Un laboratorio didattico con Viviano Iazzetti realizzato all’Istituto Superiore “Mauro del Giudice” di Rodi Garganico
Nei manuali di storia, i lager nazionali non sono affatto menzionati. Pochi sanno che anche in Italia dal 1940 al 1943 vennero aperti numerosi campi di concentramento. È merito dei ricercatori di microstoria se riusciamo talvolta a penetrare la fitta cortina dell’oblio e della dimenticanza. Solo così alcuni momenti fondamentali della nostra storia recente affiorano. Ed è motivante simulare un percorso sulle memorie rimosse in un laboratorio didattico, per rianimarle nella loro attualità.
Viviano Iazzetti, paleografo dell’Archivio di Stato di Foggia, ha ripercorso così, fonti d’archivio alla mano, la vita vissuta dagli internati del campo di concentramento di Manfredonia. Evidenziando dettagli che, una quindicina di anni fa, pubblicò in un saggio su «La Capitanata», rivista della Biblioteca Provinciale di Foggia. La sua ricerca nacque quasi per caso: «Mi incuriosì – racconta – un fascicolo sul ‘campo di concentramento di Manfredonia’ presente nel fondo “Commissariato della P.S. di Manfredonia“. Avevo intenzione di approfondire la ricerca, ma la rivista doveva andare in stampa. Feci una cosa affrettata. Comunque, di documenti ne raccolsi diversi: dagli Atti che servirono a mettere su il campo di concentramento, fino agli elenchi ed alle schede degli internati, che ho trovato a Roma, all’Archivio Centrale dello Stato ed all’Archivio della Polizia. Feci delle statistiche, elaborando i dati relativi ai movimenti del campo. Riuscii persino a contattare qualcuno degli internati. Poi non ne feci più niente».
Il campo di concentramento di Manfredonia incominciò a funzionare il 16 giugno del 1940. Fu chiuso nel 1943. Tornò ad essere il macello comunale della città. È dismesso da qualche decennio: sulla Statale, entrando in Manfredonia da Siponto, sulla sinistra, si vede tuttora. «Non è cambiato niente, la struttura è quella».
Nel 1940 il macello comunale era nuovo di zecca, e piuttosto grande. Per adeguarlo a campo di concentramento, furono effettuati dei lavori, furono ricavati dei camerini, furono scavate le fogne, attrezzate le docce e le cucine; lo si recintò, perché dava quasi sulla strada.
È inquietante, nella piantina topografica del campo, la dicitura: “forno crematorio” che contrassegna uno dei vani. La mente corre subito ai famigerati lager nazisti. Ma Viviano Iazzetti smorza le facili deduzioni: «Forni crematori sono presenti in tutti i macelli comunali. I documenti da me rinvenuti in Archivio non autorizzano paragoni con i lager tedeschi e polacchi. Il campo di Manfredonia fu, più che altro, un campo di ‘internamento’: in tre anni vi passarono 519 persone; non raggiunse mai il limite massimo di capienza, che era di 300 unità.
Fu una cosa all’italiana. Un posto in cui la gente veniva sorvegliata, custodita, ma che non servì certo per ammazzare delle persone. Dai documenti ufficiali, sia dalle ispezioni sia dalla visita del Nunzio Apostolico di Napoli, pare che le cose a Manfredonia andassero bene. L’unica restrizione di rilievo era che la sera chiudevano i camerini. Li ‘lucchettavano‘, mettevano i lucchetti alle finestre ed alle porte. Per il resto non ho riscontrato anomalie. Ci fu qualche fuga: c’erano due gruppi di guardia (8 poliziotti ed 8 carabinieri), ma il campo era proprio sulla strada, la ferrovia distava soltanto 150 metri. C’erano le solite restrizioni sulla corrispondenza, che veniva letta e censurata.
Per gli internati di lingua tedesca, era il professor Aurelio Volpe a praticare la traduzione, e ci furono difficoltà quando egli morì. Invece le lettere degli slavi venivano inviate a una traduttrice, al campo di Fabriano: la posta veniva censurata lì. Essi non potevano leggere libri, se non su autorizzazione, ma noi sappiamo che glieli fornì, in una certa quantità, l’arcivescovo Cesarano. Anche i giornali erano filtrati. Per il resto era un campo piuttosto alla buona, tranquillo.
Gli internati ebbero la possibilità di realizzare degli orticelli per coltivare le proprie cose; c’era anche un campo di bocce. Chi aveva qualche risparmio, poteva depositarlo in un libretto al portatore presso il locale Banco di Napoli. In genere, gli internati era sussidiati dallo Stato, ricevevano un contributo. Con quei soldi acquistavano degli alimenti che si cucinavano da soli, in genere tutti si adattavano. C’era un vivandiere solo per i benestanti. Era possibile una doccia ogni dieci giorni, a turno.
