Mimmo Aliota, testimone del Novecento, dedica un altro volume di microstoria alla sua Vieste
Mimmo Aliota ha dedicato a Vieste ben dieci libri che delineano uno spaccato significativo della vita della sua città, dal primo Novecento ad oggi. L’ultimo, fresco di stampa, è Strapaese. Il titolo rispecchia una deliberata scelta dell’autore: uno stile diretto, senza retorica e cerebralismi, accessibile a tutti i lettori. Aliota vuole consegnare, soprattutto alla gente comune, un’immagine strapaesana che, altrimenti, morirebbe con la generazione degli ottantenni che hanno vissuto in prima persona il secondo millennio, e che sono gli ultimi portatori delle microstorie viestane.
Microstorie rivissute con lo sguardo disincantato e ironico di chi conosce ormai tutto della vita cittadina, e ne disvela gli aspetti ancora inediti.
Protagonista è il popolo, inteso nella sua accezione classica, che assurge a un ruolo che non gli era stato assegnato dalla storiografia settecentesca. Vincenzo Giuliani, nelle sue Memorie storiche di Vieste, aveva proposto l’historie evenementielle della cittadina garganica. C’era, in essa, un grande eterno assente: il popolo. Non faceva storia, non era nessuno.
Quel mitico testo di Giuliani, conosciuto soltanto da pochi eletti, era diventato quasi introvabile a Vieste; pochi esemplari custoditi gelosamente, finché, grazie al gentile prestito di una copia originale, fu ripubblicato prima dal Faro di Vieste, poi dall’Arci e dal Centro Studi Cimaglia, un’associazione culturale che si è sempre identificata con il nome del suo fondatore, Mimmo Aliota, appunto.
Con la divulgazione del libro di Giuliani – precisa Aliota – cominciò la sua demolizione. Molte notizie furono corrette da chi cominciò a fare i dovuti riscontri, frequentando gli archivi dov’erano custoditi e documenti originali. Fu possibile ricostruire la vera storia del paese, almeno a partire dall’Ottocento. Una nuova storia, sull’esempio della scuola delle «Annales», che ha visto come protagoniste le classi subalterne e non più quelle dominanti.
Un popolo, quello viestano, schietto e solidale, nonostante una forte povertà lo abbia fortemente attanagliato fino al Ventennio fascista: solo nel secondo dopoguerra e negli anni Settanta, con l’avvento e l’espansione del turismo, le cose cominciarono lentamente a cambiare.
Aliota raccoglie dalla viva voce dei portatori, testimoni delle memorie patrie, alcuni episodi di solidarietà che videro protagonista Vieste nei tragici giorni dell’armistizio del 1943.
In quei tragici giorni, al porticciolo della sperduta città garganica approdò una piccola nave stracolma di soldati italiani in rotta dalla Jugoslavia occupata dalle truppe tedesche … Erano soldati braccati anche dai partigiani di Tito, ostili agli italiani; avevano bisogno di cibo, di vestiario, di aiuto, di mezzi di trasporto che li conducessero in salvo verso i luoghi di origine.
La popolazione viestana, incurante della presenza di una guarnigione tedesca che stazionava nei dintorni della città, fece il possibile per rifocillarli, rivestirli di abiti civili. I marinai approntarono i loro pescherecci per portarli lontano, ma un aeroplano di nazionalità non identificata mitragliò le barche appena salpate dal porticciolo e giunte all’altezza della Ripa, subito dopo la punta di San Francesco. Fu uno strazio vedere i profughi e i marinai buttarsi a mare per schivare le mitragliate.
Tutte le barche restanti, incuranti del pericolo, corsero a soccorrere i naufraghi, e varie famiglie viestane rifocillarono per la seconda volta i naufraghi recuperati in mare.
Passarono gli anni: 37 per l’esattezza. Vieste fu insignita nel 1980 della Medaglia d’oro per benemerenza patriottica dall’Associazione nazionale Reduci che aveva avuto notizia di questo atto solidale.
