Uomo di carattere forte e determinato nacque a Parigi il 21 marzo del 1226, ultimo dei sette figli di re Luigi VIII di Francia detto il Leone e Bianca di Castiglia. La morte del padre otto mesi dopo la sua nascita e poi, nel 1232, quella di due fratelli (Giovanni e Filippo Dagoberto) lo lasciarono erede di vasti possedimenti nella Francia centrale, fra cui l’Angiò e il Maine. Si sa poco della sua prima infanzia, eccetto che fino a dieci anni restò con la madre Bianca, donna di grande rigore morale e religioso, che con l’aiuto dei figli governò la Francia fino alla maggiore età del primogenito Luigi IX e anche oltre per scelta dello stesso sovrano. Carlo, a differenza del fratello maggiore Luigi, fu poco influenzato dall’educazione religiosa ricevuta dalla madre. Tra gli undici ed i quindici anni frequentò le corti dei fratelli maggiori, fu spesso vicino a loro in varie imprese militari. Nel novembre del 1245 a Cluny, con la mediazione del fratello Luigi IX e della madre Bianca, ebbe l’approvazione di papa Innocenzo IV a sposare Beatrice di Provenza, che aveva ereditato dal padre, il conte Raimondo Berengario IV, il titolo di contessa di Provenza e Forcalquier. Il 31 gennaio1246, ad Aix, Carlo sposò Beatrice gettando così le basi della sua futura potenza. Tale unione fu appoggiata da papa Innocenzo IV perché temeva un possibile matrimonio tra Beatrice e Corrado, figlio di Federico II. Carlo resse il governo della contea di Provenza e Forcalquier in maniera totalitaria ed dispotica.
Nel 1248 partì al seguito del fratello Luigi IX per settima crociata, in Egitto. Dopo una sosta di circa sei mesi a Cipro, Carlo raggiunse l’Egitto nel 1249, dopo aver conquistato Damietta, fu sconfitto nella battaglia di Mansura nel febbraio 1250. Lui e gli altri membri della famiglia reale subirono un breve prigionia, poi nella primavera del 1251 decise di rientrare in Francia, dove erano scoppiate alcune rivolte ad Arles ed Avignone. Nel luglio del 1251, fece così ritorno in Provenza insieme al fratello, Alfonso.
Alla morte dell’imperatore Federico II, il pontefice Innocenzo IV cominciò a cercare un nuovo sovrano per il Regno di Sicilia e, quando nel 1252 Corrado IV pretese sia la dignità imperiale sia la corona di Sicilia, egli si rivolse a Riccardo di Cornovaglia e al conte Carlo d’Angiò. Le trattative però fallirono con entrambi. Dopo la morte di Corrado IV, avvenuta nel 1254, Manfredi diventò capo della Casa Sveva ed entrò subito in contrasto con Innocenzo IV che il 12 settembre dello stesso anno lo scomunica. Ma il pontefice per evitare uno scontro diretto revoca l’anatema e nomina Manfredi vicario per la maggior parte dei territori continentali del Meridione, in cambio del riconoscimento dell’autorità papale sul Regno di Sicilia. Il 7 dicembre del 1254 Innocenzo IV rese l’anima a Dio e al soglio pontificio salì Alessandro IV, che si mostrò debole ed indeciso. Manfredi ne approfittò per riconquistare il Regno che spettava per diritto al nipote Corradino. Il 10 agosto del 1258 Manfredi si fa incoronare a Palermo sovrano del Regno di Sicilia. Alessandro IV dichiara nulla l’incoronazione. Nel nuovo ruolo, Manfredi rafforza la compagine interna del Regno, distruggendovi ogni residuo di ribellione e dissenso. Contemporaneamente, cerca in Italia ed in Germania alleanze contro il Papato ed i nemici che questi gli avrebbe inevitabilmente procurato.
Nel 1261 fu eletto papa il francese Jacques Pantaléon di Troyes, col nome di Urbano IV, questi era molto vicino ai reali di Francia. Il nuovo pontefice, temeva che Manfredi volesse estendere i suoi domini su tutta la Penisola, allora si rivolse Luigi IX per liberarsi di Manfredi. Urbano IV in un primo tempo fece anche un tentativo di accordo con lo svevo senza risultati soddisfacenti, così il 29 marzo 1263 scomunicò Manfredi e lo dichiarò decaduto dal trono. Ci furono ancora negoziati con la corona francese che durarono a lungo, proseguendo anche sotto il pontificato di Clemente IV (Guy Fouquois altro amico della casa reale di Francia), per concludersi il 30 aprile 1265. La Chiesa voleva mantenere la sovranità feudale sul regno. Inoltre chiedeva che la città di Benevento restasse sotto il controllo pontificio. Il papa ottenne che il sovrano non avrebbe dovuto influenzare le elezioni ecclesiastiche né esercitare sui religiosi i propri diritti giurisdizionali e fiscali. Fu vietata l’unione dell’Impero romano col Regno di Sicilia; inoltre il nuovo sovrano non avrebbe potuto accettare l’elezione a re di Germania né avrebbe potuto avere pretese nei territori dell’Italia settentrionale e della Toscana. L’anno successivo Carlo avrebbe dovuto lasciare la Provenza con almeno 1.000 cavalieri e 300 lancieri e tre mesi più tardi entrare nel Regno. Nel frattempo il cardinale Riccardo Annibaldi, aveva fatto eleggere Carlo d’Angiò senatore di Roma. Il 6 gennaio 1266 Carlo fu incoronato nella basilica del Laterano re di Sicilia da Clemente IV alla presenza di cinque cardinali.
Il 20 dello stesso mese partì con l’esercito verso il Sud, subito raggiunse e conquistò San Germano. Manfredi, nel frattempo, aveva abbandonato Capua per rientrare in Puglia. Carlo cercò di anticiparlo e avanzò lungo le valli del Volturno e del Calore in direzione di Benevento, dove si portava anche l’armata di Manfredi. Il 26 febbraio si scontrarono e fu battaglia nei pressi del monte San Vitale, a nord-ovest di Benevento. Dopo un primo attacco degli arcieri saraceni e dei cavalieri tedeschi parve che lo scontro volgesse a favore degli Svevi. Ma poco dopo ci fu la defezione, dei romani, dei campani, dei lombardi e dei toscani dell’esercito di Manfredi. Nello scontro campale Manfredi morì. La strada verso la conquista del Regno era ormai aperta per l’Angioino.
Carlo, non si fidò della nobiltà e dei funzionari del Regno, così, dopo aver affidato la gestione del regno a nuovi funzionari, per lo più stranieri, impose ai nuovi sudditi un governo dispotico e totalitario. Impose nuovi prelievi fiscali per mantenere il grande apparato militare ed amministrativo angioino. La nobiltà ed il popolo del Regno presto si esasperarono e subito cercarono un uomo che potesse liberali dal dispotico Carlo. I ghibellini, videro un potenziale liberatore nel giovane Corradino di Svevia, figlio di Corrado IV, nipote di Manfredi e ultimo discendente della dinastia degli Hohenstaufen.
Mentre nell’Italia meridionale erano accesi fuochi di resistenza nei confronti di Carlo d’Angiò, che fu costretto a precipitarsi verso il sud per cercare di reprimere almeno le principali opposizioni, il giovane Hohenstaufen varcò i confini dell’Italia recandosi verso il regno di Sicilia. Corradino fu ben accolto dalle città imperiali dell’Italia settentrionale, ricevette una calorosa accoglienza nella ghibellina Pisa che lo incoraggiò a continuare la marcia verso il Sud. Giunto a Roma vi entrò trionfalmente, ponendo le premesse per una facile vittoria. Fu allora che Carlo d’Angiò, abbandonato l’assedio della colonia musulmana di Lucera che aveva intrapreso per onorare una promessa formulata al Pontefice, si mise in marcia per intercettare al più presto l’esercito di tedesco. L’incontro avvenne sul confine del Regno di Sicilia presso Tagliacozzo, era il 23 agosto 1268. Dopo le prime mosse di assaggio, i comandanti dei due eserciti iniziarono lo scontro campale. L’esito della battaglia si mantenne a lungo incerto, la carneficina fu enorme finché gli Angioini più numerosi, freschi, e forse meglio organizzati, ebbero la meglio. In un primo momento il giovane Corradino riuscì a sottrarsi alla cattura, iniziando una rocambolesca quanto umiliante fuga. Riuscì ad arrivare a Roma dove non fu protetto. Mentre tentava di fuggire in Sicilia via mare, l’8 settembre Corradino venne catturato insieme ai suoi fedeli compagni Federico di Baden, Galvano e Galeotto Lancia, Napoleone Orsini e Riccardo Annibaldi fu catturato nei pressi di Anzio dal signore locale Giovanni Frangipane che poi consegnò i prigionieri alle milizie Angioine dietro pagamento di denaro.
Portato in catene a Napoli, Corradino fu sottoposto ad un processo, assieme ad alcuni suoi fedelissimi: quali delitti potevano essergli contestati, tranne quello di voler onorare il nome della dinastia e di affermare i propri diritti? Condannato a morte, fu decapitato a soli sedici anni il 29 ottobre 1268 sul patibolo eretto in Campo Miricino, l’odierna Piazza del Mercato della città partenopea. Con questa morte che all’epoca destò grande scalpore, finivano gli Hohenstaufen.
Degno di menzione è il fatto che nel 1267 era morta Beatrice di Provenza e nel 1268, Carlo sposò in seconde nozze, Margherita di Borgogna (1248 – 1308), contessa di Tonnerre.
Dopo essersi liberato della dinastia sveva Carlo tornò a governare il Regno in maniera ancor più rigida e dispotica, sostituì i nobili ribelli con nobili francesi, confiscò tutti i beni agli avversari e arrivò a trasferire la capitale del regno da Palermo a Napoli. In breve tempo riuscì ad avere la meglio su molte città dell’Italia settentrionale, ottenne giuramento di fedeltà dalle città guelfe, così si trovò a capo della fazione guelfa in tutta la Penisola.
Seguì quindi, ancora una volta, il fratello Luigi IX nell’ottava crociate contro Tunisi, nel corso di questa crociata il sovrano francese rese l’anima a Dio.
