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Microstorie

Lacrime americane

Gli emigrati di tutto il mondo sbarcati nel ‘Paese della Libertà’ schedati e ‘marchiati’ con il gesso

A fine Ottocento, Edmondo de Amicis viaggiò a bordo della nave Galileo, che trasportava gli emigranti italiani in Uruguay ed in Argentina. Nel suo reportage Dall’Oceano scrisse: «C’erano molti Valsussini, Friulani, agricoltori della bassa Lombardia, contadini d’Alba e d’Alessandria che andavano all’Argentina non per altro che per la mietitura, ossia per mettere da parte trecento lire in tre mesi e navigando quaranta giorni. Tessitori di Como, famigli d’Intra, segantini del Veronese. Della Liguria il contingente solito dato in massima parte dai circondari di Albenga, Savona e Chiavari…».

Questa cronaca sfata un luogo comune: negli ultimi venti anni dell’Ottocento fu soprattutto dal Nord Italia che si espatriò per La Merica. Solo col nuovo secolo arriverà l’ondata “sudista”. Culminerà nel 1906 con 787.977 espatri dall’Italia Meridionale: centomila persone partirono dalla sola Sicilia. 

Il sogno americano si alimentò delle immagini dei bastimenti proposte dalle numerose compagnie di navigazione. La pubblicità dell’epoca fece centro nell’alimentare i “sogni” degli aspiranti migranti. Il transatlantico imponente e leggero, sicuro sui mari in tempesta, alimentava la speranza del sogno americano: chi avesse raggiunto la Statua della Libertà avrebbe avuto una vita dignitosa, lontana dalla miseria, dalla fame e dalle malattie. 

Molti si affrettarono a svendere le loro misere proprietà pur di acquistare il biglietto di quella nave: per realizzare un sogno così a portata di mano. Attratti dal sogno, migrarono ben 60 milioni di persone dall’Italia, nel corso dei vari periodi storici, lasciandosi dietro la terra d’origine, gli affetti e le loro tradizioni. Nelle valige mettevano foto, santini, opuscoletti che gli ricordassero i luoghi e le persone che lasciavano in patria.

Una locandina della società di navigazione La Veloce, che garantiva un «servizio celerissimo con vapori elegantissimi» non smentisce il suo spot: una madame, vestita con abito e cappellino belle époque, saluta, sventolando un fazzoletto bianco, l’arrivo di una nave nel porto di Genova. A bordo ci sono gli “americani”, che rientrano in Italia. Tornano dall’America per trovare le mogli ed i parenti italiani.

Ormai sono benestanti, gente di successo. Ma in quali condizioni “reali” viaggiavano gli emigranti italiani? È lo stesso de Amicis a rivelarcelo: «ammassati tra pile di cartoni, valige e animali, assieme a ladri e uomini puzzolenti di sporcizia, vi erano donne malate con figli denutriti. In terza classe spesso non c’era nemmeno un bagno per centinaia di passeggeri, costretti ad andare in seconda per trovarne uno disponibile». 

ELLIS ISLAND L’ISOLA DELLE LACRIME

Dopo 40 giorni di navigazione, i bastimenti raggiungevano Manhattan. Ma prima dovevano transitare per Ellis Island, l’isola principale di Nuova York. Nel 1894 era la più grande stazione di smistamento degli immigrati. Il governo americano controllò il flusso migratorio con metodi ferrei, polizieschi. E la diversa estrazione sociale dei naviganti marcava “la differenza”. 

Quando le navi a vapore entravano nel porto di New York, i più ricchi passeggeri di prima e seconda classe venivano ispezionati a loro comodo nelle loro cabine e scortati a terra da ufficiali dell’immigrazione. Invece i passeggeri di terza classe venivano portati a Ellis Island per l’ispezione “dura”. Giunti sulla piccola isola, gli emigranti poveri, sbarcati da navi provenienti da tutto il mondo, venivano ispezionati, interrogati. Si eseguivano meticolosi controlli per eliminare gli indesiderabili e i malati. I medici accertavano soprattutto “le malattie ripugnanti e contagiose” e le malattie mentali. Gli ammalati o i “sospetti” tali venivano marcati sulla schiena con una croce bianca segnata con il gesso, confinati sull’isola per la quarantena oppure reimbarcati. I capitani delle navi avevano l’obbligo di riportarli nel porto del paese d’origine.

I dati attestano che almeno il 2% per cento degli emigranti furono riportati a casa. Ma molti sfuggirono alla triste sorte del foglio di via, del rientro coatto: cercarono di restare a tutti i costi: si tuffarono in mare, raggiungendo Manhattan a nuoto. Di solito, quelli accettati, dopo una quarantena di qualche giorno venivano smistati per varie destinazioni.