La pulizia del campo era affidata a loro stessi, il campo era autogestito dagli internati. Due medici di Manfredonia a pagamento prestavano servizio a mesi alterni, un cappellano diceva messa la domenica. Era vietato giocare a carte. Gli internati avevano delle limitazioni d’orario, ma potevano ricevere delle visite: quando arrivavano i parenti a Manfredonia potevano soggiornare in paese, con loro. Alcuni internati furono autorizzati a prestare la loro attività: ci fu chi fece il barbiere e chi l’infermiere. Quando venne il Nunzio Apostolico alcuni chiesero di poter lavorare. Braccianti e contadini furono trasferiti a Pisticci, dove c’era un campo agricolo. Un gruppo di muratori e imbianchini fu mandato a Fara Sabina.
Il 1 luglio del 1940 giunsero nel campo di Manfredonia 31 ebrei tedeschi ma, per la maggior parte, furono trasferiti quasi subito, il 18 settembre, nel campo di Tossicia, vicino Teramo. A Manfredonia restarono soltanto cinque ebrei fino al febbraio del 1942, quando furono trasferiti a Campagna, in provincia di Salerno. Oltre agli ebrei tedeschi, ai comunisti, ai socialisti, ai sovversivi in genere e agli anarchici, di varia estrazione sociale e provenienti dalle regioni del centro Nord (in particolare dalla Toscana), gli internati più numerosi del campo di Manfredonia furono i cosiddetti ‘ex iugoslavi’, provenienti dall’ Istria e da Fiume. Questi slavofili, prelevati dai luoghi di origine, furono tenuti congelati qui, a Manfredonia, per evitare che commettessero attentati. Oppure che sobillassero la popolazione contro lo stato italiano. Gli slavi nutrivano forti sentimenti anti-italiani, essendo stati i loro territori annessi all’Italia».
ALLA RICERCA DI UN CAMPO IDONEO
In Italia, nella primavera del 1940, si cercarono dei luoghi ‘idonei’ a realizzare campi di concentramento. Anche in provincia di Foggia ci furono delle ispezioni. Si vagliò dove stabilire un secondo campo, oltre a quello già attivo delle Isole Tremiti. A Manfredonia furono individuate furono individuate due possibili ubicazioni: 1) Villa Rosa, in località Scaloria, dove c’era posto per 160 persone; 2) il Macello comunale di Manfredonia appena ultimato, che con opportune modifiche, poteva ospitare 300 persone. Fu anche ipotizzato l’utilizzo di un convento di Sannicandro Garganico, di proprietà comunale, che poteva contenere 150-180 internati.
Un’ulteriore inchiesta fu effettuata, per vedere dove si potessero collocare altre persone pericolose. Da un rapporto di polizia risultarono le seguenti disponibilità: 2 posti a Casalnuovo Monterotaro, 20 a Castelnuovo della Daunia, 3 a Celenza Valfortore, 4 a Pietra Montecorvino, 2 a Rocchetta Sant’Antonio, 5 a Roseto Valfortore, 4 a Volturara Appula, 5 a San Marco La Catola. La scelta definitiva cadde su Manfredonia, soprattutto perché la città era ben collegata, via mare, con Tremiti. Il Comune non voleva che il suo macello fosse utilizzato come campo di concentramento, ma l’Amministrazione dello Stato, d’autorità, impose la nuova destinazione d’uso, lasciando al Comune soltanto la possibilità di decidere l’entità dell’affitto.
I CAMPI DI CONCENTRAMENTO ITALIANI
Prima dell’entrata in guerra del 10 giugno 1940, il governo italiano emanò dei provvedimenti per preparare la popolazione alla guerra, tipo l’oscuramento oppure la stretta vigilanza, in appositi ‘campi di concentramento’ su tutte le persone ostili al regime. L’elenco ‘ufficiale’ del Ministero dell’Interno, consultato da Viviano Iazzetti, conta una quarantina di questi campi. Si trovavano tutti nell’Italia centro-meridionale: Salsomaggiore e Bagno a Ripoli, Civitella Chiana, Petriolo (in Toscana), Montechiarugolo (in prov. di Parma), Campagna, Urbisaglia, Tolentino, Lanciano, Pollenza, Ferramonti di Tarsia, Nereto, Lama dei Peligni, Agnone, Isola Gran Sasso, Solofra, Isernia, Notaresco, Casacalenda, Casoli, Tortoreto, Civitella del Tronto, Tostice, Vinchiaturo, Boiano, Ustica, Ventotene, Lipari, Ariano Irpino, Histonium (Vasto), Montalbano, Tollo e Ponza. In Puglia i campi furono 4: Alberobello, Gioia del Colle; le Isole Tremiti e Manfredonia.
©2003 Teresa Maria Rauzino.
Articolo pubblicato il 27 gennaio 2003 da capitanata.it e da varie testate, tra cui «Il Corriere del Golfo» (le foto dell’ex campo di concentramento sono state scattate dal fotografo del quindicinale di Manfredonia).