Successivamente Carlo acquisì nuovi territori e i titoli di re d’Albania (1272), re di Gerusalemme (1277) e principe di Acaia (1267-1277).
Ma nel 1273, grazie all’impegno dei ghibellini di Genova, nel giro di breve tempo Carlo perse il controllo dell’Italia settentrionale; in poco tempo la sua posizione si indebolì notevolmente anche in Toscana.
La continua attività espansiva del re angioino, la gestione politica affidata ai francesi e l’eccessiva imposizione fiscale causarono grande malcontento particolarmente in Sicilia. Questa politica autoritaria ed vessatoria e la perdita del ruolo di capitale di Palermo portò i siciliani alla ribellione che esplose il 30 marzo del 1282 a Palermo prima della funzione dei vespri. In breve tempo quasi tutti gli Angioini furono mandati via dall’Isola. Il 25 luglio, Carlo, sbarcò in Sicilia con le truppe destinate alla guerra greca e assediò Messina, che resistette per ben due mesi. I Siciliani si rivolsero al re di Aragona, Pietro III il Grande, che aveva sposato Costanza di Hohenstaufen, figlia di Manfredi. Il sovrano aragonese sbarcò a Trapani il 30 agosto con circa 9000 soldati e riuscì, in meno di un mese, a liberare l’Isola da Carlo.
Carlo, nel luglio del 1283, tentò un’invasione della Sicilia concentrando una flotta a Malta, ma l’ammiraglio Ruggero di Lauria sventò il tentativo sorprendendo la flotta e distruggendone una parte. Il 5 giugno del 1284 ci fu un nuovo scontro tra la flotta Aragonese e quella Angioina guidata dal figlio di Carlo, Carlo lo Zoppo. Ebbe la meglio la flotta Aragonese, così Carlo, che aveva in animo di riconquistare l’isola dovette momentaneamente rinunciarvi e si recò in Puglia per riorganizzarsi. Durante questo viaggio si ammalò gravemente Il 6 gennaio 1285 fece redigere il suo testamento in cui si stabiliva che, nel caso che il suo zoppo e da lui disprezzato figlio ed erede non fosse stato liberato dalla prigionia, la successione sarebbe toccata a suo nipote Carlo Martello, nominò suo fratello Roberto II d’Artois regente. Il 7 gennaio 1285 morì a Foggia. Le viscere furono custodite nella cattedrale di Foggia, le spoglie a Napoli e il cuore a Parigi in un monumento funebre nella Basilica di Saint Denis. (Alessandro De Troia)
Gli successe il figlio Carlo lo Zoppo, che al momento della morte di Carlo I era tenuto prigioniero in Aragona.
• Jacques Le Goff, San Luigi, Torino, Einaudi, 1996. • Steven Runciman, I Vespri siciliani: storia del mondo mediterraneo alla fine del tredicesimo secolo, Milano, Rizzoli, 1976. • Paolo Golinelli, Breve storia dell’Europa medievale: uomini, istituzioni, civiltà, 2ª ed., Pàtron. 2004. • Massimo Montanari, Storia medievale, Laterza, 2006. • Guido Iorio, Carlo I d’Angiò. Biografia politicamente scorretta di un “parigino” a Napoli, Roma, GEDI, 2018.
Carlo Magno è stato uno dei personaggi storici più significativi per la storia d’Europa. Ha saputo creare un grande ed esteso regno, corredandolo di nuove istituzioni e un nuovo modo di amministrare il potere. Dalla deposizione di Romolo Augusto avvenuta nel 476 mancava nell’Europa occidentale il titolo di imperatore dei romani, erano passati ben tre secoli e Carlo è riuscito, unificando diversi stati e conquistando la fiducia dei pontefici romani, a ricreare un impero.
Dopo la deposizione di Romolo Augustolo, nell’Europa occidentale si erano sviluppati regni romano-barbarici in quanto avevano all’interno delle loro amministrazioni una componente romana ed una germanica, in Spagna c’erano i Visigoti, in Italia gli Ostrogoti e in Gallia i Franchi.
Il popolo dei Franchi, nel secolo VI d.C. occupava gran parte della Gallia che si trovava in una fase di divisione interna, che durò fino alla fine del 600. All’inizio del 700 la Gallia è minacciata dal tentativo di espansione degli Arabi, che dopo aver conquistato buona parte della Spagna varcano i Pirenei, ma vengono respinti da Carlo Martello nel 732. Il figlio di Carlo, Pipino il Breve, approfitta della richiesta di aiuto pervenuta dal Papa, che non riesce a fronteggiare l’avanzata dei Longobardi, per farsi proclamare Re. In questo contesto storico si inserisce la figura di Carlo Magno.
Carlo Magno nacque molto probabilmente il 2 aprile del 742 dal re dei Franchi Pipino il Breve e da Bertrada di Laon, era nipote di quel Carlo Martello che aveva impedito l’invasione araba con la celebre vittoria nella Battaglia di Poitiers.
Quel poco che si sa della giovinezza di Carlo Magno suggerisce che abbia ricevuto una formazione pratica per la leadership partecipando alle attività politiche, sociali e militari associate alla corte di suo padre. I suoi primi anni furono segnati da una serie di eventi che ebbero immense implicazioni per la posizione dei Franchi nel mondo contemporaneo. Nel 751, con l’approvazione papale, Pipino sottrasse il trono dei Franchi all’ultimo re merovingio, Childerico III. Dopo l’incontro con papa Stefano II nel palazzo reale di Ponthion nel 753-754, Pipino strinse un’alleanza con il papa impegnandosi a proteggere Roma in cambio dell’approvazione papale del diritto della dinastia di Pipino al trono dei Franchi. Pipino intervenne anche militarmente in Italia nel 755 e nel 756 per frenare le minacce longobarde a Roma, e nella cosiddetta Donazione di Pipino del 756 conferì al papato un blocco di territorio che si estendeva attraverso l’Italia centrale che costituì la base di una nuova entità politica, cioè lo Stato Pontificio, su cui governava il papa.
Pipino il Breve, con l’approvazione della nobiltà e dei vescovi, aveva designato come suoi successori i due figli Carlo e Carlomanno. Infatti, quando morì Pipino, il 24 settembre 768, andarono a Carlo l’Austrasia, gran parte della Neustria e la metà nord-occidentale dell’Aquitania e tutti i territori nel frattempo conquistati nella parte orientale fino alla Turingia. A Carlomanno andarono la Borgogna, la Provenza, la Gotia, l’Alsazia, l’Alamagna e la parte sud-orientale dell’Aquitania. L’Aquitania era governata in comune. I due fratelli furono incoronati in luoghi diversi il 9 ottobre 768.
Carlo e suo fratello sposarono le figlie del re longobardo Desiderio, con lo scopo di rafforzare rapporti di concordia ed amicizia tra i due popoli, questi matrimoni non furono ben visti dal papa.
Presto i rapporti fra i due fratelli diventarono difficili e contrastanti, ma ben presto i problemi si placano a causa della morte improvvisa di Carlomanno avvenuta nel 771.
In quella data Carlo, si libera degli eredi del fratello e riesce a riunire sotto un unico regno le province della Gallia, comprendenti la Francia, il Belgio e parte dell’attuale Germania. Nello stesso anno ripudiò la moglie Desiderata figlia del re Longobardo. Desiderio allora accolse presso la sua corte la figlia ripudiata e la vedova di Carlomanno. In quel periodo i Longobardi governavano gran parte dell’italiana peninsulare.
Nel 773, su invito di Papa Adriano I, impose a Desiderio di lasciare al papa le terre che aveva occupato nell’esarcato e nel ducato romano; avendo ricevuto un rifiuto, attraversò le Alpi col suo esercito e invase l’Italia settentrionale, sconfisse il re Desiderio e si proclamò sovrano dei Franchi e dei Longobardi. Ritornò nel 776 per reprimere una rivolta dei duchi longobardi del Friuli, di Chiusi, Spoleto e Benevento; poi torno nuovamente in Italia nel 780 per far consacrare dal pontefice, come re d’Italia, il figlio secondogenito Carlomanno che fu ribattezzato col nome di Pipino.
Le Campagne Militari
Il futuro imperatore iniziò una serie di campagne militari, della durata di molti anni volte sia a conquistare nuovi territori che a consolidare la presenza franca sui confini. Dopo la guerra coi Longobardi Carlo si impegnò in una serie di campagne sui confini orientali. L’impresa militare più impegnativa per Carlo Magno lo vide contrapposto ai Sassoni, una popolazione della Germania ancora pagana, avversari di lunga data dei Franchi, la cui conquista richiese più di 30 anni di campagne (dal 772 all’804). Questa lunga lotta, che portò all’annessione di un vasto blocco di territorio tra i fiumi Reno ed Elba, fu segnata da saccheggi, rottura di tregue, presa di ostaggi, uccisioni di massa, deportazione di sassoni ribelli, misure draconiane per costringere all’accettazione del cristianesimo, e occasionali sconfitte dei Franchi. Anche i Frisoni, alleati sassoni che vivevano lungo il Mare del Nord a est del Reno, furono costretti alla sottomissione.
Preoccupato di difendere la Gallia meridionale dagli attacchi musulmani e ingannato dalle promesse di aiuto dei leader musulmani locali nel nord della Spagna che cercavano di sfuggire all’autorità del sovrano Umayyad di Cordoba, Carlo Magno invase la Spagna nel 778. Quell’impresa sconsiderata si concluse con una disastrosa sconfitta dell’esercito franco che fu costretto alla ritirata. Durante la ritirata, il 15 agosto 778 si colloca l’episodio della battaglia di Roncisvalle, qui la retroguardia franca subì un agguato da parte di tribù basche. A seguito di questa imboscata morirono diversi nobili e alti ufficiali, tra cui “Hruodlandus” (Orlando), prefetto del limes di Bretagna. Quell’episodio ispirò, intorno al 1100, uno dei testi epici fondamentali della letteratura medievale europea “La Chanson de Roland”.
