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Lettere al Duce da Peschici

Bimbi di Peschici

Nell’Archivio comunale (dismesso) di Peschici sono presenti alcuni documenti interessanti: una ventina di lettere che, fra il 1934 ed il 1936, furono inviate direttamente a Mussolini dagli abitanti del piccolo borgo garganico. Madri, sposi, vedove, anziani, giovani, disoccupati si rivolgevano direttamente al Duce per ottenere sussidi di vario genere, sgravio di tasse, richieste di danaro per comprare i mobili o la casa, richieste di pensioni di vecchiaia o di cure specialistiche, richieste di lavoro anche all’estero, come si evince da una lettera di 69 disoccupati che chiedono di partire come volontari per l’Africa Orientale.

Questa corrispondenza, come si può verificare dai vari timbri appostivi, arrivava al Ministero degli Interni, dove veniva smistata dalla Segreteria Particolare del Duce, catalogata in diverse sezioni (Assistenza, Finanze, Agricoltura, ecc.) ed inoltrata al Prefetto di Foggia, il quale trasmetteva al Podestà di Peschici gli esposti, per i possibili provvedimenti, con preghiera di farne diretta comunicazione agli interessati.

Dall’esame della grafia, che in alcune lettere si presenta simile, possiamo affermare con sicurezza che molti dei “supplicanti” erano analfabeti. Per farsi scrivere queste lettere, in cui riponevano le loro più vive e forse uniche speranze, si rivolgevano alle persone più istruite del paese, che arrotondavano i magri stipendi di impiegati facendo gli scrivani. Alcune missive, però, sono scritte dagli stessi mittenti e questo lo si deduce chiaramente dal fatto che, alla fine della lettera, essi si scusano dei possibili errori ortografici, dicendo che hanno potuto frequentare solo le prime classi della scuola elementare.

Tutte le lettere, in ogni caso, sono testimonianze preziose, utili per conoscere lo stato d’animo degli strati più umili di una popolazione che si trovava a vivere un periodo di acuta crisi economica. Abbiamo scelto le più significative. Le riportiamo così come sono state scritte, con gli “errori” d’italiano: anche il modo in cui si esprimevano i Peschiciani, il modo in cui la lingua veniva scritta, è certamente degno di nota.

Scrive un giovane ardito:

«A S.E. il Capo del Governo – Roma.

Il sottoscritto Lamargese Pietro, della classe 1910, fà a Vostra Eccellenza il seguente esposto. Sono Barbiere di professione, da ragazzo nel mio paese vidi per la prima volta una squadra di camicie nere, infervorato dall’entusiasmo di detta squadra feci domanda al mio Centurione, Turi Riccardo, per essere messo nelle file degli squadristi; avevo appena 12 anni e fui accettato per miracolo e quindi inquadrato nei ranghi delle C.N. di Peschici e per la mia età mi chiamavano la mascotta della squadra. Quando fu istituita l’opera nazionale Balilla indossai il fazzoletto azzurro, poi infilai i cordoni degli avanguardisti e nel 1928 passai alla Milizia. E sono Milite con vero entusiasmo.

La condizione della mia famiglia è molto disagiata; mio padre ha sette figli ed è già vecchio (anni 70) e non può sostenere la mia famiglia. Il 3 marzo U.S. scappai con una ragazza di nome Di Maria Maria. Avrei l’intenzione di sposarmi ma le condizioni della famiglia della mia congiunta è poverissima e non può disporre di mezzi per farci vivere in una casa pulita, igienica ed addobbata decentemente, nonché numerosa (11 persone). V.E. nel discorso della”Assemblea Quinquennale” del Regime ha detto che ogni cittadino Italiano deve avere un’abitazione propria ed igienica, su questa parola la mia speranza si fa più viva nel chiedere a V.E. un sussidio per beneficenza. Detto sussidio servirà per il necessario che ogni casa ha bisogno».

La lettera è datata 26/4/1934 [1].

Sempre del 1934 è la lettera di Elia Biscotti, di anni diciannove:

«Son giovane fascista e da due anni mi trovo con una gamba ammalata, visitatomi diversi medici del paese e nessuno mi ha saputo dire la mia malattia. Son figlio di famiglia ed ho altri sei fratelli e mio padre povero non può mandarmi a farmi osservare da qualche specialista. Così io mi rivolgo a lei di dare disposizioni onde farmi osservare da qualche specialista di qualche ospedale e farmi curare perché sono giovane e non posso vivere così. Lei che desidera vedere la Gioventù Fascista Italiana forte e robusta mi aiuti così sarò utile alla nostra Patria (…). Son certo che mi aiuterà perche son Giovane Fascista ed è un peccato farmi perdere così» [2].

