Il 25 febbraio 1799, 240 sanfedisti di San Severo, dopo aver divelto l’albero della libertà, furono massacrati dai francesi del generale Duhesme inviato da Bonaparte.
Era legittimo mettere a ferro e fuoco la città di San Severo? Chi dispose l’eccidio del 25 febbraio 1799? Due interrogativi su una pagina oscura della storia di San Severo, che sono stati anche i due capi di imputazione a carico di Napoleone Bonaparte nel processo sui “fatti e misfatti” compiuti dalle truppe francesi inviate a San Severo per reprimere i moti filoborbonici che si è celebrato il 9 marzo 2006 presso l’Istituto tecnico “Minuziano” di San Severo.
L’evento è stato organizzato dal «Centro di Ricerca e di documentazione per la Storia della Capitanata», con la collaborazione dell’associazione «Beatrice di Tenda» di Binasco (Mi) e vari patrocini istituzionali.
La rievocazione storica, introdotta dal professor Giuseppe Clemente e da Luigi Minischetti (con letture di pagine di Fraccacreta, La Cecilia, Duhesme, D’Ambrosio e Irmici) è avvenuta grazie alla disponibilità di giudici e avvocati “veri”, in servizio in vari tribunali italiani (presidente del tribunale: Teodoro Rizzi; componenti del Collegio giudicante: Lucia Navazio e Ludovico Vaccaro; difesa: Guido De Rossi. La Parte Civile si è costituita nella persona del dr. Francesco Gatti, in rappresentanza delle persone danneggiate).
L’interesse del pubblico, che è accorso in massa per seguire l’evento, è stato enorme, grazie alla presenza di due magistrati di fama nazionale: il personaggio di Napoleone è stato infatti “interpretato” da Giuliano Turone; il pubblico ministero da Gherardo Colombo. Un PM perfettamente nella parte che ha interrogato prima il teste, lo storico Matteo Fraccacreta, interpretato da Pasquale Corsi, e poi l’imputato, difeso dall’avv. De Rossi.
Interessante l’intervento finale del prof. Clemente, che si è fatto portavoce del “pentimento” del generale Duhesme. Perché sono stati scomodati tanti giudici per un “processo” al grande condottiero corso? Per ricordare la cronaca di un eccidio ormai dimenticato.
Un processo che non ha voluto mettere sotto accusa un periodo storico, ha precisato Colombo, ma un episodio specifico, che lascia questo interrogativo: gli ideali di libertà, uguaglianza e fraternità possono trasformarsi in pretesti per vere e proprie stragi?
La Corte ha emesso una sentenza con la quale ha dichiarato «Bonaparte Napoleone responsabile dei reati commessi in San Severo in data 25/02/1799 in concorso con il generale Duhesme e le truppe da questi comandate».
I giudici hanno ritenuto «di non poter irrogare una pena nei confronti dell’imputato ormai defunto», ma hanno auspicato, a titolo di risarcimento delle sofferenze patite dalla comunità di San Severo, che «resti imperituro il ricordo del sacrificio di tante vite umane e dei tanti abusi perpetrati» chiedendo, di conseguenza, che l’Amministrazione Comunale si faccia portatrice di opportune iniziative in tal senso.
Molto soddisfatto della riuscita dell’iniziativa il presidente del Centro di Ricerca, il prof. Giuseppe Clemente, che ha dichiarato: «Ci eravamo prefissati di riproporre la storia in modo originale ed accattivante, di rileggere i fatti di allora e di dare orizzonti più ampi ad un momento tra i più cruenti della nostra vicenda cittadina. Pensiamo di aver centrato pienamente gli obiettivi che ci eravamo dati, anche perché puntavamo a favorire la riflessione e l’approfondimento restando scevri da qualsivoglia forma di revisionismo».
Nel corso della manifestazione lo stesso Clemente, nei panni del generale Duhesme, ha proposto che il Governo francese, interessato dalla Città di San Severo attraverso i canali diplomatici, voglia erigere nel centro cittadino un cippo commemorativo contro ogni tipo di violenza e a severo monito per tutti i popoli per continuare a vivere in pace e nel rispetto reciproco delle identità e delle differenze.
Alcuni momenti del Processo a Napoleone svoltosi a San Severo con Collegio giudicante, Gherardo Colombo, Giuliano Turone, Giuseppe Clemente.
