Categorie
Microstorie

Storie del perduto amore

Giuseppe D’Addetta, fin dagli anni Cinquanta, intuì che anche i centri più sperduti del Gargano avrebbero avuto qualcosa di importante da comunicare a chi avesse avuto la curiosità di conoscerli. Una tradizione folklorica ed etnografica intatta, e sorprendentemente attuale, era ancora da valorizzare. Essa attendeva di essere conosciuta da chi, mosso dal desiderio di conoscere ciò che un tempo, in un’altra vita, siamo stati, si fosse spinto per le balze più scoscese della Montagna del sole, alla ricerca di luoghi della memoria ormai dimenticati.

Novelle e leggende della Capitanata, una bella raccolta curata da Giovanni Saitto prende le mosse proprio dall’indimenticabile saggio del d’Addetta. E ne prosegue l’ideale viaggio, alla scoperta di antiche tradizioni etnografiche e narrative. Emergono ricordi altamente suggestivi e poco noti, ed il lettore vi si accosta con il desiderio di farli rivivere in piena luce. Desiderio che è anche di tutti gli studiosi che, lavorando in team, hanno messo a disposizione materiale raro, edito ed inedito. Il dato interessante è che, accanto alle leggende di Giuseppe d’Addetta, di Armando Petrucci, di Michelantonio Fini, troviamo le delicate illustrazioni di Primiana Nista ed i validi testi di alcuni giovani narratori che, partendo da uno spunto ambientale, da un aneddoto, o da una tradizione rigorosamente storica, si sono cimentati nell’invenzione artistica, creando dei nuovi racconti, che resteranno sicuramente impressi nell’immaginario del lettore.

Come Antonio Milonene Il Confessore senza ostie. Protagonisti il giovane imperatore Federico II di Svevia e Matteo, un umile manovale, addetto alla costruzione della fortezza di Apricena. Ambedue presi dallo stesso sogno, dallo stesso identico miraggio: “Angiola, bella come la seta la prima volta, bella come la luna quando si è felici, con quegli occhi di luce nera, con quella pelle che solo un Dio sa e può, quella pelle di petali di rose, di seta e latte, e raggi di sole”… Una notte insonne, parallela, accomuna i due adolescenti. Una notte che, per Federico, è come una malattia, è come “un confessore senza ostie che non può assolvere, né può condannare”. Una notte in cui egli diventa veramente un re…

Nel racconto di Giovambattista Gifuni, La danzatrice di Lucera, il biondo e inquieto Manfredi, e una misteriosa saracena, di nome Semrud, sono i protagonisti di una struggente storia di amore inappagato. Lo scenario è Lucera, e in particolare il castello sormontato da quindici torri, costruito secondo lo stile arabo: tremila colonnine orientali ne circondano il vasto cortile; le porte sono incrostate d’oro; un incantevole giardino di stelle cantanti, di fontane e di rose, circonda l’harem dalle inferriate d’oro. Qui Manfredi conduce Semrud, dopo averla acquistata, spinto dalla subitanea attrazione che ha provato vedendola danzare su una pista dorata. Ma invano ne cerca l’amore. Solo alla vigilia della battaglia di Benevento, che vedrà il tramonto della potenza sveva, Semrud, conscia del fatale destino che incombe sul suo re, gli sarà vicina come non mai…

Dalla raccolta viene, quindi, fuori un mondo di ieri, sorprendente per chi è abituato a vedere la Capitanata, ed il Gargano, con lo sguardo corto dell’oggi e della contemporaneità. La leggenda de Il ponte di cuoio, di Giuseppe d’Addetta, ci riporta al tempo lontano in cui la nostra provincia era terra di conquista di popoli diversi per cultura, consuetudini e tradizioni. Popoli come gli Arabi che, contrariamente ai pregiudizi di oggi, erano un popolo mite, rispettoso delle tradizioni locali e religiose delle genti conquistate. Il protagonista della leggenda, Moham, un valoroso condottiero saraceno, si innamora perdutamente della castellana, bella e bionda come il sole e dolce come la luna, che vive nella rocca dirimpetto, in località Castelpagano. Ma il suo sogno d’amore incontrerà seri ostacoli. Forti pregiudizi etnici, e soprattutto il timore che, sposando un seguace della religione maomettana, possano esserci ripercussioni negative per la propria anima e per i componenti della sua casata, inducono la bella principessa garganica ad avanzare una richiesta decisamente insolita…

Quando l’itinerario de La Montagna del sole tocca Vieste, la sperduta, il D’Addetta rievoca due suggestive leggende. Tragici scenari lo Spacco di Rosinella e il bianco faraglione di Pizzomunno. Qui le perfide sirene, invidiose e gelose dell’amore di due giovani, rapiscono la bellissima fanciulla e la tengono legata ad uno scoglio sommerso. Solo ogni cento anni le concederanno di riemergere, in un giorno di sole, per rivedere il suo fedele amante.

Altre leggende fioriscono sulle rive del Varano. Temi maliosi e mitici, che i pescatori narravano, durante le lunghe attese delle battute di caccia e di pesca. Come la storia di Nunziata, unica superstite all’ira divina che inabissa la città di Uria. Gli Dei le concedono il dono dell’immortalità, ma la sua è una vita segnata dal rimpianto per la perdita dell’innamorato, scomparso insieme a tutti gli abitanti della città. E la sua voce di pianto, ogni sera, è portata dal vento che spira sullo specchio del lago…

La storia di Maddalena, il cui testo è stato ritrovato dal prof. Michele Tortorella fra i registri parrocchiali della collegiata di Vico del Gargano, narra una vicenda seicentesca. Lo sfondo è il castello svevo; protagonisti due inconsapevoli fratelli, portati dai capricci della sorte a un destino infelice. Antagonista il principe Caracciolo, che desideroso di impadronirsi del feudo, sottrae ai marchesi Spinelli, con un sotterfugio, l’unico figlio appena nato. Due anni dopo, la nascita di Maddalena allieta il castello, consolando gli Spinelli della perdita dell’erede maschio… che un giorno, fatalmente, approda nella città natale. Conquista la simpatia dei feudatari, i quali lo invitano a diventare paggio alla loro corte. Maddalena è nel fiore degli anni, “è un bel bocciolo di rosa”, il giovane un giglio bianco e candido come la neve”. Uno sguardo innocente, un voltar di testa, una mossa innocente fatta a caso. “È certo che nel cor gentile l’amore si fa strada”. Maddalena è perduta amante, e lui più di lei. L’amore “proibito” si consuma in un giardino di agrumi di Canneto, dietro ad uno frangivento… ma il finale è degno delle migliori tragedie greche.

Bionde bellezze garganiche, retaggio degli antichi conquistatori normanni e svevi, o di migrazioni di altri popoli italici, sono le eroine degli altri racconti. Ad esse si affiancano le brune: come quelle che appaiono, sui marciapiedi stretti di San Giovanni Rotondo, all’immaginario turista incuriosito di D’Addetta. Donne dalle linee zingaresche con lunghi orecchini d’oro, che dignitose abbozzano un sorriso in segno di saluto, mentre due perfette file di bianchi denti rilucono fra il carminio naturale delle labbra.

Donne brune, come è bruna la bellezza slava di Sinella, protagonista de La pazza, di Michelantonio Fini. La voce argentina e affabulante della ragazza, intenta nella raccolta delle olive nella piana assolata di Càlena ammalia Elia: egli si innamora perdutamente della sua fresca bocca di fragola matura, del profumo delle sue trecce di ebano, dell’ardore dei suoi profondi occhi di fuoco. Ma la bella Sinella non può corrispondere a questo ardente sentimento: da un anno i suoi l’hanno promessa a un altro, emigrato in America, impegnando così il suo onore e la sua fedeltà. L’innamorato, respinto e umiliato, schiavo, suo malgrado, della mentalità del tempo, si sente obbligato a lavare l’offesa agli occhi dell’intero paese…

L’epilogo è ancora più drammatico. Un giorno, dall’alto di un precipizio, sulla grotta dell’acqua calda, dalla Rupe gigantesca, Sinella che, in seguito a varie vicissitudini, ha perso la ragione, credé di poterlo trovare, di poterlo afferrare, il suo sogno, e stringerlo a sé fortemente, per sempre.

Un mese dopo, allo stesso vertice pietroso, fu visto ergersi un uomo che veniva dalla selva, veniva dalla solitudine, veniva dalla disperazione. I marinai raccontano di aver visto quel fantasma camminare sull’orlo dell’abisso, sfidando la morte… Così i due infelici amanti, forse, trovarono la pace in fondo a quel precipizio, in quel mare tenebroso e immenso come l’animo umano, come l’amore, come il destino, come la morte, come il mistero…

©2004 Teresa Maria Rauzino. Illustrazioni di Primiana Nista tratte da Novelle e leggende della Capitanata, a cura di Giovanni Saitto, Edizioni del Poggio, pp. 234.

Categorie
Microstorie

Le “raggioni” di Kalena secondo Mainardi

Agli inizi del 1500, numerosi naviganti di popolazioni vicine, lontane e straniere “facevano vela” per le Isole Diomedee e per il porto di Peschici. Vi si fermavano, oltre che per motivi di commercio e di momentanea sosta, anche spinti dalla devozione.

Prima di proseguire il viaggio via mare, oppure via terra per il Santuario dell’Arcangelo del Monte Gargano, si fermavano nel monastero di San Nicola di Tremiti ed in quello di Santa Maria delle Grazie di Kàlena, nella piana di Peschici.

Nei due monasteri, ricostruiti dai Canonici Regolari di Sant’Agostino, adoravano la Beatissima Vergine e la Gloriosa Madre di Dio.

Uomini famosi ed illustri “matrone” avevano offerto alle due prestigiose abbazie, nel corso dei secoli, consistenti “beni solidi”: oltre a numerose chiese con le loro rendite e i relativi diritti, il possesso perpetuo di castelli, terre, pascoli, boschi. Avevano donato, per il vantaggio e il divertimento della pesca, addirittura un lago, i diritti sui fiumi comprensivi dell’impianto dei mulini, e persino delle imbarcazioni per la pesca, il commercio e gli spostamenti in mare aperto.

Erano stati indotti a ciò dalla speranza di redimere, grazie alle preghiere quotidiane dei monaci, i loro peccati, ma molti lo avevano fatto per i più terreni motivi di stretta convenienza “politica”, per salvare le loro proprietà nei momenti delicati di passaggio tra vecchi e nuovi dominanti. Per salvare il salvabile.

I beni venivano “donati”, ma l’usufrutto vita natural durante era a favore degli ex proprietari e della loro discendenza. I documenti di ratifica, redatti da scrivani e notai pubblici, erano le cosiddette “tavole antiche”. 

Sottoscritte da nobili, principi e re, vennero conservate con quanta più cura possibile negli archivi di Kàlena e di Tremiti. È qui che prima il Cochorella e poi il Mainardi le consultarono, il primo per stilare, nel 1508, la Tremitanae olim Diomedae Insulae accuratissima descriptio [1]; il secondo, nel 1592, per  compilare un accurato Regesto in cui si rivendicavano le proprietà delle abbazie di Tremiti e di Peschici usurpate nel corso dei secoli [2].

Per la comprensione di quella che fu la storia dell’abbazia di Kàlena nel corso del Cinquecento e dell’azione dei Canonici Lateranensi che in quel periodo la governarono, analizzeremo proprio questi due fondamentali documenti, integrandoli con le notazioni desunte dal Codice Diplomatico di Armando Petrucci [3].

Benedicto Cochorella e Timoteo Mainardi appartenevano all’ordine dei Canonici Regolari di Sant’Agostino, detti Lateranensi del Salvatore. Questi monacierano subentrati ai Cistercensi alla guida del monastero di Tremiti fin dal 1412.

Papa Eugenio IV incorporò l’Abbazia di Peschici alla venerabile Chiesa di Santa Maria di Tremiti nel 1445. In quell’anno, la rinunzia del Cardinale Pietro Balbo (il futuro papa Paolo II) e la cessione dell’abate Corrado di Capece, monaco di Sorrento (erano gli ultimi abati cui l’abbazia di Peschici era stata affidata in commenda), vennero formalizzate e l’abbazia ritornò sotto l’ala protettiva di quella che un tempo era stata la sua casa madre.

I Canonici Regolari presero effettivo possesso di Kàlena  giusto un anno dopo, nel 1446.

Di origine lombardo-veneta, questi monaci esibirono un livello culturale notevolmente alto.  I Canonici si adoperarono a ricostruire tutti gli edifici sacri e civili distrutti dagli an­ni, sia per poterli abitare loro stessi in modo sicuro, sia perché potessero accogliere i pellegrini.

Timoteo Mainardi, conscio della grave crisi economica che travagliava Tremiti e le sue  pertinenze in terraferma, espose un suo piano di riforme, un progetto per risanarne le collassate finanze.

Egli consigliò di eliminare, nei territori sotto la giurisdizione tremitense, l’importazione di grano, di carne, di animali, aumentando progressivamente le colture ad orzo e frumento e promuovendo l’allevamento intensivo del bestiame.

L’isola di San Nicola di Tremiti, che a quell’epoca era l’unico porto sicuro dell’Adriatico, d’estate diveniva scalo obbligato di tutte le navi che facevano rotta da Venezia in Puglia e dalla Dalmazia a Manfredonia.

Le galee della flotta veneziana, mentre erano impegnate nella loro campagna di perlustrazione delle coste adriatiche, usavano rifornirsi a Tremiti di biscotto (gallette) e di pane fresco, confezionati con il grano che affluiva al monastero dalle pertinenze in terraferma, che erano soprattutto le terre cerealicole appartenenti a Santa Maria di Kàlena.

TREMITANAE OLIM DIOMEDAE INSULAE ACCURATISSIMA DESCRIPTIO

Il Canonico Regolare Benedetto Cochorella, originario della città di Vercelli, morì nelle isole Tremiti nell’anno 1540.  Il “libretto” descrittivo delle Diomedee e soprattutto delle opre dei canonici, da lui scritto nel 1508, fu pubblicato postumo, «per grazia dell’Abate Matteo», suo mecenate e conterraneo, con l’imprimatur di Basilio Sereno, canonico di Santa Maria della Passione a Milano.

In esso il Cochorella  aveva descritto con dovizia di particolari, fra i possessi di Tremiti, l’abbazia di Kàlena e tutte le sue pertinenze.

Nel corso del tempo, molti dei favori e dei benefici ecclesiastici erano venuti a mancare all’amministrazione e alla contribuzione tremitense. Ma all’inizio del Cinquecento, epoca in cui Cochorella scrive il suo manoscritto, Tremiti «conservava ancora tranquillamente sotto la sua autorità parecchie chiese apprezzabili istituite in diversi territori e molti altri beni».

Di tutte queste chiese, la prima per valore era l’Abbazia di Kàlena [4]. Cochorella fornì anche le coordinate geografiche per localizzarla: ubicata nella diocesi di Siponto, distava circa 22.000 passi dal monte Gargano e 4 stadi dal mare Adriatico. Era senza dubbio la più antica, «da gran tempo assai famosa per il nome e le ricchezze». Tenuta, fin dalla sua fondazione, in grandissimo onore da molti re famosi e parecchi imperatori, dotata di innumerevoli privilegi, essa era stata oggetto di “incredibile devozione”. A questa Abbazia, un tempo, erano sottoposte molte popolazioni, ville, villaggi, città e una grandissima quantità di boschi, selve, campi e beni immobili.

All’inizio del Cinquecento, Kàlena conservava ancora le vestigia di questo glorioso passato: possedeva diversi terreni, ampi boschi, vari campi, molte vigne e oliveti qua e là: «Sul monte Sant’Angelo (che gli antichi chiamavano Gargano), si trovava un’estensione così lunga e ampia di terre soggette alla sua amministrazione che superava i  40.000 passi sia in larghezza che in lunghezza» [5].

 Il Cochorella era rimasto colpito dai secolari uliveti appartenenti all’abbazia di Peschici:  «famosissimi per una tale abbondanza di olive e, così cresciuti negli anni, che al­cuni di essi suscitano in chi guarda ammirazione e stupore, perché non pos­sono essere cinti neanche da quattro uomini uniti per le braccia» [6]. 

Un dato che ci lascia perplessi, ma che testimonia la presenza di eccezionali uliveti nelle campagne di Peschici. Gli alberi erano dei veri e propri “patriarchi verdi”, stupivano i Canonici Lateranensi che come il Mainardi provenivano dalle  regioni del Nord Italia dove, per ragioni climatiche, l’ulivo non cresceva bene come nel Gargano.

Nel 1508, il tempio di Kàlena, «consacrato alla Gloriosa madre di Dio», è ancora degno di venerazione e «straordinario per l’antichità e per la sua bellezza». Gli altri edifici del Convento sono quasi crollati per l’eccessiva vetustà, tranne quelli che i Canonici hanno avuto cura, con grandissima sensibilità e “dispendio”, di restau­rare o di ricostruire ab imis, cioè dalle fondamenta [7].

LE PERTINENZE DI TREMITI NEL GARGANO NORD

Il Cochorella fa una minuziosa ricognizione delle chiese (allora si denominavano con il termine cappelle), che l’abbazia di Kàlena aveva sotto la sua autorità. Un tempo erano tantissime, tuttavia col passare del tempo o per l’avidità di certi principi o per colpa dei predecessori, la maggior parte di esse era stata usurpata oppure era caduta in rovina.

