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27 gennaio. Oltre la memoria

Un ex docente del “Lanza” di Foggia, diventato preside al “Manzoni” di Milano, epurò 65 studenti ebrei


Giuseppe Pochettino, preside del Liceo classico Manzoni di Milano, nell’anno scolastico 1938-39 procedette all’epurazione di 65 alunni ebrei. Applicò le leggi «per la difesa della razza nella scuola fascista», promulgate  dall’omonimo Regio Decreto del 5 settembre 1938. Il 15 settembre 1938, il preside comunica al Collegio Docenti che «nessun insegnante dell’istituto sarà colpito dal provvedimento che esclude i docenti di razza ebraica», mentre «dovranno essere eliminati (sic) circa 50 alunni, di cui una quindicina di stranieri»; nel verbale del 17 ottobre si fa menzione di libri di testo sostituiti perché di autori ebrei.

Infine, nel verbale del collegio plenario del 3 dicembre, Pochettino informa che «nonostante l’eliminazione degli alunni ebrei»il numero degli iscritti è aumentato. Invita tutti gli insegnanti a voler curare l’aggiornamento dello stato di famiglia, che per molti è in arretrato e incompleto. Tutti dovranno aggiungervi, in particolare, una dichiarazione riguardante la razza.

Dall’interesse suscitato dalla lettura di questi verbali, è nato il dossier Oltre la memoria. La ricerca, effettuata da due docenti e da un gruppo di nove studenti del Liceo-ginnasio Manzoni, ha verificato l’applicazione delle leggi razziali del 1938. In realtà furono circa 65 gli studenti del «Manzoni» cacciati a seguito delle leggi razziste volute dal regime fascista.

La possibilità di accedere all’archivio storico della scuola e di consultare direttamente le fonti dell’epoca, è stata la condizione di base che ha consentito di verificare i dati.

In seguito, attraverso il Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea di Milano, gli studenti hanno contattato due ex -manzoniane “epurate” ancora superstiti: Anna Marcella Falco, che nel 1937/38 aveva frequentato la V Ginnasio C, ed Emma Pontremoli, alunna nello stesso anno della V D.

La loro  testimonianza, corredata di documentazione fotografica di quegli anni, ha consentito di ricostruire molti aspetti della vita del “Manzoni” durante il Ventennio,  quando la scuola è fortemente “fascistizzata”.

Anna Marcella Falco ed Emma Pontremoli (rispettivamente la seconda e la quarta da sinistra)

Le ex allieve hanno raccontato la  loro esperienza di studentesse “emarginate” dai compagni quando, insieme a tanti loro coetanei, furono cacciate dalla scuola pubblica. Interessante è la storia della scuola ebraica di via Eupili, che le accolse, retta dal preside Yoseph Colombo.

La ricerca Oltre la memoria, è stata effettuata tra il gennaio 2001 e il giugno 2002. I materiali sono stati raccolti in un fascicolo cartaceo e rielaborati in forma multimediale.

L’ipertesto è postato sul sito web del liceo Manzoni all’indirizzo: www.liceomanzoni.it. Il lavoro è dedicato a Regina Gani, una delle studentesse del Liceo eliminate dal preside Pochettino, morta nel 1945 ad Auschwitz.

IL PROF. POCHETTINO INSEGNÒ AL LANZA DI FOGGIA

Ma chi era il preside che, così cinicamente, annunciò l’espulsione degli studenti ebrei dalla propria scuola?

Il suo nome non ci è nuovo. Lo incontriamo scorrendo gli elenchi dei  libri di testo del «Lanza» di Foggia degli anni Trenta.

Ben due libri di storia di questo autore risultano adottati dal liceo classico foggiano; era suo anche il manuale di Elementi diColtura fascista, edito dalla SEI.

Giuseppe Pochettino, nato nel 1880 a Castellazzo Bormida (Alessandria), laureato in Lettere e Filosofia, nel 1908/1909 aveva insegnato anche a  Foggia.

Dalla documentazione raccolta dagli studenti del Manzoni, risulta che aveva ottenuto, per concorso, una cattedra di lettere nel Ginnasio inferiore del Lanza.

Trasferitosi in seguito al liceo di Avellino, durante la prima guerra mondiale prestò servizio come capitano di fanteria in zona di operazioni belliche.

Nel 1923 iniziò la carriera di Preside. Fu nominato al «Manzoni» nell’anno scolastico 1932/33, e manterrà la carica sino al collocamento a riposo per motivi di salute nell’aprile 1943.

