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Storia del Regio Istituto Giannone di Foggia    

La prima sede dell’ITC Pietro Giannone di Foggia.


  

Il Regio Istituto Tecnico “P. Giannone” fu istituito nell’anno 1885 per opera del cav. Antonio Cicella, membro del Consiglio Provinciale di Capitanata.

Egli presentò una proposta al Consiglio stesso affinché a Foggia fosse istituito un Istituto Tecnico che rendesse importante la città, tanto da poter essere paragonata a quelle più grandi d’Italia.

Prese parte alle trattative tra Comune, Provincia e Governo e, riunito il Consiglio Provinciale nella seduta del 2 dicembre 1884, riferì su quanto già operato fino allora favorendo lo stanziamento di somme occorrenti per il primo impianto della scuola da parte della Provincia; in quella tornata, il Consiglio Provinciale, dopo una lunga e travagliata discussione approvò l’ordine del giorno in cui si riaffermava il voto unanime emesso con delibera precedente il 31 maggio 1882 raccogliendo voti presso il Ministero della Pubblica Istruzione per l’istituzione del Regio Istituto.

Non fu semplice tuttavia impiantare l’Istituto stesso, poiché subito dopo la prima approvazione da parte del Consiglio Provinciale, sorsero i primi contrasti tra questo Ente ed il Comune di Foggia.

Già nella lettera del 31 luglio 1884, il Sindaco scrisse al Prefetto inviandogli la Delibera Consiliare del 24 maggio 1884, approvata dal Consiglio Provinciale Scolastico e dalla Deputazione Provinciale, con la preghiera di sottoporre la pratica al Consiglio Provinciale per il concorso delle spese previste dalla legge. Nella lettera anche il Sindaco evidenziava l’importanza dell’apertura di un altro istituto tecnico maggiormente specializzato e, pregava il Prefetto di sollecitare il Consiglio Provinciale Scolastico di porre al vaglio la questione per accelerare i tempi.

Inizialmente e con Delibera Comunale del 24 maggio 1884 era stato stabilito che l’Istituto fosse amministrativamente Governativo e che comprendesse tre sezioni: la prima ad indirizzo fisico-matematico, la seconda di agrimensura, la terza di ragioneria e commercio.

Era inoltre stato stabilito che per il pagamento del personale insegnante e direttivo, sarebbe stata stanziata la somma annua di L. 40.000 versata per metà a carico dello Stato e per metà a carico della Provincia; seguendo lo stesso criterio per il pagamento degli stipendi al personale non insegnante, al Segretario della Presidenza, agli ausiliari compresi gli assistenti ed i macchinisti, sarebbe stata stanziata la somma annua di L. 6.000.

Inoltre sarebbe stata a carico della Provincia la fornitura del materiale scientifico per i laboratori di fisica e chimica, per le macchine e gli strumenti topografici, per la collezione di materie prime e di prodotti industriali, per la biblioteca scolastica e quanto altro necessario al funzionamento della scuola, per un ammontare complessivo di L. 4.000 per le spese di primo impianto.

Sarebbe stata a carico del Municipio la disponibilità dei locali e degli arredi occorrenti alla scuola, e la Provincia per l’affitto dei locali avrebbe pagato una pigione annua da stabilirsi in seguito.

A tale riguardo si pensò prima ai locali del Monastero di S. Chiara, poi a quelli del Monastero dell’Annunziata che si presentavano ampi ed idonei allo scopo. Nel verbale si legge:

«[…] Il Consiglio Comunale esprime un caldo voto all’Amministrazione Provinciale perché voglia prendere in considerazione l’immenso beneficio che l’Istituzione non mancherebbe arrecare alla Provincia e voglia contribuire per la sua parte nelle previsioni di legge a far che l ‘Istituto Tecnico per la Provincia di Foggia possa al più presto essere fatto concreto».

A tal fine, si incaricava il Sindaco, Francesco Valentini Alvarez, di espletare tutte le ulteriori pratiche con il Governo e con l’Amministrazione Provinciale.

In seguito il Prefetto vista la Legge sull’Istruzione Pubblica n. 3295 del 13 novembre 1859, inviò agli enti il Decreto del 24 gennaio 1885 che gli era giunto dal Ministero della Pubblica Istruzione, con cui si approvava definitivamente a Foggia l’apertura di un Istituto Tecnico con i tre indirizzi scelti in precedenza.

Le motivazioni erano le seguenti: la sezione fisico-matematica avrebbe avuto carattere di scuola di cultura generale e, con l’indirizzo scientifico la scuola avrebbe eguagliato gli istituti umanistici per l’importanza delle materie insegnate. La sezione di agrimensura, avrebbe avuto tra gli insegnamenti gli elementi di geografia descrittiva, le costruzioni e la geometria pratica, infine la sezione di ragioneria e commercio avrebbe reso i giovani:

«[… ] provetti nel meccanismo degli scambi, nella conoscenza delle lingue straniere ed in tutti gli argomenti di economia politica applicata, di statistica, di geografia e di diritto, specie ora che il commercio ha tanta parte nella vita dei popoli e sono scomparse le dighe innalzate dai Governi assoluti per tener divise le nazioni[…]».

Fino allora la scuola tecnica già esistente, con sede presso l’Orfanotrofio M. Cristina, aveva dato solo un modesto completamento della scuola primaria sia per le materie di cultura generale sia per quelle tecniche; pertanto il nuovo Istituto per raggiungere i risultati sperati avrebbe dovuto assumere personale specializzato, ciò avrebbe reso migliore la qualità della scuola stessa ed avrebbe dato ai giovani l’occasione di istruirsi meglio raggiungendo così, gli obiettivi perseguiti.

I bisogni della Provincia erano tali da rendere indispensabile l’apertura del nuovo Istituto, che avrebbe formato gli allievi alla conoscenza delle tecniche più avanzate, garantendo nuovi posti di lavoro. A tale riguardo, il cav. Vincenzo Lacci, Segretario Capo dell’Amministrazione Provinciale nella sua relazione sull’impianto dell’Istituto scriveva:

«[…] La immensa utilità della Sezione di Commercio è vivamente dimostrata dai bisogni speciali della nostra Provincia, che forma un centro di progredite e molteplici transazioni commerciali;[..,] le sezioni di Agrimensura e Ragioneria torneranno praticamente assai utili ai nostri giovani; specialmente perché, promulgata la Legge sulla perequazione fondiaria, la misurazione scientifica del territorio italiano, […] daranno loro larghissimo lavoro pel non breve periodo di anni 20.[…] La Sezione di Agronomia, fornisce la teoria dell’arte agraria, cioè le nozioni tecniche generali dell’Agricoltura.[,..] La Capitanata racchiude una estensione di 350 mila ettari dì terre coltivate, e capaci dì coltura.[…] Ma una delle principali cagioni della decadenza dell ‘Agricoltura di Puglia -scriveva il nostro grande tecnologo foggiano Giuseppe Rosati – consiste nella ignoranza del mestiere, diffusa non solo nei contadini,[…] ma benanco nei proprietarii e generalmente in tutti gli altri che non si brigano di queste industrie… col mezzo più valevole, onde vincere questo difetto e far risorgere l’agricoltura nel suo pieno vigore è il sapere.[…] Per creare un ambiente favorevole alla propagazione dello stesso, non può procacciarsi, se non col magistero dell’Istituto Tecnico. […] L’Agricoltura italiana ha infiniti problemi, dei quali attende la soluzione. E noi […]per la vasta estensione del territorio di questa Provincia, abbiamo ben troppo bisogno di migliorarne, anzi di trasformarne la coltura. A conseguire tanto scopo, è d’uopo che i nostri giovani imparino anzi tempo a sciogliere tutt ‘i problemi che si riferiscono alla produzione del suolo, a conoscere il valore relativo dei concimi e le diverse proprietà dei terreni coltivabili, la composizione delle piante, […] ebbene lo studio tecnico fa molto di più per l’operaio ignorante, e per la varia e numerosa famiglia degli esercenti industrie. Esso non solo da indirizzo al braccio dell ‘uomo, ma ne ravviva la forza visiva, e più che una guida da all’operaio luce d’intelletto, ponendolo in grado dì meditare e cogliere in atto la vis naturae, per farne pratica ed utile applicazione ai bisogni della vita; nel che sta proprio il substratum  delle discipline tecniche».

II cav. Lacci concludeva le sue considerazioni sostenendo che se uomini illustri come Giuseppe Rosati ed altri avevano reso grande la città con il loro intelletto, con l’apertura del nuovo Istituto Tecnico altri giovani si sarebbero distinti grazie all’insegnamento tratto dalle nuove materie.

Intanto, il Ministero detta Pubblica Istruzione in una nota inviata al Prefetto comunicava che avrebbe concorso economicamente ed amministrativamente all’apertura dell’Istituto in questione previa ispezione dei locali messi a disposizione Fatte tutte le considerazione del caso il Consiglio Provinciale nella tornata di ottobre 1885 stabilì che L’Istituto Tecnico avrebbe avuto vita a partire dall’anno scolastico 1885/86, che sarebbe stato sotto l’aspetto amministrativo di tipo Governativo a patto che il Comune e la Provincia con propri stanziamenti avessero contribuito alle spese di primo impianto per il periodo suddetto.

Intanto, il Ministero della Pubblica Istruzione in una nota inviata al Prefetto comunicava che avrebbe concorso economicamente ed amministrativamente all’apertura dell’Istituto in questione previa ispezione dei locali messi a disposizione dal Municipio per accertare che gli stessi fossero idonei alle esigenze della scuola.

Ispezionati i locali dell’Annunziata, essi si prestavano solo momentaneamente alle esigenze della scuola stessa che li avrebbe occupati per una durata massima di due anni, fino a quando il Municipio a proprie spese non avesse provveduto a costruire un altro stabile. Così, iI Ministro detta Pubblica Istruzione, on. Coppino, chiese al Parlamento di stanziare la somma necessaria per l’apertura dell’Istituto Tecnico e con Dispaccio del 20 marzo 1885 interrogò gli enti preposti sulle loro intenzioni.

A tale riguardo il Cav. Antonio Cicella, rispose che la Deputazione Provinciale aveva già deliberato favorevolmente affinché entro l’anno scolastico 1885/86 l’Istituto avesse vita e per l’intitolazione della scuola aggiunse:

«[…] si delibera che nella nostra Provincia il più grande cittadino che siasi rivelato fin dal secolo XVII è lo storico Pietro Giannone nato in Ischitella, Comune del Gargano[…]».

Pertanto aveva proposto che l’Istituto fosse intitolato a P. Giannone; la proposta stessa fu approvata con voto unanime. In quella tornata fu stabilito che fosse fornito un elenco di aspiranti insegnanti da proporre su istanza degli stessi al Ministro della Pubblica Istruzione che con Dispaccio del 18 maggio 1885 deliberò favorevolmente circa l’apertura della scuola.

Intanto il 23 maggio 1885, l’ingegnere Capo dell’Ufficio Tecnico Provinciale A. Pinto e l’ingegnere Municipale Achille Petti redassero una relazione tecnica sullo stato dei locali dell’Annunziata e, dopo essersi recati ad ispezionare l’Istituto Tecnico di Bari ed aver dialogato con il Preside della scuola, dedussero che varie ragioni impedivano che la scuola foggiana fosse allogata presso l’Annunziata, adducendo la motivazione che occorreva che la scuola avesse un’estensione complessiva di 2600 mq., con ampi locali per i laboratori di chimica e di fisica nonché per la biblioteca scolastica, la sala dei docenti, l’Aula Magna ecc. L’edificio dell’Annunziata si estendeva su una superficie complessiva di mq. 1650 e, pertanto, era inidoneo allo scopo poiché mancava il primo dei requisiti: l’ampiezza.

La seconda motivazione fu riscontrata nella disposizione del fabbricato, anche se fossero stati eseguiti lavori di ripristino dei locali, fra demolizione dei tramezzi e consolidamento della struttura non si sarebbe raggiunto lo scopo, oltre alla spesa eccessiva che il Comune avrebbe dovuto sostenere; il parere dei tecnici dunque, non lasciava speranze al riguardo.

Il 18 settembre 1885, il Ministro Coppino inviò una lettera al Prefetto ed al Presidente della Deputazione Provinciale con cui riproponeva la disponibilità del Ministero a farsi carico dello stanziamento delle somme occorrenti per l’apertura della scuola, pur essendo venuto a conoscenza che i locali scelti e messi a disposizione dal Municipio in realtà non si prestavano allo scopo; tuttavia, se solo ci fosse stata la garanzia che per i primi due anni la scuola, in ogni caso, fosse stata aperta e, soprattutto, se il Comune avesse dato la piena disponibilità alla costruzione di un nuovo edificio il Ministro avrebbe appoggiato la richiesta.