Quelle possedute all’inizio del Cinquecento  non erano poche. Erano tutte “prosperamente” passate ai Canonici regolari di Santa Maria di Kàlena (i monaci continuavano a denominarsi col titolo di quella Abbazia).

Due chiese ad essa soggette erano «dedicate al santo sacerdote Nicola». Una di queste, situata ai confini del Monte Negro (Montenero), distava 16 stadi dal villaggio di Vico [8]. Minacciata di rovina a causa della sua vetustà, da pa­recchi anni (presumibilmente dalla seconda metà del Quattrocento), era stata rinnovata ed ornata dentro e fuori con bellissimi stucchi. Era altresì stata sopraelevata “a volta” con un’elegante impalcatura, «sicché – commenta il Cochorella – uno potrebbe dire che sia stata integralmente ricostruita più che restaurata».

L’abbazia di Montenero era diventata davvero una chiesa “notevole”: aveva edifici eleganti, un doppio chiostro, splendidi giardini e quasi ogni genere di mele e altri frutti. Soprattutto arance, ma anche cedri e limoni molto succosi. Le sorgenti d’acque zampillanti e la dolcezza dell’aria salubre rendevano fruttuose le varie coltivazioni. Possedeva anche parecchie vigne «eccellenti per la qualità del vino prodotto», un mulino col frantoio e parecchi alveari di api.

L’altra chiesa, titolata a San Nicola, era ubicata sulle rive del lago Varano vicino ad un «villaggio distrutto» chiamato Imbuti, non lontano dai castelli di Cagnano e di Carpino [9]. Dominava un’ampia e larga zona pianeggiante, «circondata da monti fitti e ben protetti da grandi boschi e gole», tra i quali spiccava il monte Devio”.

Intorno, un paesaggio caratterizzato dalla presenza di molte selve ed oliveti. Per la natura del luogo, si poteva trarre profitto «dall’uccellagione e dalla caccia alla selvaggina».

Per il piacere ed il vantaggio della pesca, lo stesso grandissimo lago di Varano era alla portata di tutti, e «produceva ottimi pesci» [10]. Alle sue foci, mentre tentavano di passare dall’acqua salata del mare a quella dolce del lago, si catturavano moltissime anguille e, tra le loro varietà, alcune più grosse che chiamano “capitoni”. Di tutto ciò, per antico diritto, era pagata una decima alla chiesa di Imbuti.

Il Cochorella ci fornisce una notizia interessante sulla lavorazione in loco del pescato: «Per salare questi pesci vi sono nelle vicinanze anche parecchi vivai, cioè dei luoghi vicino al mare in un lago stagnante, dove i pesci vengono catturati e subito dopo salati». Viene fuori uno spaccato inedito dell’economia del Varano  all’inizio del Cinquecento.  

Oltre a notizie sull’ecosistema. Anche allora il lago era il luogo ideale di “svernamento” per molte specie di volatili migratori e stanziali: “D’inverno questo lago nutre varie specie di uccelli, per esempio parecchie anatre selvatiche, uccelli noti del resto a tutti e molto saporiti da mangiare». 

Il Cochorella cita, a questo proposito, una frase di Marziale che esalta le peculiarità gastronomiche di alcuni “parti” particolarmente pregiate per i  palati sopraffini: «Si porti pure tutta l’intera anatra, ma gustane soltanto il petto e il collo, il resto restituiscilo al cuoco!» [11].

Il Cochorella registra anche la presenza dei cigni, con la seguente notazione: nessun uccello (come si racconta) è più candido di questi; è più grande di un’oca, con una voce acuta e quando sta per morire emette un flebile canto. E cita il noto verso di Ovidio: «Dolci melodie modula con debole voce/il cigno che canta la propria morte» [12].  

Il Varano nutre innumerevoli folaghe, uccelli acquatici neri poco più grandi di una colomba e quanto mai gradevoli da mangiare.

In un punto delle terre prospicienti il Varano, vi è una pianura molto estesa sia in lunghez­za che in larghezza, graditissima alle pecore per i pascoli più abbondanti; la chiamano “Insula Imbuti”E’ simile ad un’isola in quanto domina il lago Varano dalla parte più alta, il mare Adriatico da quella più bassa; qui le mandrie di bestiame e le greggi del Monastero tremitano «svernano pascolando» [13].

UN SOLO CORPO, UNA SOLA REGOLA, UNA SOLA CONGREGAZIONE

Il Cochorella, parlando del suo ordine monastico, attesta le preferenze che i papi del tempo avevano ad esso riservato. Eugenio IV aveva concesso e affidato ai Canonici la chiesa del Salvatore in Laterano, di Roma, affinché la restaurassero. Fu questo Papa che decise di chiamarli «Canonici Regolari del Salvatore Lateranense». Li rese famosi, fregiandoli di numerosi straordinari privilegi e favori, confermati dai papi Nicola V e Sisto IV.

Quali insegnamenti di vita, quali le regole etiche erano seguite da  questi monaci? Secondo il Cochorella, “il sapientissimo, santissimo padre e dottore Agostino» nella regola dei Canonici non aveva inserito nulla che non potesse essere osservato facilmente da tutti.

Chiunque, il povero e il ricco, il vecchio e il giovane di qualsiasi condizione, «ignobile o nobile» e di qualsiasi altro stato economico, avrebbe potuto impegnarsi senza difficoltà nell’apprendimento della regola; «compiere tutto non in modo difficile ma con letizia e in maniera egregia». Secondo il proprio voto [14].

Tutti i Canonici Regolari del Salvatore Late­ranense avevano adottato questo nobile tenore di vita, sebbene li dividesse la diversità dei luoghi, la lontananza delle strade, la separazione delle terre. Essi avevano un solo corpo, una stessa regola, una sola congregazione.

Dal Collegio dell’Ordine provenivano anche tutti i monaci che reggevano con grande prudenza, saggezza e virtù la canonica di Tremiti. «Con incredibile impegno e attenzione, essi avevano reso noto a tutti, per mare e per terra, questo santissimo luogoIl suo nome era noto fino alle parti più remote del mondo e ai popoli barbari». 

Tutti avevano sentito parlare della bellezza e della magnificenza degli edi­fici e delle costruzioni straordinarie di Tremiti e delle sue abbazie. Secondo il Cochorella ciò era avvenuto per la “grazia divina” ricevuta dai Canonici: «A loro accordò ininterrottamente il favore eterno la Vergine Madre del Salvatore, Maria Beatissima, eccezionale custode e parti­colarissima protettrice di quel santissimo luogo» [15].

Cochorella esalta, quasi ai limiti dell’agiografia, l’“incredibile umanità” dei Canonici. Contraddicendo i suoi intenti: aveva premesso che in stile, succintoda gustare (come si dice)con la punta delle lab­bra, avrebbe scritto poco, piuttosto che ta­cere del tutto: le lodevoli imprese dei monaci non potevano “passare sotto silenzio”. I Canonici, infatti, erano abituati a produrre spesso, più che vane parole, esempi di vivere virtuoso [16].

I monaci si danno tanto da fare, oltre che per innata santità, anche per evitare il giudizio malevolo dell’opinione pubblica, solitamente ipercritica nei confronti di chi manovra cotanta ricchezza. Ce lo testimonia il Cochorella, il quale afferma: «Dal momento che la situazione del Convento migliora ogni giorno, i monaci per non dare all’esterno l’impressione di desiderare e interessarsi solo delle ricchezze, si danno anima e corpo a celebrare con più ardore non soltanto i riti divini, ma si impegnano anche a restaurare le rovine del Convento e del tempio e ad abbellirlo» [17]. 

Emblematica è un’altra sua frase: «I Canonici non smettono di escogitare ogni anno qualcosa di nuovo per costruire edifici a ornamento e decoro di tutta l’isola; e spendono molto denaro come facilmente salta agli occhi di chi guarda» [18].

Esempi virtuosi quasi obbligati, quindi, quasi forzati? No, perché le realizzazioni concrete erano visibili anche agli occhi del visitatore più distratto. I Canonici del Salvatore ricostruirono gli edifici distrutti dagli anni, sia per poterli abitare in modo sicuro, sia perché le foresterie potessero accogliere comodamente i pellegrini.

Anche a Kàlena, prima della loro venuta, le rovine erano talmente evidenti che non era più riconoscibile nessuna forma dell’antico Convento e del tempio. Furono i monaci a  fortificare l’abbazia, con mura alte e solide, per difenderla dai pericoli esterni e dai nemici.

LE “RAGGIONI” DI SANTA MARIA DI KÀLENA

Nel corso del tempo, molti dei favori e dei benefici ecclesiastici erano venuti a mancare, per l’avidità di certi principi o per colpa dei monaci predecessori dei Canonici, che non avevano adeguatamente vigilato affinché le proprietà di Tremiti e di Kàlena non venissero usurpate oppure non cadessero in rovina.

Fu il canonico Timoteo Mainardi, bibliotecario dell’abbazia di Tremiti ad assolvere l’arduo compito di effettuare il minuzioso riordino dell’archivio  dell’abbazia, e di procedere ad un’attenta ricognizione degli antichi diritti goduti un tempo in terraferma dai Benedettini e dai Cistercensi.

Rispolverò vecchi documenti per dimostrare «le raggioni» della Madonna di Kàlena e le ricostruì confine per confine, chiedendo la reintegra dei termini lapidei, che molto spesso erano stati deliberatamente “spiantati” dagli usurpatori, con metodi violenti e minacce contro chi tentava di impedire queste loro azioni.

Tutti questi documenti furono rimessi in circolo dal Mainardi, per dimostrare le «raggioni», cioè i diritti usurpati, affinché i Canonici li rivendicassero, per riacquistare le terre perdute di Tremiti e di Kàlena [19]. A sostenerlo nelle sue tesi c’era un quadro normativo favorevole, mai applicato: i papi Eugenio IV e Nicolò V avevano emanato, su sollecitazione dei Canonici, due specifiche “bolle” contro gli usurpatori e occupatori, detrattori, malfattori dei beni spettanti ed appartenenti alle chiese abbaziali di Santa Maria di Tremiti e di Càlena.

Papa Giulio II, nell’anno 1504, aveva emanato un’altra bolla contro coloro che si erano impossessati “ingiustamente” dei beni di Tremiti. 

Oltre a non rispettare  le bolle papali,gli usurpatori di Kàlena contravvenivano agli indulti, agli ordini ed ai privilegi dei re Ruggiero e Guglielmo e di altri sovrani, i quali avevano confermato ed ampliato le donazioni dell’arcivescovo Leone.

Costui aveva donato all’Abbazia di Peschici i territori, i Casali, le terre, i Castelli limitrofi, con boschi e selve tagliati e non tagliati, liberi da ogni gravame, affinché, libera, ne godesse in perpetuo. Perché gli usurpatori avevano continuato, nel frattempo, ad appropriarsi dei beni dell’abbazia?

La risposta del Mainardi è la seguente: «Perché hanno visto che nessuno le cerca tali ragioni, nessuno muove loro lite»Ad esempio, non era consentito, se non su espressa licenza degli Agenti del monastero, andare a caccia di animali «selvadeghi» nei territori di Càlena, nei suoi boschi e nelle sue selve.  

Invece accadeva il contrario: i baroni si erano prepotentemente arrogati questo diritto spettante solo al monastero. Erano giunti al punto che non solo li usurpavano per sé, ma addirittura pretendevano che i cacciatori pagassero la ricognizione della quarta parte della caccia direttamente a loro, «se no li mettono in prigione  e li fanno pagare quello che vogliono». Essi non si usurpavano soltanto le predette cose, «ma anche la decima delle pescagioni delle sarde ed altri pesci».

Il Mainardi denuncia un altro fatto gravissimo: «I fattori di Kàlena non possono reclamare alla Regia Udienza, perché con scuppette sarebbero ammazzati”. Ecco perché tacciono: ne va della loro vita.

Che fare allora? Conviene che gli “Abbati” di Tremiti e per loro i Procuratori generali che stanno addetti a risolvere le controversie a Napoli e a Roma la denuncia la facciano loro. In alto loco. Essi possono, con una forte azione legale, «farli scomunicare» dal Pontefice, se non restituiranno ogni ragione e giurisdizione della Madonna nel territorio di Peschici.

Dopo aver affermato che tutte le «raggioni» di Tremiti e di Kàlena in questi luoghi e altri sono state smarrite, perse e usurpate, il Mainardi rimprovera duramente la persistente inerzia e la  grande incuria di chi era tenuto a vigilare affinché ciò non accadesse: «Voglio dire quattro parole per tale misfatto e ignoranza o negligenza degli agenti e anche degli abati, i quali dovrebbero molto vigilare e cercare di ben considerare e vedere le ragioni e o i confini dei territori della Madonna di Tremiti e Kàlena e dove i trovano i confini o luoghi usurpati, cercare di reintegrarle con la ragione, e rinnovare dappertutto i termini a poco a poco, acciò non siano fatti maggiori usurpazioni. Le “raggioni” della Madonna di Tremiti e di Kàlena sono state affidate alla cura della Congregazione lateranense, non ai signori baroni».

Chi sono gli usurpatori? Il Mainardi li elenca uno ad uno: «Sono i signori Marchesi di Vico e di Ischitella,  che godono e usurpano o personalmente, o attraverso l’Università che fa loro capo, tutti i territori. Essi sono soltanto degli usurpatori, vogliono godersi tali beni della Madonna  senza alcun scrupolo di coscienza. Gli attuali baroni usurpano i diritti della Madonna peggio dei loro predecessori.

I baroni attuali che ora godono (i baroni Turbolo)  pretendono di godere giustamente perché hanno comprato dalla Corte la Baronia di Peschici e d’Ischitella, i quali diritti pretendono che “fossero” del signor Don Ferrante di Sanguine (de Sangro), e lui don Ferrante de Sangro dal suo avo, che fu Giovanni de Sangro e costui ancora dal suo avo, padre di sua madre, che fu il Signor Giovanni Dentice. Furono costoro che cominciarono ad usurpare tali ragioni».

Il Mainardi lancia un forte j’accuse contro questi feudatari garganici che calpestano i diritti delle due abbazie: «Usurpano tutti i territori della Madonna di Tremiti e Kàlena e ne ricavano frutto ed entrata come se fosse loro. Se non sono fittavoli della Madonna né livellari, né censuari, né renditori di cosa alcuna, com’è possibile che sia permesso loro di perseverare in tale ingiustissimo misfatto e possesso? Non è questa una balordaggine troppo grande, non è questa una grandissima sciocchezza degli agenti e dei prelati che lasciano scorrere tale danno senza ricercare i debiti rimedi? E reiteramenti delle ragioni della Madonna, così come sono state lasciate dall’arcivescovo Leone, e dai serenissimi re di Napoli Ruggero, Guglielmo e Vincalmutalljo?».

Nella sua ricognizione archivistica, il Mainardi elenca le numerose vertenze che avevano contraddistinto il conflittuale rapporto dell’abbazia di Tremiti e di Càlena con i baroni. 

Nel 1518 c’era stato un accordo tra il monastero di Tremiti, il Magnifico Galeazzo Caracciolo, il magnifico Giovanni di Sangro e madama Adriana Dentice, baroni di Peschici ed Ischitella, per la lite che aveva loro mosso il detto monastero di Tremiti, a causa della decima della pesca ed emolumenti del lago di Varano che per molti anni non avevano pagato all’abbazia di Kàlena [20]. 

Si giunse alla seguente convenzione: ogni anno i feudatari avrebbero dovuto sborsare:

·  una decima di 100 scudi d’oro ovvero 115 ducati;
·  50 capitoni freschi;
·  4 sacchette di anguille;
·  20 paia di avi (polli e galline);
·  un numero imprecisato di uova.

Il Mainardi contesta l’entità del risarcimento che, secondo il suo parere, è molto basso: tale rendita arriva appena al pagamento di 200 ducati, mentre la decima dovrebbe fruttare sino a 600 ducati all’anno. I proventi del lago raggiungevano infatti la considerevole cifra di 5.000 ducati.

Un altro reddito fruito al minimo derivava dai numerosi pascoli di proprietà di Tremiti e di Kàlena. Fu ribadito che gli “estranei” che li utilizzavano, dovevano pagare una certa somma.

Anche la Regia Dogana era tenuta a pagare a Tremiti somme variabili a seconda che si trattasse di capo grosso, cioè buoi, vacche, giumente, cavalli, muli e simili o capo piccolo, cioè pecore e capre.

Le somme stabilite, in verità, non venivano rispettate, in quanto Tremiti e Kàlena ne ricevevano soltanto una minima parte. C’era però, da parte della Regia Dogana, il riconoscimento della “proprietà” dei pascoli. Cosa che non facevano i signori baroni, che volevano fruire dei pascoli senza pagare alcunché.

Con quali ragioni? – si chiede il Mainardi – Essi non ne hanno alcuna. Si assiste all’assurdo. Mentre sua Maestà il re Filippo ammette il pagamento della fida alla Madonna, i signori baroni vogliono loro farsi padroni assoluti dei luoghi, boschi e pascoli della Madonna”.

