Agli inizi del 1500, numerosi naviganti di popolazioni vicine, lontane e straniere “facevano vela” per le Isole Diomedee e per il porto di Peschici. Vi si fermavano, oltre che per motivi di commercio e di momentanea sosta, anche spinti dalla devozione.
Prima di proseguire il viaggio via mare, oppure via terra per il Santuario dell’Arcangelo del Monte Gargano, si fermavano nel monastero di San Nicola di Tremiti ed in quello di Santa Maria delle Grazie di Kàlena, nella piana di Peschici.
Nei due monasteri, ricostruiti dai Canonici Regolari di Sant’Agostino, adoravano la Beatissima Vergine e la Gloriosa Madre di Dio.
Uomini famosi ed illustri “matrone” avevano offerto alle due prestigiose abbazie, nel corso dei secoli, consistenti “beni solidi”: oltre a numerose chiese con le loro rendite e i relativi diritti, il possesso perpetuo di castelli, terre, pascoli, boschi. Avevano donato, per il vantaggio e il divertimento della pesca, addirittura un lago, i diritti sui fiumi comprensivi dell’impianto dei mulini, e persino delle imbarcazioni per la pesca, il commercio e gli spostamenti in mare aperto.
Erano stati indotti a ciò dalla speranza di redimere, grazie alle preghiere quotidiane dei monaci, i loro peccati, ma molti lo avevano fatto per i più terreni motivi di stretta convenienza “politica”, per salvare le loro proprietà nei momenti delicati di passaggio tra vecchi e nuovi dominanti. Per salvare il salvabile.
I beni venivano “donati”, ma l’usufrutto vita natural durante era a favore degli ex proprietari e della loro discendenza. I documenti di ratifica, redatti da scrivani e notai pubblici, erano le cosiddette “tavole antiche”.
Sottoscritte da nobili, principi e re, vennero conservate con quanta più cura possibile negli archivi di Kàlena e di Tremiti. È qui che prima il Cochorella e poi il Mainardi le consultarono, il primo per stilare, nel 1508, la Tremitanae olim Diomedae Insulae accuratissima descriptio [1]; il secondo, nel 1592, per compilare un accurato Regesto in cui si rivendicavano le proprietà delle abbazie di Tremiti e di Peschici usurpate nel corso dei secoli [2].
Per la comprensione di quella che fu la storia dell’abbazia di Kàlena nel corso del Cinquecento e dell’azione dei Canonici Lateranensi che in quel periodo la governarono, analizzeremo proprio questi due fondamentali documenti, integrandoli con le notazioni desunte dal Codice Diplomatico di Armando Petrucci [3].
Benedicto Cochorella e Timoteo Mainardi appartenevano all’ordine dei Canonici Regolari di Sant’Agostino, detti Lateranensi del Salvatore. Questi monacierano subentrati ai Cistercensi alla guida del monastero di Tremiti fin dal 1412.
Papa Eugenio IV incorporò l’Abbazia di Peschici alla venerabile Chiesa di Santa Maria di Tremiti nel 1445. In quell’anno, la rinunzia del Cardinale Pietro Balbo (il futuro papa Paolo II) e la cessione dell’abate Corrado di Capece, monaco di Sorrento (erano gli ultimi abati cui l’abbazia di Peschici era stata affidata in commenda), vennero formalizzate e l’abbazia ritornò sotto l’ala protettiva di quella che un tempo era stata la sua casa madre.
I Canonici Regolari presero effettivo possesso di Kàlena giusto un anno dopo, nel 1446.
Di origine lombardo-veneta, questi monaci esibirono un livello culturale notevolmente alto. I Canonici si adoperarono a ricostruire tutti gli edifici sacri e civili distrutti dagli anni, sia per poterli abitare loro stessi in modo sicuro, sia perché potessero accogliere i pellegrini.
Timoteo Mainardi, conscio della grave crisi economica che travagliava Tremiti e le sue pertinenze in terraferma, espose un suo piano di riforme, un progetto per risanarne le collassate finanze.
Egli consigliò di eliminare, nei territori sotto la giurisdizione tremitense, l’importazione di grano, di carne, di animali, aumentando progressivamente le colture ad orzo e frumento e promuovendo l’allevamento intensivo del bestiame.
L’isola di San Nicola di Tremiti, che a quell’epoca era l’unico porto sicuro dell’Adriatico, d’estate diveniva scalo obbligato di tutte le navi che facevano rotta da Venezia in Puglia e dalla Dalmazia a Manfredonia.
Le galee della flotta veneziana, mentre erano impegnate nella loro campagna di perlustrazione delle coste adriatiche, usavano rifornirsi a Tremiti di biscotto (gallette) e di pane fresco, confezionati con il grano che affluiva al monastero dalle pertinenze in terraferma, che erano soprattutto le terre cerealicole appartenenti a Santa Maria di Kàlena.