Il 22/11/1934 Rocco Verderame si rivolge al Duce per chiedere l’esonero dalle tasse:

«Sono padre di sette figli, cinque maschi e due femmine e per tirare la vita avanti chissà quanto lavoro mi toca di fare. Il mio mestiere è macellaio, ma in un piccolo paese non è sufficente per poter portare avanti una famiglia di nove persone e perché non ho capitale per poter­lo esercitare, tanto che due dei miei figliuoli esercitano il mestiere a vendere aqua nel paese. Ora, se non posso vivere, posso io pagare le tasse che mi hanno gravato? Quindi mi rivolgo a sua Eccellenza di essere esendato da queste tasse, perché mi trovo proprio a non poterli pagare. I miei figli sono tutti iscritti al partito e perché non posso pagare la tessera me li hanno tutti cancellati. Il più grande tiene 14 anni è dovrebbe essere Avanguardista, il secondo anni 12, il terzo anni 10, il quarto anni 8 e il quinto anni 6. Tutti desiderano di appartenere nelle file del partito Fascista, ma per mancanza di mezzi, poveri figli stanno ritirato a casa loro”. Alla fine della lettera, il mittente chiede a Mussolini di disporre di non fargli pagare, per i suoi bambini, la tessera di iscrizione al Partito, e non solo per un anno, altrimenti si sarebbe trovato sempre nella stessa situazione[3].

Un ex combattente della Grande Guerra, Domenico Costantino, chiede anch’egli, il 20 agosto del 1935, di essere esentato dalle pesanti tasse a suo carico. Egli è un pescatore, soggetto alle stagioni incostanti proprie di questo mestiere:

«S’immagina sua Eccellenza – lamenta il supplicante – quale tenore di vita che percorro, con moglie e figlio, con l’aggiunto di tanti pagamenti adempiere, e cioè tassa esercizio, tassa famiglia, ed altre, con l’aggiunto di questa ultima che alligo alla presente, che sua Eccellenza potrà esaminare. Umanamente non posso adempiere tali impegni, e non essendo avvezzo a fare delle cattive figure, ricorro a S.E. per alienarmi da tanti pagamenti»[4].

Una donna, abbandonata dal marito, così scrive al Duce in data 1/10/34:

«Rivolgo vivissima domanta per avere un sussidio date che mi trova povera, ed abbandonata dai miei tutti, motivo che da tempo mio marito in america senza sapere notizie, date la mia necessità del proprio pane, sono state costretta a quel­lo che non doveva trasciendere e mi trova con una bambina avanda e percepiscie, mensilmente lire 20 dall’opera della Maternità ed Infanzia che non bastano a niente (…). Mi rivolgo a V.E. di prendere accura la mia posizione, di avere possibilmente un sussidio straordinario perché non so propia come fare. Con molta preghiera la risposta possibilmente averla direttamente» [5].

La vedova di un milite, in data 17 febbraio 1936, scrive:

«Duce.

Sono una povera donna priva di ogni mezzo con a carico tre figli di piccola età. Ho lavorato per otto anni di vedovanza per procurare un onesto pane ai tre figli e inoculare loro i santi principi del Fascismo, per cui il padre ha vissuto ore di passione. Ora sento le forze diminuire, il lavoro manca e soffro coi miei figli la fame. In nome dei miei figli ed in memoria di mio marito mi rivolgo alla pietà dell’E.V. che non è mai stato sordo alla voce dei poveri e non per me, ma per essi io chiedo un aiuto. Iddio benedica l’E.V.» [6].

Ed un’altra donna, poverissima e debilitata dai numerosissimi parti:

«Sono una madre che o data alla luce N. 15 figli più volte gemelli, però me necampano N.5 figli tutti mali ridotta per il motivo che non anno sostenimento.Come questo qui presente Certificato Medico condotto di questo comune, la mia saluta non permetta annessun lavore per la troppa debolezza e nel momento stesso mi trova di bel nuovo inginta, e per la mi granda debolezza sto più giorni alletto che non ne posso regermi in piede, perciò mi son permesso domandare a V.E. onde potrà risolvere la mia posiziona».

Il certificato del dottor Giovanni Del Viscio, medico condotto di Peschici, attesta che la signora Triggiani Maria, autrice della lettera, «è malata di anemia, con deperimento organico, che la rendono inidonea a qualsiasi lavoro muliebre». Tale stato, secondo il medico, è dovuto ai molti parti e ai consecutivi allattamenti,«senza che le sue misere condizioni finanziarie le permettano una dieta corroborante e le necessarie cure medicamentose» [7].

La signora Triggiani, non avendo ricevuto risposta, in data 14/6/36, riscrive a Mussolini. Riespone la supplica e prega di accoglierla, anche se è in carta libera:

«L’altra volta – fa notare – la domanta la feci in carta da bollo di lire quattro soldi che non ce li aveva, o dovuto ricorrere ai miei amici, onde con la speranza che avesse qualche cosa di sussidio»[8].

Nel 1921 Peschici è il più piccolo centro del Gargano.

Non si sono reperiti documenti scritti sulla reale consistenza dei partiti socialista e comunista. Fonti orali ne hanno confermato tuttavia la presenza tre i numerosi braccianti.

L’eco di una “certa presenza sovversiva” è ravvisabile in una corrispondenza del «Il Foglietto» del 1923/10/23, dal significativo titolo: Peschici fuori legge:

«Proprio così. Peschici è fuori legge! Un’intera seduta è stata occupata da questo consiglio comunale per oppugnare una esatta e chiara interpretazione di legge e sopraffarla con un sofistico ragionamento che definiamo senz’altro un colossale monumento di malafede.