Una copia di una lettera antica, ritrovata l’anno 1584 a Tremiti attestava che i pascoli e gli erbaggi dei territori della Madonna di Tremiti e di Kàlena erano stati usurpati ingiustamente dai Turbolo, baroni di Peschici ed Ischitella nelle seguenti  località:

1.    Isola dell’Imbuti, sul lago di Varano. Roberto, conte di Lesina, l’aveva venduta al reverendo abate Roberto di Càlena  con il castello distrutto e tutte le sue pertinenze. Qui i confini furono posti “in gran danno” della chiesa perché “furono ristretti assai” quando il signor Francesco Maistrillo, commissario deputato del Sacro Regio Consiglio, aveva fatto piantare arbitrariamente i termini lapidei.

2.    Lago Pantano e fiume di Varano. I baroni Turbolo dovrebbero pagare l’integral decima, perché l’abate Roberto, abate di Kàlena l’aveva pagati 150 scudi  di oro schiffato. Questi due territori li aveva acquistati con tutte le loro pertinenze di terre, selve, boschi, olivi, lago Pantano sino al mare con un corso dell’acqua del lago sino al mare dall’uno e dall’altro lato.

3.    Manatec, Montecalena, Circaprete ed altri luoghi della Madonna. Si dovrebbero far pagare agli usurpatori: gli usufrutti, gli alberi tagliati  e far loro notificare un Ordine regio di divieto per l’avvenire.

4.    Valle, colline del Gravalone e Monte Kàlena, nel luogo detto il Cacciatore. In questi luoghi erano stati usurpati più di quattro e sei carra di territorio in semenze. Lo avevano testimoniato sei  periti eletti dal Magnifico e Reverendissimo signor Commissario. Questi uomini “dabbene ed esperti” dichiararono che questi tre luoghi erano tutti di Tremiti e di Càlena, ma i baroni continuavano impunemente a possederli.

Cosa propone Timoteo Mainardi? Che i baroni “devono” restituire tutti i territori usurpati alla Madonna di Tremiti e di Kàlena, Liberamente, senza scandalo, né danno alcuno, ma sotto la pena di scomunica e della perdita dei propri beni. Gli abati presenti e futuri non devono mai più «subire e tenere tali sfrisi in faccia», umiliazioni così cocenti.

Lo sfriso in faccia più eclatante è che, nei luoghi boscosi di Peschici, i signori baroni Turbolo fecero tagliare, e continuano ancora a farlo, tanti legnami da opera che «coglie uno stupore»… Con l’aggravante che anche i “fattori” di Kàlena «fanno anche loro tagliare tanti legnami da opera e ne fanno vendita in modo di mercanzie».  

Per Mainardi è un fatto inaccettabile: «È uno scandalo, un vituperio grandissimo che per tre o quattro carlini danno tale legname che a  volerlo utilizzare nei luoghi bisognosi di Tremiti e Càlena varrebbero di più di tre o quattro scudi d’oro». E questo accade mentre «la casa di Kàlena sta scoperta e senza solaro, con travi vecchi nudi».

La cosa è talmente eclatante che «i contadini che lavorano nei sopraddetti tre luoghi, e anche tutti gli altri che pagano il terratico a detti signori baroni, si meravigliano e si stupiscono del modo in cui Tremiti e Kàlena sopportino tale ignominia e danno, e che non ne facciano risentimento in Napoli alla giustizia, sicché in ogni modo si provveda a imporre il rispetto delle ragioni, eliminando disordini e danni».

Ad usurpare le «raggioni» di Kàlena non erano soltanto i feudatari, ma anche il Clero di Peschici [21]. La Chiesa di Sant’Elia era officiata da preti “morlacchi”, cioè appartenenti alla comunità slava che all’inizio del Cinquecento aveva rifondato il paese dopo l’assalto dei Turchi.

Questi preti avevano usurpato trecento tomoli di terra, aggiungendoli agli altri trecento tomoli che gli abati di Kàlena avevano loro regolarmente concessi nella località denominata “Coppe Gentili”.

Ne fa fede un documento del Regesto del 1588. Si riferisce di una pietra piana con l’impronta del marchio di Tremiti (che limitava la proprietà) spezzata e spiantata. Gli agenti del monastero di Tremiti e Càlena, con licenza del commissario della  Regia Sommaria (esaminatore dei testimoni per parte di Tremiti nella causa di Sfilzi contro i Morlacchi di Peschici), si recarono sul posto per rimettere al posto la pietra predetta, ritrovata vicino alla fondazione di una «fabbrica in piano», vicino circa venti passi dalla Grotta del Fico.

Ma, ad un tratto, per impedire che simile “piantumazione” venisse effettuata si presentò l’arciprete di Peschici con tutta la Corte, armata di tutto punto. Con cotte e campanelle, com’era usanza a quel tempo, l’arciprete slavo gettò una scomunica e minacciò di scomunicare chiunque avesse osato rimettere al suo posto originario il termine lapideo con il marchio di Tremiti e Kàlena.

Lo fece a nome, anzi, come disse, “per ordine” dell’arcivescovo di Manfredonia, il quale, però, interpellato successivamente dagli agenti di Kàlena, smentì categoricamente tale circostanza. Il termine di confine intanto fu portato via e non fu “piantumato”. Il  luogo restò sfornito della demarcazione che ne denotava la proprietà, con grave danno per Kàlena.

Per di più, i Morlacchi, istigati da qualche malo spirito e forse come sospetta il Mainardi, proprio dalla Corte di Peschici, continuarono a  “levare anche i termini lapidei fatti piantare per ordine di Bahordo Carafa, viceré della Puglia al tempo della controversia tra il venerabile monastero di Tremiti e Kàlena e Giovanni Dentice, barone di Peschici”, quando anche costui aveva usurpato le «raggioni» e i territori di detti monasteri.

Il Mainardi chiude la sua filippica contro chi è inadempiente o usurpatore con un lapidario verrà un giorno: certamente tutti costoro dovranno rendere ragione nell’aldilà di questo loro comportamento così lassista e negligente nei confronti delle sacre proprietà.  

A chi? Alla «maestà del Signore Iddio ed alla Madonna».

Per avallare la tesi del divino redde rationem il Mainardi cita un episodio penitenziale, ricordato in una lettera antica del 20 maggio 1471 firmata da Gabriele da Vercelli, abate di Tremiti e di Kàlena [22] . 

Vi si racconta di due periti che, insieme ad altri quattro esperti, avevano giurato il falso a danno “evidentissimo” della Chiesa di Tremiti e di Kàlena. Si erano venduti per 10 vili ducati, attestando diritti inesistenti a favore Giovanni Dentice, signore di Peschici e di Ischitella.   

I due spergiuri, pur essendo sinceramente pentiti di questa loro dissacrante azione, non vennero assolti dal padre predicatore Don Giovanni da Cremona se “primieramente” non avessero chiesto perdono e misericordia ai padri di Tremiti.

I due fedrifaghi, prima di essere perdonati, dovettero sottostare ad una sorta di Canossa garganica. Il priore Gabriele da Vercelli, che si trovava allora Sant’Agata, racconta così la scena del pentimento: «Vennero a noi due uomini di Vico, Pietro di Giorgio e Bartolomeo di Giacomo di Calandra, i quali subito arrivati a noi, inginocchiatosi in terra con una corda al collo pendente a ciascuno di loro, con le lacrime agli occhi, salutandoci, dimandarono con gran pianto, misericordia e perdonanza del loro errore commesso e fatto». Soltanto così furono finalmente assolti.

Ma la vicenda non si concluse senza danno per chi aveva ispirato la nefanda azione dei due periti a sfavore dell’abbazia calenense. Il feudatario Giovanni Dentice ricevette ben presto nel suo castello di Peschici  la visita di una delegazione composta dall’abate di Tremiti e da maggiorenti di Rodi Garganico e di Vasto.

Costoro «andarono a parlargli sopra tal fatto, dolendosi assai di un tale inganno che avrebbero posto alla Regia Corte del serenissimo re Ferdinando (d’Aragona), affinché fosse revocata tale sentenza e testimonianza fatta nei beni della Madonna di Tremiti e di Càlena». Giovanni Dentice tentò di giustificarsi, arrampicandosi sugli specchi. Aveva dato sì 60 ducati al suo servitore, ma non sapeva della corruzione da questo operata sui sei periti… e a suo favore.

Non gli cedettero più di tanto se fu comunque costretto a sottoscrivere che «se tutto fosse stato vero,  egli si sarebbe ritirato dal possesso dei beni di Kàlena, disposto a farne nuovo istrumento». Come accadde.

Le usurpazioni continuarono, come abbiamo visto, anche con i nuovi feudatari. Col passare degli anni le condizioni di vita sulle isole ed in terraferma divennero sempre più difficili.

I Canonici di Roma, impegnati più a curare gli altri monasteri che ad occuparsi delle lontane isole diomedee, si disinteressarono della sorte delle loro abbazie e della fortezza di Tremiti, che caddero in pessimo stato.

Nel 1763 il comandante del presidio tremitense Tenente Colonnello Carlo Brogli chiese, in una particolareggiata relazione, che si provvedesse ai necessari restauri. Visto che continuarono a non essere effettuati, essi furono decisi d’imperio.

Furono effettuati nel marzo dell’anno seguente, a spese dell’Erario, che si rivalse economicamente sui Canonici che avevano mostrato un palese disinteresse alla sorte di quella loro antica casa. Nel 1782 l’abbazia di Tremiti fu soppressa. I suoi beni, che comprendevano anche quelli dell’abbazia di Kàlena, furono incamerati dal Regio Demanio. Li amministrò un funzionario di nomina regia [23].

Nel corso dell’Ottocento molti demani, un tempo facenti parte delle pertinenze di Càlena, furono usurpati dalle famiglie più in vista di Peschici. Così come avvenne anche in altri luoghi del Gargano. Posta così potrebbe sembrare un’altra storia.

In realtà non è così. Le denunce cinquecentesche del Mainardi rappresentano solo il punto di partenza di incuria da una parte e sopraffazione dall’altra di Tremiti e di Kàlena, quest’ultima oggetto di attenzione oggi. Le sue condizioni testimoniano che lo sfruttamento e l’abbandono durano da cinque secoli. Un po’ troppi in verità.


NOTE

1 B. COCHORELLA, Descrizione accuratissima delle Isole Tremiti, un tempo Isole Diomedee, a cura di G. Radicchio, edito da Palomar, Bari 1998.

2 A.S.V. (Archivio di Stato di Venezia): T. MAINARDI, Raggioni del monastero di S. Maria di Tremiti cavate da diversi Istromenti, donazioni et altre, 1592, manoscritto inedito.

3 A. PETRUCCI, Codice diplomatico del monastero benedettino di S. Maria di Tremiti (1005-1237), Roma 1960.

4 Segnaliamo che, nel testo curato da Radicchio, l’espressione «Abbatia Calen(en)sis» del Cochorella viene tradotta erroneamente in «Abbazia di Calvi» anziché «Abbazia di Càlena».

5 COCHORELLA, Descrizione cit., p.157.

6 Ibidem.

7 Ibidem.

8 Ivi, p. 159.

9 Ivi, pp. 159-160.

10 Ivi, pp. 161-163.

11 Ivi, p. 161.

12 Ivi, p. 163.

13 Ibidem.

14  Ivi, p. 191.

15 Ivi, p. 215.

16 Ivi, p. 185.

17 Ivi, p. 177.

18  Ivi, p. 179.

19 MAINARDI, Raggioni cit.

20 Ivi, Carte 76-77.

21 Ivi, Carte 111-112.

22 Ivi, Carte 109-110.

23 A. PETRUCCI, Codice diplomatico cit.

    

©2004 Teresa Maria Rauzino. 

Saggio tratto dagli Atti del Convegno del Centro Studi Martella: Salviamo Kàlena. Un’agonia di pietra, a cura di Liana Bertoldi Lenoci, Edizioni del Parco, Claudio Grenzi editore, Foggia  2003, pp. 67-81, dal quale sono tratte le due immagini pubblicate in questa pagina.

Categorie
Microstorie

La dimensione quotidiana del sacro

Dalle testimonianze raccolte da Angela Campanile in Peschici nei ricordi traspare una forte attestazione di religiosità popolare. Una fede che dava conforto e speranza di una vita migliore alle classi subalterne

In Peschici nei ricordi, una scena ci visualizza le donne dei pescatori mentre, dalla Rupe del Castello, lanciano i santini dei santi protettori nei flutti del mare in tempesta. È emblematica della dimensione che il sacro assumeva nella vita quotidiana del primo Novecento. Anche i piccoli legni, simili a gusci di noce, in balia delle onde, presenti nelle tavolette votive donate alla Madonna di Loreto, simboleggiano l’uomo che stenta a trovare la sua strada nelle temperie della vita.

Il rapporto con i santi e con Gesù era diretto, confidenziale.

I fedeli, e come vedremo, i protagonisti dei “cunti”, si rivolgevano ad essi come se fossero loro conoscenti. Il tono era decisamente familiare. I pellegrini dell’Incoronata salutavano la Vergine con un «Statti bene Madonna mia / ci vediamo l’anno prossimo / e se non vi vedremo più, / in Paradiso ci porti tu!».

L’intervento miracoloso era invocato contro la natura, che spesso assumeva le sembianze di un terribile nemico senza volto. Quando scendeva il buio sulla rocca di Peschici, nelle piccole caverne rupestri o nelle casette di venticinque metri quadri, imbiancate di calce viva, prima di addormentarsi, si recitavano alacremente le preghiere della notte.

La paura di non svegliarsi il mattino dopo era una delle costanti della vita. L’incognita dell’aldilà costituiva un forte incentivo ad arrivarci preparati, imparando tutte le preghiere salvifiche, che diventavano un pass-partout ideale per l’eternità:

Verbe sacce/ e verbe dèiche/ verbe fu nostro Signàure/ che jè misse impassiàune,/ sàupe na cràuce jerte e belle,/ nu vracce nciàile /e n avite nterre./ Alla valle di Giasaffatte,/ allà iàrrimme/ e truàrrimme,/ truàrrimme a San Giuanne/ chi nu libre d’àure mane,/ che liggiàive e che scrivàive/ e che diciàive:/ piccatàure e piccatrìce/ chi sape u verbe di Dei / che ciù dicesse,/ chi no sape/ che ciù mparasse,/ sinnò, quanne jè morte,/ zàuca nfosse,/ spèine granate/ e mazze di ferre jnte a cape!” «Le parole che so le dico, le parole che parlano di nostro Signore che si è messo “in passione” su di una croce alta e bella, un braccio rivolto il Cielo, ed uno in Terra. Alla Valle di Giosafatte andremo, e troveremo San Giovanni, con un libro d’oro in mano. Egli leggerà, scriverà e dirà: “peccatori e peccatrici, chi sa pregare lo faccia, chi non lo sa fare lo impari, altrimenti, quando morirà, sarà punito”. Con corda bagnata, legno spinoso (spèine granate) e mazza di ferro in testa!».

L’invocazione della protezione divina si materializza nella visione di Dio, nella sua accezione trinitaria, e di tutti i santi più rappresentativi della cristianità.

Il dormiente, oltre ad avere nel cuore Gesù Cristo piccolino, con i riccioli che sono tanti fili d’oro, e la Madonna, vede intorno a sé un eccezionale schieramento di spiriti celesti.

A delimitare il sacro spazio di un sonno tranquillo, ci sono ben tredici angeli, sul letto ce ne sono altri tredici, Gesù adulto è a capo del letto, San Giuseppe è il suo avvocato difensore. «A capo del letto mio – recitava il fervente peschiciano – ci sta l’eterno Dio, sui due lati c’è lo Spirito Santo. Vicino a me c’è l’angelo che gioca, se Maria protegge la casa le disgrazie escono fuori, le cose belle restano dentro».

La protezione diventa planetaria quando, dai quattro angoli (cantoni) della casa, entrano altri super-protettori: san Luca, san Marco, san Matteo, e sant’Angelo Gabriele. Il quale non c’entra nulla con gli Evangelisti, ma è determinante per marcare la prima chiusa.

La preghiera continua ancora, con l’invocazione a «Maria Bambinella, tutta pura e tutta bella». Dovrà fare in modo che finiscano tutti i guai della casa protetta, dovrà farlo per l’amore che porta a Gesù. L’ultimo desiderio è di avere Maria per madre, san Giuseppe per padre, e soprattutto di fare una grossa “cumpagnie”, con Gesù, Giuseppe, sant’Anna, Maria, insieme a tutti gli altri santi del Paradiso.

Nella precarietà dell’esistenza, la morte era un evento da preparare per tempo. Passati i quarant’anni, la donna cuciva il corredo “specifico” per sé e per il proprio compagno, poiché non si poteva mai sapere… «nu cunte, na càuse», meglio evitare di farsi trovare impreparati ed esporsi ai pettegolezzi della gente! Ogni anno, l’insolito corredo veniva lavato durante la “luscìa”: doveva essere sempre bianco e profumato di serpillo. «Nun putesse mai sirvì!»: era questo l’augurio che passava di bocca in bocca, mentre i vari capi di lino e di cotone, impreziositi da orli a giorno e da ricami, venivano lavati ed asciugati.

Ma la morte, ultima avventura della vita, arrivava spesso anzitempo. Sorretti da una gran fede, i parenti dell’infermo speravano in un miracolo: fino all’ultimo momento si accendeva la “lampe” davanti ai santi sottocampana, un “altare” consueto sul comò. Si pregava senza sosta, ma quando si sentiva il canto notturno della “mèruila marèine” era proprio la fine! Il detto era: «quando canta il merlo marino, fortunata la casa dove si posa, sfortunata quella che mira!». 