Nonostante questa battuta d’arresto, Carlo Magno persistette nei suoi sforzi per rendere più sicura la frontiera spagnola. Nel 781 creò un sottoregno dell’Aquitania con suo figlio Luigi come re. Da quella base le forze franche organizzarono una serie di campagne che alla fine stabilirono il controllo dei Franchi sulla marca spagnola, il territorio compreso tra i Pirenei e il fiume Ebro.
Tra il 787–788 Carlo Magno annetté con la forza la Baviera, i cui leader avevano a lungo resistito alla signoria dei Franchi. Quella vittoria mise i Franchi faccia a faccia con gli Avari, nomadi asiatici che durante la fine del VI e il VII secolo avevano formato un vasto regno abitato in gran parte da slavi che vivevano su entrambe le sponde del Danubio. Nell’VIII secolo il potere avaro era in declino e le campagne franche del 791, 795 e 796 accelerarono la disintegrazione di quell’impero. Carlo Magno conquistò un’enorme quantità di bottino, rivendicò un blocco di territorio a sud del Danubio in Carinzia e Pannonia e aprì un campo missionario che portò alla conversione degli Avari e dei loro ex sudditi slavi al cristianesimo.
Sotto il suo dominio il Regno dei Franchi arrivò a coprire quasi tutta l’Europa continentale occidentale, fatta eccezione per la Spagna, in mano agli Arabi, e l’Italia meridionale bizantina.
La sua prestazione sul campo di battaglia gli valse la fama di re guerriero nella tradizione dei Franchi, colui che avrebbe reso i Franchi una forza nel mondo un tempo contenuto nell’Impero Romano.
In generale, i rapporti di Carlo Magno con il papato, soprattutto con papa Adriano I, furono positivi e gli procurarono un prezioso sostegno per il suo programma religioso e lodi per le sue qualità di sovrano cristiano. L’espansione della presenza franca in Italia e nei Balcani intensificò gli incontri diplomatici con gli imperatori d’Oriente, che rafforzarono la posizione dei Franchi rispetto all’Impero Romano d’Oriente, indebolito dai dissensi interni e minacciato dalla pressione musulmana e bulgara sulle sue frontiere orientali e settentrionali.
Carlo Magno stabilì anche rapporti amichevoli con il califfo ʿAbbāsid a Baghdad (Hārūn al-Rashīd), i re anglosassoni di Mercia e Northumbria e il sovrano del regno cristiano delle Asturie nella Spagna nordoccidentale. E godeva di un vago ruolo di protettore dell’establishment cristiano a Gerusalemme. Combinando con coraggio e risorse il tradizionale ruolo di re guerriero con una diplomazia aggressiva basata su una buona conoscenza delle realtà politiche attuali, Carlo Magno elevò il regno franco a una posizione di leadership nel mondo europeo.
Corte e amministrazione di Carlo Magno
Pur rispondendo alle sfide legate all’attuazione del suo ruolo di re guerriero, Carlo Magno era consapevole dell’obbligo di un sovrano franco di mantenere l’unità del suo regno. Questo onere fu complicato dalle divisioni etniche, linguistiche e giuridiche tra le popolazioni portate sotto la dominazione franca nel corso di tre secoli di conquista, a partire dal regno del primo re merovingio, Clodoveo (481–511). Come leader politico, Carlo Magno non era un innovatore. La sua preoccupazione era quella di rendere più efficaci le istituzioni politiche e le tecniche amministrative ereditate dai suoi predecessori merovingi. La forza direttiva centrale del regno rimaneva il re stesso, il cui ufficio per tradizione conferiva al suo titolare il diritto di comandare l’obbedienza dei suoi sudditi e di punire coloro che non obbedivano. Per ricevere assistenza nell’affermare il suo potere di comando, Carlo Magno faceva affidamento sul suo palatium, un insieme mutevole di membri della famiglia, fidati compagni laici ed ecclesiastici e assortiti tirapiedi, che costituiva una corte itinerante al seguito del re mentre svolgeva le sue campagne militari e cercò di trarre vantaggio dalle entrate provenienti da proprietà reali ampiamente sparse.
I membri di questo circolo, alcuni con titoli che suggeriscono dipartimenti amministrativi primitivi, svolgevano su ordine reale varie funzioni legate alla gestione delle risorse reali, alla conduzione di campagne militari e missioni diplomatiche, alla produzione di documenti scritti necessari per amministrare il regno, intraprendendo missioni in tutto il regno per far rispettare le politiche reali. , rendere giustizia, condurre servizi religiosi e consigliare il re.
Una componente fondamentale dell’efficacia del re e una questione di costante preoccupazione per Carlo Magno era l’esercito, nel quale tutti gli uomini liberi erano obbligati a prestare servizio a proprie spese quando convocati dal re. Sempre più importante per il mantenimento dell’establishment militare, in particolare della cavalleria corazzata, era la capacità del re di fornire fonti di reddito, solitamente concessioni di terre, che consentissero ai suoi sudditi di prestare servizio a proprie spese. Le risorse necessarie per sostenere il governo centrale provenivano dal bottino di guerra, dalle entrate dei patrimoni reali, dalle multe e dalle tasse giudiziarie, dai pedaggi sul commercio, dalle donazioni obbligatorie dei sudditi nobili e, in misura molto limitata, dalle tasse dirette. Per esercitare la sua autorità a livello locale, Carlo Magno continuò a fare affidamento su funzionari reali detti conti, che rappresentavano l’autorità reale in entità territoriali chiamate contee. Le loro funzioni includevano l’amministrazione della giustizia, il reclutamento di truppe, la riscossione delle tasse e il mantenimento della pace. Anche i vescovi continuarono a svolgere un ruolo importante nel governo locale. Carlo Magno ampliò il coinvolgimento del clero nel governo aumentando l’uso delle concessioni reali di immunità a vescovi e abati, che liberarono le loro proprietà dall’intervento delle autorità pubbliche. Questo privilegio, in effetti, permetteva ai suoi beneficiari o ai loro agenti di governare su coloro che abitavano le loro proprietà fintanto che godevano del favore reale. L’efficacia di questo sistema di governance dipendeva in gran parte dalle capacità e dalla lealtà di coloro che ricoprivano incarichi a livello locale. Carlo Magno reclutò la maggior parte dei funzionari reali da un numero limitato di famiglie aristocratiche interconnesse che erano ansiose di servire il re in cambio del prestigio, del potere e delle ricompense materiali associate al servizio reale.
L’uso sempre più diffuso dei documenti scritti come mezzo di comunicazione tra il governo centrale e quello locale permise una maggiore precisione e uniformità nella trasmissione degli ordini reali e nella raccolta di informazioni sulla loro esecuzione. Tra questi documenti c’erano i capitolari reali, documenti quasi legislativi inviati in tutto il regno per esporre la volontà del re e fornire istruzioni per l’attuazione dei suoi ordini.
La gestione degli aspetti religiosi.
La sua politica religiosa rifletteva la sua capacità di rispondere positivamente alle forze di cambiamento che operavano nel suo mondo. Il suo programma per adempiere alle sue responsabilità religiose reali fu formulato in una serie di sinodi composti sia da chierici che da laici convocati per ordine reale per considerare un ordine del giorno stabilito dalla corte reale. La riforma si è concentrata su alcune grandi preoccupazioni: rafforzare la struttura gerarchica della Chiesa, chiarire i poteri e le responsabilità della gerarchia, migliorare la qualità intellettuale e morale del clero, proteggere e ampliare le risorse ecclesiastiche, standardizzare le pratiche liturgiche, intensificare la pastorale rivolta alla collettività comprensione dei principi fondamentali della fede e miglioramento della morale, sradicamento del paganesimo. Con il progredire del movimento di riforma, la sua portata si allargò per conferire al sovrano l’autorità di disciplinare i chierici, affermare il controllo sulle proprietà ecclesiastiche, propagare la fede e definire la dottrina ortodossa. Nonostante estendesse la sua autorità su questioni tradizionalmente amministrate dalla chiesa, le mosse aggressive di Carlo Magno per dirigere la vita religiosa ottennero l’accettazione da parte dell’establishment ecclesiastico, compreso il papato. Nel valutare il sostegno clericale alla politica religiosa del re, è necessario tenere presente che il re controllava la nomina dei vescovi e degli abati, era uno dei principali benefattori dell’establishment clericale ed era il garante dello Stato Pontificio. Ciononostante, il sostegno del clero fu sincero, riflettendo la sua approvazione per il desiderio del re di rafforzare le strutture ecclesiastiche e di approfondire la pietà e correggere la morale dei suoi sudditi cristiani. Tale approvazione fu espressa nella glorificazione del re dei suoi tempi come rettore del “nuovo Israele”.
Imperatore dei Romani
La prodigiosa gamma di attività di Carlo Magno durante i primi 30 anni del suo regno fu il preludio a quello che alcuni contemporanei e molti osservatori successivi considerarono l’evento culminante del suo regno: la sua incoronazione a imperatore romano. In gran parte, quell’evento fu la conseguenza di un’idea modellata dall’interpretazione data alle azioni di Carlo Magno come sovrano. Nel corso degli anni, alcuni dei principali consiglieri politici, religiosi e culturali del re si convinsero che una nuova comunità stava prendendo forma sotto l’egida del re e del popolo Franco, il quale, come dichiarò un papa, “il Signore Dio d’Israele ha benedetto.” Si parlava di quella comunità come dell’imperium Christianum, comprendente tutti coloro che aderivano alla fede proclamata dalla chiesa romana. Questa comunità accettò il dominio di un monarca sempre più acclamato come il “nuovo Davide” e il “nuovo Costantino”, custode della cristianità ed esecutore della volontà di Dio. La preoccupazione per il benessere dell’imperium Christianum fu accresciuta dalla percepita inidoneità degli imperatori eretici di Costantinopoli a rivendicare l’autorità sulla comunità cristiana, soprattutto dopo che una donna, Irene, divenne imperatore d’Oriente nel 797.
In un senso più ampio, gli sviluppi dell’VIII secolo produssero nel mondo carolingio la percezione che l’Occidente latino e l’Oriente greco divergessero in modi che negavano le pretese universaliste degli imperatori orientali.