Cosi il 5 ottobre 1885 il Prefetto convocò il Sindaco affinché sentito il Consiglio Comunale si deliberasse favorevolmente in merito alla richiesta ma, il 15 ottobre questi rispose dichiarando che i locali dell’Annunziata erano già pronti per accogliere la scuola facendo anche rilevare che il Comune già aveva dovuto far fronte ad ingenti spese per i lavori di ripristino; assicurò, comunque, che entro il biennio successivo si sarebbe impegnato per garantire la costruzione di un altro edificio.

Stabilita definitivamente l’apertura, l’incarico di Preside del Regio Istituto “P. Giannone”, fu affidato al prof. Vincenzo Nigri, con uno stipendio annuo di L. 300, a lui fu assegnata anche la cattedra di Agronomia e Fisica. Nel 1888/89 fu istituita la biblioteca scolastica e la direzione fu affidata al prof. Giovanni Martinelli, insegnante di Storia Naturale, con uno stipendio di L. 150 annue.

Dopo l’apertura dell’Istituto, ogni anno il Presidente della Giunta di Vigilanza della scuola inviava al Prefetto e al Presidente della Deputazione Provinciale una relazione redatta dal Preside dell’Istituto sull’andamento dell’anno scolastico; quella del 1887-88 redatta dal Preside Prof. Narciso Mencarelli riportava:

«[…] è un esame che mi riempie di soddisfazioni perché nulla può tornare tanto gradito a me vecchio insegnante quanto il dovere lodare l’opera di coloro che mi sono compagni nell’alta missione di ammaestrare la gioventù nei principi del vero, […] la massima parte degli insegnanti di questo Istituto attesero amorosamente dal principio alla fine dell’anno al compimento dei loro doveri scolastici. Ed è con animo riconoscente che io rivolgo loro una parola di lode e d’incoraggiamento per non avermi mai costretto al compimento di uffici che mi sarebbero tornati sempre duri e spiacevoli.[…]».

La relazione si concludeva con l’auspicio che nell’Istituto potesse essere installato un nuovo impianto di azienda rurale che sarebbe sorto accanto alla sezione di agraria.

Negli anni successivi la situazione rimase pressoché invariata anche se più volte i Presidi succeduti avevano inoltrato agli organi preposti le richieste per avere un nuovo edificio. A tale riguardo il Preside Prof. Michele Coppola nella relazione del 1890 sollecitava il Ministero della Pubblica Istruzione affinché l’Istituto potesse avere un’altra sede scrivendo:

«[…] L’Amministrazione Comunale avrebbe dovuto già mantenere i suoi impegni assunti col Governo, quando l’Istituto fu dichiarato Regio col provvedere in modo conveniente a quanto più volte si è richiesto. Ma credo fuor di proposito di ricordare che l’Istituto Tecnico per il lustro e decoro, onde riesce alla città dovrebbe essere tenuto in maggior considerazione.[…]».

Nel 1886 all’Istituto furono donati dieci ettari di terreno adiacente all’orto botanico affinché il prof. Antonio Lo Re potesse proseguire le sue sperimentazioni cerealicole per perseguire gli obiettivi volti al miglioramento delle colture della Capitanata; in quello stesso anno fu deciso di donare altro terreno per la sezione di Agronomia con la facoltà di decidere sull’istituzione della cattedra di Patologia Vegetale, il cui insegnante sarebbe stato retribuito dalla Provincia.

Oltre all’illustre prof. Vincenzo Nigri, parteciparono alla vita attiva dell’Istituto valentissimi docenti tra cui spiccano i nomi di: Antonio Lo Re, titolare della cattedra di Agraria ed Estimo, ricoprì l’incarico di Preside facente funzioni per quattro volte, fu autore di numerosi volumi sull’agricoltura della Capitanata e, più volte, fu insignito di onorificenze, tra queste: il 26 febbraio 1914 gli fu conferita la medaglia d’argento da S.E. il Ministro della Pubblica Istruzione per l’impegno profuso in occasione della Festa degli Alberi. A ricordo della sua infaticabile opera di educatore gli fu dedicata un’epigrafe che riporta la seguente iscrizione:

ANTONIO LO RE
DAL PRIMO SORGERE DELL ‘ISTITUTO TECNICO DI FOGGIA
IN XXXII ANNI D’ININTERROTTO MAGISTERO
LA CATTEDRA DI AGRARIA E D ‘ESTIMO
ONORO ‘  CON LA PAROLA E CON GLI SCRITTI
PRECIPUAMENTE ILLUSTRANDO TESORI E BISOGNI
DELLA CAPITANATA DILETTA
LE AMMINISTRAZIONI DELLA PROVINCI A E DEL COMUNE
MCMXX

Domenico Santoro, valente Preside, ricoprì tale incarico dal 1° ottobre 1912 al 30 settembre 1922, commissionò il busto di bronzo di P. Giannone e il 22 giugno 1913, in occasione della cerimonia inaugurale del monumento, pronunciò il suo discorso precedendo il Prof. Umberto Tria.

Carlo Palmeri, Preside, pittore e uomo di grandissima cultura. Nel 1965 ricoprì la carica di Presidente dell’Ente Nazionale Protezione Animali. Fu precursore dei suoi tempi richiamando l’attenzione degli studenti su argomenti fino allora mai affrontati, tra questi: introdusse l’ascolto della musica classica sia nell’ora di entrata nelle classi, sia durante la ricreazione;fece in modo che una parte dell’edificio della sezione staccata dell’Istituto fosse adibita ad asilo nido per i figli dei docenti; aderì a qualsiasi iniziativa che rivestisse carattere culturale facendo partecipi sia gli studenti sia gli insegnanti.

Nel 1956, nell’Istituto fuistituita una sezione sperimentale per l’allevamento dei bachi da seta; l’iniziativa era stata lanciata dall’Ente Nazionale Serico di Milano, d’intesa con l’Istituto Agrario di Capitanata, eccellenti furono i risultati, tanto che il 18 giugno 1956 la scuola fu premiata con il Diploma di Merito.

In quello stesso anno alcuni studenti si iscrissero al Corpo Nazionale Giovani Esploratori Italiani prendendo parte alle spedizioni organizzate dal gruppo scout foggiano.

Successivamente, gli studenti presero parte al corso di Cultura Aeronautica organizzato dal Ministero della Difesa, il corso si svolgeva durante le vacanze natalizie, pasquali ed estive ed aveva una durata massima di 6 giorni con due tipi di attività: la prima rivolta agli studenti delle ultime classi, il programma comprendeva anche le prove di volo ecc.; l’altra era rivolta ai ragazzi delle città prive di strutture aeroportuali; i partecipanti migliori furono premiati con pubblicazioni sull’aeronautica.

Nel 1961, con un gruppo di studenti universitari ex alunni, professori e studenti frequentanti l’Istituto, il Preside Palmeri fondò 1′ASSOCIAZIONE INTERNAZIONALE DI CULTURA con sede a Foggia che aveva come voce ufficiale ai sensi dell’ Art. 1 bis del proprio Statuto Sociale la Rassegna trimestrale «HESTIA», edita dalla tipografia S. Cuore di S. Agata di Puglia, di cui fu direttore responsabile.

La Rassegna aveva un formato di cm. 21×31 e, sulla copertina di ogni numero il titolo era preceduto dalla citazione evangelica: «Amiamoci gli uni gli altri», mentre in basso al centro un’altra citazione recitava: «Noi siamo guidati dalle luci che illuminano e non dalle torce che incendiano; vogliamo costruire, non distruggere…».

Nel primo comitato di redazione furono annoverati i seguenti illustri docenti: Giorgio Banfo, Pompeo Bucci, Saverio Buffa, Ivo Beni, Salvatore Maria Briguccia, Rosa Caracciolo, Vincenzo Coresi, Giulia Di Leo Catalano, Angelo de’ Baroni di Gosta, Giuseppe Fabiano, Reno Fedi, Carlo Gentile, Pietro Giuseppe Lovato, Michelangelo Meola, Grazio Mandelli, Savino Melillo, Michele Notarangelo, Orazio Notarangelo, Enrico Pappacena, Guido Pepe, Donato Piantanida, Carmen Prencipe Di Donna, Vittorio Salvatori.

Nel terzo anno di vita della rivista i docenti Antonio Mandelli e Savino Melillo furono sostituiti da Fausta Nigri e Luigi Treggiari. L’impronta a carattere altamente scientifico e culturale proponeva vari argomenti che spaziavano dalla letteratura alla storia, dall’arte alle scienze, dall’esoterismo alla filosofia, dallo sport all’attualità; tutti gli articoli pubblicati erano d’interesse nazionale, l’editoriale a firma del direttore responsabile, solitamente trattava argomenti informativi inerenti alle ultime leggi scolastiche ed, a volte, erano pubblicati i testi delle circolari ministeriali con i programmi degli Istituti Tecnici. Spesso, quando gli argomenti assumevano importanza internazionale, erano pubblicati in quattro lingue: Francese, Inglese, Tedesco e Spagnolo.

Sul primo numero del 2° anno di vita della rivista, il Preside Carlo Palmeri pubblicò due tavole fuori testo rappresentanti due delle sue opere dal titolo: Luci ed Ombre tav. XXXVI, ed Aurora a S. Lucia tav. XXXVIII.

Sul secondo numero dello stesso anno, egli pubblicò altre due tavole fuori testo raffiguranti altre sue opere dal titolo: Autunno tav. IV e Primavera tav. V, inoltre in questa occasione eccezionalmente fu pubblicato un dipinto della figlia Annalaura dal titolo Bambina tav. VI.

Sempre su questo numero, apparve la prestigiosa firma del noto endocrinologo romano Nicola Pende che disquisiva sull’argomento dal titolo: La Psicologia differenziale dei popoli e le fasi psicologiche ritmiche della storia umana.

Sul quarto numero della rivista relativa allo stesso anno, egli pubblicava altre tavole rappresentanti le sue opere dal titolo: Muta serenità tav. XI e Solstizio d’inverno tav. X.

Probabilmente anche su altri numeri successivi egli continuò ad inserire ed a divulgare le sue opere.

Nell’editoriale del primo numero del 1964, quarto anno della rivista, il Preside Palmeri dopo aver dissertato sull’argomento dal titolo: Gli Istituti Statali di Istruzione Tecnica, salviamo la scuola dalla peste politica, parlando del poco impegno profuso dall’Amministrazione Provinciale di Foggia, accennava alle continue richieste che da tempo immemorabile aveva inoltrato all’Ente affinché provvedesse a far pavimentare il cortile della sezione staccata della scuola che aveva sede in P.zza Cavour, affinché potessero svolgersi gli allenamenti della squadra di “Pallacanestro”, ma fino allora l’Ente non aveva provveduto ad evadere la richiesta; tuttavia il fiore all’occhiello dell’Istituto era la squadra di Atletica Leggera; l’articolo proseguiva:

«[…] La proposta è stata fatta il 26 novembre 1961 l’assessore alla P.I. è andato un paio di volte a visitare il locale seguito dal segretario che prendeva appunti, da ingegneri e da geometri che prendevano le misure e facevano calcoli ma,.., ancora oggi non è stato fatto nulla. […] Anche la richiesta di istituire un gabinetto igienico per gli insegnanti e uno per le insegnanti e un altro per le alunne nella suddetta sezione staccata, le cui aule sono distribuite in tre piani è rimasta inascoltata. E ‘ venuto il solito assessore, il solito segretario che prendeva note nel suo taccuino, i soliti ingegneri e geometri, che hanno preso le misure e fatto disegni… ma, ancora oggi, se un professore… ha bisogno… deve correre al “diurno”… che sì trova in “villa” di fronte al Tribunale […]».

Rilevava inoltre, che per i laboratori di chimica e di merceologia occorreva una bidella, che per le cinque cattedre complete relative alle materie tecnico-pratiche esisteva un solo insegnante specializzato e che il tutto era rimasto fermo all’epoca dell’esistenza di un solo corso.

Fin dal 1962 egli aveva inoltrato la richiesta con la quale proponeva come soluzione alternativa, l’inserimento di alcuni giovani di «[…] eccezionale valore, diplomarsi nello stesso Istituto con votazioni meritevoli di ogni elogio[…]» enon avendo ancora ricevuto una risposta, aggiungeva: «[…] Nella odierna ingarbugliata vita politica della nostra Patria, non è il merito che si cerca, ma… le ragioni politiche! […]». L’articolo si concludeva con l’invito da parte dei Professori e dello stesso Preside che, riunitisi il 18 febbraio 1964, dopo aver constatato l’inadempienza della Giunta Provinciale, chiedevano alle autorità superiori di intervenire in tal senso affinché con i loro provvedimenti rendessero più funzionali gli Istituti Tecnici senza che “estranei” potessero interferire con le loro decisioni. L’articolo, datato marzo 1964, era firmato dal Preside dell’Istituto.