La maggior parte degli immigrati venne mandata a popolare il New Jersey. Ad Ellis Island, le “Scale della Separazione” marcarono forzate “divisioni” di interi nuclei che si erano imbarcati sulla stessa nave. Dal 1917, quando gli Stati Uniti entrarono nella prima guerra mondiale, i sentimenti anti-immigrazione e le ostilità isolazioniste raggiunsero il massimo. Ed il ruolo di Ellis Island cambiò: da centro di smistamento per gli immigrati divenne un centro di detenzione per deportati e perseguitati politici. I decreti sull’immigrazione del 1921 e del 1924 posero fine alla politica di “porte aperte”‘ degli Stati Uniti. I locali del Centro vennero chiusi definitivamente nel 1954.

OGGI ELLIS È UN MUSEO 

Ellis Island è un grande Museo dell’Immigrazione. Dal 1990 vi sono esposti i “segni” lasciati dagli immigrati: vestiti, tessuti, utensili. Uno dei dormitori, come in un flash-back, ci riporta alla visione di alcune note camerate dei “campi di concentramento”. Ed emoziona il visitatore. Nelle varie sale, le esperienze di vita vissuta sono ricostruite con fotografie, pannelli esplicativi, piccoli oggetti domestici portati dalla terra di origine e utilizzati per il lungo viaggio (valigie, ceste, sacchi, fagotti…). È possibile ascoltare le voci registrate dei protagonisti. Vi sono descrizioni dell’arrivo e dei successivi colloqui, esempi delle domande poste e degli esami medici effettuati.


UN SITO INTERNET SULL’EMIGRAZIONE AMERICANA

Circa 100 milioni di americani (40% dell’intera popolazione) sono diretti discendenti di quei 22 milioni di immigrati che approdarono ai moli di Ellis Island, tra il 1892 ed il 1924. È qui l’origine del melting pot, il grande calderone della multietnicità americana, che tanto giovò alla civilizzazione di questo grande paese. Oggi chiunque voglia avere notizie dei propri avi emigrati in America, di cui abbia perso traccia, può, navigando virtualmente in Internet, raggiungere il sito www.ellisisland.org ed effettuare la ricerca. Con una semplice iscrizione gratuita potrà accedere all’archivio telematico messo a disposizione di tutti i virtuali “naviganti”.

Nella sezione «Passenger Search» è possibile conoscere per ogni emigrato il nome e cognome, lo Stato e città di provenienza, la data di arrivo all’isola, l’età, lo stato civile, il nome della nave ed il relativo porto di partenza. Il sito è stato realizzato dall’AFIHC (American Family Immigration History Center). L’immane lavoro di archiviazione telematica è stato effettuato dai «Volontari della Chiesa di Gesù Cristo dei Santi degli Ultimi Giorni», più noti come Mormoni.

UN CANTO SULL’EMIGRAZIONE GARGANICA
a cura di Luciano Castelluccia, direttore artistico del Carpino Folk Festival 

MARITME STA ALL’AMERICA E NUN ME SCRIVE 
(Mio marito sta in America e non mi scrive)

Marit’me sta all’America e nun me scrive 
Mari’tme sta all’America e nun me scrive 
Nun sacce la mancanza 
Nun sacce la mancanza che l’aje fatte 

E na mancanza mia iè stata questa 
e na mancanza mia iè stata questa 
da tre fanciull na 
da tre fanciull na truvat quatt 

Zitt marite mije che nun je nent 
zitt marite mije che nun je nent 
e lu viam a Napl 
e lu viam a Napl a fa student 

‘Nfa nend marit mije che a patut 
‘nfa nend marit mije che a patut 
basta che magn e viv 
basta che magn e viv e va v’stut 

Non jadda jess mo lu chiant amar 
non jadda jess mo lu chiant amar 
adda jess mo che m vid 
adda jess mo che m vid p’ na ‘merican 

Non adda jess mo lu chiant a llochje 
non adda jess mo lu chiant a llochje 
adda jess mo che m vid 
adda jess mo che m vid a Nuva York 

Zitt marite mije che non je nent 
zitt marite mije che non je nent 
e lu n’viam a napl 
e lu n’viam a Napl a fa student 

Questo Canto di emigrazione fu raccolto da Lomax e Carpitella nel 1954 a Cagnano Varano.

©2004 Teresa Maria Rauzino. 

Articolo precedentemente pubblicato nel sito www.capitanata.it.