FEBBRAIO 1799. CRONACA DI UNA STRAGE
Le vicende di San Severo del febbraio 1799 costituiscono una delle pagine più tragiche della storia della città. Intorno a questi fatti molto è stato scritto, a cominciare dal resoconto dell’erudito Matteo Fraccacreta, che ne fu testimone e principale cronista. Il professor Giuseppe Clemente ha portato recentemente questo evento all’attenzione dell’opinione pubblica nazionale, ripubblicando il saggio Febbraio 1799. Giacobini, sanfedisti e francesi a San Severo. Cronaca di una strage (Esseditrice, San Severo 2005). Il volume, basato sullo spoglio di fonti archivistiche come i registri dei morti delle parrocchie cittadine e gli atti notarili, si apre con una dettagliata descrizione degli eventi di quel periodo. La vicenda sanseverese viene snodata in tutte le sue connessioni e interferenze, senza trascurare le premesse più o meno lontane: dalla mancata modernizzazione del Regno di Napoli agli arruolamenti borbonici per la guerra contro i Francesi.
Napoleone, impegnato fin dal 1796 nella prima campagna d’Italia, vince ovunque: esige versamenti in denaro e opere d’arte. Nel mese di gennaio 1799 è alle porte di Napoli, dove nasce la Repubblica Partenopea. Le notizie sulla Rivoluzione Francese avevano provocato in Italia contrastanti reazioni: da un lato la borghesia si attendeva il rinnovamento sociale a lungo auspicato, dall’altro l’esasperato anticlericalismo e il Terrore innescarono spiccati sentimenti antifrancesi.
Anche in Puglia si erano creati gruppi di patrioti filo-giacobini, contrastati dai lealisti borbonici.
Possiamo inquadrare i fatti di San Severo intorno a tre date emblematiche:
– 8 febbraio: i giacobini innalzarono in piazza della Trinità l’albero della libertà, emblema del nuovo governo repubblicano;
– 10 febbraio: l’albero venne abbattuto dal popolo, che si scatenò in una sanguinosa repressione di coloro che erano sospettati o esplicitamente accusati di simpatie giacobine.
– 25 febbraio: il cerchio si chiuse con l’arrivo delle truppe francesi agli ordini del generale Duhesme. La resistenza degli insorti venne piegata dopo violenti scontri nelle campagne, cui seguirono violenze e saccheggi in città, e condanne a morte per chi si era maggiormente compromesso, che inasprirono gli animi e generarono sentimenti di odio e propositi di vendetta nei superstiti e nei parenti delle vittime.
Eppure il generale Championnet, inviato da Napoleone nel regno di Napoli, nelle “Istruzioni ai patrioti” aveva caldamente raccomandato «di rendere la rivoluzione amabile, per farla amare e renderla utile al popolo», sopprimendo titoli nobiliari, fedecommessi, e maggioraschi, primo passo verso l’abolizione della feudalità. Ordinando di piantare in ogni comune l’albero della libertà, e di munirsi di coccarde di tre colori della bandiera cisalpina (giallo-rosso-turchino), aveva raccomandato che i membri delle nuove municipalità fossero scelti tra «cittadini onesti e virtuosi».
Come sempre accade nei cruciali momenti di “svolta” politica, anche a San Severo ci furono repentini cambiamenti di fronte: i fedeli sudditi borbonici si trasformarono in ferventi giacobini, pronti a ritornare sotto le bianche bandiere gigliate appena la situazione lo avesse richiesto. Trionfò il cameolontismo. Ecco perché la massa popolare lottò contro il nuovo governo filofrancese, con l’aggravante di essere strumentalizzata dai maggiorenti rimasti fuori dai giochi di potere.
Questi diffusero tra il popolo già in fermento la voce che la successiva domenica, durante il terzo giorno dei festeggiamenti repubblicani, sotto l’albero della libertà ci sarebbero state «danze sfrenate, abbracciamenti e nozze» e che «a’ repubblicani connubi auspice sarebbe stata la statua della Santa Vergine».
Domenica 10 febbraio 1799, perciò, quando i repubblicani prelevarono il simulacro della Madonna del Soccorso, patrona di San Severo, per portarla accanto al «gran cipresso coronato di alloro, con sulla cima il pileo rosso», la popolana Antonia de Nisi, detta la «scazzosa», insieme ad altri sanfedisti, gridò: «Perché, perché la Vergine co’ giacobini sotto l’albero? All’armi, all’armi!». Si scatenò una sanguinosa rivolta contro i giacobini. Questi furono decapitati con le stesse accette con cui fu tagliato l’albero della libertà, e le loro teste seppellite nel fosso del divelto albero, dopo essere state coperte di sputi.
Il vescovo Giovanni Gaetano del Muscio, che aveva ordinato ai parroci di predicare la pace nelle piazze, promettendo indulgenze ai penitenti, corse il rischio di essere linciato dalla folla insieme al frate francescano Michelangelo Manicone (illuminista di Vico del Gargano, autore de La Fisica Appula), che in quei giorni stava visitando San Severo ed aveva partecipato alla piantumazione dell’albero della libertà.
La rivolta antifrancese si diffuse in molti paesi della Capitanata, da dove partirono gruppi di filoborbonici per dar man forte ai sanseveresi. Su San Severo, che non volle patteggiare la resa, si abbattè il 25 febbraio 1799 la tremenda vendetta dei francesi. La città fu messa a sacco. Ci fu una vera e propria strage d’inermi, di donne, di fanciulli.