Queste notizie offrono al lettore una breve nota su quanto accaduto in passato, sottolineando l’attualità delle problematiche.

Tra i docenti inoltre, è ricordato il prof. Orazio Notrarangelo; egli, come si è visto, faceva parte del comitato di redazione della Rassegna «Hestia», già da giovanissimo si era conquistato gli onori divenendo borsista del “Borromeo” di Pavia presso cui si era laureato; ma, legato com’era alle proprie radici preferì rinunciare alla brillante carriera che aveva cominciato proprio in quella città, per rientrare nella sua adorata “Foggia”.

Nel 1955 entrò a far parte del personale docente dell’Istituto “Giannone” insegnando presso la sezione staccata di Manfredonia; nell’anno successivo rientrò a Foggia dove rimase fino al 1976, quando lasciò l’incarico di docente dell’Istituto stesso, per affrontare un compito ancora più difficile: quello di Preside. Aveva già acquisito una lunga esperienza nel settore perché era stato Vicario per alcuni anni presso l’Istituto, pertanto, non gli fu difficile affrontare il nuovo incarico con l’amore per il suo lavoro, che da sempre lo accompagnava.

Lavorò alacremente per la scuola, prima come docente e poi come Preside dell’Istituto che oggi porta il suo nome, fino a quando un male incurabile lo rapì alla vita.

L’Istituto, inoltre, commemora attraverso alcune lapidi murarie, le gesta di chi con ardore dopo il cav. Cicella ha contribuito con il proprio impegno, alla crescita della scuola: è il caso del Gr. Uff. Emilio Ferrane, Presidente del Consiglio Provinciale e della Giunta di Vigilanza nel 1913, al quale è dedicata la seguente epigrafe:

EMILIO PERRONE
DAL MDCCCXCVAL MCMXVI ANNUALMENTE ACCLAMATO
PRESIDENTE DELLA GIUNTA DI VIGILANZA
COL FERVIDO ZELO ESERCITATO NEI PUBBLICI OFFICE
OND ‘EBBE PREMIO DELLA DIGNITÀ SENATORIA
TUTTA L’ANIMA DI CITTADINO
DIE ‘ AL LUSTRO ALL ‘INCREMENTO DELL ‘ISTITUTO
***
LE AMMINISTRAZIONI DELLA PROVINCIA E DEL COMUNE
MCMXX

Al cav. Antonio Cicella, è dedicata l’epigrafe attualmente collocata nell’Aula Magna dell’Istituto a sinistra dell’ingresso, essa riporta la seguente iscrizione:

IL COMUNE
CELEBRANDOSI LA GLORIA DI PIETRO GIANNONE 
VOLLE RICORDATO IL NOME
DI
ANTONIO CICELLA
PER L’INFATICATO PATRIOTTICO ARDORE DI LUI
COL CONCORSO DELL ‘AMM.NE PROVINCIALE
***
SORSE QUESTO ISTITUTO
***
XXII GIUGNO MCMXII

Un’altra. collocata sempre nell’Aula Magna a destra dell’ingresso, è dedicata alla memoria del geom. Giuseppe Albanese Ruffo ed è sormontata dal busto in bronzo dell’eroe.

Ogni anno la biblioteca scolastica era arricchita da volumi, ma furono anche tante le donazioni giunte da collezionisti e cultori; a tale riguardo il 1° agosto 1900, il prof. Michelangiolo Fasolo donò all’Istituto una raccolta di minerali provenienti dalla Sardegna, contribuendo così all’arricchimento del materiale scientifico.

L’Istituto rimase nel locali dell’Annunziata fino al 1935, in questi anni furono numerose le celebrazioni: nel 1913 fu inaugurato il busto di Pietro Giannone, opera del prof. Luigi De Luca, docente di scultura presso il Regio Istituto di Belle Arti di Napoli, in quell’occasione il prof. Umberto Tria durante la cerimonia pronunciò l’orazione dal titolo: Il Pensiero del Giannone.

Nel luglio del 1935, il Regio Istituto fu trasferito nei locali del nuovo Palazzo degli Studi, ed allogato in parte del 1° piano e del 2° piano, su una superficie complessiva di 4.100 mq.; i locali erano forniti di luce elettrica, acqua, gas ecc. molto spaziosi erano anche i laboratori di chimica, fisica e scienze naturali; la Provincia avrebbe pagato al Comune una pigione di L. 68.000 annue, con l’intervento del Prefetto; i vecchi locali sarebbero stati destinati ai PP. Giuseppini per la nuova sistemazione dell’Orfanotrofio M. Cristina, poiché la vecchia sede doveva essere demolita per lasciar spazio alla nuova costruzione del Palazzo degli Uffici Statali.

L’Amministrazione Provinciale provvide alle spese di trasferimento della scuola sostenendo una spesa complessiva di L. 25.000, stipulando un contratto a trattativa privata per l’esecuzione dei lavori di riparazione dei mobili esistenti nei locali dell’Istituto e per il trasporto degli stessi, dai locali dell’Annunziata a quelli di C.so Roma.

L’Istituto ebbe sede nel Palazzo degli Studi fino al secondo conflitto mondiale: dal ’43 al ’45 il Palazzo degli Studi fu occupato dalle truppe anglo-americane e l’Istituto ebbe come sede provvisoria alcuni locali nel Palazzo Dogana. Ritornò presso il Palazzo degli Studi quando gli americani lasciarono la città.

A Foggia vi era un secondo Istituto Tecnico intitolato a “F. Crispi” ad indirizzo mercantile, sorto nel 1928, reso Regio il 16 ottobre 1937 che con R.D. n. 711 dell’ 11 gennaio 1943 ebbe il riconoscimento giuridico e l’autonomia con l’approvazione dello statuto; mentre il “Giannone” aveva l’indirizzo amministrativo.

Nel 1945, il “Giannone” fu soppresso e fuso con il “Crispi”, in quell’occasione il Provveditore agli studi prof. Ioanna, comunicò ai Presidi dei due Istituti che il Ministero della P. I. con nota n. 6709 del 10/10/1945 aveva stabilito la soppressione del “Giannone” in quanto l’esistenza di due scuole simili nella città era superflua. Pertanto, a decorrere dal 1° ottobre di quell’anno era stata istituita una sezione per geometri presso l’Istituto “Crispi” che assumeva la seguente denominazione: “Regio Istituto Tecnico Commerciale ad indirizzo Mercantile e per Geometri Crispi”. La cosa però non piacque né alla cittadinanza, né alle amministrazioni locali, né ai docenti del “Giannone”, i quali il 20 ottobre di quell’anno, si riunirono in seduta straordinaria per inviare una petizione al Ministero della P. I., affinché fosse rivista la decisione di sopprimere l’Istituto adducendo la seguente motivazione:

«[…] l’Istituto è fra i più antichi dell’Italia meridionale, culla di valenti professionisti di cui non pochi hanno onorato la Provincia conseguendo altissimi gradi specie nell’Amministrazione Statale e nelle Forze Armate […]».

In quell’occasione furono ricordati i nomi dei “Grandi” che avevano caldeggiato per l’apertura della scuola, e che se fossero stati ancora in vita avrebbero fatto in modo che la scuola non fosse stata chiusa.

Nel successivo verbale del 30 ottobre di quello stesso anno, il personale docente, pur non arrendendosi, chiedeva che fosse almeno mantenuto il nome del “Giannone”, anche se, per motivi burocratici il “Crispi” non poteva essere soppresso.

In quel periodo gli organi della stampa locale e nazionale si interessarono al caso, tanto da pubblicare numerosi articoli riguardanti la chiusura dell’Istituto.

Ma non fu solo la stampa ad occuparsi di ciò che stava accadendo a Foggia, le proteste infatti, giunsero fino al Ministero.

Il Provveditore agli studi intanto, cercò di spiegare le motivazioni che avevano indotto il Ministero stesso a sopprimere l’Istituto Tecnico più antico della città: la ragione principale riguardava un provvedimento di riduzione della spesa pubblica con la soppressione del numero di Istituti Tecnici Commerciali risultati superflui nel paese; ma le motivazioni espresse dal Provveditore non furono ritenute esaustive, infatti né la cittadinanza né i docenti accettarono che la scuola fosse soppressa, inoltre, essendo il “Crispi” più recente, ed avendo natura giuridica simile a quella del “Giannone”, ritenevano che si potesse eliminare quest’ultimo.

Nonostante le proteste, l’Istituto fu definitivamente chiuso, e l’8 novembre 1945 fu stabilita la fusione dei due Istituti.

Le manifestazioni di protesta mosse contro la chiusura della scuola continuarono ad oltranza, fino a quando il Ministero non revocò la proposta di soppressione del primo Istituto; anche in questo caso la stampa si occupò della questione.

Più tardi l’Istituto, fu riaperto ed il “Crispi” fu definitivamente assorbito dal “Giannone” che assunse l’indirizzo mercantile con la sezione per geometri.

Finalmente dopo tanto fermento la città aveva riavuto ciò che le apparteneva di diritto e che a causa dell’ingiusta burocrazia del paese le era stato tolto… !

II 1° ottobre 1960 la sezione per Geometri si separò dando vita all’Istituto “E. Masi”, ed il 1° ottobre 1969 per l’elevato numero di studenti l’Istituto “Giannone” si scisse e fu fondato il “Rosati” ad indirizzo amministrativo.

Nel 1971 l’Istituto “P. Giannone” fu definitivamente trasferito in Via Sbano, attuale sede, costruita dall’Amministrazione Provinciale con la vendita dell’immobile della caserma dei Carabinieri che già in passato aveva ospitato alcune classi della sezione staccata dell’Istituto.

La scuola ha mantenuto l’indirizzo Mercantile fino all’anno 1999 infine, grazie all’impegno dell’attuale Dirigente Scolastico, prof. Alfonso Palomba e dei Suoi collaboratori, per proseguire nuovi traguardi ed adeguarsi alle prospettive europee, ha allargato i propri orizzonti assumendo nuovi indirizzi: quello IGEA dal 1996/97 diventato definitivo dal 2000, quello per Programmatori ed infine, quello Turistico-Iter dall’a. s. 2000/2001.

©2005 Lucia Lopriore.  Il presente contributo è stato tratto dal saggio dell’Autrice dal titolo: L’ITC “P. Giannone” di Foggia dalle origini ad oggi, in G. CRISTINO, L. LOPRIORE, V. MARCHESIELLO, L’ITC “P. Giannone” di Foggia e la sua Galleria d’Arte, a cura di A. M. Palomba, Foggia 2002.

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Microstorie

Renzo Arbore, la mia laurea ad honorem

«Antonio Vivoli al liceo Lanza fu un docente molto amato. La mia lezione all’Ateneo di Foggia s’intitola come un tema che lui ci diede sull’arte e la vita».

Renzo Arbore

Il titolo della lectio doctoralis che Renzo Arbore ha presentato il 19 ottobre 2005, presso l’Aula Magna di via Caggese, in occasione della cerimonia di consegna della laurea honoris causa in Lettere e Filosofia conferitogli dall’Università di Foggia, è quello di un tema assegnatogli dal professor Antonio Vivoli al Liceo classico Lanza.

Un liceo che ha inciso molto nella formazione di Arbore che qualche tempo fa rilasciò la seguente testimonianza per il volume Il Regio Liceo Lanza, dalle scuole pie agli anni del regime (Parnaso editore, Foggia, 2004): «È al Liceo Lanza che ho accarezzato i miei primi, fantastici sogni di gloria: disegnavo formazioni di meravigliose orchestre jazz, completamente ignaro dei  problemi delle discografie. Al Liceo è scoccata quella scintilla che mi ha reso consapevole del valore dell’artista. Fui sollecitato da un tema del professor Vivoli: “L’arte non è fuori dalla vita. È essa stessa vita e consolatrice della vita”. Tema  difficile. Ricordo che dopo la dettatura della traccia ci fu un moto di stupore, in classe. Non era il solito tema. Esprimeva pienamente un concetto molto profondo. Il fatto stesso che io, dopo tanti anni, ricordi ancora il testo significa che il tema mi aveva decisamente affascinato. Per me l’arte è superiore alle scienze, alla storia… Considero l’arte come suprema. Essere un artista è una cosa bella. Mi piace essere definito “artista”, al di là di ogni gratificazione materiale».