Poi, nel 799, emerse una minaccia ancora maggiore al benessere dell’imperium Christianum. La capacità del papa di guidare il popolo di Dio venne messa in discussione quando Papa Leone III fu attaccato fisicamente da una fazione di romani, tra cui alti funzionari e prelati della curia papale, che credevano fosse colpevole di tirannia e di grave cattiva condotta personale. Leone fuggì alla corte del suo protettore, il cui ruolo di rettore della cristianità era ormai rivelato. Carlo Magno fornì una scorta che riportò Leone III all’ufficio papale; poi, dopo ampie consultazioni in Francia, si recò a Roma alla fine dell’800 per affrontare la delicata questione del giudizio del vicario di Pietro e del ristabilimento dell’ordine nello Stato Pontificio.
Dopo una serie di incontri con i notabili religiosi e i laici franchi e romani, fu stabilito che, invece di essere giudicato, il papa avrebbe prestato pubblicamente giuramento purgandosi dalle accuse contro di lui; alcuni indizi nella documentazione suggeriscono che queste deliberazioni portarono anche alla decisione di ridefinire la posizione di Carlo Magno. Due giorni dopo l’atto di purgazione di Leone, mentre Carlo Magno assisteva alla messa del giorno di Natale nella antica basilica di San Pietro, il papa gli pose una corona in testa, mentre i romani riuniti per il culto lo proclamarono “imperatore dei romani”.
Gli storici hanno a lungo dibattuto su chi attribuire la responsabilità di questo evento. Nonostante l’affermazione di Eginardo, biografo di corte di Carlo Magno, secondo cui il re non si sarebbe recato a San Pietro in quel fatidico giorno se avesse saputo cosa sarebbe successo, le prove lasciano pochi dubbi sul fatto che re e papa collaborarono nella pianificazione dell’incoronazione e la restaurazione dell’Impero Romano in Occidente fu vantaggiosa per entrambi. Considerata la debole posizione del papa in quel momento e la propensione del re per le azioni audaci, sembra molto probabile che Carlo Magno e i suoi consiglieri abbiano preso la decisione chiave che prevedeva un nuovo titolo per il re, lasciando al papa il compito di organizzare la cerimonia che avrebbe formalizzato l’accordo.
Il nuovo titolo conferiva a Carlo Magno l’autorità legale necessaria per giudicare e punire coloro che avevano cospirato contro il papa. Forniva inoltre un adeguato riconoscimento del suo ruolo di sovrano di un impero di popoli diversi e di guardiano della cristianità, e gli conferiva uno status paritario rispetto ai suoi corrotti rivali di Costantinopoli. Ratificando ancora una volta un titolo per i Carolingi, il papa rafforzò il legame con il suo protettore e diede lustro all’ufficio pontificio in virtù del suo ruolo nel conferire la corona imperiale al “nuovo Costantino”.
Sulla valutazione degli anni di Carlo Magno come imperatore del Sacro Romano Impero, gli storici non sono completamente d’accordo. Alcuni hanno visto il periodo come un periodo di crisi emergente, in cui le attività dell’anziano imperatore erano sempre più limitate. Poiché Carlo Magno non guidò più imprese militari di successo, le risorse con cui premiare i seguaci reali diminuirono. Allo stesso tempo, nuovi nemici esterni sembravano minacciare il regno, in particolare gli uomini del Nord (Vichinghi) e i Saraceni. Si riscontravano anche segnali di inadeguatezza strutturale del sistema di governo, che si assumeva costantemente nuove responsabilità senza un proporzionale incremento delle risorse umane e materiali, e una crescente resistenza al controllo regio da parte di magnati laici ed ecclesiastici che cominciavano a cogliere le implicazioni politiche, sociali, e il potere economico derivante dalle concessioni reali di terre e immunità. Altri storici, tuttavia, hanno sottolineato aspetti come la maggiore preoccupazione reale per gli indifesi, i continui sforzi per rafforzare l’amministrazione reale, la diplomazia attiva, il mantenimento della riforma religiosa e il sostegno al rinnovamento culturale, che vedono come prova della vitalità durante il regno di Carlo Magno.
All’interno di questo contesto più ampio ci furono sviluppi che suggeriscono che il titolo imperiale significasse poco per chi lo riceveva. Infatti, nell’802, quando usò formalmente per la prima volta l’enigmatico titolo di “Imperatore che governa l’Impero Romano”, mantenne il suo vecchio titolo di “Re dei Franchi e dei Longobardi”. Continuò a vivere alla maniera tradizionale dei Franchi, evitando modalità di condotta e protocolli associati alla dignità imperiale. Si affidò meno ai consigli del circolo che aveva plasmato l’ideologia che portò alla rinascita dell’Impero Romano. L’imperatore, infatti, sembrava ignaro dell’idea di un’entità politica unitaria implicita nel titolo imperiale quando, nell’806, decretò che alla sua morte il suo regno sarebbe stato diviso tra i suoi tre figli.
Altre prove indicano che il titolo imperiale era importante per lui. Carlo Magno si impegnò in una lunga campagna militare e diplomatica che finalmente, nell’812, ottenne il riconoscimento del suo titolo da parte dell’imperatore d’Oriente. Dopo l’800 il suo programma di riforma religiosa enfatizzò cambiamenti nel comportamento che implicavano che l’appartenenza all’imperium Christianum richiedesse nuove modalità di condotta pubblica. Ha tentato di portare una maggiore uniformità ai diversi sistemi giuridici prevalenti nel suo impero. La terminologia e i simboli utilizzati dalla corte per esporre le sue politiche e i motivi artistici impiegati nel complesso edilizio di Aquisgrana riflettevano la consapevolezza dell’ufficio imperiale come fonte di elementi ideologici capaci di rafforzare l’autorità del sovrano. Nell’813 Carlo Magno assicurò la perpetuazione del titolo imperiale conferendo con le proprie mani la corona imperiale all’unico figlio sopravvissuto, Ludovico il Pio. L’incoronazione dell’813 suggerisce che Carlo Magno ritenesse che l’ufficio avesse un certo valore e che volesse escludere il papato da qualsiasi parte nel suo conferimento.
Nel loro insieme le prove portano alla conclusione che Carlo Magno considerava il titolo imperiale come un premio personale in riconoscimento dei suoi servizi alla cristianità, da utilizzare come riteneva opportuno per rafforzare la sua capacità e quella dei suoi eredi di dirigere l’imperium Christianum verso i suoi interessi.
L’Eredità
Nel gennaio 814 Carlo Magno si ammalò di febbre dopo aver fatto il bagno nelle sue amate sorgenti calde ad Aquisgrana; morì una settimana dopo. Scrivendo negli anni 840, il nipote dell’imperatore, lo storico Nithard, dichiarò che alla fine della sua vita il grande re aveva “lasciato tutta l’Europa piena di ogni bontà”. Gli storici moderni hanno reso evidente l’esagerazione di tale affermazione richiamando l’attenzione sulle inadeguatezze dell’apparato politico di Carlo Magno, sui limiti delle sue forze militari di fronte alle nuove minacce dei nemici marittimi, sul fallimento delle sue riforme religiose nell’influenzare la grande massa dei cristiani, il gretto tradizionalismo e i pregiudizi clericali del suo programma culturale e le caratteristiche oppressive dei suoi programmi economici e sociali. Tale attenzione critica al ruolo di Carlo Magno, tuttavia, non può cancellare il fatto che il suo sforzo di adattare le tradizionali idee franche di leadership e bene pubblico alle nuove correnti sociali ha fatto una differenza cruciale nella storia europea. Il suo rinnovamento dell’Impero Romano in Occidente fornì il fondamento ideologico per un’Europa politicamente unificata, un’idea che da allora ha ispirato gli europei.
Bibliografia
Giosuè Musca, Carlo Magno e Harun al-Rashid, Roma, Dedalo, 1996.
Becher Matthias, Carlo Magno, Bologna, Il Mulino, 2000,
Cardini Franco, Carlomagno, un padre della patria europea, Bompiani, 2002.
Barbero Alessandro, Carlo Magno: un padre dell’Europa – Editori Laterza 2004.
Non c’è dubbio che Federico II sia uno dei protagonisti più controversi di tutto il Medio Evo europeo, vittima della confusione che comunemente si fa tra gli elementi storici e quelli leggendari.
A questa situazione contribuiscono i suoi più irriducibili detrattori, ma anche quanti esaltano oltre il lecito la sua personalità; tant’è che oggi, con la diffusione del dibattito, non è tanto utile combattere le argomentazioni dei più ostinati neoguelfi (e sono, ahinoi! ancora tanti) quanto coloro che vedono in lui il profeta di una “modernità” che non poteva avere, di un ecumenismo che non poteva concepire…
Federico II
ha certo dominato la politica e la cultura medievale in un secolo in cui…
…l’Imperatore ed il Pontefice romano ritenevano entrambi di essere investiti da Dio per gestire le cose dello Stato e della Fede, promuovendo due analoghe teocrazie: esisteva allora una palese, dichiarata “imitatio imperii” da parte del sacerdozio ed una “imitatio sacerdotii” da parte del “regnum”;
…la conquista ed il mantenimento del potere giustificava le peggiori atrocità, né l’Imperatore poteva essere secondo al Pontefici che ordinavano la strage degli Albigesi, sacrificavano due milioni di Cristiani alle Crociate, promuovevano i processi inquisitoriali…
…le integrazioni razziali non erano ancora concepite, mentre le minoranze religiose erano perseguitate dalla Chiesa ben coadiuvata dal “braccio secolare” che vedeva negli eretici soprattutto un grave rischio sovversivo
…le violenze che oggi definiremo “maschiliste” coinvolgevano tutte le religioni e tutte le filosofie, lo sviluppo culturale era condizionato da dogmatismi ed integralismi d’ogni colore;
…la cultura — preda ancora di alchimie e superstizioni d’ogni genere — non aveva ancora posto le premesse per la nascita della scienza, sia pure nella forma embrionale che avverrà due secoli dopo…
In questa situazione, Federico II si inserì con alcune intuizioni che lo resero un gigante del suo tempo; ma che non possono essere confuse con delle iniziative decisamente anticipatrici, che un uomo medievale non poteva certo concepire.