TREMITANAE OLIM DIOMEDAE INSULAE ACCURATISSIMA DESCRIPTIO
Il Canonico Regolare Benedetto Cochorella, originario della città di Vercelli, morì nelle isole Tremiti nell’anno 1540. Il “libretto” descrittivo delle Diomedee e soprattutto delle opre dei canonici, da lui scritto nel 1508, fu pubblicato postumo, «per grazia dell’Abate Matteo», suo mecenate e conterraneo, con l’imprimatur di Basilio Sereno, canonico di Santa Maria della Passione a Milano.
In esso il Cochorella aveva descritto con dovizia di particolari, fra i possessi di Tremiti, l’abbazia di Kàlena e tutte le sue pertinenze.
Nel corso del tempo, molti dei favori e dei benefici ecclesiastici erano venuti a mancare all’amministrazione e alla contribuzione tremitense. Ma all’inizio del Cinquecento, epoca in cui Cochorella scrive il suo manoscritto, Tremiti «conservava ancora tranquillamente sotto la sua autorità parecchie chiese apprezzabili istituite in diversi territori e molti altri beni».
Di tutte queste chiese, la prima per valore era l’Abbazia di Kàlena [4]. Cochorella fornì anche le coordinate geografiche per localizzarla: ubicata nella diocesi di Siponto, distava circa 22.000 passi dal monte Gargano e 4 stadi dal mare Adriatico. Era senza dubbio la più antica, «da gran tempo assai famosa per il nome e le ricchezze». Tenuta, fin dalla sua fondazione, in grandissimo onore da molti re famosi e parecchi imperatori, dotata di innumerevoli privilegi, essa era stata oggetto di “incredibile devozione”. A questa Abbazia, un tempo, erano sottoposte molte popolazioni, ville, villaggi, città e una grandissima quantità di boschi, selve, campi e beni immobili.
All’inizio del Cinquecento, Kàlena conservava ancora le vestigia di questo glorioso passato: possedeva diversi terreni, ampi boschi, vari campi, molte vigne e oliveti qua e là: «Sul monte Sant’Angelo (che gli antichi chiamavano Gargano), si trovava un’estensione così lunga e ampia di terre soggette alla sua amministrazione che superava i 40.000 passi sia in larghezza che in lunghezza» [5].
Il Cochorella era rimasto colpito dai secolari uliveti appartenenti all’abbazia di Peschici: «famosissimi per una tale abbondanza di olive e, così cresciuti negli anni, che alcuni di essi suscitano in chi guarda ammirazione e stupore, perché non possono essere cinti neanche da quattro uomini uniti per le braccia» [6].
Un dato che ci lascia perplessi, ma che testimonia la presenza di eccezionali uliveti nelle campagne di Peschici. Gli alberi erano dei veri e propri “patriarchi verdi”, stupivano i Canonici Lateranensi che come il Mainardi provenivano dalle regioni del Nord Italia dove, per ragioni climatiche, l’ulivo non cresceva bene come nel Gargano.
Nel 1508, il tempio di Kàlena, «consacrato alla Gloriosa madre di Dio», è ancora degno di venerazione e «straordinario per l’antichità e per la sua bellezza». Gli altri edifici del Convento sono quasi crollati per l’eccessiva vetustà, tranne quelli che i Canonici hanno avuto cura, con grandissima sensibilità e “dispendio”, di restaurare o di ricostruire ab imis, cioè dalle fondamenta [7].
LE PERTINENZE DI TREMITI NEL GARGANO NORD
Il Cochorella fa una minuziosa ricognizione delle chiese (allora si denominavano con il termine cappelle), che l’abbazia di Kàlena aveva sotto la sua autorità. Un tempo erano tantissime, tuttavia col passare del tempo o per l’avidità di certi principi o per colpa dei predecessori, la maggior parte di esse era stata usurpata oppure era caduta in rovina.
Quelle possedute all’inizio del Cinquecento non erano poche. Erano tutte “prosperamente” passate ai Canonici regolari di Santa Maria di Kàlena (i monaci continuavano a denominarsi col titolo di quella Abbazia).
Due chiese ad essa soggette erano «dedicate al santo sacerdote Nicola». Una di queste, situata ai confini del Monte Negro (Montenero), distava 16 stadi dal villaggio di Vico [8]. Minacciata di rovina a causa della sua vetustà, da parecchi anni (presumibilmente dalla seconda metà del Quattrocento), era stata rinnovata ed ornata dentro e fuori con bellissimi stucchi. Era altresì stata sopraelevata “a volta” con un’elegante impalcatura, «sicché – commenta il Cochorella – uno potrebbe dire che sia stata integralmente ricostruita più che restaurata».
