Testo di Stefania Mola – Ricerca iconografica di Alberto Gentile
Quello formato dalla chiesa di S. Pietro e dal battistero di S. Giovanni (insieme alla chiesa di S. Maria Maggiore) costituisce il secondo polo (dopo il santuario micaelico), legato al culto e alla devozione nella cittadina garganica consacrata all’arcangelo Michele.
La chiesa
Della chiesa di S. Pietro restano oggi in piedi solo la zona absidale e alcune tracce della struttura. Dell’edificio altomedievale, eretto probabilmente nell’VIII secolo, si parla per la prima volta nel testo del Liber de apparitione. In esso si dice che il vescovo di Siponto, tradizionalmente identificato con Lorenzo, fece costruire una chiesa intitolata al beato Pietro, principe degli Apostoli, in cui trovarono posto due altari dedicati rispettivamente alla Vergine e a S. Giovanni Battista.
Nell’area di S. Pietro (ristrutturata nell’XI secolo forse a seguito dei danni riportati nel saccheggio saraceno che interessò il santuario micaelico nell’869) si raccolse, tra la fine dell’XI e gli inizi del XII secolo, un complesso monumentale in cui trovarono posto altri due edifici, il battistero di S. Giovanni in Tumba e la chiesa di S. Maria Maggiore, collegati tra loro da un corridoio. Lo sappiamo dalla Vita di Lorenzo, altro documento della massima importanza per le vicende del santuario micaelico, scritto per la Vita minor agli inizi dell’XI secolo e per la maior entro la fine dello stesso secolo. In quest’ultima redazione emerge la presenza di tre edifici e non più della sola S. Pietro.
Tradizionalmente si è sempre ritenuto che l’area su cui sorgeva il S. Pietro più antico fosse da identificare con quella antistante l’abside oggi ancora visibile. Studi recentissimi basati sulla rilettura delle fonti, sull’analisi orografica dell’area nonché sull’individuazione di particolarità costruttive incongruenti relative al S. Giovanni in Tumba, hanno portato all’ipotesi che l’edificio altomedievale dedicato a S. Pietro, quello ricordato nel Liber de apparitione, potesse sorgere sull’area oggi occupata dal S. Giovanni. In seguito la dedicazione a S. Pietro sarebbe stata trasferita all’edificio costruito ex novo verso ovest; la vecchia chiesa – di dimensioni assai contenute – sarebbe stata dedicata a S. Giovanni Battista, diventando edificio battesimale in funzione del nuovo polo religioso che a sud avrebbe visto la costruzione della chiesa dedicata alla Vergine.
Il battistero
Il battistero di S. Giovanni – conosciuto come Tomba di Rotari a causa della scorretta interpretazione del termine tumba, che compare nell’epigrafe all’interno dell’edificio – fu fondato da un certo Pagano, originario di Parma ma residente a Monte Sant’Angelo, e da un Rodelgrimo, nativo del Gargano, entrambi rintracciati in un documento del 1109 che li identifica come cognati. Addossato in parte alla roccia, ed in parte incastrato nel volume absidale della chiesa a cielo aperto intitolata a S. Pietro, era probabilmente un edificio pertinente a quest’ultima; si tratta di un ambiente cubico absidato ad oriente, con le pareti incorniciate da robuste arcate concentriche a sesto acuto, su cui furono innestate – una sull’altra – una serie di forme geometriche irregolari rastremate verso l’alto: un prisma ottagonale, due cilindri a sezione ellissoidale ed infine una cupola intessuta ad anelli concentrici. Due ordini di finestre e tre cornici ne scandirono i piani ascendenti, fino a conferirgli l’aspetto di una massiccia torre campanaria d’Oltralpe.
Complessivamente le suggestioni culturali relative a questo tipo di edificio si rivelano assai eterogenee, tanto da aver suggerito – di volta in volta – rimandi alla tipologia dei mausolei fatimidi, delle cube siciliane e dei minareti islamici, nonché ricordi dei battisteri pertinenti alle chiese crociate di Terra Santa, delle costruzioni cupolate pugliesi e di esperienze borgognoni ed alverniati. La singolarità d’impianto e di mole suggerirono già al Bertaux di riconoscervi una sorta di torre campanaria edificata alla maniera pugliese ma secondo indicazioni filtrate proprio dalle esperienze borgognone.