In una votazione definitiva per la nomina di un assessore, la minoranza chiedeva che a parità di voti riportati nella seconda votazione libera, entrasse in ballottaggio l’anziano di età. Norma espressa e chiara nell’ultimo comma dell’articolo 56 Regolamento per l’esecuzione della Legge Comunale e provinciale. Ma tale interpretazione veniva contraddetta e sopraffatta dalla maggioranza che scartava l’anzianità d’età ritenendo invece… (nientemeno!!!) l’anzianità per voti riportati nella elezione a … consiglieri comunali.

Tutto ciò si perpetra da amministratori che hanno portato il paese sull’orlo del fallimento, sovvertendo l’ordine ed il principio di disciplina, proteggendo le peggiori camarille, istigando allo sperpero nelle forme più volgari ed indecenti. Per mero capriccio il paese è da due anni senza una farmacia».

Si nega la rinnovazione d’un contratto esattoriale al 30% per dare il 4 dopo due aste deserte, gravando d’inutili spese i contribuenti; si permette la distruzione dei boschi comunali sotto gli occhi di tutti, nonostante le autorità locali fossero avvertite da una clamorosa interpellanza consigliare. Così si vive in questo lembo di terra soviettista mentre la popolazione attende l’opera della Nemesi purificatrice. Alle cure sapienti ed alla provata energia del Comm. Mormino denunziamo la illegale condizione del Comune di Peschici, quale ci viene descritta dal nostro corrispondente»[9].

A Peschici l’avvento del Fascismo fu indolore, nel senso che non si registrarono le violenze verificatesi nei paesi più popolosi del Gargano. Come in tutti i centri della provincia, al PNF aderì tutta la vecchia classe dirigente, sempre disponibile a compromessi, pur di non farsi estromettere dal gioco del potere. Dalle testimonianze orali non risulta che gli antifascisti fossero attivi per riorganizzare i partiti cui tenevano sempre fede. Se qualche contatto mantenevano fra loro lo facevano solo in occasione di lavoro, approfittando del fatto che non erano controllati da nessuno. Avevano la tessera del partito, perché altrimenti non avrebbero potuto lavorare.

Il numeroso bracciantato pagò duramente l’avvento del nuovo regime.

Sui registri delle delibere delle Giunte comunali e podestarili conservati in Archivio comunale, che vanno dal 1920 al 1940, vi sono gli elenchi dei poveri agli effetti dell’assistenza sanitaria gratuita. Nel 1920 gli iscritti risultavano 49, nel 1926 salirono a  67, nel 1929 il numero raggiunse quota 99. Nel 1930 gli iscritti furono ancora più numerosi: 104; nel 1931 il numero restò invariato, scese a 79 nel 1936, risalì a 96 nel 1937, ancora a 108 nel 1938; scese a 106 iscritti del 1939. Considerando il fatto che agli elenchi erano segnati solo i capifamiglia nullatenenti, che erano i più prolifici e costituivano l’elemento bracciantile, possiamo senz’altro affermare che, specie negli anni centrali del fascismo, la grande maggioranza degli abitanti del paese versava in condizioni poverissime.

La percentuale dei disoccupati agricoli aumentò in modo impressionante nel corso degli anni Trenta. Una vera e propria protesta di massa si verificò nell’estate del 1931. Vennero effettuati parecchi arresti, per manifestazione e grida sediziose. La maggioranza fu rilasciata dopo pochi giorni. Ben sei persone (Del Duca Matteo, Corso Fabrizio, Frantuma Matteo, Giocondo Rocco, Maggiano Maria Teresa, Santoro Matteo) vennero dimesse in libertà provvisoria dalle carceri di Foggia soltanto il 12 gennaio 1932, con ingiunzione di presentarsi al Commissario Prefettizio Colonnello Principe [10].

Non avendo rinvenuto il verbale dell’arresto, siamo ricorsi alle testimonianze orali. Secondo queste fonti, parecchie persone, in maggioranza donne, si rivoltarono contro il Commissario Prefettizio che aveva ordinato di convogliare in tubi chiusi l’acqua dei canali di scolo dei tetti delle case. In un periodo in cui l’acqua piovana era vitale per le famiglie, serviva avere una certa riserva d’acqua permanente. Sotto i canali venivano posti tutti i recipienti utili per le provviste domestiche, e il provvedimento di far convogliare l’acqua in tubi chiusi, anche se giustificato da motivi di ordine igienico (l’acqua bagnava i muri, e in caso di gelo provocava i ghiaccioli), provocò una veemente reazione. Ci fu “uno sciopero generale”, durante il quale tutti i dimostranti si recarono sotto la sede municipale, gridando:«Abbasso, abbasso il Commissario!».

