dove c’erano allegre feste da ballo.
Sui fili, stesi da un alto all’altro degli stretti vicoli del borgo, venivano appesi numerosi pupazzi di paglia. Ogni quartiere preparava il suo “Carnevale”, si usava paglia, carta e abiti, i più malandati che ci fossero in circolazione; la mattina di martedì, ultimo giorno di Carnevale, tutti i fantocci, vestiti di tutto punto, con in braccio l’immancabile bottiglione di vino, venivano appesi ai crocevia, sostenuti da robuste corde. Dopo aver mangiato e bevuto, ci si mascherava e si girava in gruppo per il paese; non mancava chi si improvvisava attore e si esibiva in scenette umoristiche. Fra le drammatizzazioni, degna di nota era “l’operazione”, un vero e proprio intervento chirurgico cui veniva sottoposto Carnevale. Si preparava un fantoccio nella cui pancia si metteva di tutto, scarpe vecchie, cipolle, corde, patate, ecc., lo si caricava su di un asino al cui seguito c’era un chirurgo, accompagnato da un corteo di gente mascherata da madre, moglie, figli e parenti di Carnevale. Il dottore tagliava la pancia del pupazzo e ne estraeva stracci, indumenti, verdure: solo alla fine estraeva il gigantesco maccherone che aveva provocato l’indigestione di Carnevale. Durante l’operazione, la gente che si ammassava intorno cantava lo stornello “Il piede del porco”. L’operazione veniva ripetuta in diverse strade del paese, accompagnata da urla, frastuono e risate degli astanti. All’imbrunire, l’asino con il suo carico e tutto il seguito si dirigevano verso il Castello, dove il fantoccio di Carnevale veniva gettato in mare dalla Rupe antistante. I Carnevali appesi nei vicoli, invece, venivano bruciati. Le alte fiamme illuminavano la notte, segnando l’avvento della Quaresima.
Durante il Carnevale, fino agli anni Sessanta, nella cittadina garganica si usava rappresentare anche la “Zeza Zeza” un vero pezzo di antico teatro popolare di origine settecentesca, importato da Napoli.
La rivista napoletana delle tradizioni popolari, il “Giambattista Basile”, riporta la definizione della Zeza napoletana come «cantata vernacola… sul gusto delle atellane che successero alle feste Bacchiche, alle Dionisiache e, quindi, ai fescennini e alle satire. Trae argomento dagli amori di un Don Nicola, studente calabrese, con Vincinzella, figlia di Zeza e Pulcinella».
I fescennini sono l’esempio più arcaico di teatro nella cultura latina, caratterizzati da versi mordaci, pungenti, espressioni spinte e a doppio senso che dovevano suscitare ilarità in chi li ascoltava.
Nella Zeza di Peschici i personaggi erano quattro: Zeza (la madre), il Padre, Vincenzella (la figlia) e Don Nicola (il giovane avvocato innamorato della ragazza). C’era anche il Coro, formato da un folto gruppo di maschere accompagnate dai suonatori.
Di sfondo, un elemento caratteristico della società feudale: lo “jus primae noctis” che i padroni esercitavano sulle ragazze del popolo, debitrici sempre di qualcosa nei loro confronti, a causa dell’estrema povertà (qui è l’affitto arretrato della casa). Ma nella logica del mondo alla rovescia, di cui è espressione il Carnevale, le classi popolari, con l’unica ricchezza gratuita che posseggono, cioè la bellezza delle loro donne, vincono sull’altro mondo, attirandolo, sfruttandolo e traendone profitto. Il sogno popolare sembra finalmente realizzarsi in quei magici giorni.
Il personaggio del Padre, anticamente interpretato da Pulcinella, è un ruolo patriarcale caratteristico della tradizione meridionale: chiuso in una falsa mentalità puritana, ponendosi come retto difensore dell’ “onore” della figlia, la tiene segregata in casa, impedendole di “praticare” con chiunque. Emerge con chiarezza l’importanza della sua figura, chiamato da Vincenzella “Gnor padre”, ma anche il fatto che ad averla vinta su di lui è sempre Zeza, la moglie, che sa bene come blandirlo. Zeza è una popolana che cerca di sbarcare il lunario. Per questo, pressata dalla paura di essere sfrattata in quanto l’affitto è ancora da pagare, non esita a far entrare in camera di Vincenzella don Nicola, il padrone di casa. Il marito di Zeza, rientrato all’improvviso, trova Don Nicola nascosto sotto il letto della figlia. Accecato dall’ira, accusa la moglie di non aver vigilato sull’onore della ragazza. Zeza, a questo punto, si ribella: fa notare al marito che la pigione è arretrata di tre mesi, che Don Nicola è venuto a esigerla e che, se non fosse stato per la “generosità” di Vincenzella, lui sarebbe già in carcere.