Le continue oscillazioni della critica sulla destinazione d’uso del S. Giovanni coinvolgono un aspetto assai complesso che riguarda la tipologia dei battisteri e dei mausolei e le innegabili interrelazioni simboliche tra vita/rinascita e morte. Tipologicamente tra battisteri e mausolei sono sempre esistiti stretti legami, tanto dal punto di vista strutturale quanto da quello simbolico. Uno dei dogmi fondamentali della mistica del battesimo, basilare per il pensiero cristiano, è riferito nella Lettera di San Paolo ai Romani (6, 3-4), da cui si evince che il battesimo come rituale, oltre a comportare la cancellazione del peccato, porti insita l’idea di sepoltura e morte. Un’equazione mistica sembra realizzarsi tra battesimo, morte e risurrezione, intendendo per morte la morte del vecchio Adamo e una imitazione simbolica della morte di Cristo. Lo schema ottagonale, simbolo di risurrezione e rigenerazione, è l’elemento che lega il mausoleo dal punto di vista tipologico al battistero come luogo simbolico di risurrezione. La stessa motivazione fa degli edifici dedicati al Battista edifici ottagonali, a prescindere dalla presenza o meno di fonti battesimali. Non di rado questi sono edificati in aree cimiteriali, rafforzando l’equazione mistica che associa battesimo, morte e risurrezione. Si vedano, a questo proposito, le considerazioni di R. Krautheimer contenute in Introduction to «an iconography of mediaeval architecture», in Warburg Journal (1942) + Postkript (1969) + Postkript (1987), in Ausgewählte Aufsätze zur europäischen Kunstgeschichte (1988), il tutto tradotto in francese con il titolo Introduction à une iconographie de l’architecture médiévale, Paris 1993.
Un programma iconografico assai ricco ed articolato si dispiega sul portale, sui capitelli, sulle cornici, coinvolgendo angeli, scene dell’Antico e del Nuovo Testamento, nonché misteriosi personaggi con ruolo e presenza “esemplari” (e tuttavia non sempre espliciti), probabili allegorie dei Vizi e delle Virtù.
Il portale
L’ingresso al battistero avviene attraverso una piccola porta aperta a sinistra dell’abside di S. Pietro, di semplice forma architravata, ricavata nello spessore della muratura e sormontata da due blocchi scolpiti di materiale diverso sistemati in funzione di lunetta e di architrave.
Sul listello piatto che li divide appare un’iscrizione mutila, genericamente ripresa dalla Bibbia, e interpretata come allusione alla redenzione insita nel battesimo:
q petis h (sempre letto da tutta la critica come quod petis habebis, “ciò che chiedi avrai”)
La lastra superiore, in pietra calcarea, presenta due episodi della passione di Cristo (foto sopra): la deposizione dalla croce e la risurrezione (quest’ultima attraverso la doppia iconografia delle Marie al sepolcro e del Cristo risorto accanto alla tomba).
Al primo impatto la scena appare priva di qualsiasi rapporto armonico di simmetria ed equilibrio compositivo; gli episodi si susseguono senza cesure, al ritmo ondeggiante di una danza – nella quale è coinvolto anche il precario equilibrio della croce – evocando un sentore “primordiale” che rende le figure senza sguardo e senz’anima. Per quest’aria vagamente arcaica più volte sono state indicate le assonanze con le sculture rinvenute in S. Pietro ed ora nel museo del Santuario (un’Orante e una Madonna con Bambino acefala), ricollegando tutte queste espressioni plastiche al medesimo giro di cultura e di maestranze.