Il Paradiso ad ogni costo

Nella “Settena dei Morti”, che si recitava dal giorno di Tutti i Santi fino al giorno 7 novembre, si fa riferimento ad “alme purganti”, che innalzano mesti lamenti “nel mare del duol”. Esse, sono collocate nel Purgatorio, un carcere, un’oscura prigione, un mare di fuoco, dove l’arsura le brucia. Soffrono le pene dell’Inferno. Ma i morti temono soprattutto l’oblio e la dimenticanza. Le preghiere ed i suffragi da parte dei vivi servono affinché «le anime benedette del Purgatorio si possano rinfrescare (ci putèssine addifriscà)». Il Paradiso è “una bella cosa”. Chi ha la fortuna di arrivarci, dopo una vita di stenti e di duro lavoro, va a riposarsi: «U paravèise / jè na bella càuse / Chi  va / ci va a ripàuse».

Nei racconti di Gesù Cristo, viene descritto come un luogo inaccessibile. È delimitato da una porta, a guardia della quale c’è un san Pietro poco disponibile ad aprirla. Non solo a chicchessia, ma anche a chi ha avuto modo di ospitarlo, insieme a Gesù, durante la vita terrena.

Nei “cunti” di Peschici, però, i protagonisti, con la loro arguzia e con la loro intelligenza, riescono a varcare sempre la porta d’oro del Paradiso.

Come Quagghiarelle, che quando muore, va a bussare al Paradiso. A san Pietro, che chiede chi sia, risponde senza timore, dandogli del tu: «Sono Quagghiarelle, mi fai entrare?».

Al rifiuto deciso di san Pietro, egli non demorde. Chiede di poter sbirciare attraverso la porta, vuole vedere almeno com’è fatto il Paradiso. Poi butta la coppola dentro e, con la scusa di  riprendersela, entra. E comincia a suonare il suo micidiale fischietto, coinvolgendo, in una sorta di ballo frenetico, molto simile ad una “taranta”, tutti i santi del Paradiso.

Quando Gesù Cristo sente tutto quel rumore, chiama a rapporto san Pietro e lo rimprovera: «Ma che vi siete impazziti oggi?»; «Cos’è tutto questo fracasso (stu ribelle) che fate in Paradiso?».

Risponde san Pietro, sconsolato: «Che vuol essere? È arrivato Quagghiarelle, e vuole stare per forza in Paradiso!». E Gesù: «Pietro, Quagghiarelle a noi ci ha ospitato, e noi “l’amma fa stà o Paravèise!”».

In un altro racconto, il tema del Paradiso “conquistato” si ripete, con delle significative, insolite varianti. 

Ntiniucce, il protagonista, in vita ha ospitato Gesù e san Pietro, sorpresi da un temporale presso la sua casella di campagna. Il Maestro, per ringraziarlo, gli concede tre grazie, tra cui quella di poter vincere sempre al gioco delle carte.

Quando l’uomo bussa alla porta del Paradiso, san Pietro non lo fa entrare: «Potevi pure chiedere la grazia del Paradiso! Hai chiesto le “mupie”? Ora vattene all’Inferno!». 

Qui egli sfida Lucifero ad una partita a carte: la posta in gioco è il trasferimento al Paradiso. Ntiniucce vince, una ad una, tutte le anime dell’Inferno! Se le mette in un sacco, e ritorna a bussare insistente alla porta d’oro.

San Pietro, per levarselo di torno, accetta di giocare una partita a carte: la posta in gioco è il permesso d’entrare.  E fatalmente perde. Quando vede uscire dal sacco tutte quelle anime di peccatori, resta come un fesso! (nu fesse). 

E Ntiniucce, senza scomporsi: «Se tu mi avessi fatto entrare prima, ero solo io. Adesso arrangiati!».

 

©2004 Teresa Maria Rauzino.

Recensione del testo di ANGELA CAMPANILE, Peschici nei ricordi, 2° volume “I luoghi della memoria” Centro Studi Martella, Claudio Grenzi editore, Foggia 2000, Euro 16,52.

Categorie
Microstorie

27 gennaio. Oltre la memoria

Un ex docente del “Lanza” di Foggia, diventato preside al “Manzoni” di Milano, epurò 65 studenti ebrei


Giuseppe Pochettino, preside del Liceo classico Manzoni di Milano, nell’anno scolastico 1938-39 procedette all’epurazione di 65 alunni ebrei. Applicò le leggi «per la difesa della razza nella scuola fascista», promulgate  dall’omonimo Regio Decreto del 5 settembre 1938. Il 15 settembre 1938, il preside comunica al Collegio Docenti che «nessun insegnante dell’istituto sarà colpito dal provvedimento che esclude i docenti di razza ebraica», mentre «dovranno essere eliminati (sic) circa 50 alunni, di cui una quindicina di stranieri»; nel verbale del 17 ottobre si fa menzione di libri di testo sostituiti perché di autori ebrei.

Infine, nel verbale del collegio plenario del 3 dicembre, Pochettino informa che «nonostante l’eliminazione degli alunni ebrei»il numero degli iscritti è aumentato. Invita tutti gli insegnanti a voler curare l’aggiornamento dello stato di famiglia, che per molti è in arretrato e incompleto. Tutti dovranno aggiungervi, in particolare, una dichiarazione riguardante la razza.

Dall’interesse suscitato dalla lettura di questi verbali, è nato il dossier Oltre la memoria. La ricerca, effettuata da due docenti e da un gruppo di nove studenti del Liceo-ginnasio Manzoni, ha verificato l’applicazione delle leggi razziali del 1938. In realtà furono circa 65 gli studenti del «Manzoni» cacciati a seguito delle leggi razziste volute dal regime fascista.

La possibilità di accedere all’archivio storico della scuola e di consultare direttamente le fonti dell’epoca, è stata la condizione di base che ha consentito di verificare i dati.

In seguito, attraverso il Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea di Milano, gli studenti hanno contattato due ex -manzoniane “epurate” ancora superstiti: Anna Marcella Falco, che nel 1937/38 aveva frequentato la V Ginnasio C, ed Emma Pontremoli, alunna nello stesso anno della V D.

La loro  testimonianza, corredata di documentazione fotografica di quegli anni, ha consentito di ricostruire molti aspetti della vita del “Manzoni” durante il Ventennio,  quando la scuola è fortemente “fascistizzata”.

Anna Marcella Falco ed Emma Pontremoli (rispettivamente la seconda e la quarta da sinistra)

Le ex allieve hanno raccontato la  loro esperienza di studentesse “emarginate” dai compagni quando, insieme a tanti loro coetanei, furono cacciate dalla scuola pubblica. Interessante è la storia della scuola ebraica di via Eupili, che le accolse, retta dal preside Yoseph Colombo.

La ricerca Oltre la memoria, è stata effettuata tra il gennaio 2001 e il giugno 2002. I materiali sono stati raccolti in un fascicolo cartaceo e rielaborati in forma multimediale.

L’ipertesto è postato sul sito web del liceo Manzoni all’indirizzo: www.liceomanzoni.it. Il lavoro è dedicato a Regina Gani, una delle studentesse del Liceo eliminate dal preside Pochettino, morta nel 1945 ad Auschwitz.

IL PROF. POCHETTINO INSEGNÒ AL LANZA DI FOGGIA

Ma chi era il preside che, così cinicamente, annunciò l’espulsione degli studenti ebrei dalla propria scuola?

Il suo nome non ci è nuovo. Lo incontriamo scorrendo gli elenchi dei  libri di testo del «Lanza» di Foggia degli anni Trenta.

Ben due libri di storia di questo autore risultano adottati dal liceo classico foggiano; era suo anche il manuale di Elementi diColtura fascista, edito dalla SEI.

Giuseppe Pochettino, nato nel 1880 a Castellazzo Bormida (Alessandria), laureato in Lettere e Filosofia, nel 1908/1909 aveva insegnato anche a  Foggia.

Dalla documentazione raccolta dagli studenti del Manzoni, risulta che aveva ottenuto, per concorso, una cattedra di lettere nel Ginnasio inferiore del Lanza.

Trasferitosi in seguito al liceo di Avellino, durante la prima guerra mondiale prestò servizio come capitano di fanteria in zona di operazioni belliche.

Nel 1923 iniziò la carriera di Preside. Fu nominato al «Manzoni» nell’anno scolastico 1932/33, e manterrà la carica sino al collocamento a riposo per motivi di salute nell’aprile 1943.

Varie onorificenze gli furono conferite per l’attività svolta nella scuola e a favore delle iniziative del PNF in ambito scolastico: fu nominato Cavaliere e poi (1940) Commendatore della Corona d’Italia; ricevette la medaglia di bronzo e il diploma di benemerenza della G.I.L.

Scrivono gli studenti del Liceo Manzoni: «All’immagine di Pochettino quale convinto interprete della politica del regime, che emerge dai dati biografici sopra citati o dal ricordo di alcuni ex-allievi, che ne rievocano i discorsi celebrativi in varie cerimonie di regime, tenuti con molta enfasi dal balcone dell’Aula Magna davanti agli studenti schierati nel cortile, si contrappone la testimonianza di altri ex-manzoniani, che lo dipingono come uomo “insignificante”, o comunque mite».

LA «DIFESA DELLA RAZZA» AL PALAZZO DEGLI STUDI

Il Regio Decreto Legge 5 settembre 1938, n. 1390, pubblicato sulla «Gazzetta Ufficiale» n. 209 del 13 dello stesso mese, e convertito senza modifiche nella legge 5 gennaio 1939, n. 99 (GU n. 31, 7 febbraio 1939), riguardante le disposizioni «per la difesa della razza nella scuola fascista», imponeva che: gli alunni «di razza ebraica» non potessero essere iscritti in nessuna scuola statale, parastatale o legalmente riconosciuta di qualsiasi ordine e grado.

Tutti gli insegnanti «di razza ebraica» appartenenti ai vari ruoli dovevano essere sospesi dal servizio, compresi presidi, direttori didattici, personale di vigilanza; gli stessi provvedimenti di sospensione si estendessero al personale docente universitario di ogni grado, a quello delle Accademie, degli Istituti e delle Associazioni di scienze, lettere e arti.

Nell’elenco dei 171 insegnanti di ruolo «di razza ebraica”’ colpiti da tali provvedimenti in tutta Italia abbiamo ritrovato, pubblicato dal Ministero nel 1938, c’è il nominativo di una professoressa che insegnava al Regio Istituto Magistrale «Poerio» di Foggia: si chiamava Maddalena Pacifico.

Nella relazione finale al ministero il preside Flaviano Pilla ignora il fatto. Che fine fece questa docente? Ci sono ex alunni e persone che l’hanno conosciuta e possono aiutarci a ricostruirne la storia?

Nessun altro professore delle altre scuole di Foggia risulta nell’elenco ministeriale. Per il Liceo Lanza abbiamo verificato che nessun docente venne sospeso e dispensato dal servizio per le leggi razziali.

Per quanto riguarda gli studenti espulsi, non è stato possibile rilevare il dato. Mancano, nell’archivio storico della scuola, i verbali del Collegio Docenti o del Consiglio di disciplina del 1938, documentazione che potrebbe illuminarci in proposito.

Bisognerebbe selezionare, come hanno fatto gli studenti del Liceo Manzoni per la loro ricerca Oltre la memoria,  i cognomi (paterni e materni), compresi nell’elenco di 9.800 famiglie ebraiche, in appendice ai Protocolli dei Savi Anziani di Sion, 1938, curata da Giovanni Preziosi, e destinata a istituzioni pubbliche e al PNF.

Bisognerebbe esaminare anche i registri delle iscrizioni, scrutini ed esami di tutte le classi del ginnasio e del liceo per gli anni 1937/38 e 1938/39, prendendo nota dei nomi e dei dati – paternità, cognome materno, possibile esonero dall’insegnamento della religione cattolica – degli studenti che hanno frequentato nel 1937/38 e che, indipendentemente dall’esito finale, non compaiono nei registri dell’anno successivo e non risultano trasferiti ad altre scuole. 

Ma il nuovo clima “razziale” si respira anche al Lanza di Foggia. Scorrendo i testi acquistati per l’anno scolastico 1938-39 dal preside Guerrieri, vediamo che per la biblioteca dei professori fu comprato, fra gli altri, un libro legato all’attualità del momento storico: Gli ebrei in Italia di Schaert Samuele. 

Fra le riviste acquistate per la sala professori spicca La Difesa della Razza. Al Liceo Lanza ci furono alcuni abbonamenti “privati” a questa  rivista, sollecitati dal Preside.

Copertina di un numero della rivista «La Difesa della Razza»

Il primo numero del quindicinale, diretto da Telesio Interlandi e voluto dallo stesso Mussolini come strumento di divulgazione e propaganda delle idee razziste, era uscito il 5 agosto 1938.

La tiratura dei primi numeri fu altissima per quei tempi: circa centocinquantamila copie. Il materiale iconografico insiste su illustrazioni di vari “tipi” di ebrei, di cui era messa in rilievo la sgradevolezza fisica e morale.

Il  “logo” della rivista riproduce l’immagine di una spada che separava l’ariano dall’ebreo e dal nero. Nel numero del 20 settembre 1938, un’impronta digitale con la stella di Davide deturpa il volto “ariano” di una statua classica.

L’idea che si voleva suggerire era che le “razze” ebraica e nera fossero portatrici di corruzione fisica oltre che morale. Le pubblicazioni procederanno fino al 1943, con minore tiratura.

Nel 1939-40 la scuola foggiana, come tutte le scuole italiane, era ormai pericolosamente avviata verso la «difesa della razza ariana», come testimoniano due pubblicazioni acquisite l’anno successivo per la biblioteca del Liceo Lanza; qui furono acquisiti Inchiesta sulla Razza di Paolo Orano; Razza e razzismo di Gino Sottochiesa.

Il preside Guerrieri comunica allo Spettabile Ministero dell’Educazione Nazionale che sono stati acquistati dagli alunni – tramite il suo Ufficio di Presidenza – 69 copie del Primo Libro del Fascista e 200 copie del Libro del Fascista, in aggiunta alle 300 già acquistate l’anno precedente.

I “libri del  fascista”, hanno struttura catechistica, a domanda e risposta e trattano soprattutto il tema della razza. Pubblicati da Mondadori, ad opera del PNF, Il Primo libro del fascistaIl Secondo libro del fascista ed Il Libro del fascista (che li riassume in un volume unico), trattano «la “programmazione” dell’uomo nuovo e dell’italiano di Mussolini».

Sono destinati «alla cultura dei semplici e dei giovani»: «Ogni Italiano deve vivere consapevolmente nel tempo fascista, e l’ignoranza di tali basi della nostra esistenza di Nazione è inammissibile; perciò si è voluto offrire ai Fascisti e ai giovani della G.I.L. questa semplice guida, necessaria per la cultura dello spirito come per i quotidiani rapporti dell’esistenza».

Nella prefazione leggiamo ancora: «Il Libro del Fascista è un manuale a tutti accessibile che contiene quanto è indispensabile conoscere circa la Rivoluzione, il Partito, il Regime, lo Stato mussoliniano». 

Vi sono, difatti, riassunti in brevi capitoli, sotto forma di domande e risposte formulate «con tutta praticità e chiarezza», gli aspetti morali, politici, sociali, organizzativi del Fascismo e vi è data notizia dei princìpi, istituti e ordinamenti su cui è basata l’Italia, «nella sua nuova grandezza». 

La lettura di queste pagine può “illuminarci”, più di tante parole, sulle nozioni di “pulizia etnica” inculcate dal regime agli studenti dell’epoca. Oltre la memoria…

©2004 Teresa Maria Rauzino

Categorie
Microstorie

Natale com’era … antiche tradizioni pugliesi

ATMOSFERE NATALIZIE

Erano anticamente molto più suggestive di quelle di oggi. Ce ne accorgiamo leggendo Usi, costumi e feste del popolo pugliese(1930) di Saverio La Sorsa e Folklore garganico (1938) di Giovanni Tancredi, opere fondamentali per gli appassionati di antiche tradizioni popolari pugliesi.

Saverio La Sorsa ci racconta che le prime note del Natale, in alcune città della Puglia, si avvertivano fin dal 6 dicembre. Era la festa di S. Nicola e nelle varie chiese l’organo suonava per la prima volta “la pastorella” o la “ ninna nanna”.

A Ruvo, ed in altri paesi in provincia di Bari, nella cattedrale venivano accese dodici lampade: dal giorno di S. Lucia se ne spegneva una al giorno; l’ultima nel momento in cui nasceva Gesù Bambino.

Anche Giovanni Tancredi ci descrive mirabilmente le dolci atmosfere che precedevano la festa più attesa dalle nostre antiche popolazioni. Verso i primi giorni di dicembre, nella città dell’Arcangelo Michele, come nei più piccoli e sperduti centri del Gargano, l’avvenimento più importante, quasi straordinario, era costituito dall’arrivo dei pifferai con la zampogna e la ciaramella.

Giungevano dall’Abruzzo e dalla Basilicata, in piccoli gruppi di due o tre persone. Erano avvolti nei loro tipici e inseparabili mantelli a ruota (ferraioli).