Arbore ricorda, a proposito  dei temi scolastici assegnati quell’anno, un episodio che ancora lo fa sorridere. «Si era ammalato il professor Vivoli e arrivò una supplente di Italiano. Inconsciamente ci provocò con un titolo di tema quasi assurdo, in confronto a quello dato dal nostro professore  nella prova precedente:“Din don dan, le campane suonano a festa. È Pasqua di Resurrezione!”. Decisamente demenziale. Non capì, poverina, che per quanto sguarniti, eravamo a un livello decisamente superiore. Potete immaginare cosa successe in classe…».

Il ricordo di Arbore sul prof. Vivoli è molto vivo: «Ci intimoriva molto, ma aveva un suo rigore e non ostentava la sua sapienza. Ci fece studiare su un bel testo di Natalino Sapegno. Era comunista. Un solo giorno ci disse “questa cosa” che, in un certo senso ci sconvolse: fu nel 1953, quando morì Stalin».

Antonio Vivoli

Antonio Vivoli fu un docente impegnato nella politica «militante» di sinistra fin dai tempi del fascismo. Al «Poerio» e al «Lanza» di Foggia si manifestarono posizioni di resistenza culturale al conformismo e alla retorica dilagante del Regime, mantenendo fermo il modello di «serietà degli studi». Il professore Antonio Vivoli, a quel tempo docente di Lettere latine presso il Regio Istituto Magistrale Poerio, era il fiduciario di Tommaso Fiore e del nascente Partito liberal-socialista (futuro nucleo del Partito d’azione) che nel 1942 sarà oggetto di una dura repressione da parte dell’Ovra (polizia segreta) con arresti e invii al confino. Il 6 aprile 1942, infatti, nello stesso giorno in cui ci fu la perquisizione della casa editrice Laterza e l’arresto di Tommaso Fiore e dei figli Vittore e Graziano, il prof. Vivoli fu tradotto da Foggia nelle carceri di Bari insieme al prof. Francesco Perna, docente di lettere nella regia scuola media di Foggia annessa al regio liceo Lanza. Il 3 aprile 1942, l’ispettore di Pubblica sicurezza Giuseppe Console aveva comunicato all’Ovra, al ministero dell’Interno e al capo della Polizia che aveva avuto notizia, in via fiduciaria, dell’esistenza di «un occulto movimento liberal socialista, sorto tra gli intellettuali di varie città d’Italia e facente capo, in Puglia, al professor Tommaso Fiore. Il gruppo aveva finalità antifasciste e si proponeva di lottare per il ripristino delle libertà». 

Tre dattiloscritti, inviati da Tommaso Fiore alla cellula foggiana del PLS  risultarono determinanti per il capo d’accusa dell’Ovra contro i proff. Vivoli e Perna. Il primo opuscolo, Lettera aperta del cittadino Settembrini, di contenuto polemico, era la risposta al discorso tenuto a Praga di Dietrich, capo dell’ufficio stampa del Reich. Vi si affermava che la rivoluzione nazional socialista, lungi dall’incrementare le libertà rispetto al liberalismo, non era altro che «una manifestazione dell’ideologia di una razza superba e sopraffatrice, protesa alla conquista del dominio mondiale». Il secondo opuscolo, Il fronte della libertà, incitava tutti, qualunque fosse il loro orientamento politico-spirituale, «a schierarsi in un fronte unico, per abbattere con ogni mezzo la tirannide fascista e restaurare in Italia le essenziali libertà». Il terzo opuscolo accennava all’impreparazione dell’esercito italiano e ai metodi brutali usati dai soldati tedeschi contro la popolazione greca.

Nel corso delle indagini risultò che, a livello nazionale, Tommaso Fiore, oltre che con la cellula foggiana guidata dai proff. Vivoli e Perna, intratteneva rapporti con Tristano Codignola e con i professori Guido Calogero e Capitini. Tra i simpatizzanti del movimento c’erano anche il professor Ernesto de Martino, docente di Storia e filosofia nel Regio Liceo Scientifico “Scacchi” di Bari e l’avvocato Michele Cifarelli.

Renzo Arbore  non conosceva questa vicenda di cui era stato protagonista il suo professore di Italiano Antonio Vivoli. La sua scelta di dedicare la sua lectio doctoralis al tema assegnatogli da Vivoli è forse un indiretto omaggio alla incisiva figura di formatore che il docente rappresentò  per tutti gli studenti del Lanza che furono suoi allievi nel corso della sua lunga carriera scolastica.

L’EPISODIO. Al terzo anno cinque materie e poi la bocciatura

Renzo Arbore frequentò la sezione A, insieme a studenti che gli «aprirono mondi diversi»: c’erano tanti ragazzi che venivano da altri paesi della Capitanata e d’Italia, con il loro carico di esperienze e di vita. Tra i compagni di scuola: Tonino Pandiscia, che arrivava da Lacedonia; Accettullo di Orsara di Puglia, e tanti altri. Tra i suoi compagni di banco Guglielmi, e soprattutto Antonio Morese (divenne poi noto come Toni Santagata), che arrivava da un paese del Subappennino dauno.

Arbore ricorda uno scivolone, una fatidica bocciatura in quello che doveva essere il suo ultimo anno a Foggia: «Quando si arrivò al terzo liceo eravamo in quaranta, un numero elevatissimo per una classe  che, a detta dei professori, era “terribile”. Quell’anno a giugno furono promossi soltanto sei studenti su quaranta… Una vera e propria “strage”. L’ecatombe fu determinata soprattutto dalla nostra condotta disciplinare, più che dal profitto di ognuno. In fondo studiavamo. Ma la classe si distingueva per le sue “imprese”: c’era chi veniva a scuola anche per divertirsi e fare casino, eravamo davvero scatenati. Io, rimandato a ottobre in cinque materie, non ce la feci a passare l’anno. Questa inattesa bocciatura per me fu un grande dolore. La presi malissimo. Quando andai a vedere i quadri ero timoroso più degli anni passati: sapevo che quel verdetto avrebbe segnato il mio prossimo futuro: se andare a studiare a Napoli o tornare a studiare con quelli della classe inferiore. Quella bocciatura fu davvero uno choc violento per me, ma mi ha insegnato molto, nella vita.  Quando qualche anno fa sono tornato al Liceo Lanza, in occasione di un incontro con gli studenti, sono stato accolto benissimo: per me è stata quasi una revanche: ero tornato  da “vincitore”!».

©2005 Teresa Maria Rauzino. Articolo pubblicato dal «Corriere della sera-Corriere del Mezzogiorno» il 13 ottobre 2005.

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Microstorie

Lucera, la strage dimenticata

Un numero de Il Foglietto

In un libro di Francesco Barbaro, le complesse dinamiche di un tragico evento dell’estate 1919

«In testa vi era la fanfara socialista. Ad essa seguirono dieci corone, portanti le fotografie delle dieci vittime della nostra fede. Sventolarono i vessilli delle diverse leghe e tra essi il gonfalone della camera del lavoro di Foggia, faceva seguito un interminabile fila di lavoratori, mesti, commossi, piangenti».

Così un cronista di Spartaco, periodico ufficiale della Federazione socialista di Capitanata, descrisse nel 1920 l’imponente manifestazione che commemorò l’eccidio di Lucera. Un anno prima, l’11 luglio del 1919, la città aveva vissuto la giornata forse più drammatica della sua storia. Per protesta contro il caroviveri, erano scoppiati dei moti di piazza che in tre giorni causarono gravissimi scontri tra i dimostranti e le forze dell’ordine: il tragico bilancio fu di dieci morti e di un’ottantina di feriti,  un’autentica emergenza per la Croce Verde e per il piccolo ospedale della città, che si rivelò insufficiente al bisogno, sebbene molti manifestanti, feriti in modo leggero, per evitare l’arresto, si fossero curati da soli.

Il Foglietto aprì una sottoscrizione per le famiglie delle vittime, coinvolgendo nella gara solidale la popolazione di Lucera, i maggiorenti vicini e lontani, compresi Gaetano Gifuni, Antonio Salandra e gli emigrati in Nord America. All’appello risposero la provincia di Foggia e persino la Massoneria.  il Grande Oriente d’Italia inviò 500 lire. In tutto furono raccolte 12mila lire, che alla vigilia di Natale 1919 furono distribuite alle famiglie più duramente colpite dal tragico evento.

I retroscena dell’eccidio di Lucera divennero una sorta di “affaire” di stato. Lanciata dall’agenzia Stefani, la vicenda assunse rilievo nazionale. Nella querelle che ne seguì intervennero il presidente del consiglio Nitti ed il suo predecessore, il lucerino Salandra; egli prese le distanze dal prefetto di Foggia Franzè, che aveva tempestato il Ministero degli Interni di missive riservate. Ci fu un’interrogazione di un deputato socialista e il caso Lucera venne discusso anche in Parlamento, con un ampio resoconto sulla prima pagina dell’Avanti puntualmente ripubblicato da Il Foglietto.

Oggi queste interessanti vicende, relative al moto popolare lucerino e al procedimento giudiziario che ne seguì appassionando l’opinione pubblica non solo locale, sono state ricostruite da Francesco Barbaro nel volume Lucera la strage dimenticata. Al di là della narrazione, il ricercatore lucerino effettua un esemplare spoglio tematico del Foglietto e di Spartaco, i due periodici locali che, nelle loro cronache, documentarono le varie fasi dell’evento. Emergono i diversi punti di vista dei due giornali, derivanti dalla marcata impostazione ideologica di Spartaco e dalla altalenante linea editoriale de Il Foglietto. Il settimanale lucerino, ad un certo punto, prese le distanze dall’evento: la cronaca del processo venne relegata in poche note informative, sparirono gli appassionati corsivi che avevano contraddistinto l’intensa partecipazione iniziale.

La parte più interessante del volume è l’analisi dei carteggi dell’Archivio Centrale dello Stato e dell’Archivio del Tribunale di Lucera; partendo da essi, Barbaro focalizza il ruolo del prefetto dell’epoca. A causa della sua forte pregiudiziale antisocialista, Franzé non riuscì a capire la portata sociale di un evento così drammatico. Trascurò le vere cause del disagio per il caroviveri e credette di fronteggiarlo facendo intervenire 500 carabinieri in assetto di guerra contro la popolazione inerme. Ma il prefetto indusse anche il Ministero degli Interni a trasferire in altra sede i giudici Morfino e Milone, del tribunale di Lucera, che si stavano occupando del caso, tacciandoli di filosocialismo. La fase istruttoria verrà affidata ai giudici del Tribunale di Trani.

Con il rinvio a giudizio dei cinquanta imputati, il processo tornò alla competenza del tribunale penale di Lucera (la Corte d’Assise di Bari giudicherà solo un imputato). Nel collegio di difesa si distinsero i deputati socialisti Leone Mucci e Michele Maitilasso.

Maitilasso, scagionato appena un mese prima dal ruolo di imputato (era stato accusato dal prefetto Franzè di aver fomentato la rivolta, tesi smentita durante il processo), come avvocato difensore contestò le richieste del pubblico ministero discutendo, con grande cognizione di causa, la “teorica” dei delitti della folla. La sentenza del Tribunale di Lucera, emessa nel marzo 1920, diede ragione agli avvocati difensori. Furono smontate le certezze del prefetto Franzè della congiura socialista, basate sul fatto che, nelle ore successive all’eccidio, nella locale camera del lavoro erano state rinvenute alcune armi: la loro esiguità non avrebbe mai consentito ai dimostranti di riuscire ad avere la meglio sulle ingenti forze di pubblica sicurezza – circa cinquecento unità supportate da mitragliatrici – presenti a Lucera l’11 luglio.

Dei 116 imputati, 50 furono rinviati a giudizio, e di questi ben 45 furono assolti. Cinque imputati furono condannati a pene miti. Ma dalle colonne di Spartaco si levò un’amara constatazione: nessun provvedimento giudiziario era stato emesso a carico delle forze dell’ordine che avevano sparato all’impazzata sulla folla, e avevano continuato a farlo anche quando molti manifestanti stavano rientrando pacificamente nelle loro case.