Dal punto di vista iconografico, la scena dominata da Cristo in croce fa riferimento ad un preciso momento nel contesto della deposizione, cioè la schiodatura di Gesù da parte di Nicodemo, momento su cui nessuno dei quattro vangeli “ufficiali” indulge in particolari superflui, nominando solo Giuseppe d’Arimatea ed identificandolo con colui che, richiesta l’autorizzazione a Pilato, portò via il corpo di Cristo per seppellirlo. Allo stesso modo, nessuno dei quattro testi specifica l’identità degli spettatori della scena, mentre solo nel vangelo apocrifo di Nicodemo si ricorda della presenza della Madonna. La tipologia della Deposizione fu fissata per la prima volta dall’arte bizantina, cui si ricollegò gran parte della produzione di età romanica. I protagonisti, riconoscibili anche nella rappresentazione di S. Giovanni in Tumba, sono Giuseppe d’Arimatea (colto nell’atto di sorreggere il corpo che di lì a poco verrà staccato dalla croce), Nicodemo (che con l’aiuto di una grossa pinza si appresta ad estrarre il chiodo dal palmo destro del Cristo), il discepolo prediletto Giovanni e la Madonna, che nella rappresentazione della Tumba appare relegata all’estremo margine sinistro. Sulla destra di questa scena possono essere agevolmente identificati il servo con l’aceto ed il centurione.
La scena riprodotta sulla parte destra della lastra (foto sopra) appare ancora più interessante: vi sono giustapposti Giuseppe d’Arimatea mentre conduce Gesù al sepolcro, un angelo recante nella mano sinistra una croce, rivolto verso le pie donne che avanzano reggendo ognuna un vasetto; sul registro di fondo vi è il sepolcro, affiancato da due colonne e sormontato da tre lampade in sospensione, accanto al quale appare il Cristo trionfante che lo indica con un ampio gesto del braccio destro. Qui il messaggio, evocato dalle pie donne in visita al sepolcro (la classica iconografia della Risurrezione), si avvale anche dell’inconsueta – ma ben evidente – presenza di Gesù stesso, concepito come scena autonoma e complementare al tema di fondo. Quasi una novità, se pensiamo che in Occidente, fino al sec. XI, la Risurrezione è stata rappresentata solo indirettamente, attraverso l’arrivo delle Pie Donne al sepolcro vuoto, in tutto e per tutto fedele alla lettura evangelica; solo più tardi – tra Due e Trecento – la figura del Cristo risorto rimanderà direttamente ad essa, secondo un’evoluzione ritenuta frutto di una contaminazione iconografica con scene analoghe (risurrezione di Lazzaro, risurrezione dei morti nel Giudizio Universale) che, pur essendo prefigurazioni del destino di Cristo, forniscono l’immagine al Cristo stesso.
L’accentuata mimica gestuale dei personaggi, più volte sottolineata, trova qui una convincente giustificazione: la rappresentazione di Cristo stesso nella scena della Risurrezione, tipica del Romanico maturo, potrebbe avere un preciso punto di riferimento nelle sacre rappresentazioni del tempo. Ai topoi del dramma liturgico si rifanno con evidenza anche le caratteristiche stesse del sepolcro, che appare fiancheggiato da due colonne e poteva essere in origine sistemato sotto un baldacchino – che ne simboleggia la santità – come nella finzione scenica.
Diversamente dalla precedente, la lastra utilizzata in funzione di architrave è in marmo, come si evince anche dall’evidenza cromatica. Vi sono rappresentate sette figure di dimensioni tozze, condizionate dall’altezza limitata a disposizione dello scultore, avvolte in pesanti vestimenti solcati da pieghe cordonate. Al centro vi è Gesù, riconoscibile dal nimbo crociato, in posizione frontale, verosimilmente di statura maggiore resa attraverso l’artificio delle gambe divaricate che suggeriscono quasi un atteggiamento assiso “in maestà”; ai lati tre figure per parte, due delle quali – armate di bastoni – lo afferrano per la spalla e per il polso; sulla sinistra le altre due si muovono incedendo verso il centro (una di esse recando un libro) e una sulla destra reca la croce, l’ultima i chiodi destinati alla crocifissione.
Dal punto di vista iconografico la scena viene tradizionalmente identificata con la cattura di Gesù nell’orto degli ulivi; di recente, però, è stata avanzata l’ipotesi che esista un doppio livello di lettura, nel quale si sovrappongono le allusioni alla doppia natura di Cristo, umana e divina, attraverso una serie di raffronti con la coeva liturgia eucaristica.