L’abbazia di Montenero era diventata davvero una chiesa “notevole”: aveva edifici eleganti, un doppio chiostro, splendidi giardini e quasi ogni genere di mele e altri frutti. Soprattutto arance, ma anche cedri e limoni molto succosi. Le sorgenti d’acque zampillanti e la dolcezza dell’aria salubre rendevano fruttuose le varie coltivazioni. Possedeva anche parecchie vigne «eccellenti per la qualità del vino prodotto», un mulino col frantoio e parecchi alveari di api.
L’altra chiesa, titolata a San Nicola, era ubicata sulle rive del lago Varano vicino ad un «villaggio distrutto» chiamato Imbuti, non lontano dai castelli di Cagnano e di Carpino [9]. Dominava un’ampia e larga zona pianeggiante, «circondata da monti fitti e ben protetti da grandi boschi e gole», tra i quali spiccava il monte Devio”.
Intorno, un paesaggio caratterizzato dalla presenza di molte selve ed oliveti. Per la natura del luogo, si poteva trarre profitto «dall’uccellagione e dalla caccia alla selvaggina».
Per il piacere ed il vantaggio della pesca, lo stesso grandissimo lago di Varano era alla portata di tutti, e «produceva ottimi pesci» [10]. Alle sue foci, mentre tentavano di passare dall’acqua salata del mare a quella dolce del lago, si catturavano moltissime anguille e, tra le loro varietà, alcune più grosse che chiamano “capitoni”. Di tutto ciò, per antico diritto, era pagata una decima alla chiesa di Imbuti.
Il Cochorella ci fornisce una notizia interessante sulla lavorazione in loco del pescato: «Per salare questi pesci vi sono nelle vicinanze anche parecchi vivai, cioè dei luoghi vicino al mare in un lago stagnante, dove i pesci vengono catturati e subito dopo salati». Viene fuori uno spaccato inedito dell’economia del Varano all’inizio del Cinquecento.
Oltre a notizie sull’ecosistema. Anche allora il lago era il luogo ideale di “svernamento” per molte specie di volatili migratori e stanziali: “D’inverno questo lago nutre varie specie di uccelli, per esempio parecchie anatre selvatiche, uccelli noti del resto a tutti e molto saporiti da mangiare».
Il Cochorella cita, a questo proposito, una frase di Marziale che esalta le peculiarità gastronomiche di alcuni “parti” particolarmente pregiate per i palati sopraffini: «Si porti pure tutta l’intera anatra, ma gustane soltanto il petto e il collo, il resto restituiscilo al cuoco!» [11].
Il Cochorella registra anche la presenza dei cigni, con la seguente notazione: nessun uccello (come si racconta) è più candido di questi; è più grande di un’oca, con una voce acuta e quando sta per morire emette un flebile canto. E cita il noto verso di Ovidio: «Dolci melodie modula con debole voce/il cigno che canta la propria morte» [12].
Il Varano nutre innumerevoli folaghe, uccelli acquatici neri poco più grandi di una colomba e quanto mai gradevoli da mangiare.
In un punto delle terre prospicienti il Varano, vi è una pianura molto estesa sia in lunghezza che in larghezza, graditissima alle pecore per i pascoli più abbondanti; la chiamano “Insula Imbuti”. E’ simile ad un’isola in quanto domina il lago Varano dalla parte più alta, il mare Adriatico da quella più bassa; qui le mandrie di bestiame e le greggi del Monastero tremitano «svernano pascolando» [13].
UN SOLO CORPO, UNA SOLA REGOLA, UNA SOLA CONGREGAZIONE
Il Cochorella, parlando del suo ordine monastico, attesta le preferenze che i papi del tempo avevano ad esso riservato. Eugenio IV aveva concesso e affidato ai Canonici la chiesa del Salvatore in Laterano, di Roma, affinché la restaurassero. Fu questo Papa che decise di chiamarli «Canonici Regolari del Salvatore Lateranense». Li rese famosi, fregiandoli di numerosi straordinari privilegi e favori, confermati dai papi Nicola V e Sisto IV.
Quali insegnamenti di vita, quali le regole etiche erano seguite da questi monaci? Secondo il Cochorella, “il sapientissimo, santissimo padre e dottore Agostino» nella regola dei Canonici non aveva inserito nulla che non potesse essere osservato facilmente da tutti.
Chiunque, il povero e il ricco, il vecchio e il giovane di qualsiasi condizione, «ignobile o nobile» e di qualsiasi altro stato economico, avrebbe potuto impegnarsi senza difficoltà nell’apprendimento della regola; «compiere tutto non in modo difficile ma con letizia e in maniera egregia». Secondo il proprio voto [14].