Varie onorificenze gli furono conferite per l’attività svolta nella scuola e a favore delle iniziative del PNF in ambito scolastico: fu nominato Cavaliere e poi (1940) Commendatore della Corona d’Italia; ricevette la medaglia di bronzo e il diploma di benemerenza della G.I.L.

Scrivono gli studenti del Liceo Manzoni: «All’immagine di Pochettino quale convinto interprete della politica del regime, che emerge dai dati biografici sopra citati o dal ricordo di alcuni ex-allievi, che ne rievocano i discorsi celebrativi in varie cerimonie di regime, tenuti con molta enfasi dal balcone dell’Aula Magna davanti agli studenti schierati nel cortile, si contrappone la testimonianza di altri ex-manzoniani, che lo dipingono come uomo “insignificante”, o comunque mite».

LA «DIFESA DELLA RAZZA» AL PALAZZO DEGLI STUDI

Il Regio Decreto Legge 5 settembre 1938, n. 1390, pubblicato sulla «Gazzetta Ufficiale» n. 209 del 13 dello stesso mese, e convertito senza modifiche nella legge 5 gennaio 1939, n. 99 (GU n. 31, 7 febbraio 1939), riguardante le disposizioni «per la difesa della razza nella scuola fascista», imponeva che: gli alunni «di razza ebraica» non potessero essere iscritti in nessuna scuola statale, parastatale o legalmente riconosciuta di qualsiasi ordine e grado.

Tutti gli insegnanti «di razza ebraica» appartenenti ai vari ruoli dovevano essere sospesi dal servizio, compresi presidi, direttori didattici, personale di vigilanza; gli stessi provvedimenti di sospensione si estendessero al personale docente universitario di ogni grado, a quello delle Accademie, degli Istituti e delle Associazioni di scienze, lettere e arti.

Nell’elenco dei 171 insegnanti di ruolo «di razza ebraica”’ colpiti da tali provvedimenti in tutta Italia abbiamo ritrovato, pubblicato dal Ministero nel 1938, c’è il nominativo di una professoressa che insegnava al Regio Istituto Magistrale «Poerio» di Foggia: si chiamava Maddalena Pacifico.

Nella relazione finale al ministero il preside Flaviano Pilla ignora il fatto. Che fine fece questa docente? Ci sono ex alunni e persone che l’hanno conosciuta e possono aiutarci a ricostruirne la storia?

Nessun altro professore delle altre scuole di Foggia risulta nell’elenco ministeriale. Per il Liceo Lanza abbiamo verificato che nessun docente venne sospeso e dispensato dal servizio per le leggi razziali.

Per quanto riguarda gli studenti espulsi, non è stato possibile rilevare il dato. Mancano, nell’archivio storico della scuola, i verbali del Collegio Docenti o del Consiglio di disciplina del 1938, documentazione che potrebbe illuminarci in proposito.

Bisognerebbe selezionare, come hanno fatto gli studenti del Liceo Manzoni per la loro ricerca Oltre la memoria,  i cognomi (paterni e materni), compresi nell’elenco di 9.800 famiglie ebraiche, in appendice ai Protocolli dei Savi Anziani di Sion, 1938, curata da Giovanni Preziosi, e destinata a istituzioni pubbliche e al PNF.

Bisognerebbe esaminare anche i registri delle iscrizioni, scrutini ed esami di tutte le classi del ginnasio e del liceo per gli anni 1937/38 e 1938/39, prendendo nota dei nomi e dei dati – paternità, cognome materno, possibile esonero dall’insegnamento della religione cattolica – degli studenti che hanno frequentato nel 1937/38 e che, indipendentemente dall’esito finale, non compaiono nei registri dell’anno successivo e non risultano trasferiti ad altre scuole. 

Ma il nuovo clima “razziale” si respira anche al Lanza di Foggia. Scorrendo i testi acquistati per l’anno scolastico 1938-39 dal preside Guerrieri, vediamo che per la biblioteca dei professori fu comprato, fra gli altri, un libro legato all’attualità del momento storico: Gli ebrei in Italia di Schaert Samuele. 

Fra le riviste acquistate per la sala professori spicca La Difesa della Razza. Al Liceo Lanza ci furono alcuni abbonamenti “privati” a questa  rivista, sollecitati dal Preside.