Soltanto un “ardito”, riconosciuto da molti testimoni come responsabile materiale dell’uccisione di un bersagliere, nell’ottobre 1921 fu condannato a 14 anni di carcere dalla corte d’assise di Bari. Ma non scontò mai la pena: era contumace. A vent’anni dalla mite sentenza, i legali del milite richiesero l’abolizione della condanna, appellandosi all’amnistia del gennaio 1923 varata dal governo Mussolini per azzerare i processi per reati commessi dagli squadristi fra il 1920 ed il 1922. L’applicazione dell’amnistia fu chiesta con valore retroattivo, con la motivazione della valenza politica dei moti contro il caroviveri. A distanza di oltre vent’anni – nell’anno XVIII dell’era fascista – si ottenne così l’annullamento dell’unica, simbolica condanna in contumacia inflitta ad uno dei protagonisti dell’eccidio di Lucera. Prevalse la tesi sostenuta dal prefetto Franzè, riconosciuta insussistente dalla sentenza del 26 marzo 1920.

Nel secondo dopoguerra un albero e una piazza (piazza Umberto I fu titolata ad Antonio Gramsci) ricordarono ai Lucerini, per qualche tempo, i luoghi dove era stata consumata la strage del 1919. Un evento rimosso dal regime fascista fin dal primo anno del suo avvento al potere. Francesco Barbaro, con la sua documentata analisi, ha restituito questa microstoria alla memoria collettiva della sua città.

Per non dimenticare.

BARBARO FRANCESCO, Lucera la strage dimenticata, Edizioni del Rosone, settembre 2005, pp. 215, ill., euro 15,00.

©2006 Teresa Maria Rauzino. Le foto d’epoca sono tratte dal sito: www.ilfrizzo.it

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Elogio del digiuno

I divieti quaresimali in un Editto che il ventiseienne Vincenzo Maria Orsini, futuro papa Benedetto XIII, promulgò del 1676, quand’era vescovo di Manfredonia.

Pieter Bruegel detto il Vecchio, Combattimento tra il Carnevale e la Quaresima, 1559 (Kunsthistorisches Museum, Vienna).

La Quaresima dovrebbe essere il momento giusto per rilanciare le pratiche del digiuno e dell’astinenza. Ma questa pratica ha ancora un senso nel mondo di oggi? Trova ancora dei convinti sostenitori? E come veniva regolata, nel passato?

Lo abbiamo scoperto leggendo l’Editto per l’Osservanza della Quadragesima, nell’Appendix Sinodi della diocesi sipontina, datato 7 febbraio 1676. Per l’autore, il vescovo Vincenzo Maria Orsini, la Quaresima, che con i suoi 40 giorni corrisponde a un decimo di tutte le giornate dell’anno, «è un tributo che ogni Cristiano Cattolico deve rendere a Dio, Sommo Creatore. È un periodo da accettare. È il tempo in cui lo Spirito deve tra le astinenze spiccare superiore al corpo». Seguendo ciò che hanno disposto i Sacri canoni e il Sacro Concilio di Trento (che includono tra i giorni di digiuno tutti i giorni della Quaresima, ad eccezione delle domeniche), monsignor Orsini ordina a tutti, e a ciascuno dei suoi “sudditi”, che nella prossima, futura Quaresima osservino le seguenti regole: «Che niuno (nessuno), almeno dai sette anni in su, ardisca di mangiar carne di qualsiasi specie». Oltre alla carne è vietato mangiare uova, e butiro (burro). Le “sanzioni” previste sono piuttosto pesanti: per gli ecclesiastici la deposizione, per i laici la scomunica.

Tutti coloro che hanno un’età “obbligante” sono, quindi, tenuti a digiunare ogni giorno, ad eccezione delle domeniche. Monsignor Orsini esenta da questi obblighi soltanto le persone inferme, e quelle alle quali per legittime ragioni è concessa dispensa da’ sacri Canoni. Esse sono tenute a produrre «una fede giurata del Medico». Al certificato dovrà essere allegata la fede giurata del confessore che «abbia cognizione della loro coscienza». Solo dopo aver presentato questi documenti all’arcivescovo, o al suo vicario generale o vicari foranei, presenti nei vari centri della diocesi, sarà possibile, per gli infermi, ottenere l’agognata licenza scritta che permetta loro di assaporare i cibi vietati. Ma i divieti non finiscono qui: pur avendo la dispensa scritta, gli infermi sono tenuti «ad usare detti cibi moderatamente e priuatamente»: dovranno evitare di farsi vedere mentre mangiano cibi vietati, in special modo da persone sconosciute. Per chi non osserverà queste cautele è prevista una pena grave, a discrezione dell’arcivescovo, e in sussidio di scomunica.

Orsini ordina ai medici e ai confessori di non rilasciare, a meno che non siano strettamente necessari, i suddetti certificati. Li minaccia di gravi sanzioni se lo faranno con leggerezza. Ordina, infine, che nessuno venda pubblicamente cibi vietati: «Tutti i bottegari, in tempo di predica, sono obbligati a tenere chiuse le loro botteghe». Se non lo faranno, tutta la loro merce verrà sequestrata.

Per evitare che il digiuno possa essere un’occasione di vanto, dovrà essere effettuato in segreto e nell’umiltà. Latradizione cristiana è categorica su questo punto: «Meglio mangiare carne e bere vino piuttosto che divorare con la maldicenza i propri fratelli» (Abba Iperechio); «Se praticate un regolare digiuno, non inorgoglitevi. Se per questo vi insuperbite, piuttosto mangiate carne, perché è meglio mangiare carne che gonfiarsi e vantarsi» (Isidoro il Presbitero). Anche l’Editto per l’osservanza della Quaresima si chiude con una raccomandazione: «Melior est abstinenti a vitiorum, quam ciborum» (Meglio l’astinenza dai vizi rispetto a quella dai cibi). Perciò, in questo “sagro tempo”, si dovranno mettere da parte gli odi, e riappacificarsi col prossimo, bisognerà astenersi dalle cacce, dai conviti, dai festini, seguire le prediche, udire ogni mattina la santa messa, più volte confessarsi e comunicarsi, e fare opere pie confacenti allo stato di buon cristiano. Affinché l’Editto sia noto a tutti, Orsini ordina agli arcipreti della diocesi sipontina di pubblicarlo nella domenica della Quinquagesima e nella seconda domenica di Quadragesima; e di tenerlo affisso sulle porte delle chiese per tutto il tempo quaresimale: «Ed in tal modo abbia forza, come se fosse personalmente intimato a ciascuno!».

Nei giorni festivi si permetteva generalmente ai venditori di pane, vino, frutti ed ortaggi, ai macellai, ai bottegai e albergatori, «ad aromatarij e spetiali di poter vendere i loro generi acciò le feste non siano gravi, ma celebrate con hilarità spirituale». Ma questo è vietato a Pasqua: «Nelli giorni della Pascha di Resurrezione… non s’aprirà alcuna botegha, nè si venderà, nè si opererà, o farassi alcuna cosa se non per mera & evidentissima necessità di qualche infermo».

Nei tempi recenti la disciplina ecclesiastica sul digiuno è stata attenuata. I giorni prescritti sono rimasti soltanto due: il mercoledì delle Ceneri e il venerdì santo. Ancora digiuno, dunque. Ma perché? La teologa Stella Morra ha affermato che se un’indicazione affonda le radici nei secoli ha tutti i numeri per essere valida. Privarsi coscientemente del cibo rende visibile una condizione costitutiva dell’uomo: lo rende mendicante, non più onnipotente. Autoregolazione utile in un mondo con eccessiva mania di protagonismo. Ma il mangiare appartiene al registro del desiderio, supera la semplice funzione nutritiva per rivestire un significato simbolico: moderando la fame, si moderano tanti appetiti. Si disciplinano le relazioni con gli altri, con la realtà esterna, relazioni tendenti all’aggressività ed alla voracità. Il digiuno diventa “educazione del desiderio”. Svolge la funzione di farci sapere qual è la nostra fame, di cosa viviamo. In un tempo in cui lo stesso digiuno e le terapie dietetiche divengono oggetto di business, l’uomo, cristiano e non, non dovrebbe mai dimenticare la specificità del digiuno. Dovrebbe porsi una semplice domanda: “Uomo, di che cosa vivi?”.

Il PERSONAGGIO – Orsini dalle visite pastorali nel Gargano, a dorso di mulo o in barca, al soglio pontificio

Pier Francesco Orsini, papa Benedetto XIII.

Pier Francesco Orsini nacque a Gravina di Puglia (BA) il 2 febbraio 1650, figlio di donna Giovanna Frangipane della Tolfa e del duca Ferdinando Orsini, feudatario di Solofra. Vincendo la contrarietà dei familiari, entrò nell’Ordine dei Predicatori (Domenicani), con il nome di fra Vincenzo Maria Orsini. «Duca per nascita, frate per vocazione, cardinale per volere materno e papa suo malgrado», incarnò nel Mezzogiorno il modello del vescovo estremamente ligio alla “lezione” tridentina. Il 3 febbraio 1675, ad appena 25 anni, fu consacrato vescovo diSiponto (Manfredonia, FG). Realizzò un ampio coinvolgimento ai problemi della vita ecclesiale, riunendo in una periodica, solenne assemblea, tutto il clero, che prendeva coscienza della realtà locale, rendendosi più responsabile della cura delle anime. Effettuò due visite pastorali, la prima nel 1675 e la seconda nel 1678, raggiungendo i paesi dell’impervio Gargano a dorso di mulo, ma anche in barca. Rinnovò le sedi ecclesiali, consacrò altari e prescrisse arredi e suppellettili. Effettuò un’attenta ricognizione del patrimonio fondiario, entrando in contrasto con i funzionari del Viceregno e i Legati spagnoli. Innocenzo XI lo trasferì il 22 gennaio 1680 nella lontana sede di Cesena. Il 30 maggio 1686 Vincenzo Maria Orsini, a dorso di un cavallo bianco, entrò nella città di Benevento: era stato nominato arcivescovo metropolita.

Vi resterà per 44 anni. Qui la sua opera pastorale fu imponente: indisse 44 sinodi in 44 anni, i cui Atti, come quello di Siponto, furono regolarmente stampati, e diffusi in ogni parrocchia della diocesi.

Il giornale di Napoli «Avvisi Pubblici» n. 27 del 4 luglio 1724 rievocò così la nomina di Orsini al pontificato: «È stato tale e tanto il giubilo inteso dalla Cittadinanza dello stato di Solofra per la esaltazione al soglio Pontificio del di loro primo natural Padrone, oggi Sommo Pontefice, che per dieci giorni continui quel pubblico lo manifestò con estraordinaria allegrezza facendo vedere pareggiare la notte col giorno per la quantità ben grande de’ lumi, ed altri fuochi di gioia accesi nelle publiche strade, e nei palagi, in molti dei quali vedevasi esposto il ritratto di S. Santità, e facendo sentire un continuo rimbombo di mortaretti, salve d’archibuggi, e di varie sorti di fuochi artificiali».

Divenuto papa Benedetto XIII, Orsini morì il 21 febbraio 1730. Per non disturbare il popolo romano, impegnato nelle strade a festeggiare il Carnevale, per lui non suonarono neppure le campane a morto. Il suo fu un pontificato molto “discusso”. Tra i demeriti, la persecuzione contro Pietro Giannone.

©2007 Teresa Maria Rauzino. Il presente saggio è stato pubblicato sul «Corriere del Mezzogiorno-Corriere della sera» del 19 marzo 2004.

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Il figlio dell’uomo, un film sulla Passione girato a Peschici

La pellicola della San Paolo Film fu girata negli anni cinquanta a Peschici e a Kàlena. Alle riprese partecipò l’intero paese.

Presso la Palazzina Multimediale della Biblioteca Provinciale “ La Magna Capitana “, durante la settimana santa sono stati proiettati cinque film che raccontano le vicende, la vita e la morte di Gesù Cristo: il Gesù di Nazareth di Franco Zeffirelli (1977); Il Messia di Roberto Rossellini (1975); il Vangelo secondo Matteo, regia di Pier Paolo Pasolini, (1964); L’ultima tentazione di Cristo di Martin Scorsese (1988) e La passione di Cristo di Mel Gibson (2004).

Un ciclo tematico sulla religiosità pasquale, selezionato dal direttore Franco Mercurio fra i 150 film sulla vita di Gesù realizzati in oltre un secolo di cinema.

È del 1897 il primo film sul tema: il fotografo parigino Léar dirige La passion du Christ. Si tratta di alcuni tableaux vivants allestiti in occasione della Pasqua. Sono passati appena due anni dalla nascita della macchina da presa. I fratelli Lumière si rendono conto del grande impatto sul pubblico del tema religioso: ecco nascere il cortometraggio Vues représentant la vie et la passion de Jesus-Christ (Vedute che rappresentano la vita e la passione di Gesù), ribattezzato Passion Lumière. Tredici episodi, dalla adorazione dei magi alla resurrezione, quasi statici, sull’esempio dei tableaux vivants teatrali. La supervisione alla regia di Hatot e Breteau è curata dal padre dei fratelli Lumiere, Antoine. La pellicola è lunga soltanto 230 metri . L’immaginario popolare trova in quei pochi spezzoni di celluloide la rappresentazione scenica di temi decisamente familiari.