Le tematiche della lunetta, dell’architrave e dei capitelli dell’interno svilupperebbero infatti una sorta di messaggio salvifico più adatto ad un mausoleo che ad un battistero, come si è voluto sottolineare confrontando certe caratteristiche del S. Giovanni in Tumba con quelle di alcune torri sepolcrali della Persia settentrionale. L’ipotesi di una ricostruzione e/o trasformazione in chiesa o battistero della primitiva fabbrica – avente una presumibile destinazione funeraria – sarebbe d’altro canto confortata da alcune evidenti incongruenze strutturali, quali l’incoerenza con il resto dell’edificio – nei modi costruttivi – della nicchia absidale.
I capitelli istoriati e le sculture erratiche
Un’insolita fascia continua istoriata caratterizza l’interno della Tumba, in controtendenza rispetto alla consuetudine pugliese di privilegiare un’ornamentazione di tipo vegetale e comunque aniconico, soprattutto quando si tratti di capitelli.
Sono storie bibliche legate dalla comune presenza angelica (angeli nelle vesti di messaggeri e portatori delle volontà divine), come il sacrificio di Isacco (foto sopra) o l’annuncio ai pastori, tutte caratterizzate da un ritmo aspro ed angoloso e da una sorta di moto danzante, che la critica riconosce come tipico dell’esperienza delle forme plastiche aquitaniche (sud-ovest della Francia). In ogni caso è palpabile la partecipazione a nuovi orizzonti mentali, anche per la recuperata attitudine a proporre la scultura come strumento di racconto. Un racconto che sembra esprimersi compiutamente nelle scene della storia di Abramo, fissata nei due episodi fondamentali della filoxenia (Abramo saluta ed ospita i tre angeli, circostanza nella quale viene annunciata la futura nascita di Isacco) e del sacrificio di Isacco, perfetta prefigurazione della vicenda di Cristo secondo i nessi tipologici tanto cari al Medioevo.
Della parabola di salvezza e della vicenda terrena di Gesù, all’interno della quale Incarnazione e Crocifissione costituiscono i due pilastri, fa parte anche la scena riconoscibile nel capitello della parete sud-est, sulla quale si osservano una figura di profilo che muove verso sinistra con un cane al guinzaglio, levando una mano verso l’alto, seguita da una seconda figura che muove nella stessa direzione stringendo in una mano un bastone poggiato sul terreno. Entrambe le figure hanno lunghe capigliature, indossano ampie vesti pieghettate. Di prospetto appare un angelo riccamente abbigliato, recante nella sinistra una croce astile e benedicente con la destra. Completa la scena un gruppo di animali disposti su piani sovrapposti: un cane e alcune pecore.
È chiara la raffigurazione dell’episodio dell’annuncio ai pastori, confortato dalla presenza sulla cornice dell’iscrizione annu(ntio) vobis gaudium magnum, secondo una formula che già compare in una formella della porta bronzea del santuario micaelico.
Gli annunci ai pastori di età romanica molto spesso si rifanno ad antichi modelli di origine bizantina, come nel caso della Tumba che – fedele agli originali greci – riprende il numero di due pastori (e non tre, come in altri casi), di cui uno giovane e l’altro più anziano ad indicare – simbolicamente – che è l’umanità intera ad accogliere la buona novella. Interessante appare, nel modo di rappresentare gli animali per piani sovrapposti (quasi fossero oggetti inanimati), il riflesso di quella “paralisi” della natura che, secondo alcuni testi apocrifi, accompagnò il momento della nascita di Gesù.
Nella tematica angelica e negli stringenti legami stilistici con la Francia è ravvisabile, in linea generale, l’intima connessione con le ragioni del pellegrinaggio che collegarono, sin dalle origini, i Normanni in veste di pellegrini e la montagna sacra garganica. A questo proposito è significativo che – secondo una tradizione – la dominazione normanna in Italia meridionale abbia preso le mosse da un pellegrinaggio al santuario di Monte S. Angelo; un episodio che, tramandatoci da Guglielmo Appulo, avrebbe fornito ai Normanni la legittimazione sufficiente ad inserirsi, di lì a pochi anni, nel conflitto tra Oriente e Occidente, impadronendosi del Sud nel ruolo di difensori della Chiesa.
Nel percorso di salvazione non mancano gli ostacoli e i pericoli, ravvisati in alcune emblematiche raffigurazioni identificate, per le loro connotazioni negative, come vizi capitali.