Copertina di un numero della rivista «La Difesa della Razza»

Il primo numero del quindicinale, diretto da Telesio Interlandi e voluto dallo stesso Mussolini come strumento di divulgazione e propaganda delle idee razziste, era uscito il 5 agosto 1938.

La tiratura dei primi numeri fu altissima per quei tempi: circa centocinquantamila copie. Il materiale iconografico insiste su illustrazioni di vari “tipi” di ebrei, di cui era messa in rilievo la sgradevolezza fisica e morale.

Il  “logo” della rivista riproduce l’immagine di una spada che separava l’ariano dall’ebreo e dal nero. Nel numero del 20 settembre 1938, un’impronta digitale con la stella di Davide deturpa il volto “ariano” di una statua classica.

L’idea che si voleva suggerire era che le “razze” ebraica e nera fossero portatrici di corruzione fisica oltre che morale. Le pubblicazioni procederanno fino al 1943, con minore tiratura.

Nel 1939-40 la scuola foggiana, come tutte le scuole italiane, era ormai pericolosamente avviata verso la «difesa della razza ariana», come testimoniano due pubblicazioni acquisite l’anno successivo per la biblioteca del Liceo Lanza; qui furono acquisiti Inchiesta sulla Razza di Paolo Orano; Razza e razzismo di Gino Sottochiesa.

Il preside Guerrieri comunica allo Spettabile Ministero dell’Educazione Nazionale che sono stati acquistati dagli alunni – tramite il suo Ufficio di Presidenza – 69 copie del Primo Libro del Fascista e 200 copie del Libro del Fascista, in aggiunta alle 300 già acquistate l’anno precedente.

I “libri del  fascista”, hanno struttura catechistica, a domanda e risposta e trattano soprattutto il tema della razza. Pubblicati da Mondadori, ad opera del PNF, Il Primo libro del fascistaIl Secondo libro del fascista ed Il Libro del fascista (che li riassume in un volume unico), trattano «la “programmazione” dell’uomo nuovo e dell’italiano di Mussolini».

Sono destinati «alla cultura dei semplici e dei giovani»: «Ogni Italiano deve vivere consapevolmente nel tempo fascista, e l’ignoranza di tali basi della nostra esistenza di Nazione è inammissibile; perciò si è voluto offrire ai Fascisti e ai giovani della G.I.L. questa semplice guida, necessaria per la cultura dello spirito come per i quotidiani rapporti dell’esistenza».

Nella prefazione leggiamo ancora: «Il Libro del Fascista è un manuale a tutti accessibile che contiene quanto è indispensabile conoscere circa la Rivoluzione, il Partito, il Regime, lo Stato mussoliniano». 

Vi sono, difatti, riassunti in brevi capitoli, sotto forma di domande e risposte formulate «con tutta praticità e chiarezza», gli aspetti morali, politici, sociali, organizzativi del Fascismo e vi è data notizia dei princìpi, istituti e ordinamenti su cui è basata l’Italia, «nella sua nuova grandezza». 

La lettura di queste pagine può “illuminarci”, più di tante parole, sulle nozioni di “pulizia etnica” inculcate dal regime agli studenti dell’epoca. Oltre la memoria…

©2004 Teresa Maria Rauzino

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Il campo di concentramento di Manfredonia

Un laboratorio didattico con Viviano Iazzetti realizzato all’Istituto Superiore “Mauro del Giudice” di Rodi Garganico

Il Macello, l’ex campo di concentramento di Manfredonia

Nei manuali di storia, i lager nazionali non sono affatto menzionati. Pochi sanno che anche in Italia dal 1940 al 1943 vennero aperti numerosi campi di concentramento. È merito dei ricercatori di microstoria se riusciamo talvolta a penetrare la fitta cortina dell’oblio e della dimenticanza. Solo così alcuni momenti fondamentali della nostra storia recente affiorano. Ed è motivante simulare un percorso sulle memorie rimosse in un laboratorio didattico, per rianimarle nella loro attualità.