Accurata è la descrizione che il Tancredi ci fa del costume tradizionale di questi robusti zampognari dal viso abbronzato: cappelli a cono con le fettucce attorcigliate, corpetto di vello di capra, robone bruno (un’ampia veste di drappo pesante aperta dinanzi), camicia aperta sul collo “taurino”, calzoni di velluto marrone o verde abbottonati sotto il ginocchio, calze di lana grossa, lavorate a mano, e cioce che salgono attorno ai polpacci. Il tutto avvolto da un ampio mantellone pesante di lana blu, con due o tre pellegrine (corte mantelline) una sopra l’altra.

I due “mistici” pastori, uno anziano, l’altro molto più giovane, attorniati e seguiti da gruppi di ragazzini festanti, suonavano le loro “allegre novene” innanzi a ogni porta della città; si fermavano dappertutto: davanti alle botteghe, agli angoli delle vie, sulla soglia delle case, dove le famiglie erano raccolte attorno al focolare.

«Il più vecchio, dai capelli bianchi e dalla barba incolta, suonava la classica zampogna di legno di olivo a tre pive, stringendo l’ampio otre gonfiato fra il braccio destro ed il corpo; il ragazzo imbottava il piffero esile e snello fatto di olivo per metà e di ceraso per l’altra metà con la pivetta di canna marina. Ed entrambi accordavano le caratteristiche nenie in onore della Madonna e di Gesù.

Dopo la suonata di ringraziamento, gli zampognari facevano una “scappellata” salutando il capofamiglia con un “addio, sor padrò”, con l’intesa di rivedersi l’anno successivo. Il suono melanconico, dolce della zampogna ed il trillo stridulo ed allegro del piffero – conclude poeticamente il Tancredi – si spandevano per l’aria rigida sotto l’arco limpido del cielo».

La notte di Natale gli zampognari si recavano nella Grotta dell’Arcangelo. Si toglievano per innato senso di devozione il cappello, se lo mettevano sotto il braccio, e suonavano la pastorella, sulle note della bellissima pastorale di Bach.

Questa semplice melodia commuoveva profondamente vecchi e giovani. Toccava soprattutto la sensibilità, e «ogni fibra» delle popolane «brune e fiorenti». «Una cara tradizione, quella degli zampognari, ormai trapassata, che si rimpiange maggiormente col passar degli anni. Ora i bambini non hanno più la gioia di correre presso i ciaramellari e di circondarli di simpatia e di festa».

«Una simpatica usanza che va scomparendo, facendo venir meno la nota romantica del Natale – sospira nostalgicamente anche La Sorsa – ma, per fortuna, è ancora viva un’antica tradizione: dieci giorni prima di Natale, piccole brigate di suonatori, con chitarre e mandolini, insieme a due o tre cantori, rappresentano, di casa in casa, la lunga filastrocca della “Santa allegrezza”. Narrava la vita e la passione di Gesù».

Il fascino di Folklore garganico è proprio nelle belle immagini con cui il Tancredi ci fa rivivere un tipica notte del periodo natalizio, che è uno spaccato di ciò che avveniva in tutti i paesi del Gargano, dove la temperatura era molto più rigida di adesso, e la neve era di casa:

«Il vento fischia fra le alte cime degli alberi; sibila, ùlula fra le colonne della inferriata della Reale Basilica e i fiocchi di neve cadono sui rami nudi, sulla brulla campagna, sulle case bianche». Le filatrici e le tessitrici, «provvide massaie», chiaccherano allegramente tra di loro, non trascurando il lavoro: fanno contemporaneamente frullare gli arcolai (li uinnele) e muovere lestamente le forcelle (li matassere).

Nell’aria gelida, stemperata dal calore degli ampi e neri camini, si sente che qualche cosa sta nascendo: rinascono la fede, la speranza. «Il popolo garganico – sottolinea Tancredi – ha un vero culto per il focolare domestico. Esso rappresenta un’idea di riposo, di pace dopo il lavoro, ed è simbolo della comunione di vita e di affetti tra le persone che si amano.

Anticamente, e la tradizione si conserva ancora oggi in molte case, ogni notte si soleva serbare acceso un tizzone sotto la cenere, per accendere il fuoco la mattina seguente. Nella notte di Natale, però, nelle ampie e patriarcali cucine garganiche, la fiamma del ceppo non deve ardere soltanto sotto la cenere, ma deve brillare sempre gaia e scoppiettante».

Ecco perché, per questa occasione, vengono riservati i tronchi d’albero più grossi e pesanti, in grado di illuminare la casa per tutta la notte. La Sorsa ci spiega il significato di questo rito: il ceppo simboleggia l’albero «causa del peccato originale di Adamo ed Eva. Solo consumandosi la notte di Natale avrebbe annullato la colpa, in quanto proprio in quella notte Gesù scende in mezzo agli uomini, per la nostra salvezza».

Specialmente nelle case di campagna, il fuoco veniva acceso con un rituale quasi religioso. Doveva ardere lentamente per tutta la notte e restare acceso fino al giorno del battesimo di Gesù, cioè sino all’Epifania. Avrebbe così allontanato ogni disgrazia dalla famiglia. La cenere prodotta dal ceppo veniva sparsa nei campi, per propiziare un raccolto abbondante.

I PRESEPI

Una tradizione natalizia antica è la preparazione del presepe. Lo allestivano ricchi e poveri, ognuno secondo le proprie possibilità: poteva occupare una stanza intera, oppure una panchetta in un angolo della casa. Il presepe era contornato dalla frutta più squisita, in attesa di essere gustata dal Bambinello.

Racconta Tancredi che in molte case, per ricordare la santa grotta e la nascita di Gesù, si fa il presepe «con monti, valli, burroni, strade di carta cenerina o giallognola ben piegata e schizzata di colori e ornata di erbette e di muschi; con alte fra­sche verdi, fra le quali occhieggiano i corbezzoli rossi e risaltano gli aranci d’oro; con grosse zolle di terra, e con angeli sospesi sull’arco della grotta e osannanti Gloria a Dio nei cieli e pace sulla terra agli uomini di buona volontà.

Non mancano castelli, casupole di pastori, capanne solitarie a cui menano viuzze e sentieri. Il presepe con le candele accese è benedetto dal padre di famiglia».

Singolare è un’usanza di Modugno (Bari), riferita da Saverio La Sorsa. Nelle case dove c’era il presepe, la sera familiari e vicini, dopo la novena, recitavano tre Ave Maria per le camicie del bambino, tre per le cuffie, e tre per le fasce: per ricordare che Gesù nacque in una povera stalla, senza corredino usuale.

Nella nostra Peschici, per tutto il tempo di Natale, le case erano allietate da canzoni sul tema, intonate a varie riprese da tutti i componenti della famiglia, e in particolare dai bambini.

Una nenia, in particolare, riguarda proprio la preparazione del corredino di Gesù, non prima, ma dopo la sua nascita: «Ninna nanna /o Bammnell’/ che Maria vò fatjà/ gli vò fa la camicina/ ninna nanna Gesù bambin’».

Questa strofa era seguita da altre simili, a parte il capo del corredino che variava fino al completamento del cambio del neonato. Alla camicina seguivano le scarpette di lana (i’ scarpitell’), la cuffietta (a’ cuffiett’), il vestitino (u’ vestitin’). La Madonna li confezionava a mano, approfittando dei momenti in cui il suo bambino dormiva.

L’ALBERO DI NATALE

Nelle case dei signori troneggiavano anche i primi alberi di Natale. Erano ornati di arance e mandarini, abbelliti da stelle d’argento, fili d’oro, nastri di seta o piccoli pezzi di ovatta, per dare l’idea della neve. Sui rami, giocattoli, doni, chicche, cioccolatini.

Dopo la benedizione del capofamiglia, venivano distribuiti ai bambini. Poi si cantava, si suonava, si ballava, ed i padroni offrivano vari dolci e rosoli ai convenuti.

PREPARATIVI … IL PANE DELLA FESTA 

In ogni famiglia, nel periodo natalizio, si dedicava molto tempo e attenzione alla cucina. Si preparavano dolci e pasti degni dell’evento. Il Tancredi riferisce che, due o tre giorni prima di Natale, quasi tutte le famiglie facevano il pane bianco le ppene suttile (mentre usualmente si mangiava il pane bruno): erano grossissimi pani circolari, convessi, detti uceddete.

Pesavano fino a otto, nove chili. «Uno degli uceddete si conservava, per devozione, fino al giorno di Sant’Antonio Abate, che ricorre il 17 gennaio, per farne pancotto».

Ricordo una canzoncina cantata da mia nonna, originaria di Vico del Gargano. Recitava: «Mò vene Natale/ mò vene Natale/ e vene a’ fest’ di quatràre/ e nà pett’l e nà ‘ranoncke/ mamma li stenne e tate l’acconcke» (Ora viene Natale, ora viene Natale, e viene la festa dei bambini/ e una pettola e una ranocchia/ mamma le stende e papà dà loro forma). La “ranoncke” era un piccolo pane spruzzato di mandorle tritate, confezionato apposta per i bambini in occasione della festa di Natale.

Ci racconta La Sorsa che a Conversano, vari giorni prima di Natale, dopo la mezzanotte i garzoni dei fornai andavano in giro per la città, battendo tegami di rame o di stagno, e gridando: «Alzàteve, femmenèlle,/ Mettite la calddarèlle, / Facite lu pane bel1e,/ Le dolce e le ciambèlle»…

In altri paesi facevano baccano a più non posso con marmitte, cam­pane di bovi, tamburelli e fischietti, gridando per le strade: «Alzàteve megghjere de cafune/ E tembrate pèttele e calzune/ Alzàteve, megghjere d’artiste,/ E tembrate u pane a Criste:/ Alzàteve donne belle / E mettite la calddarèlle».

Invitavano le massaie a servirsi del loro forno per infornare pane, dolci e ciambelle: avrebbero avuto un buon trattamento, e a un prezzo conveniente. Anche allora esisteva la concorrenza.

   

… DOLCI E FRITTELLE

Molto accurati erano i preparativi per il cenone; anche nelle famiglie povere si preparavano i manicaretti di rito. Ogni paese aveva la sua specialità, e nessuno derogava dalla tradizione.

I dolci hanno un significato simbolico, e ce lo spiega La Sorsa: nella fantasia popolare le “cartellate” rappresentano le lenzuola di Gesù Bambino; i “calzoncicchi” i guanciali su cui Egli posò il capo; i “calzoni di S. Leonardo” simulano la culla; “il latte di mandorle” è evidentemente il latte della Vergine, e i “mostacciuoli” sono i dolci del battesimo.

Sempre il La Sorsa ci documenta che a Peschici le donne fanno le “pettole” lunghe mezzo braccio. In effetti, ancora oggi, la specialità peschiciana sono proprio le “pettole”.

Le massaie sono abilissime nello stendere la massa lievitata di questo dolce. Le frittelle raggiungono lunghezze considerevoli. Un proverbio invitava a non saltare questo rito natalizio per eccellenza: «I pett’le che nun cj fanne à Natale/ nun ce fanne manch’ à Cap’danne» (Le “pettole” che non si fanno a Natale, non si faranno per tutto il resto dell’anno).

Ci racconta La Sorsa che, in alcuni paesi delle Murgie, accorgimenti al limite della superstizione caratterizzano il rito della frittura delle “pettole”.

Le donne debbono impastarle solo dalla mezzanotte all’alba della Vigilia: chi per trascuratezza lo fa in altro momento, deve aspettarsi delle disgrazie.

Le contadine, secondo la tradizione, consigliano di non bere mentre si friggono le frittelle, le cartellate, le pettole, altrimenti assorbiranno troppo olio, che rischia di non bastare.

Dall’ultima pasta da friggersi, tolgono un pezzo, e dopo aver recitato una preghiera, lo buttano nel fuoco del camino in segno di augurio.

La donna intenta a friggere non dovrà assolutamente lodare la frittura senza dire: “Dio la benedica”, pena la cattiva riuscita dei dolci. Nel passare la frittura da un piatto all’altro, dovrà lasciare almeno un dolce, altrimenti gli altri andranno a male.

   

IL MERCATO DELLA VIGILIA

A Monte Sant’Angelo, nei giorni precedenti la festa, le strade sono più animate del solito, le botteghe offrono insolite leccornie: ciambelle, fichi secchi, pere, mele, nocciole.

«Nella vigilia di Natale, poi, in diversi punti della città, si mettono fuori le bancarelle sul­e quali fanno bella mostra molte sporte, di varie dimensioni, in cui le anguille sottili, agili e vive serpeggiano, si aggrovigliano, scivolano sul lastricato ed i superbi capitoni, che si pescano nei laghi di Lesina e di Varano, si muovono pesantemente; in altre ceste più eleganti si osservano i cefali, lu pesce bianche dalle squame d’argento e dagli occhi vitrei, le triglie semidorate, i merluzzi ce­nerini e le alici argentee messi in vendita da una ventina di pescivendoli, ciascuno dei quali a squarciagola vanta la propria merce».

Anche il La Sorsa rileva che sulle bancarelle del mercato della Vigilia si vende ogni ben di Dio: I fruttivendoli ornano «assai bellamente» le ceste delle frutta con nastri, fiori e carte veline di vario colore; altri piantano, innanzi alle loro abitazioni, l’albero del Natale carico di arance e limoni, e attorno al tronco ammucchiano la verdura.

IL CENONE DELLA VIGILIA

Il 24 di dicembre si digiuna a mezzogiorno; un proverbio riferito da La Sorsa recita: «Chi non fasce u desciune de Natale, o è turche, o è cane», comunque alcune famiglie spezzano il digiuno con qualche “pettola” ripiena di alici o di ricotta forte. La sera si fa il cenone, con la famiglia al completo. Dice il proverbio: «Natale e Pasque che le tue, Carnevale a do te trùve».

A Monte Sant’Angelo, la sera di Natale, riuniti i parenti e gli amici più intimi si cena in lieta compagnia, soprattutto per la felicità dei bambini. La cena tradizionale, in tutte le case, viene preparata nell’ampio camino.

Tradizione vuole che le famiglie dei contadini mangino «li laine pli cicere clu sughe dlu baccalà», cioè fettuccine fatte in casa, con i ceci conditi col sugo di baccalà: Il menù dei ricchi “galantuomini” prevede invece spaghetti con le alici, oppure col sugo di pesce e broccoli stufati.

Altri piatti di rito sono il capitone arrostito oppure fritto, marinato e le anguille (1’ancidd). Le più squisite sono le così dette mareteche, che crescono tra la foce del mare ed il lago.

LA NOTTE DI NATALE

A Monte Sant’Angelo la gente si riversava nelle strade, in un continuo via vai; «numerose riunioni si formano nei caffè; i fanciulli suonano la puta puta, i giovanetti l’organetto, gli uomini la chitarra battente e la francese; i pecorai la c’iaramedd e la freschett; molti cantano, altri ballano, tutti gridano, ridono, gesticolano; si sparano piccole batterie, castagnole, razzi, bombe; si accendono bengali, mentre la gente come un fiume va, va, spinta dal desiderio di divertirsi».

Con un certo anticipo sulla funzione sacra a Gesù Bambino, donne e ragazzi, con sedie e sedioline impagliate, che portano sulla testa o sotto il braccio, si avviano verso la Basilica di S. Michele, dove una folla immensa si pigia, urtandosi lungo la scalinata di ottantotto gradini e dietro la Porta del Toro ancora chiusa.

Questa veniva spalancata solo quando «dal vetusto campanile angioino le grosse campane spandevano il loro armonioso suono. La millenaria Grotta in pochi minuti è gremita di gente».

La descrizione del Tancredi ci visualizza benissimo l’idea di quello stare tutti insieme, accalcati nella Sacra Grotta: saltano inevitabilmente gli austeri e puritani tabù di quel tempo, che impediscono ai giovani innamorati di stare a stretto contatto fisico. «In questa Santa Notte, nella Reale Basilica fermentano gli amori in un dolce contatto di fianchi, di braccia, di piedi».

Naturalmente, nell’attesa della funzione, la Grotta dell’Angelo, come tutte le altre chiese, si trasformava in animata sala di conversazione; e si assisteva anche a curiosi scherzi: «I giovani, in questa confusione, cuciono le vesti alle giovanette, alle donne anziane, le quali, all’uscita della chiesa, trovandosi legate, gridano e inveiscono contro i giovani maleducati».

Nel Salento, ad ora inoltrata, anche nelle case si compiva la cerimonia della nascita del Redentore. S’illuminava il presepe con piccole candele, e da una stanza vicina muovevano in corteo i bambini e le bambine presenti; il più piccolo portava il Bambinello di cera o di creta in una culla di coralli, gli altri con candele in mano l’accompagnavano in processione.

Il padrone di casa recitava dei versetti, a cui rispondevano i presenti, delle preghiere, quindi deponeva il Bambinello nella grotta, fra Giuseppe, Maria, il bue e l’asinello. Terminata la cerimonia, si cantava la pastorella, si sparavano razzi e bombe carta, e si tornava a giocare.

ARRIVA IL GIORNO TANTO ATTESO…

Si accorre in chiesa a sentire le tre messe, in ore diverse, con un certo intervallo: la prima a mezzanotte, la seconda all’aurora, la terza a giorno inoltrato. Tutti si vestono a festa: «La notte de Natale/ Se mutene pure le ferrare»(La notte di Natale si cambiano anche i fabbri).