Così accade per l’adiacente capitello occupato da una figura femminile ignuda, deforme, con gli occhi atterriti e lunga chioma sulle spalle; legata ad un nastro pende dal suo collo una borsa traboccante di monete. Quattro grossi serpenti la fiancheggiano, due all’altezza delle orecchie e due che le addentano le gambe; altre due creature mostruose si avviluppano ai serpenti, mordendole le braccia. Stilisticamente erede di una cultura più padana che francese, la si è voluta identificare con l’allegoria dell’Avarizia, anche se la sua presenza isolata in un contesto così lacunoso non permette di assegnarle coerentemente un ruolo preciso.
Cronologicamente più tarde rispetto alle figurazioni cristologiche presenti sui capitelli appaiono quelle presenti in corrispondenza della seconda cornice della cupola, a circa 16 metri di altezza dal suolo. Si tratta di tre rilievi ad essa sovrammessi raffiguranti altrettante figure muliebri accomunate – dal punto di vista iconografico – da una sorta di caratterizzazione “demoniaca”.
Da sinistra a destra:
– una figura femminile in posizione eretta, avvolta in un ampio panneggio, con capelli lunghi fino alle spalle, sorregge all’altezza del petto un bambino disteso. Tra le tante interpretazioni, quella più suggestiva la identifica con la donna dell’Apocalisse, la donna «vestita di sole e di luna» che secondo la tradizione si trova a fronteggiare il drago a sette teste e dieci corna pronto a divorare il suo bambino appena nato. L’ipotesi non è da scartare a priori, sia per il collegamento con la presenza dell’arcangelo Michele (che nel testo apocalittico affronta il drago salvando la donna), sia per il suo valore simbolico (grazie al quale costituirebbe una sorta di pendant con la Natività di Cristo annunciata ai pastori su uno dei capitelli del piano terra) all’interno delle tematiche della caduta e del riscatto, fili conduttori di tutte le raffigurazioni della Tumba. Inoltre, il combattimento di san Michele con il dragone cela simbolicamente l’immagine del Battesimo e della rigenerazione;
– una figura femminile con lunghi capelli, in posizione sdraiata, alle prese con un serpente avviluppato a lei, raffigurato con la bocca spalancata nell’atto di addentarla al petto. Gli studiosi concordano nell’identificarla con l’allegoria della Lussuria, vizio capitale tematicamente ed iconograficamente affine all’Avarizia rappresentata su uno dei capitelli del piano terra.
– un rilievo parzialmente lacunoso con una figura femminile dalle lunghe chiome scarmigliate, in posizione distesa come avvolta nel torpore del sonno, addentata agli arti da una figura mostruosa. Per queste caratteristiche, nel tentativo di accomunarla a tematiche già presenti nella Tumba e più esplicite, alcuni studiosi l’hanno identificata con l’allegoria dell’Accidia.
DA LEGGERE:
Liber de apparitione sancti Michaelis in Monte Gargano, MGH, Scriptores rerum Langobardicarum et Italicarum saec. VI-IX, Hannoverae 1878.
Per la chiesa di S. Pietro:
M. Rotili, La diocesi di Benevento, in Corpus della scultura altomedievale, V, Spoleto 1966, pp. 103-106;
L. Lotti, Problemi storici e artistici relativi al complesso monumentale di S. Pietro, della Tomba di Rotari e di S. Maria Maggiore in Monte Sant’Angelo, Bari 1978 (con bibl. precedente);
M. Salvatore, Le sculture del museo del santuario, in Il Santuario di S. Michele sul Gargano cit., pp. 431-502;
G. Otranto, Il “Liber de Apparitione” e il culto di S. Michele sul Gargano nella documentazione liturgica altomedievale, in «Vetera Christianorum», 18 (1981), pp. 423-442;
Id., Il “liber de Apparitione”, il Santuario di S. Michele sul Gargano e i Longobardi del Ducato di Benevento, in Santuari e politica nel mondo antico, a cura di M. Sordi, Milano 1983, pp. 210-245;
B. Apollonj Ghetti, La cosiddetta Tomba di Rotari sul Gargano ed i suoi rapporti con le chiese di S. Pietro e S. Maria Maggiore, in Storia e Arte nella Daunia medievale, Atti della I Settimana sui Beni Storico-Artistici della Chiesa in Italia. Area culturale della Capitanata (Foggia 26-31 ott. 1981), a cura di G. Fallani, Foggia 1985, pp. 161-177;
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A. Campione, Storia e santità nelle due Vitae di Lorenzo vescovo di Siponto, in «Vetera Christianorum», 29 (1992), pp. 169-213;
G. Bertelli Buquicchio, voce Monte Sant’Angelo, in Enciclopedia dell’Arte Medievale, vol. VIII, 1997, pp. 532-533;
M. Trotta – A. Renzulli, I luoghi del Liber de apparitione di S. Michele al Gargano: l’ecclesia beati Petri, in Vetera Christianorum, 35 (1998), pp. 335-359;
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G. Bertelli, L’area di S. Pietro, in Fragmenta. Il Museo Lapidario del Santuario micaelico del Gargano, a cura di S. Mola e G. Bertelli, Grenzi, Foggia 2001, pp. 43-57.