Viviano Iazzetti, paleografo dell’Archivio di Stato di Foggia, ha ripercorso così, fonti d’archivio alla mano, la vita vissuta dagli internati del campo di concentramento di Manfredonia. Evidenziando dettagli che, una quindicina di anni fa, pubblicò in un saggio su «La Capitanata», rivista della Biblioteca Provinciale di Foggia. La sua ricerca nacque quasi per caso: «Mi incuriosì – racconta – un fascicolo sul ‘campo di concentramento di Manfredonia’ presente nel fondo “Commissariato della P.S. di Manfredonia“. Avevo intenzione di approfondire la ricerca, ma la rivista doveva andare in stampa. Feci una cosa affrettata. Comunque, di documenti ne raccolsi diversi: dagli Atti che servirono a mettere su il campo di concentramento, fino agli elenchi ed alle schede degli internati, che ho trovato a Roma, all’Archivio Centrale dello Stato ed all’Archivio della Polizia. Feci delle statistiche, elaborando i dati relativi ai movimenti del campo. Riuscii persino a contattare qualcuno degli internati. Poi non ne feci più niente».

Il campo di concentramento di Manfredonia incominciò a funzionare il 16 giugno del 1940. Fu chiuso nel 1943. Tornò ad essere il macello comunale della città. È dismesso da qualche decennio: sulla Statale, entrando in Manfredonia da Siponto, sulla sinistra, si vede tuttora. «Non è cambiato niente, la struttura è quella». 

Nel 1940 il macello comunale era nuovo di zecca, e piuttosto grande. Per adeguarlo a campo di concentramento, furono effettuati dei lavori, furono ricavati dei camerini, furono scavate le fogne, attrezzate le docce e le cucine; lo si recintò, perché dava quasi sulla strada. 

È inquietante, nella piantina topografica del campo, la dicitura: “forno crematorio” che contrassegna uno dei vani. La mente corre subito ai famigerati lager nazisti. Ma Viviano Iazzetti smorza le facili deduzioni: «Forni crematori sono presenti in tutti i macelli comunali. I documenti da me rinvenuti in Archivio non autorizzano paragoni con i lager tedeschi e polacchi. Il campo di Manfredonia fu, più che altro, un campo di ‘internamento’: in tre anni vi passarono 519 persone; non raggiunse mai il limite massimo di capienza, che era di 300 unità. 

Fu una cosa all’italiana. Un posto in cui la gente veniva sorvegliata, custodita, ma che non servì certo per ammazzare delle persone. Dai documenti ufficiali, sia dalle ispezioni sia dalla visita del Nunzio Apostolico di Napoli, pare che le cose a Manfredonia andassero bene. L’unica restrizione di rilievo era che la sera chiudevano i camerini. Li ‘lucchettavano‘, mettevano i lucchetti alle finestre ed alle porte. Per il resto non ho riscontrato anomalie. Ci fu qualche fuga: c’erano due gruppi di guardia (8 poliziotti ed 8 carabinieri), ma il campo era proprio sulla strada, la ferrovia distava soltanto 150 metri. C’erano le solite restrizioni sulla corrispondenza, che veniva letta e censurata.

Altre due immagini dell’ex campo di concentramento di Manfredonia

Per gli internati di lingua tedesca, era il professor Aurelio Volpe a praticare la traduzione, e ci furono difficoltà quando egli morì. Invece le lettere degli slavi venivano inviate a una traduttrice, al campo di Fabriano: la posta veniva censurata lì. Essi non potevano leggere libri, se non su autorizzazione, ma noi sappiamo che glieli fornì, in una certa quantità, l’arcivescovo Cesarano. Anche i giornali erano filtrati. Per il resto era un campo piuttosto alla buona, tranquillo. 
Gli internati ebbero la possibilità di realizzare degli orticelli per coltivare le proprie cose; c’era anche un campo di bocce. Chi aveva qualche risparmio, poteva depositarlo in un libretto al portatore presso il locale Banco di Napoli. In genere, gli internati era sussidiati dallo Stato, ricevevano un contributo. Con quei soldi acquistavano degli alimenti che si cucinavano da soli, in genere tutti si adattavano. C’era un vivandiere solo per i benestanti. Era possibile una doccia ogni dieci giorni, a turno. 