A proposito dei fatti del 1931, abbiamo rintracciato una lettera dattiloscritta, inviata al Commissario Prefettizio in data 26/11/1931 da Rocco Tavaglione, un barbiere trasferitosi, da qualche tempo, da Peschici ad Adorno Micca (Vercelli). Doveva rivestire una certa importanza, se il Commissario prefettizio la trasmise, in via riservata, al Prefetto e si sentì in dovere di inviare una lettera di ringraziamento al mittente. Riportiamo, quasi integralmente questo documento, perché emblematico della situazione politica del paese:

«Pregiatissimo signor Commissario.

Mi giungono notizie da Peschici di malumori, avvenuti in seguito ai suoi comandamenti sagaci e giusti, come vuole Lui il Duce, e si sono ribellati i buoni popolani… Veda che grande errore! Si dovevano ribellare ai Martucci, Collotorto, Rauzino, Diana e quanti furono sul Municipio: sono questi i responsabili di tanta anarchia.

Volevo scrivere al Duce delle cose del mio povero paese disgraziato (…). Quell’ondata di balda giovinezza che conquistò Roma e l’Italia nel 1922 non arrivò neanche il più piccolo soffio a Peschici, regna tuttora il feudalesimo e l’infausto liberalismo. Come dovevano saperlo i poveri ed ingenui Peschiciani, se i responsabili non facevano altro che i bellimbusti? Il Fascio a Peschici non è altro che un circolo da gioco, ma se domanda a quelli che ci sono dentro:che cos’è il Fascio?” non lo sanno e non è colpa loro, bensì di quelli che occupavano cariche di responsabilità.

Il sottoscritto come tutti i Peschiciani maledivano al Duce e al Fascismo, perché l’ignorava, ma ora che vivo quassù in Piemonte, e che constato con mia meraviglia tanto rinnovamento e tanta vita che giorno per giorno si perfeziona, perché governati con disciplina veramente ferrea e militare, la Carta del lavoro, L’Assistenza Maternità e Infanzia sono tanti fatti compiuti, dovunque, in ogni ramo della vita c’è attività. E a Peschici? La pigrizia! Scellerati! Degni del confino e dell’obbrobrio popolare. Eppure (a) Peschici, data la sua piccola popolazione, la miseria non dovrebbe esistere, perché possiede tante cose, la pesca, l’agricoltura; se i sindacati facessero applicare la Carta del Lavoro come la forgiò il Duce, regnerebbe sovrana l’armonia e il benessere e allora come succede in tutto il mondo anche i bravi Peschiciani griderebbero osanna la Duce e al fascismo che salvò l’Italia dalla corsa fatale allo sfacelo.

(…) Vedo che il suo compito è arduo, ma se vuole sentire un mio mediocre e sincero consiglio, governi con fermezza e senza egoismo, e schivi i luoghi infetti da vecchiume, e ce lo addito pure, la Farmacia , è questa il focolare di tutti gli errori passati, dato che il proprietario è Lui il primo nemico del buon popolo che suda e lavora, se vuole persuadersi di quello che dico domandi agli operai che lavorano alle paludi malariche senza assistenza, e senza nessuna norma umanitaria e i poveri operai lavorano dal sorgere del sole al tramonto e quando sono colpiti dalla malaria sono lasciati al destino senza paga e senza niente. Se vuole avere un buon consiglio» – continua il latore della lettera – «c’è proprio alle sue dipendenze un bravo e leale uomo, che risponde al nome di Fasanella Domenico, Segretario, ebbene costui è l’unico che sia immondo da compromessi, perché compie il suo ufficio con lealtà e severità».

A questo punto, la missiva denuncia la totale inosservanza delle norme sull’assistenza invernale, da parte dei datori di lavoro: «Vedrà lei signor Commissario che viso le faranno quei proprietari peschiciani quando saranno invitati da Lei a provvedere ai disoccupati. Inviterà anche un signore che chiamasi Della Torre Achille: è questo il creso di Peschici e Vieste, che non pensa ad altro che spassarsela su e giù con una fiammante Fiat. Domandate pure se la causa di tanto malumore popolare…».

L’autore della lettera, infine, mette in guardia il Commissario: «Bada ai voltafaccia e agli ex imboscati che sono tutti in generale a Peschici, esclusi pochi; ci sono tanti oscuri eroi contadini, ma i signori furono tutti imboscati» [11].

Le autorità locali si barcamenavano tra varie difficoltà: la questione della disoccupazione si imponeva come la più importante e la più urgente cui dovevano far fronte.

Le esigue somme, disponibili in bilancio sotto questa voce, erano usate per alleviare lo stato di indigenza, miseria e fame di chi non lavorava.

Nel 1930 il Podestà, in vista «della maggiore e preoccupante disoccupazione invernale dei braccianti, causata in massima parte dalla totale distruzione del raccolto oleario», delibera «alcuni lavori di sistemazione e miglioramento di talune vie e piazze principali» del nuovo abitato di Peschici. Riguardavano, in particolar modo, semplice livellamento di dette strade e piazze con relativo taglio di roccia più o meno profondo e susseguente imbrecciamento: 1) piazza 4 Novembre; 2) Piazza Rimembranza; 3) Corso Umberto; Via Malacera[12]. Sempre nel 1930 si assegnarono altri fondi per la sistemazione della strada Peschici-Cimitero-Madonna di Loreto.