Il generale Duhesme il 7 marzo scrisse il seguente rapporto al suo superiore Mac Donald: «Dopo le manovre valorosamente eseguite dalle nostre truppe è stata chiusa la ritirata ai ribelli. Il resto della giornata non è stata che un massacro. (…) Avevo giurato di far incendiare San Severo, ma fui commosso dalla sorte lacrimevole di una popolazione di ventimila anime. Feci cessare il sacco e perdonai».
Il Colletta parlò di tremila morti. La verifica effettuata dal professor Clemente sui registri delle varie parrocchie della città ha ridimensionato questo numero. In realtà, i morti registrati furono 240 fra i residenti a San Severo, 100 dei paesi vicini e 100 soldati francesi. In totale si contarono quindi 450 vittime. La maggior parte aveva meno di quarant’anni.
Furono complessivamente 11 le donne vittime della strage, alcune mentre aiutavano i loro uomini impegnati negli scontri, altre massacrate in fuga o mentre cercavano scampo nelle chiese. Angela Giuliani fu uccisa insieme alla figlioletta Antonia Moscatelli, di appena un anno, mentre la stava allattando. Il 17 marzo venne fucilata Antonia de Nisi. Prima della pubblica esecuzione fu trascinata, con un laccio al collo legato alla coda di un cavallo, per le strade di San Severo.
L’arciprete Masciocchi, nell’annotare il nome della De Nisi sul registro dei morti della Cattedrale, scrisse: «Sacra poenitentia munita, a Gallis, praecedente decreto condemnationis, pluribus ictibus ignearum balistarum vulnerata, mortem obiit, prope ianuam majorem Monasterium Patrum Coelestinorum, praecedente, dico, decreto condemnationis, ob crimen sibi imputatum et probatum, commovisse populum ad tumultum ob arborem libertatis in publica platea infixam» («Munita di conforti religiosi, per un precedente decreto di condanna, ferita dai Francesi con numerosi colpi di fucile, trovò la morte vicino alla porta d’ingresso del monastero dei Padri Celestini, per un precedente, ripeto, decreto di condanna, a causa di un crimine a lei imputato e provato: aver spinto al tumulto il popolo, dopo aver divelto l’albero della libertà piantato in pubblica piazza»).
Ferdinando IV inviò il cardinale Ruffo alla riconquista del suo ex regno. La vittoriosa spedizione dei sanfedisti trovò il sostegno popolare e l’appoggio della flotta inglese di Nelson. Seguì dal giugno 1799 una spietata ritorsione del re contro chi aveva sostenuto la repubblica partenopea. A San Severo vi fu chi, pur avendo sostenuto i giacobini, per evitare ritorsioni, fece attestare da numerosi testimoni di aver tenuto un comportamento “lealista”. Quasi tutti i notai furono impegnati nella redazione di questi documenti “giurati”. Le mogli delle vittime della strage del 1799 chiesero e ottennero un risarcimento per sé e dei maritaggi per le piccole orfane.
E ogni 25 febbraio fino al 1860, le campane della Croce Santa ricordarono ai sanseveresi, con i loro lenti rintocchi, quel giorno di ordinaria follia.
PER NAPOLEONE UN PRECEDENTE: IL PROCESSO A BINASCO Il processo a Napoleone svoltosi a San Severo nasce su ispirazione dell’associazione “Beatrice di Tenda”, che nel 2002 ha istruito un processo vero e proprio contro Napoleone e contro i responsabili dell’eccidio di Binasco, importante e ricco centro agricolo fra Milano e Pavia che nel 1796 venne messa a ferro e fuoco dalle truppe di Napoleone, in seguito ad un colpo di fucile partito contro un soldato francese: oltre cento civili furono uccisi, il paese fu distrutto. Questa terribile storia – all’epoca exemplum e monito verso chi poteva resistere alla determinazione napoleonica – era stata letteralmente rimossa dalla memoria locale. Una sola famiglia ricordava vagamente la perdita di un parente in quella data: l’intero episodio, una vera scena madre di distruzione, era stato dimenticato, come un vero shock collettivo, almeno sino al lavoro storiografico, datato circa una decina di anni fa. Anche il processo di Binasco è stato celebrato da protagonisti di primo piano (Virginio Rognoni in veste di presidente, Gherardo Colombo pubblico ministero, Salvatore Marceca nelle vesti di difensore) che hanno offerto numerose occasioni di riflessione: i conti col passato si fanno anche così, e straordinariamente attuali appaiono i termini con cui è stata posta la questione dei portatori di libertà, dei diritti dei civili, del diritto di guerra. |
©2006 Teresa Maria Rauzino.
Foto del processo a Napoleone: @ Teresa Maria Rauzino