Hollywood si butta a capofitto sul quel proficuo filone. Un‘attenzione mai venuta meno fino ai nostri giorni, confermata dal successo di tanti film sulla vita di Gesù, riproposti puntualmente in occasione della settimana santa.

Un radicale cambiamento nell’approccio ai temi della “passione” si registra con Il Vangelo secondo Matteo (1964): Pasolini ribalta canoni formali e stilistici, usando un linguaggio realistico in cui si fondono atmosfere arcaiche e riferimenti pittorici rinascimentali. Il tutto accompagnato da una colonna musicale a base di spiritual e blues. Subito criticato, il film guadagna credito col tempo. Un capolavoro, che oggi è possibile rivedere anche a Foggia grazie al restauro del Centro sperimentale di cinematografia.

Nella rassegna foggiana, avremmo volentieri inserito Il Figlio dell’Uomo (Ecce Homo), un film in bianco e nero di Virgilio Sabel della durata di 92 minuti, prodotto in Italia nel lontano 1954 e girato interamente a Peschici un anno prima. Nel cast degli interpreti, attori professionisti come Fiorella Mari, Eugenio Valenti, Franca Parisi, Jenny Magetti, Antonio Casale, recitano con gli attori dilettanti di Peschici, scelti dopo un provino: tra di essi spiccano Elio Del Duca (Pietro), Tommasina Vera, Raffaele Costante (Giuda), Gaetano Diana (Giuseppe) e Antonio Vigilante (Caifa). 

La sinossi del film parte dalla Genesi per arrivare ai giorni della vita, della Passione e della Resurrezione di Gesù Cristo: dopo la caduta di Adamo ed Eva, Iddio promette un Redentore. La visita dell’Angelo alla Vergine Maria, sposa di Giuseppe, segna l’inizio del mistero dell’Incarnazione. Gesù, nato in una stalla di Betlemme, dopo trent’anni di vita anonima, inizia il suo ministero di redenzione e d’amore; attraverso la predicazione e i miracoli entusiasma il popolo. Catturato al Getsemani, viene condannato a morte ed ucciso sul Calvario. La resurrezione segna il trionfo di Gesù, che ascende al cielo per sedere alla destra del Padre.

Proponiamo, a chi vuole saperne di più sul “clima” del set garganico, uno stralcio di Pèschici come la Palestina , tratto dalla recensione di Domenico Ottaviano e Raffaele D’Amato, studenti del Liceo Scientifico di Pèschici, pubblicata sul Giornale interscolastico «Ottoetrenta», anno II, n. 2:

«Nel film – scrivono i ragazzi – sono visibili parti dell’antico paese; si riconoscono scene girate nell’antica Abbazia di Kàlena (l’Annunciazione e il Tribunale) o nella Chiesa della Madonna di Loreto (l’Ultima Cena), mentre le prediche fatte da Gesù Cristo (impersonato dall’attore professionista Eugenio Valenti) sono state ambientate sulla Torre di Monte Pucci, da dove è visibile la costa che va fino a Rodi Garganico. Insieme a pochi attori professionisti, Sabel ha utilizzato molte comparse di Pèschici. Altre persone del posto appaiono in ruoli secondari, come, ad esempio, i centurioni. La trama e la recitazione sono per l’epoca molto avanzate e propongono una realtà ancora sconosciuta di un piccolo villaggio di pescatori, che si cimentò per la prima volta nella recitazione di un film. Forse anche per questo, Il figlio dell’uomo ha suscitato nella popolazione grande interesse e disponibilità. Il film ha un grande valore documentale, perché mostra come era Pèschici cinquanta anni fa, nel suo incontaminato splendore, con le piccole casette a cupola di Via Kennedy e del Borgo di S. Nicola, con le rispettive grotte per gli asini e le bestie da latte, che rappresentano il profilo ormai perduto del nostro paese».

Don Alberione si era lanciato nel mondo della celluloide il 18 marzo 1938; fino ad allora aveva limitato il suo campo d’azione apostolica nella carta stampata. In quell’anno in Italia le sale cinematografiche erano 4049 e i cattolici ne gestivano quasi la metà. Le organizzazioni cattoliche non avevano ancora un proprio spazio in un ambito di importanza strategica come quello della produzione e distribuzione del film, limitandosi  a interventi censori e moralistici sulla “nuova arte”, ormai divenuta un fenomeno di massa. La parola d’ordine di Don Alberione fu deporre le forbici della censura e prendere in mano la macchina da presa.

Negli anni del secondo dopoguerra, le 70 librerie delle Edizioni Paoline furono attrezzate per diventare luogo di distribuzione delle pellicole ma anche centri di consulenza, di assistenza tecnica e di irradiazione sul territorio della nuova proposta. Le riviste della Società San Paolo, soprattutto «Vita Pastorale», scatenarono una formidabile campagna di convincimento nelle parrocchie perché appoggiassero in modo concreto la nuova “via paolina” al cinema. Il 19 dicembre del 1947 venne costituita una nuova società, la Parva Film , che aveva tra i suoi scopi, oltre alla produzione, acquisto, vendita e sfruttamento dei film, anche quello di realizzare e gestire «stabilimenti per la produzione e riduzione di film da passo normale a passo ridotto». L’idea consisteva nell’acquisire dalle Case cinematografiche di produzione i diritti di riduzione a passo 16mm della pellicola originale a 35mm già sfruttata nei normali circuiti delle sale cinematografiche; per proporre al mercato uno strumento più duttile e snello rispetto alla pellicola in 35mm.

Nell’arco dell’anno 1948, la Parva Film , con un catalogo di 40 film, era già diventata leader del mercato; «Vita Pastorale» nel gennaio 1949 registrava che la società aveva approntato «il gruppo di film più numeroso, più buono moralmente ed artisticamente che esista in Italia… e l’organizzazione di noleggio più vasta, più comoda, più economica, più comprensiva».

La Parva Film specializzò l’ambito della sua produzione nel settore del cinema religioso. L’esperienza deludente nell’uso del colore suggerirono alla casa cinematografica (che nel 1952 adotta la ragione sociale Parva-San Paolo Film), di girare due film in bianco e nero: Il Figlio dell’Uomo (1953), che abbiamo qui analizzato, e Ho ritrovato mio figlio (1954), la storia di un dramma familiare. Entrambi furono distribuiti sia in 16 che in 35mm.

Fu in questo periodo che nacque la “scheda filmografica”, uno strumento indispensabile per la presentazione, soprattutto in sede di cineforum e di pubblico dibattito, dei film di una certa levatura artistica. La scheda, oltre a contenere tutti i dati tecnici della pellicola e il giudizio del Centro Cinematografico Cattolico, forniva chiavi di lettura a livello morale, estetico e di linguaggio cinematografico, necessari per una più profonda comprensione del film.

Presente oggi in tutti e cinque i cinque continenti, la Società San Paolo si serve di riviste, libri, cinema, radio, televisione, dischi, musicassette, compact disc, siti Internet e di ogni tecnologia comunicativa per cristianizzare le masse lontane dalla vita parrocchiale.    

©2007 Teresa Maria Rauzino. L’articolo è stato pubblicato sul «Corriere del Mezzogiorno- Corriere della sera» del 5 aprile 2007 con il titolo Le immagini in bianconero del «Figlio dell’uomo», una memoria da riscoprire. Le foto tratte dall’album di Michelino Esposito e Rocco Tedeschi Peschici nella memoria. Immagini e ricordi dagli inizi del secolo agli anni ’70”, edizioni Stauros, 2004 e dal sito http://www.970ad.it

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Microstorie

La Bauhaus sul Gargano

L’artista italo-tedesco Bortoluzzi scelse Peschici come buen retiro

Passi di danza di Alfredo Bortoluzzi.

 
   Un teorema urbanistico risolto in chiave di scenografia funzionale: quinte di case inverosimili, strette ed alte come torri, oppure a un solo piano, senza tegole, con tetto a cupola rivestito d’intonaco e i margini voltati ad onda per convogliare le piogge entro le cisterne sottostanti alle grondaie. Case scialbate a calce, o dal colore grigio- rosato dei muri antichi. Bianchi e azzurri che richiamano un’isola greca, il villaggio di Oia, a Santorini, nelle elleniche Cicladi. Scoprono improvvisi scorci luminosi aperti tra valli e mare. 

Così si presentò Peschici per la prima volta ad Alfredo Bortoluzzi, in viaggio nel 1953 verso l’isolato selvaggio, mitico Gargano. Secondo il critico Carlo Munari, che andò a trovare Bortoluzzi a Peschici dopo aver curato una sua mostra nel 1967, la luce e i colori “italiani” di Peschici giovarono alla pittura di Bortoluzzi, per le sottili, segrete corrispondences interiori che riuscirono ad evocargli. Per l’artista il Gargano rappresentò l’incontro con la mediterraneità. Fu la Magna Grecia ad affascinarlo, così come aveva affascinato i voyageurs del Grand Tour che provenivano dal Nord Europa. Sbaglierebbe chi credesse Bortoluzzi un semplice “vedutista”: Peschici, i monti, le valli ed il mare sono soltanto pretesti per evocare la Stimmung della solarità. Un tentativo continua Munari – di sfuggire all’incanto opposto, della selva e delle saghe, del culto della Luna, del romantico chiuso e disperato della Kultur. 

Una Kultur che Bortoluzzi non riconosceva più come sua: aveva prodotto il buio della chiusura della Bahuaus, la scuola in cui aveva imparato tutto; aveva causato la distruzione dei suoi quadri, di quelli di Klee e di Kandinsky, reputati arte degenerata “dall’artista fallito Hitler”. 

Una Kultur che aveva prodotto il buio dei pogrom. 

Nato a Karlsruhe nel 1905 da genitori italiani, figlio di artigiani, il padre mosaicista e la madre stilista, Bortoluzzi non intraprese la carriera universitaria come il padre avrebbe desiderato, ma quella artistica. Frequentò dapprima l’Accademia di Karlsruhe e in seguito, a partire dal 1927, il Bauhaus dove sarà allievo di Albers, di Kandinsky, di Schlemmer e soprattutto di Klee, che lascerà un’impronta inconfondibile nella sua opera grafica e pittorica. 

Quando nel 1933 il nazismo trionfante ordinò la chiusura dell’istituto di Dessau, Bortoluzzi non seguì nella diaspora verso l’America gli artisti della sua scuola, né il suo grande maestro Paul Klee in Svizzera: riparò a Parigi. Su suggerimento della madre, mise a frutto l’esperienza teatrale fatta alla Bauhaus, perfezionandosi all’Ecole de danse di madame Egorova. Di lì a poco diventò primo ballerino nel balletto russo di Serge Lifar all’Opéra di Parigi. 

Girò molti teatri d’Europa a fianco di future grandi personalità. Ad Aquisgrana lavorò con Herbert von Karajan, che gli lasciò un ricordo negativo: «Von Karajan, che era all’inizio della carriera, lavorava molto, ma era senza cuore, forse perché il mondo del teatro era a quel tempo pieno di così tanti intrighi. Finì che mandarono via il mio intendente ed io andai via con lui. Erano gli anni della guerra e, se ricordo bene, era il periodo in cui l’Italia tradì la Germania… e ci fecero prigionieri».

Bortoluzzi (in controluce) durante un balletto

Bortoluzzi fu catturato nei pressi di Auschwitz. La testimonianza di Alfredo è drammatica: «Di giorno facevamo trincee e di sera dovevo ballare con i miei ballerini per i soldati tedeschi. Il mio intendente, vedendo che non ne potevo più, mi fece spostare e mi mandarono a stirare le divise in una fabbrica. 

Di lì a poco giunsero i russi nelle vicinanze della città: Fritz Lang (un filosofo e tenore che poi seguì Bortoluzzi a Peschici, ndr ) con documenti falsi, sfruttando il mio doppio nome, si procurò due biglietti per Karlsruhe. C’era tanta neve, la gente fuggiva per le strade… e la mia casa non c’era più. Andai da mio fratello e anche qui sembrava tutto distrutto ma, avvicinandomi vidi un tubo di un camino fumante … Lui era rifugiato di sotto… 

Arrivarono prima i francesi, poi gli americani e così diventai coreografo della VII Armata Americana per i festeggiamenti e i loro show».