Nel 1932 il P.N.F. aveva istituito un Ufficio di Collocamento gratuito per i disoccupati del Comune. Dopo accordi, presi con i datori di lavoro agricoli, era riuscito a far assumere una sessantina di braccianti. Ma ne restavano disoccupati altri 150, tutti capi di famiglia. A questo proposito, il Commissario Prencipe chiese al Prefetto «di voler ottenere al Comune da parte del Comando di Centuria Milizia forestale, l’autorizzazione ad eseguire dei lavori idonei a migliorare la praticabilità dei tratturi dei boschi, assai rovinati dalle alluvioni» [13].

Nel 1935, altro anno di profonda crisi occupazionale, si deliberò di sistemare via Malacera, molto frequentata perché conduceva alla spiaggia e al porto ed era in condizioni di vera impraticabilità, essendo ingombra di enormi massi di roccia e di ruderi delle vecchie mura.

L’inadempimento degli obblighi assicurativi da parte dei datori di lavoro privati trova conferma in un altro documento. Il 13/08/1936 l’Istituto Nazionale Fascista per le Assicurazioni contro gli infortuni sul lavoro lamenta, in una lettera al Podestà Campanozzi, «la resistenza che ancora in questo Comune si verifica da parte dei datori di lavoro», invitandolo ad intensificare l’azione di vigilanza su di essi, «visto che l’assicurazione è obbligatoria anche per gli operai avventizi, assunti per breve tempo»[14].

Le somme disponibili per i premi di nuzialità e natalità venivano utilizzate più a scopi assistenziali che per l’intensificazione della campagna demografica disposta dal governo. Significativa, a questo riguardo, è la delibera dell’8/12/1935 [15]. In data 24/12/1935 si era stabilito di concedere quattro premi di nuzialità di lire 500 ciascuno, e vari premi di natalità. Le domande furono molto numerose e per evitare malumori e risentimenti il Podestà, sentito il parere dell’OMNI, deliberò di ridurre la misura dei premi, al fine di beneficare il maggior numero possibile di persone, «tenuto presente che tutti versavano nelle condizioni più miserevoli e la maggioranza era sprovvista delle più elementari necessità della vita». Altro motivo di questa decisione fu: «il delicato momento politico che si attraversava e la cruda stagione invernale, portatrice di disoccupazione» [16].

Anche per l’anno 1936, visti gli ottimi risultati dell’anno precedente, il Podestà adottò lo stesso criterio, ma a questo punto il Prefetto Vendittelli intervenne per salvaguardare le direttive governative. Approvò la delibera con la seguente modifica: i premi di nuzialità non dovevano essere inferiori a lire 250 (Il Comune aveva deliberato 100) e dovevano essere concessi agli sposi fino ai 32 anni d’età (Il Comune aveva fissato il limite a 30 anni)[17].

Il Podestà, a questo punto, poté ripartire solo le somme per la natalità. Le divise il più possibile, cercando di accontentare tutti, «visto che anche l’esiguo premio di lire venti, consegnato proprio alla vigilia di Natale, arrecava un certo sollievo ed allietava la mensa natalizia delle poverissime famiglie di pescatori e braccianti»  [18].

I rimedi, purtroppo, non erano che piccoli palliativi e non risolvevano il problema di fondo.

Agli inizi del secolo l’emigrazione aveva incominciato a portare via i primi Peschiciani disoccupati, ma il fenomeno non assunse l’aspetto di vero e proprio esodo, come nei centri vicini: Rodi, Vieste e Vico.

Al censimento del 1911 gli assenti erano stati 23, di cui solo 8 all’estero. Tra il 1921 ed il 1931 le partenze aumentarono a 92, di cui 25 all’estero [19].

In Archivio comunale, nel fascicolo Esteri del 1931, abbiamo ritrovato numerosi nulla-osta per gli Stati Uniti, per il Sudamerica e addirittura per la Bulgaria. Nonostante il blocco dell’emigrazione transoceanica, i permessi continuavano ad essere concessi largamente. Questi erano limitati ad un anno, ma gli emigrati non tornarono, perché da alcuni documenti del 1936 i giovani in età di leva risultano “disertori”.

Non è stato possibile verificare se, dopo le severe leggi antimigratorie del fascismo, l’esodo verso le Americhe si sia definitivamente bloccato. Molti braccianti e pescatori disoccupati, come testimonia questa lettera inviata al Duce in data 29/10/1935, facevano domanda di partire per l’Etiopia:

«A S.E. Benito Mussolini

I sotto elencati cittadini di Peschici, con rispettosa divozione, rapportano a V.E. quanto segue:

Essi appartengono tutti alla categoria dei braccianti poveri, che vivono col solo lavoro delle proprie braccia, aventi quasi tutti famiglia più o meno numerosa ed a proprio carico. I lavori nei quali essi impiegano più comunemente l’opera loro quotidiana sono quelli per la raccolta delle olive, che in questo comune è il prodotto che offre il maggior lavoro dall’autunno alla primavera; ma quest’anno tale rendita, poiché il prodotto è biennale, è scarsa.