Per le vie ognuno rivolge gli auguri alle persone che incontra. Molte famiglie si scambiano i doni: per le vie è un via vai di servette e di ragazzi che portano, avvolti in bianche salviette, piatti speciali a questa o a quella casa.

CREDENZE E SUPERSTIZIONI

Si pensava che la notte della Vigilia Gesù, accompagnato da schiere di Angeli, scendesse nelle case: portava pace e felicità fra gli uomini. Riferisce La Sorsa: «Le donne ritengono che a mezzanotte la Madonna scenda dal camino, e asciughi al calore del ceppo i pannolini che devono fasciare il Bambino».

Dopo la cena si lascia la tavola imbandita: si ritiene che debbano venire dall’altro mondo le anime dei parenti morti, i quali per gentile concessione divina potranno partecipare, solo per quella notte, alla felicità domestica.

A mezzanotte gli animali, per grazia speciale del Redentore, potranno parlare; ma è vietato osservarli, pena la morte istantanea.

Se si spegne il ceppo, è cattivo augurio: potrebbe morire il padrone di casa. Molte persone conservano i resti del ceppo per esporli in caso di burrasche o temporali. La cenere, posta sul collo dell’ammalato, guarirà il mal di gola; le donne la conservano in una tazza, esprimendo il desiderio di voler vivere un altro anno.

Allo scocco della mezzanotte, i vecchi insegnano ai giovani gli scongiuri per evitare le tempeste, o il “pater noster verde”: allontanerà i tifoni e distruggerà il malocchio.

Se una ragazza la notte del Natale si guarderà allo specchio con i capelli disciolti potrà vedere, invece della sua immagine, quella del suo futuro sposo.

Le donne che impastano la farina la notte della Vigilia, possono fare a meno del lievito: Gesù farà crescere lo stesso il pane.

Nei paesi del Foggiano si crede che chi nasca nel giorno destinato al Bambino, divenuto giovane, sia preso da una forma di pazzia, e diventi “lupo mannaro”. Per guarire tale malattia occorrerà, con coraggio, pungere, con la punta di un coltello, l’ammalato, allo scocco della mezzanotte, per “fargli uscire il cattivo”.

AUSPICI PER UN BUON RACCOLTO

Un grande attenzione è riservata alla campagna. I contadini, terminate le pratiche religiose, vanno in campagna a trarre gli auspici per il nuovo raccolto. Il primo augurio è che il sole regni incontrastato nella volta azzurra.

Se a Natale il cielo è limpido e sereno, ed a Pasqua è oscurato da nubi, il raccolto delle biade sarà sicuro: «Natale sicche,/ massare ricche». In tale giorno si osserva la pianta della fava; se è nata e si mostra ben avviata, è buon presagio per il raccolto delle olive e delle mandorle.

I caprai prevedono il tempo dal modo come in quel giorno le pecore brucano l’erba. Il giorno di Natale è quindi giorno di buon auspicio. Regolerà l’andamento dell’annata, allo stesso modo che il giorno natale d’un bambino determinerà tutta la sua vita.

   

UNA NUOVA SOLIDARIETÀ… NEL SEGNO DI QUELLA ANTICA

Nel rievocare il clima del tempo che fu, le antiche tradizioni di fine Ottocento, inizi Novecento, perché la memoria dei nostri padri non sia dimenticata, un dato ci colpisce: nonostante le condizioni di vita più precarie di oggi, un senso innato di solidarietà caratterizzava il popolo pugliese.

Come ci racconta Saverio La Sorsa, i contadini amavano invitare nella propria casa i derelitti e gli orfani per offrire loro un buon boccone, per evitare che vadano raminghi e provino stenti in quella notte.

I “poverelli”, ospitati a tavola in quel giorno, facevano le veci delle “anime dei morti”. E se c’era qualche amico, che non aveva potuto raggiungere la propria famiglia lontana, veniva invitato. Gesù Bambino, ospitato a suo tempo in una grotta, sarebbe stato felice di sapere che nessuno, il giorno della sua nascita, era senza tetto e conforto.

Anche adesso, in questi giorni di Natale, c’è un uomo… ci sono uomini, donne, giovani e bambini, che non hanno una casa dove tornare, né un pranzo caldo, né amici o parenti, con cui condividerlo.

Un uomo… tanti uomini… poveri, sfortunati, colpiti da eventi tristi e luttuosi, da tragedie. E noi non possiamo voltare la testa dall’altra parte, non possiamo dire “non mi riguarda”.

Questi uomini senza voce, senza potere, senza speranza, non vogliono essere dimenticati. Per Natale, sforziamoci di non essere distanti! Dimostriamo una nuova solidarietà, una solidarietà concreta, non fatta soltanto di vane parole. Anche un gesto piccolo è importante!

©2004 Teresa Maria Rauzino. 

Articolo pubblicato poco prima del Natale 2003 nel sito www.foggiaweb.it

Categorie
Microstorie

Da Corfù a Foggia alla ricerca delle radici elleniche

Il 28 febbraio la risorta comunità ellenica di Capitanata ha festeggiato l’anno nuovo. Un’occasione per ricordarne gli illustri fondatori

I Greci siamo noi. Dal Salento al Gargano, alle isole Diomedee, la Puglia pullula di toponimi ellenici. Lo sbarco di queste popolazioni sulle nostre coste è attestato da numerosi reperti archeologici.

Le monete d’oro, argento e bronzo e le suggestive pitture vascolari rinvenute in Arpi, un sito archeologico a tre Km da Foggia, attestano la floridezza della città diomedea. 

Diomede in Arpi è un bel quadro del pittore foggiano Nicola Parisi: acquista una rara potenza evocatrice del remoto passato di Foggia, quando gli Elleni, vittoriosi su Troia, e conquistatori erranti delle isole e delle coste garganiche, giunsero nella piana del Tavoliere, integrandosi con i  Dauni e fondando la potente città arpana.

Luigi Pietro Marangelli, che ha analizzato i documenti dell’Archivio diocesano di Foggia, afferma che, in epoca moderna, la più antica famiglia greca stabilitasi in città fu quella dei Perifano (leggasi Perìfano).

Nel 1774 Il libro dei nati  registrò la nascita di Antonio, primogenito del  capostipite Giorgio Perifano e di Arcangela Bifulco. Seguiranno altri sei figli: Michele, Rosa, Spiridione (in omaggio al patrono di Corfù), Sofia, Giambattista e Demetrio.

La famiglia giunge da Corfù, probabilmente nel 1750; a Foggia si fa costruire una bella casa nelle adiacenze di via Arpi, in Vico 1° Zingani: Palazzo Perifano (completamente distrutto dai bombardamenti del 1943).

Nel 1848 l’avvocato Pietro de Plato (1804-1884) fa erigere una cappella gentilizia nel cimitero di Foggia, sul Viale del Dolore. Poeta e patriota, aveva sposato la diciassettenne Casimira, figlia di Michele Perifano. Il matrimonio era stato celebrato il 16 maggio 1836, con dispensa della Curia per l’età della sposa.

Al fastoso ricevimento nuziale a palazzo Perifano furono invitate le famiglie più in vista di Foggia: gli Altamura, Bruno, Postiglione, Scillitani, Celentano. Tutti romantici poeti e avvocati che cospiravano per la libertà e l’unità d’Italia, contro Ferdinando II e contro il papa-re Pio IX, all’unisono con la colonia ellenica dei Perifano. Questi si batterono per l’indipendenza e l’unità d’Italia e subirono persecuzioni e condanne.

L’Italia, che aveva affinità con il loro paese di origine, diventò la seconda patria per cui combattere. Sull’esempio di Santorre di Santarosa e George Byron che avevano lottato per l’indipendenza della sua patria d’origine, Spiridione Perifano jr., scrittore e patriota, combatté in Lombardia per l’indipendenza e l’unità d’Italia. Egli fu grande amico di Giuseppe Mazzini e Luigi Settembrini. 

Antiborbonico, subì tre anni di carcere dal 1839 al 1842. Ferventi repubblicani mazziniani, dopo la spedizione dei Mille, i Perifano sostennero la monarchia sabauda. Il 14 febbraio 1862, alla testa di un corteo, gridarono per le strade di Foggia: «Viva il Papa-prete / abbasso il Papa-re / viva Garibaldi!».

Francesco Saverio Altamura, La prima bandiera italiana portata in Firenze nel 1859

Francesco Saverio Altamura (Foggia 1822- Napoli 1897), il più illustre pittore dell’Ottocento pugliese, fu membro della comunità ellenica foggiana: era figlio di Sofia Perifano.

Dopo aver studiato presso gli Scolopi di Foggia, Altamura si era trasferito in Campania. Come i suoi cugini Perifano, prese ripetutamente parte alle lotte risorgimentali italiane: nel 1848 a Napoli si distinse tra i dimostranti sulle barricate di Santa Brigida.

In quel sanguinoso scontro si contarono 145 morti e circa 300 feriti. Per Altamura le conseguenze furono drammatiche: fuga, esilio nel granducato di Toscana e condanna a morte in contumacia. Rientrò a Napoli nei giorni della riscossa del 1860: combattè a fianco di Garibaldi sul Volturno, a Capua e a Gaeta. 

Altamura, personalità di spicco della cultura partenopea, fu eletto consigliere comunale e contribuì alla fondazione della Pinacoteca di Capodimonte. Negli anni successivi, partecipò alle Esposizioni artistiche di Parigi, Torino, Roma e Napoli, dove fu altamente apprezzato. Il pittore morirà a Napoli nel 1897.

Carlo Villani lo ricordò così, nell’ultimo saluto: «È il nome di lui, già passato nel dominio della storia, mentre va ad assidersi tra le più fulgide stelle dell’Olimpo dell’arte, resterà per Foggia monumento colossale pari alle piramidi, resterà come suo vanto, suo orgoglio sua religione». Nel 1901 la città natale, Foggia, gli dedicherà un monumento.

Intanto, ormai in strettezze economiche, quasi tutti i Perifano si erano trasferiti ad Avellino e Salerno. Qui furono aiutati dai parenti di Saverio Altamura. A Foggia restarono soltanto Casimira e il marito Pietro de Plato.

Francesco Saverio Altamura, Ritratto della nipote Maria

Sei anni fa, questo nucleo della comunità ellenica foggiana, forte dei nuovi arrivi, si è organizzato in un’associazione, oggi guidata da Ioanna Papanicolau (presidente) e da Emmanuel Stratakis (vicepresidente). Varie sono le iniziative comunitarie in campo religioso e culturale. Funzioni di rito ortodosso vengono celebrate ogni mese presso la chiesa di San Domenico. La memoria della lingua di origine è tenuta viva  da insegnanti di madrelingua.

Un recente convegno a Bari ha fatto il punto sui rapporti storico-culturali fra Grecia e Puglia. Docenti provenienti dagli atenei di Bari, Lecce, Napoli, Cosenza, hanno approfondito aspetti di storia comune: tra gli altri, Luciano Canfora (Italia e Grecia in epoca fascista); Giorgio Otranto (La Puglia cerniera tra il Mediterraneo e l’Europa: La Grecìa salentina); Pasquale Corsi (Presenza bizantina in Puglia durante il medioevo); Maria Perlorentzu (Gli studi neoellenici nelle Università pugliesi); Isabella Bernardini (Grecìa salentina: un’isola linguistica nel Salento); Roberto Romano (Poeti italo-bizantini di terra d’Otranto nel XII e XIII secolo); Gianni Korinthios (La diaspora ellenica in Italia meridionale dopo la caduta di Costantinopoli).

Giorgio Otranto, Luciano Canfora e il giornalista Gustavo Delgado solleciteranno l’inserimento, nello Statuto della regione Puglia, di un  richiamo alle comuni radici culturali greche.

Fra i progetti della comunità greca di Foggia un sito web, un giornale e una collana di pubblicazioni per riscoprire le radici degli insediamenti ellenici in Capitanata e divulgarne la cultura. 

Il 28 febbraio 2004 questo programma è stato presentato durante l’annuale festa in onore di Hagios Vassilos (San Basilio). È una cena, allietata da musiche e balli folkloristici, culminante nel taglio di una torta augurale: la Vassilopita.

Nell’impasto del dolce si mette una monetina, possibilmente d’oro.  È il padrone di casa, o il capo della comunità, a tagliare la torta, offrendone una fetta a tutti i presenti, insieme ad un rametto d’ulivo.

Una certa ritualità sovrintende al rito: la prima fetta non si mangia, è riservata a san Basilio o alla Madonna; la seconda è per la casa; la terza è per i poveri; le altre per i familiari, parenti e amici. Chi troverà la monetina d’oro sarà «il figlio della fortuna» per il 2004!

SOTTO IL SEGNO DELLA VASSILÒPITA, LA TORTA CON LA MONETA D’ORO

Oggi non c’è comunità greca nel mondo che non festeggi l’inizio dell’anno con la Vassilòpita. La “torta di San Basilio” trae origine da una leggenda. Si racconta che, quando la città di Cesarea fu assediata dai barbari, il suo vescovo Basilio (329-379) si prodigò per raccogliere oggetti preziosi.

Per scongiurare stupri, incendi e atti vandalici, li offrì al capo degli invasori il quale, colpito dalla figura ieratica di Basilio, tolse l’assedio alla città senza portare via nulla. Il problema era restituire le monete d’oro e i gioielli a coloro che li avevano offerti.

Ma come fare a individuarli? Basilio trovò un escamotage: fece preparare una torta in cui furono posti, in ordine sparso, tutti i preziosi. Ciascun cittadino ne ebbe una fetta. I più fortunati vi trovarono le monete e i gioielli.

La ricetta della Vassilòpita si basa su ingredienti semplici: 1 kg. e 300 grammi di farina, 320 grammi di zucchero 320 ml. di latte, 240 grammi di burro o margarina, 50 grammi di lievito di birra, 6 uova (5 per l’impasto ed 1 da spennellare sulla torta), mezzo cucchiaio di sale, mandorle pelate e semi di sesamo.

Dopo aver sciolto il lievito in un po’ di latte caldo, aggiungere una tazza e mezza di farina, impastare e far riposare il panetto in luogo caldo per mezz’ora.

In una grossa ciotola mettere il resto della farina, la margarina fusa, le uova sbattute, il restante latte tiepido, lo zucchero, il sale e l’impasto lievitato. Lavorare bene il tutto e far lievitare per 4 ore. Impastare di nuovo, inserire la monetina d’oro, e disporre il panetto in uno stampo imburrato.

Spennellare la superficie della vassilòpita con l’uovo, disporre le mandorle a forma di croce e cospargere di semi di sesamo. Far lievitare mezz’ora. Cuocere in forno a calore medio, finché il dolce sarà dorato. Servire con moscato e vini “passiti” ellenici.

©2004 Teresa Maria Rauzino.

Articolo pubblicato dal «Corriere del Mezzogiorno», inserto pugliese del «Corriere della sera» del 26 febbraio 2004. Foto 2 e 3: © Vassilopita 2004.

Categorie
Microstorie

Lacrime americane

Gli emigrati di tutto il mondo sbarcati nel ‘Paese della Libertà’ schedati e ‘marchiati’ con il gesso

A fine Ottocento, Edmondo de Amicis viaggiò a bordo della nave Galileo, che trasportava gli emigranti italiani in Uruguay ed in Argentina. Nel suo reportage Dall’Oceano scrisse: «C’erano molti Valsussini, Friulani, agricoltori della bassa Lombardia, contadini d’Alba e d’Alessandria che andavano all’Argentina non per altro che per la mietitura, ossia per mettere da parte trecento lire in tre mesi e navigando quaranta giorni. Tessitori di Como, famigli d’Intra, segantini del Veronese. Della Liguria il contingente solito dato in massima parte dai circondari di Albenga, Savona e Chiavari…».

Questa cronaca sfata un luogo comune: negli ultimi venti anni dell’Ottocento fu soprattutto dal Nord Italia che si espatriò per La Merica. Solo col nuovo secolo arriverà l’ondata “sudista”. Culminerà nel 1906 con 787.977 espatri dall’Italia Meridionale: centomila persone partirono dalla sola Sicilia. 

Il sogno americano si alimentò delle immagini dei bastimenti proposte dalle numerose compagnie di navigazione. La pubblicità dell’epoca fece centro nell’alimentare i “sogni” degli aspiranti migranti. Il transatlantico imponente e leggero, sicuro sui mari in tempesta, alimentava la speranza del sogno americano: chi avesse raggiunto la Statua della Libertà avrebbe avuto una vita dignitosa, lontana dalla miseria, dalla fame e dalle malattie. 

Molti si affrettarono a svendere le loro misere proprietà pur di acquistare il biglietto di quella nave: per realizzare un sogno così a portata di mano. Attratti dal sogno, migrarono ben 60 milioni di persone dall’Italia, nel corso dei vari periodi storici, lasciandosi dietro la terra d’origine, gli affetti e le loro tradizioni. Nelle valige mettevano foto, santini, opuscoletti che gli ricordassero i luoghi e le persone che lasciavano in patria.

Una locandina della società di navigazione La Veloce, che garantiva un «servizio celerissimo con vapori elegantissimi» non smentisce il suo spot: una madame, vestita con abito e cappellino belle époque, saluta, sventolando un fazzoletto bianco, l’arrivo di una nave nel porto di Genova. A bordo ci sono gli “americani”, che rientrano in Italia. Tornano dall’America per trovare le mogli ed i parenti italiani.