Egli infatti
…non fu un “laico” nel significato attuale del termine, ma lottò per condurre il Papato alle sole competenze morali, premessa per lo Stato di diritto e per sconfiggere ogni forma di integralismo;
…fu tremendo nelle battaglie, nel reprimere gli attentati alla propria persona, nel condurre gli assedi dove ricorse agli scudi umani non meno del Crociato Simone di Monfort, ma tentò più di ogni altro contemporaneo di risolvere molte controversie con la diplomazia, senza spargimento di sangue;
…punì le intolleranze dei Saraceni in Sicilia, ma li ospitò a Lucera integrandoli nel proprio esercito e nell’amministrazione dell’Impero; dopo di lui, regnanti Bonifacio VII a Roma e Carlo II d’Angiò in Sicilia, furono barbaramente sterminati nel 1300, l’Anno del Primo Giubileo;
…mantenne la giovane moglie Jolanda di Brienne nell’asfittico harem palermitano, ma nelle Costituzioni di Melfi dettò pagine importanti ed innovative per reprimere la violenza contro le donne e difenderle dalle accuse;
…era ancora legato ai rituali magici dell’Oriente, ma alla sua Corte ospitò dotti di tutte le terre senza distinzione di razza e di religione, cui pose quesiti che saranno alla base delle prime ricerche degne di essere definite scientifiche;
…si professò e fu sinceramente cattolico, ma seppe concepire l’universalità dalla cultura all’esclusivo servizio dell’uomo, superando i vincoli che nascevano dal fatto di voler distinguere le culture cristiana, ebrea, musulmana…
Crociato scomunicato, a Gerusalemme trasformò una lotta di religione in un confronto tra diverse culture, rendendo possibile un accordo da allora mai ripetuto.
Federico II non fu certo il pensatore medievale più illuminato ed innovativo in alcun campo della filosofia, della religione, dello scibile umano di allora. Ma il suo valore, o anche semplicemente il suo fascino, consiste nell’avere contemporaneamente spaziato in moltissimi campi della conoscenza, come tutti i grandissimi della storia…
L’Italia, culla del Guelfismo più intransigente, rimasta sotto l’influenza dei Papi fino al XIX secolo, soffre ancora di una storiografia che vuole Federico ateo, nemico della Chiesa, carico dei peggiori vizi che possono ledere l’onorabilità di un Principe. Al contrario in Germania, lontano dalle mene politico-religiose e dalle pretese territoriali della Chiesa, l’immagine dell’Imperatore è prevalentemente influenzata dal suo atteggiamento riformistico: ed i Tedeschi sono legati a lui da una profonda stima, molto vicina all’amore.
Michele Scoto fu filosofo, scienziato, medico, alchimista, traduttore dall’arabo e dal greco al latino, enciclopedista ed astrologo, molto probabilmente nacque intorno al 1175 in Scozia. Studiò ad Oxford, a Parigi e a Bologna che all’epoca erano le migliori università europee, qui arricchì le sue conoscenze scientifiche, filosofiche e umanistiche. Con un ampio bagaglio culturale si trasferì in Spagna e a Toledo, nel 1217 tradusse dall’arabo il De animalibus di Aristotele (nota 1) e ancora il De coelo et mundo, il De anima dello Stagirita con i commenti di Averroè uno dei più noti filosofi arabo-spagnoli. Con queste traduzioni lo Scoto permise di conoscere al mondo latino queste opere. Durante la sua permanenza spagnola tradusse anche il De sphaera di Alpetragio.
Si trasferì in Italia intorno al 1220 alla curia papale che gli riconobbe per i suoi meriti alcune rendite ecclesiastiche, poi passo alla corte dell’imperatore Federico II, di cui fu l’astrologo ufficiale seguendolo nei suoi spostamenti.
Pare che Federico l’abbia inviato all’università di Bologna a far dono delle traduzioni dei commenti averroistici ad Aristotele fatte da lui e da altri. Alcune fonti riferiscono che l’imperatore Svevo utilizzò Michaele Scoto come inviato presso i sovrani Arabi, come al-Kamil, per scambi diplomatici e culturali. Michele Scoto fece parte della corte itinerante federiciana insieme ad altri filosofi e scienziati, tra questi ricordiamo Davide di Dinant, Adamo da Cremona, Teodoro di Antiochia, Gualtierio d’Ascoli, Roffredo di Benevento, Leonardo Fibonacci ed il cronista Riccardo di San Germano.
I testi medievali ci riferiscono una serie di quesiti che Federico II avrebbe rivolto ai saggi della sua Corte, ed in particolare a Michele Scoto. Qui di seguito inseriamo alcuni dei quesiti che Federico II pose a Michele Scoto.
“[…] Noi ti preghiamo di volerci spiegare l’edificio della Terra, e precisamente quanto è alta la sua solida consistenza sovrastante gli abissi; […] se laggiù esista qualche altra cosa che la sorregge oltre l’aria e l’acqua; […] l’esatta misura che separa un cielo dall’altro e ciò che esiste al di là dell’ultimo cielo; in quale cielo Dio, per sua natura, si trovi, ed in che modo egli stia assiso sul trono celeste, e come gli facciano corona gli angeli ed i santi, e cosa facciano gli angeli ed i santi costantemente in sua presenza…
“Inoltre desideriamo sapere […] dove esattamente si trovino l’Inferno, il Purgatorio ed il Paradiso: sotto la Terra, nella Terra o sopra essa? […] E se un’anima nell’aldilà riconosca un’altra anima e se taluna di esse possa tornare in vita per parlare con qualcuno o mostrarglisi…
“Vogliamo inoltre conoscere le misure della Terra: la sua altezza, il suo spessore e quanto disti dal più alto dei cieli, quanto si estenda nel profondo; […] se contenga spazi vuoti oppure no, se sarebbe un corpo solido come una pietra focaia…
“Desideriamo sapere com’è che le acque dei mari sono tanto amare, e come mai, sebbene tutte le acque provengono dal mare, vi siano acque salate in molti luoghi, e in molti altri, lontane dal mare, acque dolci…
“Vorremmo sapere di quel vento che viene da ogni punto della Terra, e di quel fuoco che prorompe dalla Terra […] come accade in alcune località della Sicilia e presso Messina, sull’Etna, a Vulcano, Lipari, Stromboli…”
Lo scoto scrisse anche il Liber introductorius, che metteva insieme tutto ciò che si sapeva su geografia, medicina, studio dei pianeti e ricerca teologica che dedico all’imperatore Svevo. Ci restano frammenti di una sua Divisio philosophiae mentre sono perdute le Quaestiones Nicolai Peripatetici.
Per i suoi interessi alla scienza araba, all’astrologia e alla magia fu considerato da alcuni un mago. Scoto è citato da Dante Alighieri nel canto XX dell’Inferno all’interno della bolgia degli indovini:
«… Quell’altro che ne’ fianchi è così poco, Michele Scotto fu, che veramente de le magiche frode seppe il gioco…»
In una leggenda pervenuteci si dice che egli avrebbe predetto a Federico II la morte “Sub Flore” ed effettivamente lo Svevo morì in un luogo dal nome di un fiore; Castel Fiorentino. Molto verosimilmente lo scoto morì nel 1236, tra le varie leggende che si tramandano su di lui ce né una relativa alla sua morte, in particolare si dice che morì colpito sulla testa da un sasso mentre, a messa, come si deve, si era tolto un pesante elmo che teneva sempre a protezione del capo, avendo lui stesso preconizzato questa fine.
Nota 1 De animalibus di Aristotele; i 10 libri della Historiae animalium, i 4 del De partibus animalium, e i 5 del De genere animalium.
Bibliografia:
Commento sul De Sphera: The Sphere of Sacrobosco and its Commentators, a cura di L. Thorndike, University of Chicago Press, Chicago 1949.
Michele Scoto, Liber Phisionomiae, Venetiis 1477.
L’arte dell’Alchimia: The texts of Michael Scot’s Ars Alchimiae, a cura di S. H. Thomson, in Osiris, V (1938).
P. Morpurgo, Federico II e la fine dei tempi nella profezia del cod. escorialense f.III.8, “Pluteus. Periodico Annuale di Filologia”, 1, 1983, pp. 135-167
Per approfondire: – R. Manselli, La corte di Federico II e Michele Scoto, in Atti del convegno internazionale L’averroismo in Italia, Roma, Accademia nazionale dei lincei 1979. – Le scienze alla corte di Federico II, a cura di V. Pasche, Leiden, Brill 1994. – Federico II, a cura di P. Toubert e A. Paravicini Bagliani, Palermo, Sellerio 1994 (3 voll.: Federico II e il mondo mediterraneo; Federico II e le scienze; Federico II e le città italiane).
Enrico VII era il primogenito di Federico II, nato dal matrimonio di questi con la prima moglie Costanza d’Aragona. Nato nel 1211, fu nominato nel 1220, ancora bambino, re di Germania, alimentando la speranza di poter unire concretamente, alla morte del padre, i Regno di Germania con il Regno di Sicilia. Raggiunta la maggiore età, fu per Federico una vera e propria spina nel fianco: il carattere indocile, le ambizioni, i cattivi consiglieri, lo indurranno ad una continua lotta familiare, che lo condurrà alla distruzione.
Enrico crebbe e maturò nell’ambiente dei ministeri imperiali di Germania, viziato dagli estranei ma senza conoscere l’affetto della famiglia sempre lontana, al seguito delle perenni missioni politiche e militari. A questa circostanza — peraltro non nuova presso le dinastie imperiali — può forse essere ricondotto il rapporto conflittuale di amore – odio che ebbe con il padre, considerato un uomo eccezionale, mitico, irraggiungibile, ma lontano dalle legittime esigenze di un figlio. Federico ed Enrico avevano un differente modo di vedere la gestione dello stato: il primo riteneva che dovesse andare ben oltre gli interessi nazionali ed assumere una dimensione sovranazionale, imperiale; il secondo, tendeva a favorire gli interessi germanici, nella convinzione che l’avvenire della dinastia fosse nella terra d’origine. Nonostante i reiterati chiarimenti e le amorevoli raccomandazioni di Federico, la situazione condusse presto ad un doloroso scontro.