Gran parte dei reclamanti si dedica qua e là pure alla pesca littoranea del pesce mugino, con reti a strascico o fisse, ma da due anni, specie per la chiusura delle foci del Varano tale pesca, che era in certo qual modo rimunerativa, è divenuta quasi del tutto passiva: nonché alla pesca delle sardelle, la quale, se ancora potrebbe dare mediocri rimunerazioni, è disturbata e seriamente ostacolata da enorme quantità di delfini, stabilitasi in questo settore del nostro Adriatico, ove tale pesca si esegue, che a fitti battaglioni assalgono le reti quando in esse si trova imprigionato la massa del pesce e strappano avidamente coi loro morsi reti e pesce, cagionando danni rilevanti e tali, da rinunziare alla stessa pesca. Questo anno poi non è consentito neppure il raccattare taluni prodotti dei nostri boschi, come diverse qualità di funghi, di lumache ed altri frutti boscaioli e di prati, poiché la persistente siccita ci nega anche tali risorse, per quanto di misero ricavo (…). In così eccezionale stato di fatto, in cui si trovano i derelitti supplicanti, invocano dall’E.V. un qualche provvedimento, che possa tornare di sollievo a noi poveri onesti braccianti, procurando un mezzo onde offrire lavoro con modeste ed oneste retribuzioni, che ci renda più calmi e meno preoccupati nella rude prospettiva di veder mancare il pane alle nostre innocenti prole».

Alla fine della lettera si faceva notare, sempre da parte dei sessantanove supplicanti, che molti di essi avevano presentato domanda come volontari per l’Africa Orientale[20].  

Nel 1936 il podestà Campanozzi, invitato dal P.N.F. di Foggia ad inviare i nominativi dei militari combattenti in Etiopia, mandò un elenco di sedici persone. Altri documenti reperiti in Archi­vio Comunale testimoniano che nel 1936 partirono per L’Africa Orientale Italiana cinque operai, altri sei partirono nel 1937.

Rispondendo a una nota dell’ISTAT del 3I/I/37, il podestà Campanozzi riferì che nel comune di Peschici non v’erano stati deceduti in A.O.I. e in Libia dal  1° gennaio 1935 in poi né tra i militari né tra gli operai ed i civili in genere [21]. Alcuni, secondo le testimonianze orali da noi raccolte, non tornarono e restarono lì per sempre, abbandonando la famiglia.

©2007 Teresa Maria Rauzino 

Il presente saggio è stato pubblicato a stampa sul mensile «Sudest», n. 13/2006. 


NOTE

[1] Archivio Comunale di Peschici (A.C.P). Cat. II, Assistenza, 1934.

[2] Ibidem.

[3] Ibidem.

[4]  Ibidem.

[5]  Ibidem.

[6]  A.C.P. Categoria II, 1936.

[7]  Ibidem.

[8]  Ibidem.

[9]  «Il Foglietto», 10/ 1923.

[10]  Il documento è in Archivio Comunale di Peschici. Anno 1932., cat. II.

[11]   Ivi. Anno 1931, cat. 15.

[12]  Ivi, Registro Delibere Podestà, 16/12/1939.

[13]  Ivi, 1932.

[14]  A. C. P. Lettera 13/08/1936 dell’Istituto Nazionale Fascista per le Assicurazioni infortuni sul lavoro.

[15] A.C.P. Registro delibere Podestà, 8/12/1935.

[16] Ivi, 24/12/1935.

[17] Ivi, 1936. 

[18] Ivi, 1936.

[19] PIEMONTESE M.A., Conoscere Peschici, Firenze.

[20] A.C.P. 1936, Cat. II.

[21] Risposta Podestà Campanozzi nota ISTAT 3I/I/37.

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Quando i Garganici disubbidivano (un po’) al Duce

Un figlio della lupa di solo un anno


Gli abitanti delle zone limitrofe al lago di Varano non aderivano all’autarchia del Regime ma reclamavano i premi per le famiglie.

Il fascismo, in vista all’autarchia, aveva incoraggiato le ditte che producevano prodotti tessili sintetici. Dalla guerra etiopica in poi la qualità dei tessuti era progressivamente degradata.

Secondo Venè, l’italiano medio continuò ad associare mentalmente il senso di calore con la lana, quello del fresco con il cotone, quello della robustezza con il cuoio e forse usò ancora per poco le stesse parole per definire la stoffa dell’abito pesante, della giacchetta estiva, le buone scarpe. Ma nei fatti capì che, per un tempo indefinito, forse per sempre, non avrebbe più potuto permettersi indumenti fatti con quei prodotti.

Fu Andrea Ferretti, Commendatore e poi Cavaliere del lavoro, il primo a studiare l’utilizzo dei cascami del cuoio, dalla cui lavorazione inventò il “cuoio rigenerato” che brevettò con il nome di salpa. Fu ancora lui a scoprire che dalla caseina del latte si poteva ricavare un prodotto tessile, qualitativamente simile alla lana: il lanital.