Peschici. La vela di una barca dipinta da Bortoluzzi

Queste testimonianze di Alfredo Bortoluzzi emergono da una tesi di laurea discussa presso l’Università di Siena nell’anno accademico 1997-98 da Anna Maria Mazzone, che ha raccolto altresì la documentazione e le “carte” che vanno dal periodo 1905 al 1995 nell’archivio privato donato dall’artista al fratello, il pittore Domenico Mazzone, erede universale di Bortoluzzi.

La tesi della Mazzone è inedita: oltre a contenere fitti carteggi in tedesco tratti dalle corrispondenze di Bortoluzzi con i suoi amici rimasti in Germania, è ricca dei bozzetti e degli studi scenografici che l’artista, mettendo a frutto gli insegnamenti di Schlemmer, realizzò durante il lungo periodo (1933-58) in cui abbandonò pennelli e monotipia per dedicarsi al balletto classico. Questi schizzi e disegni sono stati esposti per la prima volta esposti al pubblico in occasione di una retrospettiva inaugurata il 13 Novembre 2004 alla “Galleria provinciale di arte moderna e contemporanea” di Palazzo Dogana a Foggia. L’importante mostra ha ospitato circa 80 lavori di Bortoluzzi ed una ricca collezione di materiali riguardanti i rapporti con la Bauhaus e la sua attività di ballerino. 

Attualmente la Galleria foggiana ha una saletta che ospita alcuni dipinti di Bortoluzzi.

IL RICORDO DI ALFREDO BORTOLUZZI Adesso sono diventato meridionale «Sono arrivato a Peschici nel 1953 per la prima volta, era in febbraio… Il mio critico d’arte Egon Vietta mi aveva raccontato del Gargano… molto bello, verde e selvaggio e così mi sono messo in viaggio fino a Roma. A una agenzia di viaggi ho chiesto come si arriva nel Gargano. Mi hanno detto: “Si può andare fino a San Severo e là non c’è più un mezzo per andare più avanti; prenditi una bicicletta”. Ma abbiam trovato un trenino e un pullman che ci hanno portato fino a Peschici. Siamo andati subito alla spiaggia, era dopo una pioggia, avevano messo le barche ad asciugare e le vele erano tutte dipinte dagli stessi pescatori con colori molto vivaci, anche una Madonna. Era bellissimo, mi ha impressionato molto. La gente aveva una cultura rustica, erano molto gentili. Quello che mi è piaciuto molto a Peschici erano le cupolette delle case, quasi orientali, mi sembrava che le onde e le cupole avevano lo stesso movimento. E mi sono innamorato di Peschici. Adesso sono diventato proprio meridionale e mi sento a casa, qui…».  .       
Testimonianza raccolta nel documentario La Montagna del sole. Visioni di luce di Maria Maggiano

©2006 Teresa Maria Rauzino. L’articolo è stato pubblicato sul «Corriere del Mezzogiorno-Corriere della sera» del 12 Novembre 2004.

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Microstorie

Gioielli sul petto e sul crine

Tra arte e tradizione popolare i reperti del vasto campionario illustrato in un bel catalogo curato da Anna Maria Tripputi e Rita Mavelli. “Tredici”, “susta”, “pretensosa”,“berlocco”, i magici ori delle intriganti donne del promontorio del Gargano.

Mattinata. Pasqua Maria Eugenia Sansone con gli ori di famiglia anni 50 (Fototeca Tancredi).

Ori del Gargano, catalogo di grande impatto visivo curato da Anna Maria Tripputi e Rita Mavelli, pubblicato dall’editore Claudio Grenzi di Foggia, ci restituisce un aspetto inedito della cultura pugliese: l’oreficeria popolare. Un’arte ritenuta minore. L’artifex in genere non è mai stato elevato al rango di artista, gli è sempre stata negata la dignità di creatore.

A torto, come dimostrano i gioielli del Gargano, che emergono come opere artistiche di rara bellezza, restituendoci le atmosfere del Novecento.

Eppure fin dall’inizio del secolo scorso, l’attenzione degli studiosi di tradizioni popolari intorno a questi reperti era stata molto forte. Nel 1911 la “Mostra di Etnografia italiana”, tenutasi a Roma nel 1911 per celebrare il Cinquantenario dell’Unità d’Italia, offrì una stupenda rassegna dell’artigianato orafo di tutte le regioni italiane. L’intento era quello di “rincuorare e diffondere” un’industria ignorata e sopraffatta dalla “capricciosa imitazione di modelli forestieri”. I materiali relativi alla Puglia provenivano da Monte Sant’Angelo ed erano significativi della fiorente attività delle botteghe orafe del Promontorio del Gargano. Furono raccolti e presentati da Giovanni Tancredi.

Filippo Maria Pugliese ricordò così una visita alla ricca collezione dell’etnografo di Monte: «Giovanni (Tancredi) mi mette in mostra la sua preziosissima bacheca degli ornamenti paesani in oro… Sbarro gli occhi; ammiro; contemplo… Ecco gli orecchini: a navetta; alla pompeiana; a pendagli; a fiocchi, a campana, alla francese; a pallucce… e poi, le suste (collane): a fiori; con la crocetta; a rococò; col pendaglio; col ritrattino in cammeo, poiché la susta, affidata ad ampio nastro vellutato, nero, rosso o blu, è il segno della donna maritata, e, per lo più di agiate condizioni sociali. Ecco le collane d’oro: quella con la crocetta latina; quella col San Michele; quella alla pompeiana; con le palline, con rombetti piccoli, e detta “a specchi”; con grane e bottoni a barilotti; col coretto; quella, girante per due o tre volte intorno al collo, e reggente il “berlocco” che poteva essere anche ridotto nel mezzo dell’ampio petto matronale».

La raccolta degli ori del Gargano proseguì negli anni successivi, sempre a cura di Tancredi, che li fornì anche ad Ester Lojodice, nel 1930, per allestire, nel nascente “Museo di tradizioni popolari di Capitanata”, una sezione con un vasto repertorio di materiali orafi tipici dello Sperone d’Italia.

Il catalogo di Claudio Grenzi parte proprio dai reperti raccolti da Tancredi (Museo etnografico di Monte Sant’Angelo) e dalla Lojodice (Museo Civico di Foggia), che diventano tasselli significativi di una ricognizione che tocca i centri orafi di tutta la Capitanata (da San Marco in Lamis a Lucera, da San Severo a San Nicandro, da Mattinata fino a Vico del Gargano).

Una ricerca minuziosa e problematica per le curatrici della ricerca perché le testimonianze superstiti sono difficilmente rilevabili, a meno che non confluiscano nel “tesoro”di una chiesa, di un santuario oppure in un museo diocesano.

Le collezioni private sono infatti gelosamente custodite negli scrigni di famiglia, si trasmettono di generazione in generazione, rigorosamente per linea femminile.

Gli ori non si vendono e non si scambiano, se non in casi del tutto eccezionali. Gli elenchi dei pegni depositati, ad esempio, al Banco del Monte di Foggia, registrano il deposito di ori da parte di famiglie passate da condizioni floride allo stato di povertà.

Le due ricercatrici, nel loro lavoro di reperimento degli ori, hanno dovuto adottare approcci mediati e non invasivi per rendere possibile la comunicazione con i possessori o i portatori di questa preziosa cultura materiale. I superstiti maestri orafi, depositari di questa antica tradizione artistica, una volta convintisi dell’importanza dello studio, si sono rivelati fonti essenziali per la ricerca.

Le notizie emerse dal loro narrato, il riscontro con le fonti d’archivio e con la bibliografia tematica hanno permesso alla Tripputi e alla Mavelli di tracciare una mappa dell’attività orafa del territorio, il loro simbolismo, la storia della trasmissione e la tipologia dei gioielli prevalenti, di ricostruire i significati d’uso.

Pacchiane bardate sui muli in occasione della visita a Montesantangelo di Costanzo Ciano nel 1931 (Fototeca Tancredi).

Emerge un dato significativo: il Gargano non è affatto un’isola culturale chiusa e inaccessibile, ma estremamente aperta a tutti gli influssi esterni. Le vie dei pellegrinaggi, della transumanza e il contatto giornaliero con le sponde balcaniche spiegano la circolazione di modelli orafi provenienti dalla Campania, dall’Abruzzo e addirittura dalla costa dalmata.

Certamente ci sono delle varianti rispetto ai modelli base, come si evince dalla terminologia linguistica utilizzata dai garganici per denominare i vari gioielli. «Le tipologie di collane, di orecchini e di pendenti – sottolinea Anna Maria Tripputi – hanno una straordinaria pregnanza linguistica, oserei dire onomatopeica».

Lo storico Michele Vocino mise in evidenza la quasi naturale predisposizione delle donne del Gargano all’esibizione dei gioielli: «La mania degli ori e dei monili è più di tutto accentuata a San Giovanni e a Monte sant’Angelo, dove sono in uso grandi spilloni artistici per i capelli e orecchini esageratamente grossi e pesanti da sembrare perfino impossibile che possano essere sostenuti da piccole orecchie».

Ori da esibire, dunque, ma – ci avverte Anna Maria Tripputi – anche da indossare in particolari momenti di passaggio della vita: il battesimo, la cresima, il fidanzamento, il matrimonio, la morte.

Il gioiello, in realtà, è un indicatore, un segno particolarmente efficace dell’orizzonte mitico-culturale di un territorio e soprattutto del popolo che lo abita. Connota le testimonianze di cultura materiale con la sua unicità.

ANNA MARIA TRIPPUTI, RITA MAVELLI, Ori del Gargano, Claudio Grenzi Editore, Foggia.

©2007 Teresa Maria Rauzino. Le immagini di questa pagina (Fototeca Tancredi) sono tratte dal catalogo di Claudio Grenzi.

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Microstorie

Sulle rotte dei pirati

Kair ad-Din, detto il Barbarossa (1475–1546)

Khair ad-din, il mitico corsaro del Saladino, assaltò l’abbazia di Kàlena

«Is Morus! Is Morus! Li turchi Li turchi».

Così gridavano i torrieri del mar Tirreno e dell’Adriatico quando avvistavano le navi dei pirati all’orizzonte. E gli abitanti dei paesi costieri fuggivano verso l’interno, cercando di salvare il salvabile… Niente di nuovo sotto il sole. La pirateria era praticata sin dall’antichità dai «popoli del mare»: i Cretesi, i Fenici, i Greci e gli Etruschi, forti della loro talassocrazia, attaccavano le navi nemiche per impossessarsi di merci e uomini. I Romani, non riuscendo a debellare il fenomeno, avevano varato un’apposita legge, la “Lex Gabinia de piratis persequendis” (67 a.C.), che diede a Pompeo i pieni poteri. Ci fu una tregua, ma a partire da VII sec. d.C. il Mediterraneo tornò ad essere “infestato” dai pirati, questa volta musulmani: la “Gihàd” islamica (lotta contro gli infedeli) si tradusse in attacchi alle navi cristiane, costrette a ridurre i traffici nel Mediterraneo. Il Gargano e le Tremiti furono più volte oggetto di questo assalto. L’abbazia di Santa Maria di Kàlena fu assalita da Khair ad- din. Raccontiamo qui brevemente la storia di questo mitico corsaro del Saladino.

Dopo il 1492 le isole e le coste del Mediterraneo divennero il rifugio di centinaia di migliaia di mori, cacciati dopo l’unificazione della Spagna da Ferdinando il Cattolico e Isabella di Castiglia. La politica spietata dei “re cattolicissimi” contro i moriscos contribuì alla fondazione di veri e propri stati barbareschi, che trovarono nei pirati e corsari dei leader spregiudicati e intelligenti, strenui oppositori degli spagnoli.

Essi si spinsero nel Mediterraneo, effettuando sbarchi e saccheggi lungo le sue coste. I nomi dei pirati che terrorizzavano le popolazioni del Gargano sono ancora vivi nell’immaginario collettivo dei paesi di mare. Fra i più noti vi fu Kair ad-Din (1475–1546), detto il Barbarossa [1].

Non mancano suggestioni e leggende legate a questo famoso corsaro, riferibili a un luogo-simbolo dell’immaginario collettivo di Peschici. Dall’abbazia benedettina di Santa Maria di Kàlena, un camminamento sotterraneo portava alla “caletta” del Jalillo: serviva ai frati per sfuggire alle frequenti scorribande saracene. Si racconta di un antico tesoro di Kair ad-Din: un vitello d’oro posto come cuscino a una fanciulla morta e seppellita nella cripta nell’abbazia di Peschici (probabilmente la giovane moglie del corsaro). Denominato il Barbarossa [2], questi fu al servizio del sultano Solimano (1520-1566), che gli affidò il comando supremo della flotta ottomana.