Tutti i Canonici Regolari del Salvatore Lateranense avevano adottato questo nobile tenore di vita, sebbene li dividesse la diversità dei luoghi, la lontananza delle strade, la separazione delle terre. Essi avevano un solo corpo, una stessa regola, una sola congregazione.
Dal Collegio dell’Ordine provenivano anche tutti i monaci che reggevano con grande prudenza, saggezza e virtù la canonica di Tremiti. «Con incredibile impegno e attenzione, essi avevano reso noto a tutti, per mare e per terra, questo santissimo luogo. Il suo nome era noto fino alle parti più remote del mondo e ai popoli barbari».
Tutti avevano sentito parlare della bellezza e della magnificenza degli edifici e delle costruzioni straordinarie di Tremiti e delle sue abbazie. Secondo il Cochorella ciò era avvenuto per la “grazia divina” ricevuta dai Canonici: «A loro accordò ininterrottamente il favore eterno la Vergine Madre del Salvatore, Maria Beatissima, eccezionale custode e particolarissima protettrice di quel santissimo luogo» [15].
Cochorella esalta, quasi ai limiti dell’agiografia, l’“incredibile umanità” dei Canonici. Contraddicendo i suoi intenti: aveva premesso che in stile, succinto, da gustare (come si dice), con la punta delle labbra, avrebbe scritto poco, piuttosto che tacere del tutto: le lodevoli imprese dei monaci non potevano “passare sotto silenzio”. I Canonici, infatti, erano abituati a produrre spesso, più che vane parole, esempi di vivere virtuoso [16].
I monaci si danno tanto da fare, oltre che per innata santità, anche per evitare il giudizio malevolo dell’opinione pubblica, solitamente ipercritica nei confronti di chi manovra cotanta ricchezza. Ce lo testimonia il Cochorella, il quale afferma: «Dal momento che la situazione del Convento migliora ogni giorno, i monaci per non dare all’esterno l’impressione di desiderare e interessarsi solo delle ricchezze, si danno anima e corpo a celebrare con più ardore non soltanto i riti divini, ma si impegnano anche a restaurare le rovine del Convento e del tempio e ad abbellirlo» [17].
Emblematica è un’altra sua frase: «I Canonici non smettono di escogitare ogni anno qualcosa di nuovo per costruire edifici a ornamento e decoro di tutta l’isola; e spendono molto denaro come facilmente salta agli occhi di chi guarda» [18].
Esempi virtuosi quasi obbligati, quindi, quasi forzati? No, perché le realizzazioni concrete erano visibili anche agli occhi del visitatore più distratto. I Canonici del Salvatore ricostruirono gli edifici distrutti dagli anni, sia per poterli abitare in modo sicuro, sia perché le foresterie potessero accogliere comodamente i pellegrini.
Anche a Kàlena, prima della loro venuta, le rovine erano talmente evidenti che non era più riconoscibile nessuna forma dell’antico Convento e del tempio. Furono i monaci a fortificare l’abbazia, con mura alte e solide, per difenderla dai pericoli esterni e dai nemici.
LE “RAGGIONI” DI SANTA MARIA DI KÀLENA
Nel corso del tempo, molti dei favori e dei benefici ecclesiastici erano venuti a mancare, per l’avidità di certi principi o per colpa dei monaci predecessori dei Canonici, che non avevano adeguatamente vigilato affinché le proprietà di Tremiti e di Kàlena non venissero usurpate oppure non cadessero in rovina.
Fu il canonico Timoteo Mainardi, bibliotecario dell’abbazia di Tremiti ad assolvere l’arduo compito di effettuare il minuzioso riordino dell’archivio dell’abbazia, e di procedere ad un’attenta ricognizione degli antichi diritti goduti un tempo in terraferma dai Benedettini e dai Cistercensi.
Rispolverò vecchi documenti per dimostrare «le raggioni» della Madonna di Kàlena e le ricostruì confine per confine, chiedendo la reintegra dei termini lapidei, che molto spesso erano stati deliberatamente “spiantati” dagli usurpatori, con metodi violenti e minacce contro chi tentava di impedire queste loro azioni.
Tutti questi documenti furono rimessi in circolo dal Mainardi, per dimostrare le «raggioni», cioè i diritti usurpati, affinché i Canonici li rivendicassero, per riacquistare le terre perdute di Tremiti e di Kàlena [19]. A sostenerlo nelle sue tesi c’era un quadro normativo favorevole, mai applicato: i papi Eugenio IV e Nicolò V avevano emanato, su sollecitazione dei Canonici, due specifiche “bolle” contro gli usurpatori e occupatori, detrattori, malfattori dei beni spettanti ed appartenenti alle chiese abbaziali di Santa Maria di Tremiti e di Càlena.