Niente più seta, ma raion; niente più cotone, ma cafioc, ossia fiocchi di canapa. Questi nuovi tessuti si imposero presso i ceti medio-bassi come espressione tangibile della modernità italiana, come conquista il cui merito, oltre che al genio nazionale, andava a tutta la nuova Italia.

Nel dicembre del 1940 arrivò, nel comune di Cagnano, una lettera della ditta Leumann di Torino: «Nell’Aprile scorso, il Duce, cui abbiamo l’onore di sottoporre tessuti autarchici al 100% di nostra nuova produzione, ci impartì precise direttive per la divulgazione di questi nostri tessuti in tutta Italia, direttive che egli rese di pubblica ragione con il suo comunicato Stefani del 7 aprile scorso. Con questa consegna di “andare verso il popolo”, abbiamo messo a disposizione della battaglia autarchica tutta la nostra organizzazione produttiva e, poiché lo svolgimento di un simile programma richiede un meticoloso lavoro di penetrazione presso tutti i rivenditori di tessuti del Regno, ci rivolgiamo alla vostra cortesia, per conoscere i nominativi di tutti i negozi di stoffe e dei rivenditori di piazza (con banco), siti nel vostro comune. Vi ringraziamo sin d’ora per le comunicazioni che vorrete favorirci».

Fino a che punto l’invito della ditta Leumann fu accolto dai Cagnanesi? Forse non lo fu affatto perché non c’era bisogno di tessuti autarchici.

Nelle zone limitrofe al lago Varano, nella stagione primaverile veniva seminato, oltre al cotone ed alla canapa, il lino. Questo fatto è testimoniato da un documento del 26/12/1924 dell’Archivio comunale di Ischitella.

La Giunta Comunale si era riunita per deliberare sulla chiusura della Foce di Capoiale. Conseguenza dell’apertura di questa era la iniziata salsedine del lago, che influiva negativamente sulla macerazione del lino, lungo le rive del lago stesso.

Le piante del lino venivano carpite nel mese di agosto. Dopo aver tolto il seme, usato per l’estrazione dell’olio “siccativo”, che si impiegava principalmente per la fabbricazione delle vernici e per la preparazione del tessuto di juta, il lino si legava in fasci e si portava sulle rive del lago a macerare. Per farlo ben sommergere dall’acqua, sopra si mettevano delle pietre.

Dopo una quindicina di giorni il processo di macerazione era aumentato e così si toglievano le pietre e i fasci, si portavano in un prato e si lasciavano asciugare sotto il sole cocente.

Finita questa operazione il lino si portava a casa e si metteva sotto qualche capanna, fino a che non si asciugava completamente. Avvenuto questo, veniva maciullato con un arnese creato per l’occasione, poi si pettinava e si ammatassava. In seguito, la stoppa si metteva nella rocca e veniva filata dalle nostre donne durante le sere invernali. Infine si ordiva il telaio e si tesseva la tela.

I tessuti fatti in casa, con prodotti naturali, avevano qualità di robustezza che le stoffe di città certo non eguagliavano.

L’autarchia casalinga dei braccianti e contadini garganici produceva lini, maglie e calze in lana di pecora che l’autarchia statale, quella dei lanital e del cafioc, aveva di fatto e per principio, sacrificato. Certo, il contadino che, all’inizio della giornata lavorativa, infilava maglia e pantaloni non aveva gran che da scegliere, ma la sua tenuta era forse più protettiva di quella di un impiegato e con meno toppe di quella di un operaio.

La fatica delle massaie tessitrici era confortata dalla tradizione che le voleva, fin da bambine, intente alla preparazione del loro corredo, spesso prezioso per qualità di stoffa e raffinatezza di ricami.

L’artigianato delle campagne diventò un privilegio inaspettato negli anni di precipitosa decadenza del regime, dopo la dichiarazione della seconda guerra mondiale: i contadini diventarono arbitri del mercato nero di qualsiasi genere di prima necessità.

Nel 1935, dichiarata la guerra d’Etiopia e avutone come contropartita le sanzioni internazionali, Mussolini ebbe l’idea propagandisticamente più felice di tutto il Ventennio, per dimostrare non solo agli stranieri, ma anche agli Italiani tiepidi, quale fosse la forza del consenso che lo circondava: “Oro alla patria”.

Gli sposi furono invitati a donare le fedi d’oro e di argento allo stato in cambio di fedi di ferro. E’ risaputo. Pochi invece ricordano – come ci informa Vené – che in quella occasione decine di migliaia di genitori-donatori chiesero qualcosa di più: l’iscrizione, all’Opera balilla, dei figli che non avevano ancora compiuto gli otto anni regolamentari.

Probabilmente le richieste furono guidate. È certo che, in questo caso, la ricevuta delle fedi, recante la grammatura delle offerte in metallo e la caratura di eventuali pietre, era accompagnata da una lettera intestata Partito nazionale fascista, il cui testo, firmato dal segretario del fascio locale, diceva: «Pregiatissimo signor… Le rimetto la ricevuta per il versamento dell’oro da lei effettuato e La ringrazio vivamente. Ho dato disposizioni all’Opera Balilla perché il suo piccolo… sia iscritto con la data del…  corrente mese. La prego perciò di rivolgersi alla Presidenza dell’Opera Balilla per il ritiro della tessera».