Mimmo Aliota, nel suo libro, ci racconta storie di altri naufragi, sepolti da tempo nel dimenticatoio della memoria collettiva. Affioranti solo grazie a qualche toponimo o nei gesti dei vecchi marinai che, al timone dei barconi turistici, giunti nei pressi di quei luoghi, senza dare nell’occhio, si cavano ancora il berretto in segno di rispetto, e di nascosto, si fanno rapidamente il segno della croce.
Un tempo, i marinai che transitavano sui piccoli velieri in rotta verso Vignanotica, presso Cala dei Mongoli, calavano sempre una scialuppa in mare. Un uomo si arrampicava su uno scoglio. Vi lasciava un fanale acceso, un’immagine sacra o dei fiori di campo. Il perché di questo gesto e la relativa storia è stata raccontata ad Aliota da Sante Trimigno e Rollo Croce: quattro pescatori, salvatosi da un naufragio, erano riusciti a raggiungere un piccolo riparo scavato nella roccia lungo la costa. Morirono assiderati dopo venti giorni di tempesta.
Tanti soccorritori si erano prodigati per raggiungerli e rifocillarli ma non erano riusciti nel loro intento: il luogo era inaccessibile per via di terra. Nessuno, in seguito, rimosse i resti mortali degli sfortunati naufraghi, che rimasero su quello scoglio, dispersi soltanto dal sole, dal vento e dalle pioggia. Oggi riposano ancora in quel mare, e in quegli anfratti del costone di tufo bianco tanto simile alle scogliere di Dover.
Un’altra storia, fra le tante raccontate da Aliota, ci resta impressa nella mente. Correva sempre l’anno 1943. Il 17 settembre Vieste fu invasa da soldati italiani sbandati. I tedeschi cercarono di allontanarsi rapidamente su una camionetta. Dal terrazzo di una casa fu lanciata una bomba a mano. Un tedesco fu ucciso, altri furono feriti. La camionetta proseguì la sua corsa.
Il giorno dopo, i tedeschi ritornarono in forze per effettuare la rappresaglia sulla popolazione civile; sull’autoblindo portavano un cannone di piccolo calibro.
Ma i soldati italiani si erano già dileguati nella notte. I militari del castello issarono sul pennone una bandiera bianca in segno di resa, la popolazione cercò scampo nelle campagne, trovando ospitalità presso casini, torri e pagliai.
Il colonnello austriaco a capo delle truppe tedesche, dopo aver fatto mettere al muro un gruppo di viestani rimasti in paese, a un certo punto ci ripensò. Rinunciò inaspettatamente a farli fucilare. E cosa fece? Andò a sedersi nel salone del barbiere, che lo rase e lo incipriò. Visibilmente soddisfatto, il colonnello estrasse dalla tasca della sahariana una croce di ferro: era una decorazione guadagnata nell’Africa Korp di Rommel. Se l’appuntò con orgoglio sul petto, mostrandola ai viestani esterrefatti, che si lasciarono sfuggire un grido di ammirazione…
Negli altri “quadri” strapaesani schizzati da Aliota, i Viestani diventano protagonisti di storie dal vago sapore pirandelliano. Come quella del titolare dell’unica armeria della città, il quale, dopo aver atteso per anni l’agognata pensione (la paga), il giorno fatidico non riesce a reggere l’emozione di cotanta grazia… Alla vista dei bigliettoni, contati uno a uno dal direttore dell’Ufficio postale, il suo cuore lo tradisce…
Storie particolari, e nello stesso tempo profondamente universali, quelle di Aliota, che restano impresse nella mente del lettore. Come quella di un pescatore, che paga lo scotto dell’invidia per una buona e inattesa pescata, il cui festeggiamento si trasforma quasi in una tragedia.
Rapidi colpi di scena si alternano nei racconti, mai banali, mai scontati. Come la ruota della vita…
M. ALIOTA, Strapaese. Le nostre storie, Leone Editrice, Foggia 2006.
©2006 Teresa Maria Rauzino.