Papa Giulio II, nell’anno 1504, aveva emanato un’altra bolla contro coloro che si erano impossessati “ingiustamente” dei beni di Tremiti.
Oltre a non rispettare le bolle papali,gli usurpatori di Kàlena contravvenivano agli indulti, agli ordini ed ai privilegi dei re Ruggiero e Guglielmo e di altri sovrani, i quali avevano confermato ed ampliato le donazioni dell’arcivescovo Leone.
Costui aveva donato all’Abbazia di Peschici i territori, i Casali, le terre, i Castelli limitrofi, con boschi e selve tagliati e non tagliati, liberi da ogni gravame, affinché, libera, ne godesse in perpetuo. Perché gli usurpatori avevano continuato, nel frattempo, ad appropriarsi dei beni dell’abbazia?
La risposta del Mainardi è la seguente: «Perché hanno visto che nessuno le cerca tali ragioni, nessuno muove loro lite». Ad esempio, non era consentito, se non su espressa licenza degli Agenti del monastero, andare a caccia di animali «selvadeghi» nei territori di Càlena, nei suoi boschi e nelle sue selve.
Invece accadeva il contrario: i baroni si erano prepotentemente arrogati questo diritto spettante solo al monastero. Erano giunti al punto che non solo li usurpavano per sé, ma addirittura pretendevano che i cacciatori pagassero la ricognizione della quarta parte della caccia direttamente a loro, «se no li mettono in prigione e li fanno pagare quello che vogliono». Essi non si usurpavano soltanto le predette cose, «ma anche la decima delle pescagioni delle sarde ed altri pesci».
Il Mainardi denuncia un altro fatto gravissimo: «I fattori di Kàlena non possono reclamare alla Regia Udienza, perché con scuppette sarebbero ammazzati”. Ecco perché tacciono: ne va della loro vita.
Che fare allora? Conviene che gli “Abbati” di Tremiti e per loro i Procuratori generali che stanno addetti a risolvere le controversie a Napoli e a Roma la denuncia la facciano loro. In alto loco. Essi possono, con una forte azione legale, «farli scomunicare» dal Pontefice, se non restituiranno ogni ragione e giurisdizione della Madonna nel territorio di Peschici.
Dopo aver affermato che tutte le «raggioni» di Tremiti e di Kàlena in questi luoghi e altri sono state smarrite, perse e usurpate, il Mainardi rimprovera duramente la persistente inerzia e la grande incuria di chi era tenuto a vigilare affinché ciò non accadesse: «Voglio dire quattro parole per tale misfatto e ignoranza o negligenza degli agenti e anche degli abati, i quali dovrebbero molto vigilare e cercare di ben considerare e vedere le ragioni e o i confini dei territori della Madonna di Tremiti e Kàlena e dove i trovano i confini o luoghi usurpati, cercare di reintegrarle con la ragione, e rinnovare dappertutto i termini a poco a poco, acciò non siano fatti maggiori usurpazioni. Le “raggioni” della Madonna di Tremiti e di Kàlena sono state affidate alla cura della Congregazione lateranense, non ai signori baroni».
Chi sono gli usurpatori? Il Mainardi li elenca uno ad uno: «Sono i signori Marchesi di Vico e di Ischitella, che godono e usurpano o personalmente, o attraverso l’Università che fa loro capo, tutti i territori. Essi sono soltanto degli usurpatori, vogliono godersi tali beni della Madonna senza alcun scrupolo di coscienza. Gli attuali baroni usurpano i diritti della Madonna peggio dei loro predecessori.
I baroni attuali che ora godono (i baroni Turbolo) pretendono di godere giustamente perché hanno comprato dalla Corte la Baronia di Peschici e d’Ischitella, i quali diritti pretendono che “fossero” del signor Don Ferrante di Sanguine (de Sangro), e lui don Ferrante de Sangro dal suo avo, che fu Giovanni de Sangro e costui ancora dal suo avo, padre di sua madre, che fu il Signor Giovanni Dentice. Furono costoro che cominciarono ad usurpare tali ragioni».
Il Mainardi lancia un forte j’accuse contro questi feudatari garganici che calpestano i diritti delle due abbazie: «Usurpano tutti i territori della Madonna di Tremiti e Kàlena e ne ricavano frutto ed entrata come se fosse loro. Se non sono fittavoli della Madonna né livellari, né censuari, né renditori di cosa alcuna, com’è possibile che sia permesso loro di perseverare in tale ingiustissimo misfatto e possesso? Non è questa una balordaggine troppo grande, non è questa una grandissima sciocchezza degli agenti e dei prelati che lasciano scorrere tale danno senza ricercare i debiti rimedi? E reiteramenti delle ragioni della Madonna, così come sono state lasciate dall’arcivescovo Leone, e dai serenissimi re di Napoli Ruggero, Guglielmo e Vincalmutalljo?».