Ormai sono benestanti, gente di successo. Ma in quali condizioni “reali” viaggiavano gli emigranti italiani? È lo stesso de Amicis a rivelarcelo: «ammassati tra pile di cartoni, valige e animali, assieme a ladri e uomini puzzolenti di sporcizia, vi erano donne malate con figli denutriti. In terza classe spesso non c’era nemmeno un bagno per centinaia di passeggeri, costretti ad andare in seconda per trovarne uno disponibile». 

ELLIS ISLAND L’ISOLA DELLE LACRIME

Dopo 40 giorni di navigazione, i bastimenti raggiungevano Manhattan. Ma prima dovevano transitare per Ellis Island, l’isola principale di Nuova York. Nel 1894 era la più grande stazione di smistamento degli immigrati. Il governo americano controllò il flusso migratorio con metodi ferrei, polizieschi. E la diversa estrazione sociale dei naviganti marcava “la differenza”. 

Quando le navi a vapore entravano nel porto di New York, i più ricchi passeggeri di prima e seconda classe venivano ispezionati a loro comodo nelle loro cabine e scortati a terra da ufficiali dell’immigrazione. Invece i passeggeri di terza classe venivano portati a Ellis Island per l’ispezione “dura”. Giunti sulla piccola isola, gli emigranti poveri, sbarcati da navi provenienti da tutto il mondo, venivano ispezionati, interrogati. Si eseguivano meticolosi controlli per eliminare gli indesiderabili e i malati. I medici accertavano soprattutto “le malattie ripugnanti e contagiose” e le malattie mentali. Gli ammalati o i “sospetti” tali venivano marcati sulla schiena con una croce bianca segnata con il gesso, confinati sull’isola per la quarantena oppure reimbarcati. I capitani delle navi avevano l’obbligo di riportarli nel porto del paese d’origine.

I dati attestano che almeno il 2% per cento degli emigranti furono riportati a casa. Ma molti sfuggirono alla triste sorte del foglio di via, del rientro coatto: cercarono di restare a tutti i costi: si tuffarono in mare, raggiungendo Manhattan a nuoto. Di solito, quelli accettati, dopo una quarantena di qualche giorno venivano smistati per varie destinazioni.

La maggior parte degli immigrati venne mandata a popolare il New Jersey. Ad Ellis Island, le “Scale della Separazione” marcarono forzate “divisioni” di interi nuclei che si erano imbarcati sulla stessa nave. Dal 1917, quando gli Stati Uniti entrarono nella prima guerra mondiale, i sentimenti anti-immigrazione e le ostilità isolazioniste raggiunsero il massimo. Ed il ruolo di Ellis Island cambiò: da centro di smistamento per gli immigrati divenne un centro di detenzione per deportati e perseguitati politici. I decreti sull’immigrazione del 1921 e del 1924 posero fine alla politica di “porte aperte”‘ degli Stati Uniti. I locali del Centro vennero chiusi definitivamente nel 1954.

OGGI ELLIS È UN MUSEO 

Ellis Island è un grande Museo dell’Immigrazione. Dal 1990 vi sono esposti i “segni” lasciati dagli immigrati: vestiti, tessuti, utensili. Uno dei dormitori, come in un flash-back, ci riporta alla visione di alcune note camerate dei “campi di concentramento”. Ed emoziona il visitatore. Nelle varie sale, le esperienze di vita vissuta sono ricostruite con fotografie, pannelli esplicativi, piccoli oggetti domestici portati dalla terra di origine e utilizzati per il lungo viaggio (valigie, ceste, sacchi, fagotti…). È possibile ascoltare le voci registrate dei protagonisti. Vi sono descrizioni dell’arrivo e dei successivi colloqui, esempi delle domande poste e degli esami medici effettuati.


UN SITO INTERNET SULL’EMIGRAZIONE AMERICANA

Circa 100 milioni di americani (40% dell’intera popolazione) sono diretti discendenti di quei 22 milioni di immigrati che approdarono ai moli di Ellis Island, tra il 1892 ed il 1924. È qui l’origine del melting pot, il grande calderone della multietnicità americana, che tanto giovò alla civilizzazione di questo grande paese. Oggi chiunque voglia avere notizie dei propri avi emigrati in America, di cui abbia perso traccia, può, navigando virtualmente in Internet, raggiungere il sito www.ellisisland.org ed effettuare la ricerca. Con una semplice iscrizione gratuita potrà accedere all’archivio telematico messo a disposizione di tutti i virtuali “naviganti”.

Nella sezione «Passenger Search» è possibile conoscere per ogni emigrato il nome e cognome, lo Stato e città di provenienza, la data di arrivo all’isola, l’età, lo stato civile, il nome della nave ed il relativo porto di partenza. Il sito è stato realizzato dall’AFIHC (American Family Immigration History Center). L’immane lavoro di archiviazione telematica è stato effettuato dai «Volontari della Chiesa di Gesù Cristo dei Santi degli Ultimi Giorni», più noti come Mormoni.

UN CANTO SULL’EMIGRAZIONE GARGANICA
a cura di Luciano Castelluccia, direttore artistico del Carpino Folk Festival 

MARITME STA ALL’AMERICA E NUN ME SCRIVE 
(Mio marito sta in America e non mi scrive)

Marit’me sta all’America e nun me scrive 
Mari’tme sta all’America e nun me scrive 
Nun sacce la mancanza 
Nun sacce la mancanza che l’aje fatte 

E na mancanza mia iè stata questa 
e na mancanza mia iè stata questa 
da tre fanciull na 
da tre fanciull na truvat quatt 

Zitt marite mije che nun je nent 
zitt marite mije che nun je nent 
e lu viam a Napl 
e lu viam a Napl a fa student 

‘Nfa nend marit mije che a patut 
‘nfa nend marit mije che a patut 
basta che magn e viv 
basta che magn e viv e va v’stut 

Non jadda jess mo lu chiant amar 
non jadda jess mo lu chiant amar 
adda jess mo che m vid 
adda jess mo che m vid p’ na ‘merican 

Non adda jess mo lu chiant a llochje 
non adda jess mo lu chiant a llochje 
adda jess mo che m vid 
adda jess mo che m vid a Nuva York 

Zitt marite mije che non je nent 
zitt marite mije che non je nent 
e lu n’viam a napl 
e lu n’viam a Napl a fa student 

Questo Canto di emigrazione fu raccolto da Lomax e Carpitella nel 1954 a Cagnano Varano.

©2004 Teresa Maria Rauzino. 

Articolo precedentemente pubblicato nel sito www.capitanata.it.

Categorie
Microstorie

Gli Alinari alla scoperta dell’Italia

Il primo grande tour fotografico di Vittorio Alinari in Sardegna fu ricco di colpi di scena

Vittorio Alinari, dopo aver effettuato nel 1913 e nel 1914 due escursioni nell’isola dei nuraghi, nel suo resoconto di viaggio ‘In Sardegna’, diede ragione al suo compianto prof. Mantegazza, che l’aveva descritta così:

“L’amante del bello trova in Sardegna paesaggi svariatissimi; coste dentellate, come le foglie delle mimose; vergini foreste, pianure e stagni; colli e vere Alpi dove il granito mostra i più bei fianchi ch’io abbia veduti al mondo.

Costumi pittoreschi, intatti da più secoli; tipi umani profondamente scolpiti: poesia popolare, passioni calde; rozze e ardenti nature (…); tutta una tavolozza di colori vivi e svariati che può dare materia d’opere immortali, al poeta, allo scrittore, all’artista“.

Quello di Alinari fu una sorta viaggio-scoperta, un gran tour alla scoperta dell’isola sarda. Noblesse oblige. Si confermò degno rampollo di una Famiglia che fece diventare la fotografia un’arte, unendo il ‘dilettevole’ di una solida cultura all’utile’ dell’impresa. Senso pratico fiorentino, unito al senso di una profonda cultura dei luoghi.

‘In Sardegna’ è un documentato reportage sui monumenti, sulle particolarità archeologiche dell’isola, con interessanti note di colore sulla selvaggia, e nello stesso tempo raffinata, sconosciuta Sardegna.

Nel suo primo viaggio, Vittorio Alinari visitò le coste occidentali: “Lo scopo era di prenderne fotografie che potessero servire a studi geologici. Il Ministero della Guerra e quello della Marina volevano profittare di quest’occasione per fare eseguire dei rilievi interessanti la difesa nazionale”.

Gli misero a disposizione addirittura una torpediniera, ma egli preferì imbarcarsi su uno yacht: ‘II Trionfante’. In compagnia di amici e di suo figlio Giorgio, parti da Livorno ‘con l’intenzione di prender terra al Golfo degli Aranci’.

Un viaggio, che si presentò, fin dall’inizio, ricco di rischiosi ‘colpi di scena’. Appena gettata l’ancora alla Maddalena, poco mancò che lo yacht saltasse in aria, per l’imprudenza del Capitano, che non aveva segnalato la sua entrata in porto.

Scrive Alinari: “Un semaforo, presso il quale passavamo sull’imbrunire, sparò contro noi due colpi di cannone, fortunatamente a polvere e ce ne avrebbe inviato un altro a palla, se il capitano, accortosi finalmente della dimenticanza, non avesse sollecitamente risposto ai segnali e fermato lo Yacht”.

Lo yacht, di origine francese, era stato ‘naturalizzato’ italiano soltanto da pochi giorni. L’unico libro per le segnalazioni esistente a bordo era scritto in francese e nessun membro dell’equipaggio, compreso il Capitano, conosceva quella lingua.

Dopo la brutta avventura, toccò ad Alinari e agli altri passeggeri che conoscevano il francese farne la traduzione, per evitare altri guai.

Fornito di lettere di presentazione del Ministro della Marina e del Ministro della Guerra, Vittorio Alinari si recò ad ‘ossequiare’ le autorità militari della Maddalena, ‘per intendersi con loro, circa le fotografie che sarebbe stato autorizzato ad eseguire nell’estuario’. Fu accompagnato quindi a Caprera da un sottufficiale. 

Visitando la tomba dell’Eroe nazionale, venne informato che Donna Francesca Garibaldi desiderava essere fotografata sulla tomba del Duce dei Mille. Desiderio prontamente esaudito: Alinari la immortalò anche presso la tomba del figlio Manlio.

Anche la casa di Garibaldi, un masso granitico posto in vicinanza del mulino, suo luogo di riposo preferito, e il pittoresco spiazzo dove desiderava essere cremato, vennero fotografati. 

L’accoglienza di Donna Francesca – annota ancora Alinari – fu squisitamente cortese. Ebbi così modo di visitare tutta la casa di Garibaldi e in particolar modo la camera ove morì e le altre stanze, dove si conservano vari cimeli ed alcuni suoi intimi ricordi, ne Donna Francesca volle lasciarci partire senza prima averci regalato alcune ciocche di gerani, colte sulla tomba dell’Eroe”.

Lo yacht toccò quindi Capo Figari, il Golfo degli Aranci, e la Tavolata. Quest’isola venne fotografata da Alinari nei punti più suggestivi.

L’estuario della Maddalena, con le sue frastagliate coste, era molto pittoresco; il granito di cui era composto, in alcune parti, aveva assunto delle forme strane: Capo d’Orso aveva l’aspetto di un orso bianco.

La roccia granitica doveva essere di una consistenza straordinaria, se l’erosione di tanti secoli non ne aveva ancora alterato le forme.

Questo luogo colpì l’attenzione di Alinari, ma non potè fotografarlo. Inserì, nel suo resoconto di viaggio, uno schizzo del bizzarro paesaggio marino.

Lo disegnò Giorgio Alinari che, non avendo accompagnato il padre nell’escursione, si basò sulla sua descrizione, oltre che su un’incisione del La Marmora (il cui vademecum sulla Sardegna è citato spesso).

Anche per immortalare l’interno dei nuraghi, Vittorio Alinari non potè adoperare la macchina fotografica. Oltrepassata la stretta apertura dell’entrata, occupava uno spazio troppo grande.

Non fu possibile ‘piazzare’ il cavalletto: il nurago, nel suo punto centrale, era alto appena un metro e mezzo.

Purtroppo anche le pittoresche vedute, le riprese dell’estuario effettuate con la macchina fotografica, andarono quasi tutte perdute: ‘Sembra che in particolar modo interessassero la difesa del paese, e amore di patria me ne impose la distruzione’ – annota Vittorio Alinari, sconsolato.

Il viaggio di ritorno fu rocambolesco. Un tremendo ‘mal di mare’, provocato da una forte burrasca, colpì tutti i passeggeri dello yacht. Pur essendone immune, anche Vittorio Alinari fu contagiato dal ‘clima di bordo’. Ma non si scoraggiò…

L’anno dopo, tornò nell’isola. Stavolta si imbarcò a Civitavecchia, su un comodo ferry boat. Era attratto dagli splendidi paesaggi della Sardegna. Quei luoghi ricchi di storia, di cultura, di tradizioni singolari, erano rimasti impressi nella sua memoria. Fotografica.

VITTORIO ALINARI SCAMBIATO PER TOMBAROLO

Dopo il quasi cannoneggiamento dal ‘forte’ della Maddalena, un ennesimo ‘incidente eroicomico’ turbò il viaggio. Scesi nella lancia dello yacht, per recarsi alla capitaneria, i passeggeri furono ‘bloccati’.

L’episodio è raccontato da Vittorio Alinari con sottile ironia: “Il Capitano del porto, assicuratesi della presenza fra i gitanti di un certo Comm. Alinari, m’invita a seguirlo nel suo ufficio. Egli chiude la porta alle mie spalle, chiude anche le finestre, sicché debbo ritenere che l’affare si faccia grave, grave assai, e che non debba tardar troppo a lasciare l’ufficio della capitaneria, a essere strappato dal troppo comodo alloggio che offre lo Yacht, per cambiarlo con quello certo meno apprezzabile che può offrire la prigione mandamentale di una piccola Sottoprefettura Sarda. Infatti dopo molte tergiversazioni, vengo a sapere che sono incolpato di contrabbando: e che contrabbando!

Dal Ministero dell’Interno è giunto alla Prefettura locale l’ordine di perquisire lo Yacht, che, sotto le mentite apparenze di turismo e di fotografia, tenta un contrabbando di parecchi milioni in oggetti di belle arti. Risum teneatis!

Ci è facile dimostrare che non abbiamo contrabbando, più difficile provare che non lo tentiamo; ad ogni buon fine, il cortese Comandante, anche per mettere in salvo la sua responsabilità, ci accompagna per ogni dove, assiste alle nostre operazioni fotografiche, e anche alla modesta colazione, presa in una ancor ben più modesta locanda, e ci riaccompagna a bordo, lavandosi le mani come Ponzio Pilato!”.

LE TONNARE DELL’ASINARA: “BOLGE” DANTESCHE

Nel maggio del 1900, Vittorio Alinari bandì un concorso rivolto agli artisti italiani: dovevano illustrare la Divina Commedia. Naturalmente secondo i canoni innovativi del Novecento. Il bando fu pubblicato dal ‘Bullettino della Società Fotografica Italiana’. Terminata la Mostra-concorso, Alinari raccolse il materiale per realizzare l’opera ‘La Divina Commedia nuovamente Illustrata da artisti italiani’. Pubblicò la prima Cantica nel 1902, la seconda e la terza nel corso del 1903. Nel 1904 le fece rilegate in un volume unico. La predilezione per Dante era davvero forte e sentita. Emerge anche nel resoconto di viaggio ‘In Sardegna’. Vittorio Alinari cita l’Inferno parlando degli ex possedimenti sardi del conte Ugolino della Gerardesca, ma soprattutto nella descrizione della miniera di carbone del Sulcis e della ‘tonnara’ dell’Asinara. Alinari non volle perdere l’occasione di assistere alla mattanza: per vedere questa ‘interessante pesca’, rinunciò a visitare Sassari.

La scena della mattanza è descritta con patos dantesco: “Già i tonni sono stati introdotti nella così detta camera della morte, della quale vediamo chiudere la porta. Le grosse reti, inquadrate dai battelli dei pescatori, vengono lentamente alzate. Dopo circa un’ora di manovra, cominciamo a vedere i grossi pesci sguazzare alla superficie dell’acqua. I pescatori, levando in alto i roncigli, intonano una preghiera, meglio una nenia dall’intonazione tutta orientale. Il Keis, o capo della ciurma, da l’ordine, e tutti si precipitano con i lunghi raffi contro i pesci che si dibattono facendo spumeggiare le acque in breve arrossate dal loro sangue. I pescatori s’incitano a vicenda con alti gridi e larghi gesti; sembra di essere discesi, con Dante, nella bolgia infernale: ‘poi l’addentar con più di cento raffi “.

Le povere bestie, uncinate da due, tre, quattro raffi, vengono a fatica tratte a bordo, e han le viscere dilaniate come i peccatori della quinta bolgia’. La pesca, quel giorno, ‘non fu molto produttiva’: 275 tonni, alcuni dei quali abbastanza grossi, ed un pesce spada, la cui ‘arma’ venne regalata a Vittorio Alinari e ai suoi amici.

Per ricordo.

GLI ALINARI

La Fratelli Alinari, costituita a Firenze nel 1852, è l’azienda più antica del mondo operante nel campo della fotografia. Il suo immenso patrimonio iconografico è oggi fruibile in forma digitale. Immagini oggi on-line sul sito sul sito www.alinari.it.