Enrico, influenzato dai prìncipi germanici e dalle città che tendevano a consolidare le proprie autonomie, contravvenne alle disposizioni imperiali e fu il protagonista di una vera e propria ribellione. Dopo diverse insubordinazioni, fu costretto a presentarsi al cospetto di Federico II ad Aquilea nel maggio del 1232 e qui dovette impegnarsi ad eseguire a tutte le disposizioni imperiali. Tornato in Germania, si comportò come se nulla fosse accaduto e riprese a spargere i semi della discordia; finché Papa Gregorio IX, i cui interessi nella circostanza coincidevano con quelli dell’Impero, nel 1234, gli lanciò l’anatema, giustificato con presunti atteggiamenti che infrangevano le leggi contro gli eretici. Alla fine dello stesso 1246, Federico II apprese con costernazione che Enrico aveva niente meno che stipulato un’alleanza difensiva con la Lega Lombarda: i peggiori nemici dell’Impero e della Casa di Svevia! Tutto ciò voleva dire alto tradimento: Enrico fu convocato senza indugio a Wimpfen, dove, dopo un sommario processo, fu deposto dal trono di Germania e condannato a morte. Solo in un secondo tempo Federico II — alla razionalità ed al dovere di Stato prevalse il cuore paterno — fece commutare la condanna in carcere a vita. Enrico VII, rinchiuso in varie fortezze dell’Italia del Regno di Sicilia, iniziò una durissima prigionia. La storia — che in queste circostanze è spesso inquinata dal mito — racconta che finì i suoi giorni suicida a soli trentun anni, il 10 febbraio 1242.
Quel giorno stava percorrendo una tortuosa strada di montagna, mentre era trasferito da Nicastro alla volta del castello di Martirano di Calabria: uno dei tanti cambi di prigione. Improvvisamente, sottraendosi alla vigilanza degli accompagnatori, si gettò dal cavallo sfracellandosi in un dirupo. I soccorritori lo raggiunsero già morto.Federico diede ordine di seppellire il giovane figlio ribelle nel Duomo di Cosenza, avvolto in mantelli regali e con tutti gli onori. Un frate minore tenne l’orazione funebre commentando il versetto: “Abramo impugnò la spada per immolare il figlio a Dio”. Dall’esame paleopatologico effettuato dal prof. Gino Fornaciari è emerso che Enrico era affatto da lebbra.
Bibbliografia:
Ernst H. Kantorowicz – Federico II Imperatore – 1931
David Abulafia, Federico II. Un imperatore medievale, Enaudi, Torino, 1993.
Eberhart Horst, Federico II di Svevia L’imperatore filosofo e poeta, Rizzoli Supersaggi, Milano, 1994.
Gino Fornaciari – La lebbra di Enrico VII, 1211-1242, figlio dell’imperatore Federico II e re di Germania: prigionia o isolamento? 2018 Luigi Pellegrini Editore
Georgina Masson, Federico II di Svevia, Tascabili Bompaini, prima edizione 1957, riedizione tascabile aprile 2001.
Wolfgang Stürner – Enrico VII re di Sicilia e di Germania (Federiciana) – Treccani
Marcovaldo di Anweller o Marquardo di Anweiler fu uno dei ministeriali dell’Impero più in vista dell’epoca sveva. Nacque in una famiglia con possedimenti nei territori del medio corso del Reno. Già funzionario di corte sotto Federico I Barbarossa divenne uno dei principali collaboratori dell’imperatore Enrico VI in Italia.
Nel 1186-1187 svolse su incarico di Enrico funzioni di legato nell’Italia centrale, e si fa onore in operazioni militari per conto dell’imperatore Barbarossa.
Nel 1189 accompagnò Federico Barbarossa alla terza crociata, qui si distinse sia come capo militare sia come legato presso la corte imperiale bizantina. Nei primi mesi del 1192 rientrò in Europa e da quel momento fu sempre più vicino al nuovo imperatore Enrico VI.
Nel 1194 riuscì a procurare all’imperatore svevo il sostegno di Genova per la spedizione di conquista nel Regno siciliano-normanno. In questa occasione fu comandante supremo delle flotte genovese e pisana, con cui contribuì in modo determinante al rapido successo dell’impresa.
Nel corso della dieta di Bari (1195) Enrico VI lo nominò marchese di Ancona, duca di Ravenna e conte di Romagna. Da lì a poco ottenne anche la contea degli Abruzzi e l’anno successivo a quella del Molise.
Nel maggio-giugno del 1197 Marcovaldo soffocò nel sangue, insieme al maresciallo Enrico di Kalden, la rivolta esplosa in Sicilia contro l’imperatore.
Alcune fonti sostengono che Enrico VI, prima di morire (28 settembre 1197), gli abbia affidato il suo testamento.
Dopo la morte di Enrico VI il Regno venne diviso tra i Baroni tedeschi, tra questi si impose proprio Marcovaldo, e i sostenitori del papato e dell’Imperatrice Costanza.
Ma l’Imperatrice fece arrestare i consiglieri di Enrico VI: Marcovaldo, Corrado d’Urslingen e Gualtiero di Palearia vescovo di Troia che erano membri del consiglio di reggenza.
Poi Costanza espulse dal Regno Marcovaldo e tutti i tedeschi, e li fece giurare che non vi sarebbero più rientrati senza il suo permesso. Non è stato ancora confermato se l’imperatrice abbia concluso un accordo particolare con Marcovaldo in merito all’assicurazione dei suoi diritti sul Molise, come suppone Wolfgang Stürner (1992).
Nel 1198 l’imperatrice Costanza dichiarò Marcovaldo nemico dell’Impero e vietò qualsiasi contatto con lui perché aveva saputo che voleva rientrare nel Regno.
Marcovaldo dovette affrontare l’ostilità del papato essendo deciso a recuperare i beni della chiesa che l’imperatore gli aveva dato in feudo, il conflitto con la Chiesa si aggravò quando Costanza d’Altavilla morì (28 novembre 1198) lasciando la tutela del figlioletto Federico a papa Innocenzo III.
Nell’ottobre 1199 Marcovaldo ritornò in Sicilia e, appoggiandosi a un presunto passo del testamento di Enrico VI, rivendicò il diritto di assumere la reggenza affiancando l’erede al trono Federico. Anche i principi favorevoli agli Staufen riconobbero Marcovaldo come reggente imperiale su disposizione di Filippo di Svevia fratello di Enrico VI.
Innocenzo III lo accuso di avere ambizioni personali sul Regno di Sicilia e arrivò a proclamarlo “nemico di Dio e della Chiesa e persecutore del Regno” (Die Register, 1964, nr. 570, p. 829).
È evidente che in quel momento per Innocenzo III Marcovaldo era divenuto il suo avversario più temibile. Nonostante l’impegno del papato, Marcovaldo riuscì a impadronirsi di buna parte dell’isola dopo una serie di continui combattimenti.
Nel 1200 fu sconfitto dalle truppe pontificie a Monreale e a Randazzo. Alla fine dell’anno il cancelliere del regno Gualtiero di Palearia, che godeva della fiducia del papa, lo ammise nel collegio dei familiari, ma ciò lo portò alla rottura con il pontefice.
Il controllo del piccolo Federico fu affidato al fratello di Gualtiero, il conte Gentile di Manoppello, mentre lo stesso cancelliere scese in campo contro Gualterio III di Brienne che era stato inviato dal pontefice per riprendere il controllo della Sicilia. In questa occasione Marcovaldo fu sconfitto dalle truppe pontificie.
Ciò nonostante, alla fine del 1201, Marcovaldo prese il controllo di Palermo e di Federico, in questo modo divenne reggente e padrone incontrastato dell’isola. Ma il suo progetto di dominio non poté realizzarsi completamente, perché nel settembre del 1202 morì di dissenteria a Patti.
Letture consigliate per approfondire:
Giosuè Musca a cura di, Il mezzogiorno normanno-svevo e le crociate; Atti delle quattordicesime giornate normanno-sveve Bari, 17-20 ottobre 2000. Edizioni Dedalo 2002.
Th.C. van Cleve, Markward of Anweiler and the Sicilian Regency, Princeton 1937
Corradino di Svevia nacque a Landshut, in Germania, nel 1252. Il padre era Corrado IV, figlio di Federico II, la madre Elisabetta di Wittelsbach (di Baviera). Noto anche come Corrado V di Hohenstaufen, fu l’ultimo sovrano della illustre dinastia: con lui si estinguerà, in pratica, la discendenza diretta. E’ stato duca di Svevia (1254-1268, come Corrado IV). Fu re di Sicilia dal 1254 al 1258 con il nome di Corrado II, e re di Gerusalemme dal 1254 al 1268 con il nome di Corrado III.
Nel 1266, dopo la morte di Manfredi, quando aveva solo quattordici anni, fu chiamato in Italia dai ghibellini. Allora nell’Italia meridionale erano accesi fuochi di resistenza nei confronti di Carlo d’Angiò, che fu costretto a precipitarsi verso il sud per cercare di reprimere almeno le principali opposizioni prima che il giovane Hohenstaufen varcasse i confini del regno di Sicilia.
La calorosa accoglienza ricevuta nella ghibellina Pisa lo incoraggiò a continuare la marcia verso il Sud e verso l’eredità che legittimamente gli spettava. Accolto con favore dalle città imperiali dell’Italia settentrionale, entrò a Roma trionfalmente, ponendo le premesse per una facile vittoria. Fu allora che Carlo d’Angiò, abbandonato l’assedio della colonia musulmana di Lucera che aveva intrapreso per onorare una promessa formulata al Pontefice, si mise in marcia per intercettare al più presto l’esercito di tedesco. L’incontro avvenne sul confine del Regno di Sicilia presso Tagliacozzo. Era il 23 agosto 1268. Dopo le prime mosse di assaggio, i comandanti dei due eserciti accettarono lo scontro campale. L’esito della battaglia si mantenne a lungo incerto, la carneficina fu enorme finché gli Angioini più numerosi, freschi, e forse meglio organizzati, ebbero la meglio. Ma vediamo come si svolse la battaglia. Corradino fu sconfitto dopo un’apparente iniziale vittoria a causa di uno stratagemma ideato da Alardo di Valéry, che prese spunto a sua volta da un analogo espediente usato dai saraceni nelle crociate: il nobile Henry de Cousances, che era aiutante di campo del re, indossò le vesti del sovrano francese e si lanciò in battaglia con tutta l’avanguardia angioina preceduta dalle insegne reali. Gli uomini al seguito di Corradino si scagliarono in massa contro questa schiera, sbaragliandola. Caduto il Cousances, i ghibellini ebbero l’illusione di aver ucciso l’usurpatore francese e di avere in pugno la vittoria.