Nella sua ricognizione archivistica, il Mainardi elenca le numerose vertenze che avevano contraddistinto il conflittuale rapporto dell’abbazia di Tremiti e di Càlena con i baroni.
Nel 1518 c’era stato un accordo tra il monastero di Tremiti, il Magnifico Galeazzo Caracciolo, il magnifico Giovanni di Sangro e madama Adriana Dentice, baroni di Peschici ed Ischitella, per la lite che aveva loro mosso il detto monastero di Tremiti, a causa della decima della pesca ed emolumenti del lago di Varano che per molti anni non avevano pagato all’abbazia di Kàlena [20].
Si giunse alla seguente convenzione: ogni anno i feudatari avrebbero dovuto sborsare:
· una decima di 100 scudi d’oro ovvero 115 ducati; |
· 50 capitoni freschi; |
· 4 sacchette di anguille; |
· 20 paia di avi (polli e galline); |
· un numero imprecisato di uova. |
Il Mainardi contesta l’entità del risarcimento che, secondo il suo parere, è molto basso: tale rendita arriva appena al pagamento di 200 ducati, mentre la decima dovrebbe fruttare sino a 600 ducati all’anno. I proventi del lago raggiungevano infatti la considerevole cifra di 5.000 ducati.
Un altro reddito fruito al minimo derivava dai numerosi pascoli di proprietà di Tremiti e di Kàlena. Fu ribadito che gli “estranei” che li utilizzavano, dovevano pagare una certa somma.
Anche la Regia Dogana era tenuta a pagare a Tremiti somme variabili a seconda che si trattasse di capo grosso, cioè buoi, vacche, giumente, cavalli, muli e simili o capo piccolo, cioè pecore e capre.
Le somme stabilite, in verità, non venivano rispettate, in quanto Tremiti e Kàlena ne ricevevano soltanto una minima parte. C’era però, da parte della Regia Dogana, il riconoscimento della “proprietà” dei pascoli. Cosa che non facevano i signori baroni, che volevano fruire dei pascoli senza pagare alcunché.
Con quali ragioni? – si chiede il Mainardi – Essi non ne hanno alcuna. Si assiste all’assurdo. Mentre sua Maestà il re Filippo ammette il pagamento della fida alla Madonna, i signori baroni vogliono loro farsi padroni assoluti dei luoghi, boschi e pascoli della Madonna”.
Una copia di una lettera antica, ritrovata l’anno 1584 a Tremiti attestava che i pascoli e gli erbaggi dei territori della Madonna di Tremiti e di Kàlena erano stati usurpati ingiustamente dai Turbolo, baroni di Peschici ed Ischitella nelle seguenti località:
1. Isola dell’Imbuti, sul lago di Varano. Roberto, conte di Lesina, l’aveva venduta al reverendo abate Roberto di Càlena con il castello distrutto e tutte le sue pertinenze. Qui i confini furono posti “in gran danno” della chiesa perché “furono ristretti assai” quando il signor Francesco Maistrillo, commissario deputato del Sacro Regio Consiglio, aveva fatto piantare arbitrariamente i termini lapidei.
2. Lago Pantano e fiume di Varano. I baroni Turbolo dovrebbero pagare l’integral decima, perché l’abate Roberto, abate di Kàlena l’aveva pagati 150 scudi di oro schiffato. Questi due territori li aveva acquistati con tutte le loro pertinenze di terre, selve, boschi, olivi, lago Pantano sino al mare con un corso dell’acqua del lago sino al mare dall’uno e dall’altro lato.
3. Manatec, Montecalena, Circaprete ed altri luoghi della Madonna. Si dovrebbero far pagare agli usurpatori: gli usufrutti, gli alberi tagliati e far loro notificare un Ordine regio di divieto per l’avvenire.
4. Valle, colline del Gravalone e Monte Kàlena, nel luogo detto il Cacciatore. In questi luoghi erano stati usurpati più di quattro e sei carra di territorio in semenze. Lo avevano testimoniato sei periti eletti dal Magnifico e Reverendissimo signor Commissario. Questi uomini “dabbene ed esperti” dichiararono che questi tre luoghi erano tutti di Tremiti e di Càlena, ma i baroni continuavano impunemente a possederli.
Cosa propone Timoteo Mainardi? Che i baroni “devono” restituire tutti i territori usurpati alla Madonna di Tremiti e di Kàlena, Liberamente, senza scandalo, né danno alcuno, ma sotto la pena di scomunica e della perdita dei propri beni. Gli abati presenti e futuri non devono mai più «subire e tenere tali sfrisi in faccia», umiliazioni così cocenti.