Per S. Giovanni in Tumba:
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E. Bernich, Il battistero di Montesantangelo (Ad Emilio Bertaux), in Napoli Nobilissima, XV (1906), pp. 86-87;
G. Tancredi, La Tomba di Rotari, Manfredonia 1941;
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C. Angelillis, La Tomba di Rotari, Foggia 1969;
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L. Lotti, Problemi storici e artistici relativi al complesso monumentale di S. Pietro, della Tomba di Rotari e di S. Maria Maggiore in Monte Sant’Angelo, Bari 1978 (con bibl. precedente);
B. Apollonj Ghetti, La cosiddetta Tomba di Rotari sul Gargano ed i suoi rapporti con le chiese di S. Pietro e S. Maria Maggiore, in Storia e Arte nella Daunia medievale, Atti della I Settimana sui Beni Storico-Artistici della Chiesa in Italia. Area culturale della Capitanata (Foggia 26-31 ott. 1981), a cura di G. Fallani, Foggia 1985, pp. 161-177;
P. Belli D’Elia, La Puglia [Italia romanica, 8], Milano 1987;
M.S. Calò Mariani, L’arte medievale e il Gargano, in La Montagna Sacra. San Michele, Monte Sant’Angelo. Il Gargano, a cura di G.B. Bronzini, Galatina 1991, pp. 9-96;
S. Mola, Monte Sant’Angelo. Il battistero di San Giovanni in Tumba, in L’Angelo la Montagna il Pellegrino. Monte Sant’Angelo e il santuario di San Michele del Gargano, catalogo della mostra documentaria a cura di P. Belli D’Elia, Grenzi, Foggia 1999, pp. 92-105;
S. Mola, Monte Sant’Angelo, in In cacumine beati Archangeli, Atti del Convegno Internazionale di Studi (Foggia-Manfredonia-Monte Sant’Angelo 11-13 novembre 1999), a cura di C.D. Fonseca (relazione in corso di pubblicazione);
A. Trivellone, L’iconographie de deux bas-reliefs de Saint-Jean-in-Tumba à Monte Sant’Angelo (Pouilles). Narration de la Passion et liturgie de l’Eucharistie, in «Cahiers de civilisation médiévale», 45 (2002), p. 141-164;
S. Mola, L’iconografia della salvezza sulle strade dei pellegrini, in Tra Roma e Gerusalemme nel Medioevo, Atti del Convegno Internazionale di Studi (Salerno-Cava dei Tirreni-Ravello 25-29 ottobre 2000), a cura di M. Oldoni, Laveglia Editore, Salerno 2003, pp. 389-408 (in corso di stampa).
Testo di Stefania Mola – Ricerca iconografica di Alberto Gentile
Stefania Mola
Nata a Napoli, si è laureata in Lettere Moderne a Bari e successivamente specializzata in Storia dell’Arte Medievale presso la Scuola di Storia dell’Arte e delle Arti Minori dell’Università «Federico II» di Napoli.
Attualmente è caporedattore della Mario Adda Editore di Bari. In precedenza ha collaborato per diversi anni con la Soprintendenza ai Beni AAAS della Puglia, con quella ai Beni AS della Basilicata, con l’Università di Bari, nonché con enti pubblici e privati operanti nel settore dei beni culturali.