Ruppero così le loro formazioni, rilassandosi e poi inseguendo disordinatamente i franco-guelfi. Tutto ciò diede a Carlo I d’Angiò l’occasione di sferrare un nuovo attacco, questa volta a sorpresa, utilizzando 800 cavalieri che aveva tenuti in riserva e nascosti in un avvallamento. I ghibellini furono presi di sorpresa e alle spalle, non ressero alla carica della cavalleria angioina, furono travolti e si dispersi. Per lo schieramento svevo fu una disfatta che assunse in breve le proporzioni di un vero e proprio massacro.
In un primo momento Corradino riuscì a sottrarsi alla cattura, iniziando una rocambolesca quanto umiliante fuga nella campagna, ospite di gente che forse neppure lo conosceva. Alla fine, tradito da alcuni compagni, fu catturato dalle milizie angioine ed imprigionato. Portato in catene a Napoli, fu sottoposto ad un processo farsa, assieme ad alcuni suoi fedelissimi: quali delitti potevano essergli contestati, tranne quello di voler onorare il nome della dinastia e di affermare i propri diritti? Condannato a morte, fu decapitato a soli sedici anni il 29 ottobre 1268 sul patibolo eretto in Campo Miricino, l’odierna Piazza del Mercato della città partenopea. Con questa orrenda, ingiusta morte che all’epoca destò grande scalpore, finivano gli Hohenstaufen. Si dice però che alla esecuzione fosse presente Giovanni da Procida, fedele amico di Federico II, che raccolse il guanto di sfida con l’intenzione consumare presto ad una giusta vendetta.
Dante ricorda il giovane Corradino nel XX canto del Purgatorio: “Carlo venne in Italia e, per ammenda, vittima fe’ di Curradino…”.
Corrado visse la vicenda tormentata dell’uomo cresciuto all’ombra di un padre forte, autoritario, senza avere la possibilità di avere una vita propria, secondo le proprie attitudini. Secondogenito di Federico II, nacque ad Andria il 25 aprile del 1228 dalla giovanissima Jolanda di Brienne, che l’Imperatore sposò senza amarla, solo perché gli recava in dote il titolo di re di Gerusalemme; e che morì solo dieci giorni dopo il parto. Il padre si legò molto al figlio, vedendo in lui il proprio successore: per questo, cercò di impartirgli un’educazione rigida, finalizzata, degna di un imperatore. Ma non tutti gli uomini accettano di essere predestinati ad un fulgido futuro.
Così, Corrado rifiutò la disciplina imposta dal ruolo, e si rivelò indisciplinato, privo di volontà. Il contatto ed il confronto con i fratellastri (figli bastardi dell’imperatore) che mostravano coraggio, intelligenza e amore per la poesia e le arti cavalleresche, voglia di affermarsi, gli inasprì il carattere rendendolo chiuso, diffidente e violento. Federico non riuscì ad essere severo con lui; ma il ragazzo si rese conto della severità del padre quando questi operò la feroce repressione contro l’altro figlio Enrico, re di Germania, che gli si era ribellato. Quando il fratellastro Manfredi gli comunicò la morte del padre avvenuta il 13 dicembre 1250, Corrado fu colto da una tempesta di sentimenti: dolore per la perdita di un punto di riferimento certo, senso di liberazione da un padre padrone che lo aveva vessato fin dall’infanzia, rabbia per non sentirsi all’altezza di una grave eredità…
Nei mesi successivi Corrado entrò in contesa con Guglielmo d’Olanda per la successione al trono imperiale, ma nessuno dei due fu eletto. Così, nel gennaio del 1252 scese in Puglia, sua terra natale, dove allontanò Manfredi e si fece incoronare re di Sicilia. Qui cercò di rafforzare la sua posizione in Puglia e si riappropriò delle città di Capua e Napoli; quindi si oppose senza successo all’ostilità di papa Innocenzo IV, che lo scomunicò più volte. Trascorrendo i mesi, gli anni, Corrado non riusciva ad ambientarsi nella terra che tanto aveva amato Federico. Il clima mediterraneo, nel quale peraltro era nato, non gli giovava, gli usi del posto gli erano estranei. La sua vicenda umana si concluderà a Lavello il 21 maggio del 1254 colpito dalla stessa febbre intestinale che aveva ucciso il padre ed il nonno Enrico VI. Un altro perfido avvelenamento? Lasciò erede il figlio Corradino che non divenne mai re. Fu sepolto a Messina.
Bibliografia: • Bianca Tragni, Il Re Solo, Corrado IV di Svevia, Mario Adda Editore, Bari, 1998. • Eberhart Horst, Federico II di Svevia L’imperatore filosofo e poeta, Rizzoli Supersaggi, Milano, 1994.
Federico II aveva una particolare predilezione per Manfredi: perché è figlio di Bianca Lancia, il suo unico vero amore; perché vede in lui l’erede dello spirito battagliero, indomito, tipico degli Svevi; perché dimostra di avere le sue stesse passioni.
Eppure, Manfredi ha una vita discussa, con atteggiamenti a volte contraddittori, che lo fanno un personaggio fra i più interessanti del suo secolo.
In realtà, se l’Impero medievale tramonta con Federico II, Manfredi è il protagonista di questa crisi, l’uomo che per primo sconta l’invettiva di Innocenzo IV: “Estirpare il nome di questo babilonese e quanto di lui possa rimanere, dei suoi discendenti, del suo seme”.
Manfredi nasce nel 1232 ed accompagna il padre in molte avventure militari e diplomatiche, lo assiste in punto di morte il 13 dicembre 1250. Per testamento Federico gli lega varie rendite e possedimenti e soprattutto lo nomina vicario del Regno di Sicilia che aveva assegnato a Corrado IV — il figlio di Iolanda di Brienne — che al momento si trovava in Germania. Questa decisione lo inimica subito al Papa, che avrebbe voluto liberamente disporre dell’intero patrimonio svevo.
Fin dall’inizio la reggenza si dimostra difficile, anche se i rapporti tra i due fratelli promettono di essere buoni.
Ma quando Corrado, nell’agosto del 1252, sbarca a Siponto e giunge nella Puglia per prendere possesso dei suoi territori dimostra di non avere il talento e le virtù paterne e di non poter reggere il confronto con Manfredi che, essendo figlio naturale, deve ridursi al semplice rango di vassallo. Fra i due corrono dissapori, invidie, rivalità finché nel 1254 Corrado muore per cause che sollevano non pochi dubbi. Fratricidio? Non si saprà mai, né sono affidabili le sole illazioni dei cronisti guelfi.
Diventato di fatto capo della Casa di Svevia, Manfredi si trova a tu per tu con Innocenzo IV, determinato a disfarsi dell’incomoda dinastia imperiale. Un tentativo di rappacificazione fallisce nel luglio del 1254, mentre il successivo 12 settembre Manfredi è colpito da anatema.
Di fronte alla possibilità di uno scontro cruento al quale nessuno era preparato, si giunge rapidamente ad un accordo.
Accanto alla revoca della scomunica, Manfredi riceve dalla mani del Papa feudi e principati, una rendita di ottomila once d’oro, e soprattutto la nomina a vicario per la maggior parte dei territori continentali del Meridione, in cambio del riconoscimento dell’autorità papale sul Regno di Sicilia.
Ma lo Svevo non demorde: all’inizio di dicembre organizza una rivolta in Puglia riuscendo a conquistare Lucera ed a battere l’esercito pontificio. E’ l’ultimo atto del confronto con Innocenzo IV, che rende l’anima a Dio il 7 dicembre 1254.
Da quel momento, forte della posizione acquisita con la diplomazia e con le armi, Manfredi vuol trarre il massimo profitto dalla elezione al soglio di Alessandro IV, un uomo che, almeno all’apparenza, si presenta debole ed indeciso e si dedica alla conquista del Regno che comporta una lotta lunga e complessa.
Sul piano militare il conflitto si inasprisce in Puglia; ma è fondamentale provvedere in tempi brevi all’occupazione del trono di Sicilia, che Manfredi ritiene un patrimonio svevo ereditato dai Normanni e destinato a Corradino, legittimo successore del defunto Corrado. Così, il 10 agosto 1258, dopo aver allontanato il reggente Bertoldo di Hohenburg — un fedele di Federico II passato ad infoltire le file papaline — si fa incoronare nella cattedrale di Palermo tra le feste ed il giubilo della popolazione.
Alessandro IV dichiara nulla l’incoronazione, mentre è dalla Germania, la madre di Corradino, l’erede legittimo di Corrado IV, insorge. Ma a Manfredi non è difficile spiegare il proprio operato, che si era reso necessario per salvare il Regno dallo sfacelo.
Da quel momento, Palermo tornava ad essere la capitale del più bel Regno d’Europa. Nel nuovo ruolo, Manfredi rafforza la compagine interna del Regno, distruggendovi ogni residuo di ribellione e dissenso. Contemporaneamente, cerca in Italia ed in Germania alleanze contro il Papato ed i nemici che questi gli avrebbe inevitabilmente procurato.
Sotto il profilo governativo, prosegue la politica paterna: solidarietà con i Ghibellini di tutta Italia ma senza cercare la guerra. Sotto il profilo culturale e legislativo, l’intelligenza, la sapienza, la cultura, lo conducono a proporre ai sudditi un periodo di illuminata serenità, anche se non avrà il tempo di raccoglierne i frutti.