Lo sfriso in faccia più eclatante è che, nei luoghi boscosi di Peschici, i signori baroni Turbolo fecero tagliare, e continuano ancora a farlo, tanti legnami da opera che «coglie uno stupore»… Con l’aggravante che anche i “fattori” di Kàlena «fanno anche loro tagliare tanti legnami da opera e ne fanno vendita in modo di mercanzie».
Per Mainardi è un fatto inaccettabile: «È uno scandalo, un vituperio grandissimo che per tre o quattro carlini danno tale legname che a volerlo utilizzare nei luoghi bisognosi di Tremiti e Càlena varrebbero di più di tre o quattro scudi d’oro». E questo accade mentre «la casa di Kàlena sta scoperta e senza solaro, con travi vecchi nudi».
La cosa è talmente eclatante che «i contadini che lavorano nei sopraddetti tre luoghi, e anche tutti gli altri che pagano il terratico a detti signori baroni, si meravigliano e si stupiscono del modo in cui Tremiti e Kàlena sopportino tale ignominia e danno, e che non ne facciano risentimento in Napoli alla giustizia, sicché in ogni modo si provveda a imporre il rispetto delle ragioni, eliminando disordini e danni».
Ad usurpare le «raggioni» di Kàlena non erano soltanto i feudatari, ma anche il Clero di Peschici [21]. La Chiesa di Sant’Elia era officiata da preti “morlacchi”, cioè appartenenti alla comunità slava che all’inizio del Cinquecento aveva rifondato il paese dopo l’assalto dei Turchi.
Questi preti avevano usurpato trecento tomoli di terra, aggiungendoli agli altri trecento tomoli che gli abati di Kàlena avevano loro regolarmente concessi nella località denominata “Coppe Gentili”.
Ne fa fede un documento del Regesto del 1588. Si riferisce di una pietra piana con l’impronta del marchio di Tremiti (che limitava la proprietà) spezzata e spiantata. Gli agenti del monastero di Tremiti e Càlena, con licenza del commissario della Regia Sommaria (esaminatore dei testimoni per parte di Tremiti nella causa di Sfilzi contro i Morlacchi di Peschici), si recarono sul posto per rimettere al posto la pietra predetta, ritrovata vicino alla fondazione di una «fabbrica in piano», vicino circa venti passi dalla Grotta del Fico.
Ma, ad un tratto, per impedire che simile “piantumazione” venisse effettuata si presentò l’arciprete di Peschici con tutta la Corte, armata di tutto punto. Con cotte e campanelle, com’era usanza a quel tempo, l’arciprete slavo gettò una scomunica e minacciò di scomunicare chiunque avesse osato rimettere al suo posto originario il termine lapideo con il marchio di Tremiti e Kàlena.
Lo fece a nome, anzi, come disse, “per ordine” dell’arcivescovo di Manfredonia, il quale, però, interpellato successivamente dagli agenti di Kàlena, smentì categoricamente tale circostanza. Il termine di confine intanto fu portato via e non fu “piantumato”. Il luogo restò sfornito della demarcazione che ne denotava la proprietà, con grave danno per Kàlena.
Per di più, i Morlacchi, istigati da qualche malo spirito e forse come sospetta il Mainardi, proprio dalla Corte di Peschici, continuarono a “levare anche i termini lapidei fatti piantare per ordine di Bahordo Carafa, viceré della Puglia al tempo della controversia tra il venerabile monastero di Tremiti e Kàlena e Giovanni Dentice, barone di Peschici”, quando anche costui aveva usurpato le «raggioni» e i territori di detti monasteri.
Il Mainardi chiude la sua filippica contro chi è inadempiente o usurpatore con un lapidario verrà un giorno: certamente tutti costoro dovranno rendere ragione nell’aldilà di questo loro comportamento così lassista e negligente nei confronti delle sacre proprietà.
A chi? Alla «maestà del Signore Iddio ed alla Madonna».
Per avallare la tesi del divino redde rationem il Mainardi cita un episodio penitenziale, ricordato in una lettera antica del 20 maggio 1471 firmata da Gabriele da Vercelli, abate di Tremiti e di Kàlena [22] .
Vi si racconta di due periti che, insieme ad altri quattro esperti, avevano giurato il falso a danno “evidentissimo” della Chiesa di Tremiti e di Kàlena. Si erano venduti per 10 vili ducati, attestando diritti inesistenti a favore Giovanni Dentice, signore di Peschici e di Ischitella.
I due spergiuri, pur essendo sinceramente pentiti di questa loro dissacrante azione, non vennero assolti dal padre predicatore Don Giovanni da Cremona se “primieramente” non avessero chiesto perdono e misericordia ai padri di Tremiti.