©2003 Teresa Maria Rauzino. 

Articolo pubblicato l’11 febbraio 2003 nel sito www.capitanata.it.

Vittorio Alinari, In Sardegna, F.lli Alinari Ed., Firenze 1915

Categorie
Microstorie

Quando i turisti erano eroi in diligenza

Ripubblicati in volume i réportage d’inizio Novecento, quando ci volevano sedici ore per raggiungere Vieste da Foggia. L’intuizione turistica del sindaco Spina, il “padre”della riviera marina

Autorevoli studiosi come l’abate Saint-Non, Gregorovius, Bertaux, Beltramelli, Douglas, Ungaretti, Miller, Green, Brandi, con le loro interessanti impressioni da “grand tour”, hanno fatto scoprire al mondo degli intellettuali, ma anche al grande pubblico che amava conoscere il mondo attraverso i resoconti di viaggio, l’essenza più intima ed inedita del Gargano, un territorio suggestivo per i suoi splendidi paesaggi ed il suo innato misticismo.

Ma come si viaggiava agli inizi del Novecento sulle strade brecciate dell’impervio Promontorio del Gargano non ancora toccato dal turismo di massa?

Ce lo raccontano due famosi giornalisti del tempo, Francesco Dell’Erba (di origini viestane, redattore del «Giornale d’Italia» e corrispondente, da Napoli, del «Corriere della sera») ed Antonio Beltramelli.

I loro réportage sono stati ripubblicati da Mimmo Aliota, del Centro Studi Cimaglia, in Vieste nel primo Novecento, edito da Litostampa, con gli auspici della Società di Storia Patria per la Puglia.

Pagine che ci proiettano nel periodo in cui il tratto stradale Viesti-Foggia si copriva dopo ben sedici ore di disagiatissimo viaggio. 

In particolare, Dell’Erba, ne Lo Sperone d’Italia del 1906, lamenta le condizioni della strada provinciale per Apricena, «bianca ed interminabile, piena di svolte difficilissime, di faticose salite e di discese precipitose».

Un viaggio veramente snervante, effettuato in diligenza, «grossa gabbia sgangherata», cigolante e stridente «come un’anima in pena». Il passeggero, soggetto ai rigori del freddo invernale o al caldo estivo, cui si aggiungeva il ronzare incessante e fastidioso di mosche pungenti, veniva sovente sbalzato violentemente all’interno della vettura. Finiva col «baciare il compagno di viaggio seduto di fronte».

Quando dirimpetto c’era una signora, il povero viaggiatore, per evitare questo “scabroso” contatto si sentiva obbligato a tenere le ginocchia strette al petto, e a soffrire -conclude dell’Erba – pene degne della Santa Inquisizione.

Ogni tanto i viaggiatori erano costretti a scendere e a fare larghi tratti a piedi, «o perché un uragano ha rotto un ponte o perché la strada è franata o perché è troppo ripida la salita».

L’arrivo a Vieste veniva salutato ogni volta come un grande evento, specie se a scendere dalla diligenza era un forestiero. Intorno a lui si intrecciavano le più ardite supposizioni, come se fosse un essere fantastico e favoloso, venuto misteriosamente chissà da quale paese lontano.

La testimonianza di Dell’Erba focalizza un problema oggi solo parzialmente risolto: il sottosviluppo dell’area, dovuto anche alle condizioni proibitive della viabilità: «È per la mancanza quasi assoluta di strade che il Gargano è rimasto da parecchi secoli indietro nei progressi della civiltà.

Esso è sconosciuto in gran parte agli abitanti della provincia stessa, quasi stranieri gli uni agli altri, conoscendosi male, ignorando i reciproci bisogni, non tendono mai ad un’azione comune e al raggiungimento di un fine unico». 

Anche il Beltramelli, che nel 1907 al promontorio dedicò un frizzante réportage, espresse riflessioni analoghe: «Le diligenze del Gargano sono tutto ciò che di più antico, di più incomodo e di più indecente si possa immaginare.

Veicoli sconquassati, cigolanti, pericolanti, che sobbalzano quasi per acuta doglia ad ogni minimo ciottolino, che traballano su l’orlo di frequentissimi precipizi, compiacendosi, nella loro antica esperienza, dello spavento dei viaggiatori nuovi; che dondolano, ondeggiano, beccheggiano in guisa sconosciuta, procurando a qualche creatura di stomaco debole un perfetto mal di mare.

Queste sono le dolcezze a cui deve sottoporsi colui che abbia in animo di visitare una fra le più belle regioni d’Italia. Perché il Gargano è sì un luogo di incanti e di meraviglie, una delle più belle regioni d’Italia, ma è anche fra le regioni più dimenticate del nostro bel Regno».

Eppure qualcuno, nativo del luogo, già a quel tempo intuì che anche il paese meno raggiungibile del Promontorio (Viesti era denominata «La Speduta») avrebbe potuto avere un futuro economico diverso, se soltanto si fosse ovviato al problema.

A crederci e a far di tutto per concretizzare questo sogno fu un sindaco: Domenicantonio Spina. La viabilità fu il punto di forza della sua azione amministrativa: egli si batterà per il porto commerciale, per la ferrovia circumgarganica e per l’apertura della strada Viesti-Mattinata, molto più agevole di quella per Apricena.

Un personaggio davvero fuori dell’ordinario, questo retto ed intransigente amministratore della cosa pubblica, che smaschera anche “in alto loco” chi rema contro provvedimenti a suo dire “meritori”, opere pubbliche “inderogabili” per la modernizzazione di una cittadina di 9.000 abitanti come Vieste, ancora lontana dall’attivismo della belle époque giolittiana.

Questo sindaco non vuol assolutamente sentir parlare di interessi personali. Fa una cosa eccezionale, se consideriamo i molteplici incarichi degli amministratori comunali di oggi: per attendere degnamente ai suoi impegni pubblici, chiude la sua farmacia per ben dieci anni e mezzo, l’intero periodo del suo mandato amministrativo: dal 16 gennaio 1899 al 31 luglio 1910.

Le spese per le innovazioni della città le finanzierà con “coraggiose” imposte sul patrimonio e sul lusso: tasserà i cavalli da sella e da tiro, l’impiego dei domestici, i generi superflui.

Il sindaco darà un vero e proprio scossone all’apatia delle precedenti amministrazioni, sistemando le strade principali e dotando Vieste degli edifici e dei servizi pubblici essenziali: il municipio, la scuola, la pescheria, il mattatoio, il cimitero, le piazze e i viali.

E i sindaci che verranno dopo di lui saranno “costretti” loro malgrado ad adeguarsi, andando contro gli interessi dello stesso ceto sociale cui appartengono. A Domenicantonio Spina va il merito di aver aiutato Vieste a muovere i primi passi sui sentieri del turismo. 

Seppe “volare alto”, guardando al futuro, oltre che al presente. Già dal 1899 egli trasformò una riva squallida, con un muro a protezione dell’abitato, in un bellissimo viale alberato, che in seguito farà illuminare con lampioni elettrici.

La Riviera Marina di Vieste diventerà la mitica “passeggiata” dei primi villeggianti d’élite, nelle calde serate della “dolce vita” del Gargano Nord.

Oggi, nei romantici sognatori di una Vieste diversa, è rimasto il ricordo delle belle signore in abito lungo che nelle sere d’estate sfilavano per il Corso Fazzini, come se fosse una passerella di moda. Era il tempo in cui il turismo non aveva ancora assunto l’aspetto omologante e caotico di oggi.

NEGLI ANNI SESSANTA ENRICO MATTEI SCOPRÌ DALL’ALTO LA MERAVIGLIA DI PUGNOCHIUSO

In un mattino di sole dell’anno 1959, Enrico Mattei, mitico presidente dell’ENI, sorvolando con il suo aereo personale la costa viestana, rimase tanto affascinato dalla sua bellezza che indusse il pilota ad effettuare più di un passaggio. Quando giunse nei pressi di Pugnochiuso, Mattei esclamò:«Ma questo è il Paradiso!». Il suo Centro turistico sorse proprio qui, nei primi anni Sessanta, dando l’avvio al turismo garganico. E fu un evento rivoluzionario.

©2003 Teresa Maria Rauzino. 

Articolo pubblicato il 6 giugno 2003 sulla pagina «Cultura» del «Corriere del Mezzogiorno», edizione pugliese del «Corriere della sera».

Le immagini sono tratte da Mimmo Aliota, Vieste nel primo Novecento, Foggia 2000.

Categorie
Microstorie

La domenica al mare dei braccianti pugliesi

Dagli archivi dell’Istituto Luce due filmati della Settimana Incom sui lavoratori agricoli pugliesi tra gli anni Quaranta e Cinquanta. La dura fatica nei campi, ma non solo.


Lucien Febre, storico delle «Annales», dettava questi “anomali” consigli agli aspiranti ricercatori: 

«Per fare storia volgete risolutamente la schiena al passato e, innanzi tutto, vivete. Mescolatevi alla vita, in tutta la sua varietà. Storici, siate geografi. Siate anche giuristi. E sociologi. E psicologi. Non accontentatevi di osservare oziosamente dalla riva quel che avviene sul mare in tempesta. Rimboccatevi le maniche e aiutate i marinai nella manovra.

È tutto? No. Bisogna che la storia non vi appaia più come una necropoli addormentata, dove soltanto ombre passano, prive d’ogni sostanza. Bisogna che penetriate nel vecchio palazzo silenzioso, e spalancando le finestre, richiamando la luce e il rumore, risvegliate la gelida vita della principessa addormentata…».

Di questo insegnamento facciamo subito tesoro. Utilizzando come “fonte” i brevi filmati della Settimana Incom. Sfuggendo alla stilizzazione dello stereotipo, essi riescono a restituirci, più di tanti “classici” libri di storia, l’impatto del reale, mostrandoci il “visibile” di una società, e il suo “invisibile”, il senso simbolico delle immagini.

Siamo verso la fine degli anni Quaranta/inizio anni Cinquanta. È il tempo delle occupazioni delle terre, delle rivendicazioni per la riforma agraria. Il tema della giustizia sociale è divenuto patrimonio talmente condiviso che anche i media del tempo fanno la loro parte.

L’Istituto Luce gira alcuni video sul tema. Il primo filmato, I braccianti pugliesi, datato 24/11/1948, dura soltanto un minuto e 14 secondi, fa parte del cinegiornale della Settimana Incom 00215; ambientato nella zona di Andria, di Corato, di Bitonto, è dedicato alle disumane condizioni di lavoro dei braccianti del Meridione. La Puglia, in particolare, presenta luoghi difficili da coltivare, che non assicurano affatto una vita dignitosa a chi si cimenta nell’arduo compito. 

La macchina da presa zoomma su una vacca smagrita brucante la poca erba del pascolo, seguono immagini di contadini dissodanti il terreno con le zappe: uno si asciuga il sudore della fronte, un altro lavora i campi con un aratro trainato da un cavallo. Il commento dello speaker è asciutto: «Qui tutti gli anni sono anni di vacche magre. Non gleba, non zolle, ma crosta di terre e pietre e poche cipolle per il desinare».

I braccianti pugliesi svolgono un lavoro faticosamente manuale: «I solchi li fanno ancora con l’aratro a chiodo». Le loro condizioni di vita sono precarie. Dopo le dure giornate di lavoro sotto il sole, il vento e la pioggia, non possono neppure tornare a casa. Le loro abitazioni sono troppo lontane. I paesi troppo distanti.

La campagna pugliese non offre la comodità dell’insediamento sparso tipico di altre regioni d’Italia. I braccianti non hanno luoghi dignitosi ove dormire, ogni giorno i ripari dalle intemperie sono da tutti da inventare. Utilizzano i materiali che trovano in campagna per costruire improvvisati pagliari, simili a nuraghi sardi: «Con la pietra costruiscono le capanne per quando fa notte».

Interno di un’abitazione bracciantile negli anni Cinquanta

Costretti a spostarsi continuamente per raggiungere i campi da coltivare, i loro giorni di lavoro non bastano ad assicurare il minimo vitale. Sono giorni contati, pochi in confronto alla lunghezza dei giorni dell’anno. I braccianti pugliesi «lavorano in media 190 giorni all’anno, ma la famiglia bisogna sfamarla per 365 giorni all’anno!». Un lavoro soggetto all’alea della concorrenza, alla lotta tra poveri: ogni mattina vanno in piazza a cercare l’ingaggio. Una sfida quotidiana. I padroni la fanno da padrone: scelgono gli elementi più adatti alle loro esigenze. Una vita insopportabile, che suscita innati sentimenti di aggregazione, di lotta. Lo speaker parla di organizzazioni di base: «Già sono sorte le comunità dei braccianti, un primo spiraglio». E, in fondo, le loro sono rivendicazioni minime: «Vogliono non garanzia di lavoro, ma speranza! Spesso vale quanto il pane!».

Il filmato si chiude con la visione di una donna seduta sulla porta di casa. Accudisce, tenendolo sulle sue sode ginocchia, il suo bambino di pochi anni, speranza dell’avvenire. Contadini in bicicletta attraversano le vie del paese, con un significativo passaggio davanti alla sede della Comunità dei Braccianti. Una speranza che in quegli anni si identificò nella mitica figura del sindacalista Giuseppe Di Vittorio. La sua leadership animò fortemente le campagne pugliesi negli anni Cinquanta, dando speranza di riscatto ai braccianti.

Già nel 1951 si respira un clima diverso. Siamo alla vigilia della Riforma fondiaria del 1953.

La settimana Incom 00623, il 20/07/1951, presenta un filmato di un minuto e 23 secondi. L’aspetto inedito di vita contadina si intuisce già nell’accattivante titolo di colore: Domenica al mare coi braccianti pugliesi.

Le immagini ci visualizzano carretti trainati da asini che vanno verso il mare, due uomini che tagliano delle funi per costruire tende sui carri e riparare i bambini e le donne dal sole cocente. «Ai caldi infuocati dell’estate – spiega lo speaker con voce stentorea – anche i braccianti hanno diritto a qualche svago, e soprattutto al refrigerio. E allora cosa fanno? Quando viene la domenica, attaccano il traino e tutti a bordo!

I braccianti di Barletta e delle Puglie se ne vanno al mare, bagnanti per un giorno: non occorrono stabilimenti: dei carri fanno capanno, c’è pure il bar sulla spiaggia fornito di un ricco repertorio!». Ecco un gelataio preparare dei coni e consegnarli ad un uomo che tiene in braccio una bambina.

Lo speaker fa qualche battuta ironica sulle «camicie refrigeranti con circolazione d’aria indossate dai bagnanti, una moda che un giorno sarà copiata a Capri, al parcheggio per i rotabili, alle elegantissime che per l’occasione si vestono a festa», mentre le immagini inquadrano bellezze contadine intente a fare il bagno con indosso castigatissimi vestiti, ed i contadini accampati sulla spiaggia che si difendono dal sole con larghi cappelli di paglia.

Ma per un giorno, finalmente, anche i braccianti pugliesi sono giunti «al miraggio azzurro che brillava in mezzo ai campi. Vogliono condividere il refrigerio e la gioia con gli animali che hanno lavorato tutta la settimana con loro. Anche gli zoccoli dei muli attraversano il lido sassoso».

Cosa pensano gli abituali frequentatori della spiaggia di questi anomali bagnanti domenicali? Un dejà vu. Li chiamano «gli zingari del mare». Perché arrivano soltanto la domenica e si portano tutto da casa, persino l’acqua per cucinare. Mentre un cane nuota e i bambini giocano nell’acqua, le donne preparano un succulento pranzo, su un fuoco impovvisato sull’arenile.

E lo speaker del cinegiornale Luce chiude, con fare nostalgico: «Al sentore salino si mescola l’inconfondibile sapore dei cibi arrivati al punto di cottura. Ma che buona vecchia sapienza casalinga nel sapore negli odori di questa zuppa!».

Tutta la famiglia mangia con gusto, alla relativa frescura di tende improvvisate.

«E per chiudere, il melone!». È l’immancabile anguria, tenuta in fresco nelle azzurre acque marine, a completare l’inusuale pranzo sul lido.

E quest’anno quel mondo è finito sulle tavole dei palcoscenici

A fare tesoro della preziosa ricerca di senso suggerita da Lucien Febre sono stati Giovanni Rinaldi e Paola Sobrero, autori del libro Vissuto quotidiano, mito e storia dei braccianti del Basso Tavoliere.

Questa preziosa “ricerca sul campo” è stata rielaborata, per una più immediata fruizione collettiva, nella piéce Braccianti. La memoria che resta, in tournèe da quest’anno in vari teatri dell’Emilia Romagna fino al ritorno al «Mercadante» di Cerignola in Puglia, città fonte della ricerca.

Notazioni sociologiche, messe a punto storiche, trascrizioni musicali e ricerca antropologica si sono unificate per valorizzare la peculiare cultura espressa dalla civiltà contadina di questa città simbolo del Tavoliere, assurta a simbolo di una condizione esistenziale e del movimento sindacale grazie alla presenza del leader carismatico della CGL: Giuseppe di Vittorio. 

©2003 Teresa Maria Rauzino

Per le foto, il sito Braccianti. La memoria che resta

Articolo pubblicato il 25 luglio 2003 sulla pagina «Cultura» del «Corriere del Mezzogiorno», edizione pugliese del «Corriere della sera».