La pulizia del campo era affidata a loro stessi, il campo era autogestito dagli internati. Due medici di Manfredonia a pagamento prestavano servizio a mesi alterni, un cappellano diceva messa la domenica. Era vietato giocare a carte. Gli internati avevano delle limitazioni d’orario, ma potevano ricevere delle visite: quando arrivavano i parenti a Manfredonia potevano soggiornare in paese, con loro. Alcuni internati furono autorizzati a prestare la loro attività: ci fu chi fece il barbiere e chi l’infermiere. Quando venne il Nunzio Apostolico alcuni chiesero di poter lavorare. Braccianti e contadini furono trasferiti a Pisticci, dove c’era un campo agricolo. Un gruppo di muratori e imbianchini fu mandato a Fara Sabina. 
Il 1 luglio del 1940 giunsero nel campo di Manfredonia 31 ebrei tedeschi ma, per la maggior parte, furono trasferiti quasi subito, il 18 settembre, nel campo di Tossicia, vicino Teramo. A Manfredonia restarono soltanto cinque ebrei fino al febbraio del 1942, quando furono trasferiti a Campagna, in provincia di Salerno. Oltre agli ebrei tedeschi, ai comunisti, ai socialisti, ai sovversivi in genere e agli anarchici, di varia estrazione sociale e provenienti dalle regioni del centro Nord (in particolare dalla Toscana), gli internati più numerosi del campo di Manfredonia furono i cosiddetti ‘ex iugoslavi’, provenienti dall’ Istria e da Fiume. Questi slavofili, prelevati dai luoghi di origine, furono tenuti congelati qui, a Manfredonia, per evitare che commettessero attentati. Oppure che sobillassero la popolazione contro lo stato italiano. Gli slavi nutrivano forti sentimenti anti-italiani, essendo stati i loro territori annessi all’Italia».

ALLA RICERCA DI UN CAMPO IDONEO

In Italia, nella primavera del 1940, si cercarono dei luoghi ‘idonei’ a realizzare campi di concentramento. Anche in provincia di Foggia ci furono delle ispezioni. Si vagliò dove stabilire un secondo campo, oltre a quello già attivo delle Isole Tremiti. A Manfredonia furono individuate furono individuate due possibili ubicazioni: 1) Villa Rosa, in località Scaloria, dove c’era posto per 160 persone; 2) il Macello comunale di Manfredonia appena ultimato, che con opportune modifiche, poteva ospitare 300 persone. Fu anche ipotizzato l’utilizzo di un convento di Sannicandro Garganico, di proprietà comunale, che poteva contenere 150-180 internati. 

Un’ulteriore inchiesta fu effettuata, per vedere dove si potessero collocare altre persone pericolose. Da un rapporto di polizia risultarono le seguenti disponibilità: 2 posti a Casalnuovo Monterotaro, 20 a Castelnuovo della Daunia, 3 a Celenza Valfortore, 4 a Pietra Montecorvino, 2 a Rocchetta Sant’Antonio, 5 a Roseto Valfortore, 4 a Volturara Appula, 5 a San Marco La Catola. La scelta definitiva cadde su Manfredonia, soprattutto perché la città era ben collegata, via mare, con Tremiti. Il Comune non voleva che il suo macello fosse utilizzato come campo di concentramento, ma l’Amministrazione dello Stato, d’autorità, impose la nuova destinazione d’uso, lasciando al Comune soltanto la possibilità di decidere l’entità dell’affitto.

I CAMPI DI CONCENTRAMENTO ITALIANI

Prima dell’entrata in guerra del 10 giugno 1940, il governo italiano emanò dei provvedimenti per preparare la popolazione alla guerra, tipo l’oscuramento oppure la stretta vigilanza, in appositi ‘campi di concentramento’ su tutte le persone ostili al regime. L’elenco ‘ufficiale’ del Ministero dell’Interno, consultato da Viviano Iazzetti, conta una quarantina di questi campi. Si trovavano tutti nell’Italia centro-meridionale: Salsomaggiore e Bagno a Ripoli, Civitella Chiana, Petriolo (in Toscana), Montechiarugolo (in prov. di Parma), Campagna, Urbisaglia, Tolentino, Lanciano, Pollenza, Ferramonti di Tarsia, Nereto, Lama dei Peligni, Agnone, Isola Gran Sasso, Solofra, Isernia, Notaresco, Casacalenda, Casoli, Tortoreto, Civitella del Tronto, Tostice, Vinchiaturo, Boiano, Ustica, Ventotene, Lipari, Ariano Irpino, Histonium (Vasto), Montalbano, Tollo e Ponza. In Puglia i campi furono 4: Alberobello, Gioia del Colle; le Isole Tremiti e Manfredonia. 

©2003 Teresa Maria Rauzino. 

Articolo pubblicato il 27 gennaio 2003 da capitanata.it e da varie testate, tra cui «Il Corriere del Golfo» (le foto dell’ex campo di concentramento sono state scattate dal fotografo del quindicinale di Manfredonia).