I due fedrifaghi, prima di essere perdonati, dovettero sottostare ad una sorta di Canossa garganica. Il priore Gabriele da Vercelli, che si trovava allora Sant’Agata, racconta così la scena del pentimento: «Vennero a noi due uomini di Vico, Pietro di Giorgio e Bartolomeo di Giacomo di Calandra, i quali subito arrivati a noi, inginocchiatosi in terra con una corda al collo pendente a ciascuno di loro, con le lacrime agli occhi, salutandoci, dimandarono con gran pianto, misericordia e perdonanza del loro errore commesso e fatto». Soltanto così furono finalmente assolti.
Ma la vicenda non si concluse senza danno per chi aveva ispirato la nefanda azione dei due periti a sfavore dell’abbazia calenense. Il feudatario Giovanni Dentice ricevette ben presto nel suo castello di Peschici la visita di una delegazione composta dall’abate di Tremiti e da maggiorenti di Rodi Garganico e di Vasto.
Costoro «andarono a parlargli sopra tal fatto, dolendosi assai di un tale inganno che avrebbero posto alla Regia Corte del serenissimo re Ferdinando (d’Aragona), affinché fosse revocata tale sentenza e testimonianza fatta nei beni della Madonna di Tremiti e di Càlena». Giovanni Dentice tentò di giustificarsi, arrampicandosi sugli specchi. Aveva dato sì 60 ducati al suo servitore, ma non sapeva della corruzione da questo operata sui sei periti… e a suo favore.
Non gli cedettero più di tanto se fu comunque costretto a sottoscrivere che «se tutto fosse stato vero, egli si sarebbe ritirato dal possesso dei beni di Kàlena, disposto a farne nuovo istrumento». Come accadde.
Le usurpazioni continuarono, come abbiamo visto, anche con i nuovi feudatari. Col passare degli anni le condizioni di vita sulle isole ed in terraferma divennero sempre più difficili.
I Canonici di Roma, impegnati più a curare gli altri monasteri che ad occuparsi delle lontane isole diomedee, si disinteressarono della sorte delle loro abbazie e della fortezza di Tremiti, che caddero in pessimo stato.
Nel 1763 il comandante del presidio tremitense Tenente Colonnello Carlo Brogli chiese, in una particolareggiata relazione, che si provvedesse ai necessari restauri. Visto che continuarono a non essere effettuati, essi furono decisi d’imperio.
Furono effettuati nel marzo dell’anno seguente, a spese dell’Erario, che si rivalse economicamente sui Canonici che avevano mostrato un palese disinteresse alla sorte di quella loro antica casa. Nel 1782 l’abbazia di Tremiti fu soppressa. I suoi beni, che comprendevano anche quelli dell’abbazia di Kàlena, furono incamerati dal Regio Demanio. Li amministrò un funzionario di nomina regia [23].
Nel corso dell’Ottocento molti demani, un tempo facenti parte delle pertinenze di Càlena, furono usurpati dalle famiglie più in vista di Peschici. Così come avvenne anche in altri luoghi del Gargano. Posta così potrebbe sembrare un’altra storia.
In realtà non è così. Le denunce cinquecentesche del Mainardi rappresentano solo il punto di partenza di incuria da una parte e sopraffazione dall’altra di Tremiti e di Kàlena, quest’ultima oggetto di attenzione oggi. Le sue condizioni testimoniano che lo sfruttamento e l’abbandono durano da cinque secoli. Un po’ troppi in verità.
NOTE
1 B. COCHORELLA, Descrizione accuratissima delle Isole Tremiti, un tempo Isole Diomedee, a cura di G. Radicchio, edito da Palomar, Bari 1998.
2 A.S.V. (Archivio di Stato di Venezia): T. MAINARDI, Raggioni del monastero di S. Maria di Tremiti cavate da diversi Istromenti, donazioni et altre, 1592, manoscritto inedito.
3 A. PETRUCCI, Codice diplomatico del monastero benedettino di S. Maria di Tremiti (1005-1237), Roma 1960.
4 Segnaliamo che, nel testo curato da Radicchio, l’espressione «Abbatia Calen(en)sis» del Cochorella viene tradotta erroneamente in «Abbazia di Calvi» anziché «Abbazia di Càlena».
5 COCHORELLA, Descrizione cit., p.157.
23 A. PETRUCCI, Codice diplomatico cit.
©2004 Teresa Maria Rauzino.
Saggio tratto dagli Atti del Convegno del Centro Studi Martella: Salviamo Kàlena. Un’agonia di pietra, a cura di Liana Bertoldi Lenoci, Edizioni del Parco, Claudio Grenzi editore, Foggia 2003, pp. 67-81, dal quale sono tratte le due immagini pubblicate in questa pagina.