Sul finire del 1935, Mussolini decise, dunque, che la iscrizione all’Opera poteva essere estesa anche ai neonati. Da quel momento, le puerpere e i loro mariti ricevettero a ogni nascita di figlio un biglietto di auguri prestampato, che vale la pena di rileggere per intero, anche perché, come l’atto di ricevuta dell’oro alla patria, non risulta sia menzionato dagli storici. «L’Opera balilla di… ha appreso con vivo piacere la nascita del bambino… venuta ad allietare la sua famiglia ed a portare il suo promettente sorriso nella gaia schiera dei ragazzi di Mussolini, e, certa di far cosa gradita, porge insieme agli auguri più sinceri la tessera di iscrizione all’Opera Balilla per l’anno». In carattere molto più piccolo seguiva un “nota bene”: «Le SS.LL. vorranno versare la somma di lire 5, corrispondente al prezzo della tessera, a mezzo dell’unito modulo di versamento in c.c. postale, alla tesoreria dell’Opera Balilla in via… . In caso diverso la tessera sarà cortesemente restituita al Comitato provinciale dell’Opera Balilla in via…». 

Probabilmente, nei nostri paesi, pochi ebbero la possibilità di versare le cinque lire per comprare questa tessera.

Il Regime, condizionato dal Concordato del 1929 a rispettare l’enciclica Casti Connubi di Pio XI (1930) che ammetteva rapporti sessuali solo al fine di procreare, arroccato sul principio che il numero fa la forza della nazione, si lanciò in quella ossessionante campagna demografica che, a poco a poco, da calorosa raccomandazione, prese forma e forza di legge.

In effetti la campagna demografica fu un’iniziativa del regime destinata a penetrare nella vita coniugale, attentamente valutata prima di essere disattesa. Si trattava di accettare o rifiutare i benefici immediati in denaro che il fascismo offriva agli sposi e moltiplicava in proporzione al numero dei figli.

Alle madri, riconosciute ufficialmente con almeno sette figli, Mussolini inviava o consegnava personalmente in fastose cerimonie a Palazzo Venezia 5000 lire, più una polizza di assicurazione di 1000 lire. Anche gli assegni familiari erano ragguardevoli. Le madri prolifiche, additate ad esempio d’italianità, venivano soprattutto dalle campagne del Sud e del Veneto.

Anche nei nostri paesi furono concessi premi per la campagna demografica.

Le somme disponibili per i premi di nuzialità venivano usate, però, più a scopi assistenziali, che per l’intensificazione della campagna demografica disposta dal Governo.

Le domande erano sempre numerose; molte venivano respinte perché non ricorrevano i termini per la concessione dei benefici richiesti.

I Cagnanesi non si scoraggiavano per le mancate concessioni e, in modo abbastanza polemico, si rivolgevano alle autorità superiori per avere spiegazioni e per ottenere “giustizia”. Lo testimoniano le lettere ritrovate nell’archivio comunale di Cagnano Varano.

Il fatto che i premi di natalità non fossero distribuiti a tutte le famiglie con nascituri è dimostrato da una lettera di protesta che Papantuono Grazia scrive all’Opera Maternità e Infanzia di Foggia il 20-01-1937.

La donna fa presente la situazione di favoritismo nei confronti di altre mamme che ricevono dei premi, mentre lei ne è esclusa: «Nello scorso anno uscì al pubblico un decreto che tutte le donne che partorivono nel mese di ottobre li spettava il premio. In questo paese il 18 corrente mese tutte le buone donne e le moglie dei ladri che sono sgravidate dal mese di ottobre fino a tutto dicembre li hanno segnato quasi tutto perché sono messi di accordo non solo con questa assistenza che sono tutte moglie di signori e anche la levatricia fa il suo porco comodo».

La sua vuole essere una denuncia contro le ingiustizie verso i poveri: «Chi avi di sua proprietà una casa a un solo vano è proprietario e lo stesso chi avi un pezzo di terra e proprietario, le moglie dei ladri anno capri pecore e altri cosi sono tutti povere, le mali donne anno fino a un palazzotto di fabbricato con 4 o 5 stanzi, sono tutti povere perché così vogliono tutti questi signori di questo paese». Lei invece che è “proprio sgravidata” non li può avere perché possiede giusto una casa per riparare la testa dalla pioggia.

La chiusa è rivendicativa: «Prego la S.V. Ill.ma di darmi tale schiarimenti a me povera donna che questo premio mi tocca o pure non mi tocca e voglio risposta quanto prima se non mi dati tali schiarimenti io scriverò più avanti. Saluti fascisti anticipati da me Papantuono Grazia fu Giovanni».

©2008 Teresa Maria Rauzino

L’articolo è stato pubblicato sul quotidiano «L’Attacco» del 10 gennaio 2008. La foto d’epoca fa parte della collezione privata dell’Autrice.