Sotto il profilo dell’eleganza, la vita alla Corte di un Re giovane, bello, con gli occhi azzurri, i capelli e la barba fini… si svolge in un clima di gioioso, ricco di donne belle e raffinate; cose queste che consentono alla propaganda guelfa di alimentare dicerie ed accuse di corruzione. Ma i tempi stringono. Il nuovo Papa Clemente IV, succeduto a Urbano IV, ha già individuato in Carlo I d’Angiò, fratello di Luigi IX, il Re Santo di Francia, l’uomo che spazzerà via Manfredi dal Regno di Sicilia. Clemente IV inizia quindi è ad inviare a governi alleati e compiacenti messaggi di mobilitazione che alla fine si esprimono nel lancio contro Manfredi di una Crociata che rasenta il fanatismo; è a corrompere con il denaro i governanti che non condividono i suoi obiettivi; è a fare ogni sforzo per agevolare con ogni mezzo la strada di Carlo I.
Alle strette, Manfredi si rivolge agli alleati ormai ridotti di numero. In questi appelli vi è tutta la dignità di un sovrano che non considera il nemico degno di sé. Essi esprimono l’illusione di un intellettuale, destinata ad essere soffocata dalla forza brutale. Carlo I valica le Alpi al Colle di Tenda alla fine del 1265. Con un esercito di almeno 30.000 uomini, inizia a spargere il terrore nelle campagne e riduce la resistenza nelle roccaforti ghibelline. Il 6 gennaio 1266 è incoronato a Roma, in assenza del Papa, cosa questa che prova il declino della Sede Apostolica. Il 20 gennaio Carlo I riparte da Roma e supera i confini del Regno attraversando il fiume Liri. Dopo varie scaramucce, lo scontro campale avviene a Benevento. Il mattino del 26 febbraio, seguendo il consiglio di un astrologo, Manfredi decide l’attacco. Dopo un aspro scontro, le sue forze sono sopraffatte.
Manfredi potrebbe lasciare il campo, mettersi in salvo, allontanarsi dal Regno in attesa di tempi più favorevoli. Ma non vuole abbandonare i suoi prodi che combattono al grido di “Svevia!”. Deciso a gettarsi nella mischia, è sta vestendo l’armatura, quando l’aquila reale si stacca dall’elmo e cade in terra. “Ecco la volontà di Dio” mormora: è il segno della fine. La giornata si conclude con un massacro e Carlo I resta padrone del campo. Uno dei suoi soldati aveva ucciso Manfredi con un colpo di spada, senza nemmeno riconoscerlo.
Era il tramonto del 26 febbraio 1266.
La propaganda guelfa e papalina ha per secoli accusato Manfredi di aver usurpato il trono del nipote Corradino. Se questo fatto può avere qualche fondamento storico, non si vede come l’accusa possa essere lanciata da un pulpito che ha imposto l’occupazione angioina di Carlo I, avviando una dominazione straniera indubbiamente più odiosa e retriva di quella Sveva.
Enzo — o, derivando meglio dal nome latino, Enzio (Heinrich detto Heinz, in lat. Encius, in ital. Enzio o Enzo) — nacque nel 1220 dalla relazione di Federico II con una nobildonna di origine germanica, Adelaide, che alcune fonti affermano sia stata la figlia del duca di Spoleto Corrado di Urslingen Conte di Assisi, nominato da Enrico VI Duca di Spoleto, uomo di assoluta fiducia della Casa sveva: lo stesso che aveva fornito ospitalità a Costanza d’Altavilla al momento del parto. Detto “il Falconetto” per la sua grazia e per il suo valore, Enzo è stato un uomo decisamente interessante sotto vari aspetti: come il padre amò la cultura e lo sport, fu appassionato della caccia con il falcone, un buon poeta, amante del gentil sesso, un condottiero coraggioso ancorché sfortunato.
Diciottenne, nel 1238 sposò per interessi dinastici Adelasia di Sardegna, principessa dei Giudicati di Torres e Gallura, vedova di Ubaldo Visconti, dieci anni più anziana di lui. Con questo matrimonio divenne Re di Sardegna, sollevando il risentimento di Gregorio IX che non voleva vedere occupato dalla Casa di Svevia un simile interessante possedimento, in precedenza vassallo della Chiesa. In seguito il Papa riuscì a sciogliere il matrimonio per infedeltà del marito. Nel 1249, passò a seconde nozze con una nipote del cognato Ezzelino da Romano, della quale non si conosce il nome. Giova ricordare che Ezzelino aveva sposato Selvaggia (1223-1244), una figlia naturale di Federico. Dai matrimoni, Enzo ebbe un figlio Enrico, non ricordato dal testamento del padre; mentre da una certa Frascha ebbe una figlia illegittima, Elena, che — ricordata nel testamento — andò sposa a Ugolino della Gherardesca conte di Donoratico.
L’attività militare di Enzo fu intensa. Nel 1241 partecipò alla battaglia navale dell’Isola del Giglio: un assalto piratesco contro i prelatii inglesi e francesi che, partiti da Genova, si recavano a Roma per partecipare al Concilio Ecumenico convocato da Gregorio IX. Fu un’ecatombe di monsignori fra morti, feriti e prigionieri rinchiusi nelle carceri del Regno di Sicilia; un gesto che costerà caro alla diplomazia ed all’immagine dell’Impero. Successivamente, combatté a lungo contro i Comuni lombardi. Nel giugno del 1247, mentre era con i Cremonesi all’assedio del castello di Quinzano presso Verolanuova, nelle vicinanze di Brescia, ebbe notizia della defezione di Parma a vantaggio dei Guelfi, e fu il primo ad accorrere in aiuto degli Imperiali presso la città ribelle. Il 18 febbraio 1248, giorno della sconfitta, uscì indenne dalla distruzione della cittadella imperiale di Victoria — fatta erigere da Federico alle porte di Parma — perché era in missione militare sulle rive del Po. Nel 1249 il suo esercito fu sconfitto dai Bolognesi nella battaglia di Fossalta; catturato, fu condotto in catene a Bologna.
Federico ne chiese con insistenza la restituzione — era stato e restava uno dei suoi figli più fedeli ed affidabili — ma i bolognesi risposero chiaramente che non lo avrebbero mai liberato. E così fu. Durante la lunga, dorata ma tristissima prigionia nel palazzo del Podestà in Bologna, conobbe varie donne ed ebbe due figlie naturali: Maddalena e Costanza, entrambe ricordate nel testamento. Si dedicò alla poesia, scrivendo fra l’altro un estremo saluto all’amata Puglia che lo aveva visto bambino:
Va, canzonetta mia, e saluta Messere, dilli lo mal ch’i’ aggio: quelli che m’à ‘n bailìa sì distretto mi tene, ch’eo viver non por[r]aggio salutami Toscana, quella ched è sovrana, in cui regna tutta cortesia; e vanne in Pugl[i]a piana, la magna Capitana, là dov’è lo mio core nott’e dia.
Enzo finirà i suoi giorni ancora prigioniero a Bologna, il 14 marzo del 1272. Nel 1909 Giovanni Pascoli si ispirerà a lui nelle celebri composizioni poetiche “Canzoni di re Enzio”.
LE LIRICHE Enzo è il più attivo e fervido tra i poeti della famiglia imperiale. L’amarezza per le tragiche vicissitudini che lo vedono protagonista trova libero sfogo nelle sue romanze, pervase di un’originale linfa poetica, priva di artifici e convenzioni. Le composizioni risalgono al periodo nel quale è prigioniero dei Bolognesi dopo la sconfitta di Fossalta del 1249, mentre incanta prima i suoi carcerieri poi la nobiltà cittadina con la letizia e la freschezza della sua gioventù. Ciò che resta delle sue romanze, gelosamente custodite in un quaderno menzionato nel suo testamento, sono solo pochi versi. In Amor si fa sovente, probabilmente una delle prime liriche, esprime ancora un bagliore di gioia e vitalità; in S’eo trovasse pietanza, da cui sono tratti i versi seguenti, troviamo solo la cupa disperazione di un uomo senza speranza:
Ecco pena dogliosa che nel cor mi abbonda, e sparge per li membri sì che a ciascun ne vien soverchia parte; Non ho giorno di posa come nel mare l’onda. Core, che non ti smembri? Esci di pena e dal corpo ti parte.
TEMI E PROBLEMI Re Enzo è stato sicuramente un personaggio di rilievo del XIII secolo, ma la sua figura, come quella degli altri figli di Federico II, è stata messa in ombra, per il grande mito che si è sviluppato intorno alla figura del padre. Ma Enzo è riuscito a lasciare il segno nella “democratica” Bologna che ancora oggi celebra e ricorda con manifestazioni, mostre e concerti il Re che fu loro ospite nell’epoca in cui la città seppe emettere il Liber Paradisus, atto con cui nel 1257 il Comune decise l’affrancamento di tutti i 5.855 schiavi e la parità fra donne e uomini. È auspicabile che gli studiosi diano maggior risalto a questi personaggi minori che hanno segnato, pur restando fuori dal mito, momenti importanti del medioevo italiano.
NOTE BIBLIOGRAFICHE ESSENZIALI (CUI SI RIMANDA PER LE INDICAZIONI SULLE FONTI)
• Ernst Kantorowicz, Federico II imperatore, Milano 1988 (ed. orig. Berlin 1927-31). • Gina Fasoli, Re Enzo tra storia e leggenda, in AA.VV., Studi in onore di C. Naselli, II, Catania 1968. • Antonio Messeri, Enzo Re, Parma 1981. • F. Bruni, La cultura alla corte di Federico II e la lirica siciliana, in Storia della civiltà letteraria italiana, diretta da G. Barberi • Squarotti, I, 2: Dalle origini al Trecento, Torino 1990. • Eberhart Horst, Federico II di Svevia L’imperatore filosofo e poeta, Milano 1994. • David Abulafia Federico II. Un imperatore medievale, Torino 1995 (ed. orig. London 1988). • Pietro Corrao, Il regno di Sicilia e la dinastia sveva, in AA.VV., Storia medievale, Roma 1998, pp. 354-356.
Per approfondire si consigli la lettura del libro: • “Bologna, re Enzo e il suo mito” di Anna Laura Trombetti Budriesi. • Le Canzoni di re Enzio, tre componimenti poetici (del Carroccio, del Paradiso, dell’Olifante) composti da Giovanni Pascoli nel 1908. • Storia di Re Enzo, Bononia University Press, Matteo Marchesini, Bologna 2007.