Zeza, tutta presa dal suo ruolo matriarcale, rivendica per la figlia il diritto di praticare l’amore “liberamente” con cento innamorati e con tutti quelli che le garbano: con principi, marchesi e persino con gli abati che bazzicano spesso nei dintorni della casa.
La chiusa della farsa è a lieto fine. Il padre, convinto dalle argomentazioni di Zeza, acconsente alle nozze riparatrici. In fondo, imparentarsi con chi frequenta la Vicaria significa risolvere in modo indolore i pressanti problemi economici della famiglia. Resta il dubbio se sia stata tutta una messa in scena per costringere il giovane al matrimonio riparatore. L’ipotesi viene avvalorata considerando la resa del padre. Nella Zeza solofrana Pulcinella si arrende solo quando il giovane gli consegna un capace portafoglio. Nella Zeza di Peschici il motivo della resa del padre è diverso: non è solo la paura del fucile o del fucilone imbracciati dal giovane don Nicola che minaccia di scaricargli una schioppettata tra le gambe per togliergli la sua virilità a costringerlo ad arrendersi. E’ Vincenzella che scioglie l’intreccio, interponendosi tra i due e inducendoli alla ragione, con argomentazioni forti: “ Mio caro Don Nicola non ammazzare mio padre, non farmi ricordare per sempre questa giornata! Ti dico di lasciarlo andare, di lasciarlo stare. Lui, per forza, deve darmi a te!”.
La ragazza si rivolge con toni irati verso il genitore: “Che hai signor padre? Perché non vuoi farmi sposare? Dopo ti farò vedere io cosa ti combino!”.
Il padre, offeso dal suo parteggiare per chi sembra averla plagiata come un diavolo tentatore, arriva a minacciarla di morte insieme al suo amante. Ma l’amore, alla fine, vincerà e Don Nicola potrà sposare liberamente la sua Vincenzella. Il giovane invita tutti alla festa: “E adesso faccio un invito a tutti questi signori, perché a casa di Don Nicola si mangiano i maccheroni, anche quello lungo (cannaruto) oinè!”.
Ricordiamo che a Peschici, il giorno del martedì grasso, il menu prevedeva i maccheroni fatti in casa, “tirati” dalle massaie con un ferro a sezione quadrangolare. Li si condiva con il sugo di carne per i ricchi e con il sugo di polpette e ventresca per poveri. Era usanza stendere un maccherone più lungo degli altri. Poiché si usava un unico piatto, chi, per sorte, mangiava questo maccherone, veniva canzonato come cannaròute, cioè il “goloso” della famiglia.
Evidenti concordanze con la Zeza Zeza di Peschici si trovano nelle versioni di alcuni centri della pianura irpina come San Potito, in provincia di Salerno e Galluccio, in provincia di Caserta. I nomi dei personaggi sono gli stessi con qualche piccola variante. Don Nicola si chiama “’0 si’ Ronnicola (il signor don Nicola)”.
Questa antica farsa popolare è oggi rappresentata a Solofra, elaborata e fatta propria dal popolo irpino con il titolo “Canzone di Zeza”. Durante il Carnevale viene presentata da vari gruppi che la cantano nelle vie della città, accompagnandosi con nacchere, triccheballacche e tamburelli. Segue l’immancabile tarantella cui partecipano tutti gli spettatori. La Zeza è interpretata solo da attori uomini poiché alle donne, come nell’antica commedia, l’esposizione al pubblico è vietata. C’è un capozeza-regista che guida la presentazione, dialoga con il pubblico e dà inizio alla sfrenata tarantella finale.
E’ presumibile che anche le modalità di presentazione, gli strumenti musicali d’accompagnamento e il ballo di chiusura fossero gli stessi anche a Peschici.
La Zeza Zeza ormai da un trentennio non si rappresentava più a Peschici, ma il testo della farsa, ricostruito nel 1987 grazie alla testimonianza orale di Giulio D’Errico, è stato riproposto negli ultimi anni, durante i convegni del Centro Studi Martella, dagli alunni dell’Omnicomprensivo “Libetta” di Peschici, preparati dalla prof.ssa Lucrezia d’Errico (nipote del vecchio cantore della Zeza) e da Stefano Biscotti.
La Zeza potrebbe ritornare a essere rappresentata, oltre che dagli studenti, dagli amanti delle tradizioni locali della compagnia “Ars Nova” durante le sfilate del “Carnual” di Peschici. Inserita nel repertorio dei gruppi di musica popolare del Gargano, potrebbe essere proposta come “borgo narrante” all’attenzione dei turisti che visitano il Promontorio.