L’abbazia di Santa Maria di Kàlena, nelle campagne di Peschici (FG) in un suggestivo scatto del pittore Romano Conversano

Khair-ad-din e i suoi fratelli Arug e Isac ereditarono lo spirito combattivo e l’amore per il mare dal padre Giacobbe (un giannizzero musulmano che dopo aver partecipato alla spedizione per la conquista dell’isola di Lesbo, stabilita qui la sua residenza, si era trasformato in un marinaio dedito al commercio nell’arcipelago greco); la madre, figlia di un prete copto, inculcò loro una forte religiosità, che si tradusse nello stimolo alla guerra santa (gihad). Al comando di una galea, i fratelli Barbarossa esercitarono il commercio e la pirateria al largo di Rodi. In seguito ad un attacco dei Cavalieri di Malta (irriducibili nemici dei musulmani), Isaac morì; Arug e gli uomini dell’equipaggio furono catturati. Incatenati ai banchi di voga delle galee, per un paio d’anni, remarono a suon di scudisciate come tutti i “galeotti” di quel tempo.

Arug, liberato dopo il pagamento di un riscatto, si diede alla pirateria con i fratelli, concludendo un accordo con il sultano di Tunisi: in cambio di un decimo del bottino, trovò un sicuro rifugio in quel porto. Il commercio cristiano subì perdite considerevoli.

I fratelli Barbarossa spadroneggiavano sul tratto di costa da Tripoli a Tangeri. Arug si proclamò re di Algeri. Quando questi fu sconfitto e ucciso con tutti i suoi uomini, fu un momento di tragedia e di lutto per la sua famiglia. Khair ad-din dopo averlo atteso invano ad Algeri, assunse il comando della flotta. Selim I, sultano di Costantinopoli ricevette la notizia della morte di Arug da una galea inviata da Khair ad-din alla “Sublime Porta”, che gli donò le province del nord Africa da lui conquistate. Il Barbarossa sapeva che il sultano era impegnato nella conquista della Siria e dell’Egitto, e non poteva occuparsi di questi territori. Selim, infatti, lo ringraziò e lo nominò suo “Beylebey” vale a dire governatore. Khair ad-din ottenne così la protezione della potenza ottomana, e, di fatto, il riconoscimento del governo personale su queste terre. 

Carlo V di Spagna corse ai ripari: nel 1519 incaricò l’ammiraglio Ugo de Moncada di procedere alla riconquista d’Algeri, ma la sua flotta fu distrutta da una violenta tempesta. Khair ad-din consolidò il suo potere conquistando, tra gli anni 1520 al 1529, tutta la costa africana. Organizzò una flotta potente, che operò nel Mediterraneo con azioni mirate, seguendo un piano generale, e attaccando le navi cristiane dalle Baleari alla Sicilia, dalla Sardegna al Lazio e alle coste spagnole. Con lui vi erano i migliori marinai musulmani: Draguth; Sinam (“l’ebreo di Smirne”); Aydin (cristiano rinnegato detto il “terrore del diavolo”) e molti altri. Tutte le navi che incapparono nella potente flotta dei luogotenenti di Khair ad-din furono saccheggiate e gli uomini dell’equipaggio schiavizzati.

Nel 1533 Solimano invitò a corte Khair ad-din, affidandogli un incarico importante: la ricostruzione e l’organizzazione della flotta ottomana. Il Barbarossa si gettò con entusiasmo in questa nuova impresa. Gli arsenali della Sublime Porta lavorarono a ritmo serrato per tutto l’inverno del 1534: in primavera più di 80 navi furono pronte agli ordini del nuovo ammiraglio. Quando Khair ad-din lasciò il “Corno d’Oro”, accompagnato dall’ammirazione dei figli di Maometto, il terrore corse lungo le isole cristiane dell’Egeo, e si propagò man mano sui lidi più lontani dove, dalle torri di guardia, vedette timorose scrutavano il mare. Le acque azzurre dello Ionio furono rotte dalla voga ritmata dei turchi, il Barbarossa si diresse a nord, mise a sacco le coste italiane, attaccò Sperlonga. A Fondi (in provincia di Latina) cercò di rapire Giulia Gonzaga, augusta preda destinata a Solimano, che riuscì a fuggire nella notte.

La Tunisia in mano del Barbarossa era una minaccia talmente grave per i possedimenti spagnoli di Sicilia e dell’Italia meridionale che Carlo V ordinò un attacco decisivo. Una spedizione al comando di Andrea Doria investì La Goletta : il 14 giugno del 1535, navi spagnole, del papa, del vicerè di Napoli e dei cavalieri di San Giovanni, sbarcarono uomini e cannoni. Una sommossa interna di schiavi cristiani accelerò la caduta di Tunisi. In Europa un sospiro di sollievo salutò questa vittoria cristiana. A Bona, dove si era ritirato, il Barbarossa armò prontamente 26 galeotte e prese il mare, arrivò alle Baleari. Il saccheggio fu spietato, uomini e donne trasportati ad Algeri, furono rivenduti come schiavi.

Il Doria e il Barbarossa non si scontrarono mai direttamente: ora è Andrea Doria che cattura navi turche nello Jonio, ora è il Barbarossa che infierisce sulle coste pugliesi.

Nel 1537 i turchi cinsero d’assedio Corfù con un grande spiegamento di forze, 100 galee e 25.000 uomini, i cristiani resistettero. Nel 1538 una nutrita flotta di navi venete, genovesi, spagnole e pontificie si concentrò nei pressi dell’isola, e attese Andrea Doria con i suoi 50 galeoni. Khair ad-din aveva già schierato le proprie navi, 150 galee nel golfo di Arta, su una linea a mezzaluna che consentiva di concentrare il fuoco di tutti i cannoni sullo stretto canale d’ingresso. Gli avversari studiarono le rispettive mosse: Andrea Doria si diresse verso sud con l’intenzione di attaccare i possedimenti del sultano, Kair ad-Din salpò e inseguì la flotta cristiana, che per il cattivo tempo si disperse lungo le coste.

Solo a Lepanto ci sarà la riscossa cristiana. Il 19 ottobre del 1540, 200 galeoni, 50 galee, 25.000 uomini al comando di Andrea Doria circondarono la città. Barbarossa era assente: il suo vice Hasan assunse la difesa, le navi spagnole furono disperse da un’improvvisa tempesta. Carlo V non aveva seguito i consigli di chi riteneva la stagione inadatta alla spedizione, e si ripetè il disastro della spedizione di Moncada: il vento di burrasca distrusse 140 navi. Gli equipaggi spagnoli furono decimati dai turchi. I Cavalieri di Malta furono gli ultimi a lasciare il campo, coprendo la ritirata. Ancora oggi quel luogo è chiamato “sepolcro dei cavalieri”.

Un fatto nuovo portò la costernazione nel mondo cristiano, Kair ad-Din si alleò, per conto del Sultano, con la cattolicissima Francia di Francesco I: nel 1543, 100 galee turche aiutarono i francesi contro Carlo V.

Mentre navigava alla volta di Marsiglia, Khair ad-din assalì Reggio Calabria dove rapì un’avvenente fanciulla diciottenne, Dona Maria, figlia di un governatore spagnolo, e la sposò. Assalì poi Gaeta e Nizza. Nella primavera del 1544 saccheggiò le isole d’Elba, di Ischia e Procida, e impose dei tributi alle isole Lipari. Il suo rientro a Costantinopoli fu un vero trionfo: venne acclamato “re del mare”. Per merito suo, la potenza ottomana si impose su tutto il Mediterraneo. Nel luglio del 1546, una violenta febbre lo uccise, all’età di 63 anni. Ancora oggi i Turchi ne ricordano le gesta. Nelle vicinanze di Galata, ad Istanbul, una maestosa cupola ricopre la tomba del protettore dell’Islam: il suo spirito indomito aleggia ancora sul Mediterraneo.


1 Cfr. M. VERONESI, Storia della pirateria. in http://cronologia.leonardo.it/storia/biografie/pirati3.htm; BONAFFINI GIUSEPPE (a cura di), La vita e la storia di Ariadeno Barbarossa, Sellerio Editore, Palermo, 1993.

www.corsaridelmediterraneo.it

©2007 Teresa Maria Rauzino. L’articolo è stato pubblicato sul quotidiano “L’Attacco” del 7 luglio 2007.

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Belle donne, merletti e tramonti: il successo delle arance del Gargano

Le scelte che resero irresistibili le réclame delle ditte agrumarie

Anni fa il Parco Nazionale del Gargano, Italia Nostra e il Consorzio “Gargano Agrumi” ottennero il marchio IGP, oltre che per il limone “Femminello”, anche per “l’Arancia del Gargano” nelle varietà “bionda” e “duretta” tipiche dell’Oasi Agrumaria di Rodi, Vico e Ischitella.

A convincere la Commissione Agricoltura della Camera dei Deputati alla stesura del primo disciplinare IGP fu la visione di un dossier che aveva il suo punto di forza nell’album fotografico bilingue (in italiano-inglese): Rodi Garganico. Splendori di un passato, curato dal prof. Filippo Fiorentino e don Matteo Troiano. Illustrava le pubblicità delle Società Agrumarie operanti a Rodi Garganico nel primo Novecento.

Da una prima lettura dei manifesti, bigliettini, incarti, presenti nell’album suddetto, si evidenziano i filoni ricorrenti, le scelte iconografiche del prodotto pubblicizzato. I temi preferiti dai creativi delle Società Agrumarie rodiane spaziano a 360 gradi. I più frequenti fanno perno su immagini simboliche (The Fortune si incarna in una bellissima donna discinta, rincorsa dalla Morte e da un cavaliere che travolgono nella loro folle corsa chiunque si trovi sulla loro strada) e mitiche (Il Colosso di Rodi-Atlante regge il mondo; Nettuno-Sirene-Aquila reale sono abbinati a strumenti essenziali per la navigazione come la bussola, il timone e l’ancora).

    

        

Dall’analisi iconografica si desumono informazioni sul periodo storico di realizzazione dei manifesti: fine Ottocento, Belle Époque, Ventennio fascista. Le immagini fanno riferimento alla Regina Margherita; alla Lupa con Romolo e Remo; alle Repubbliche marinare (Pisa, Genova, Amalfi e Venezia); alle sfilate oceanico-coreografiche di Villa Borghese. Quelle interculturali mostrano nazioni solidali (Italia e America impersonate da due floride ragazze in costumi tipici che si stringono una mano, in segno di amicizia, tenendo in pugno saldamente, nell’altra mano, le rispettive bandiere) ed immagini esotiche (la diversità del Giappone con i paesi occidentali è marcata dall’abbigliamento femminile e dai modi dell’abitare).

I testimonial sono personaggi storici del Nuovo Mondo: Cristoforo Colombo, George Washington, le Indios del Far West.

Osservando i paesaggi, le figure umane ed i caratteri di scrittura utilizzati dai grafici pubblicitari, cui le ditte rodiane affidarono la creazione dei “logo”, si evincono altre particolarità.

Le locandine della Società Agrumaria De Felice differiscono dalle altre sia per le visioni paesaggistiche, sia per i caratteri grafici utilizzati. I temi pubblicitari sono riferibili ad un topos paesaggistico-romantico estremamente rarefatti, che supera la contingenza reale. I colori sfumati visualizzano elementi tendenti a creare suggestioni (i tramonti; la luna; la laguna; il porto; scenari di divertissement alto-borghesi con signore e signori elegantemente vestiti secondo la moda Belle Époque, che si divertono a tirare con l’arco, in un paesaggio stilizzato). Si avverte la finalità della Ditta De Felice di assumere una dimensione planetaria, internazionale; la sua tensione (sottesa alle scelte grafiche) di distaccarsi il più possibile dal contesto locale.

Le pubblicità della Società Agrumaria Vincenzo Russo focalizzano, al contrario, scorci di vita reale, tradizioni popolari sinonimo di genuinità. Esplicito il riferimento alle tipiche attività delle donne del Gargano. Merletti e carte pizzo testimoniano la consuetudine femminile dell’arte del merletto: la sensibilità muliebre si esprime nei ricami del corredo. Si nota la cura nella presentazione del prodotto agrumario, l’attenzione per il lavoro di confezionamento. Riguardo ai caratteri scrittori utilizzati nei testi, l’uso è variegato. Si va dalla scrittura in corsivo al gotico più ricercato, con presenza di elementi decorativi decisamente elaborati.

Nei manifesti della Società Agrumaria Ciampa & Sons ci sorridono prosperose figure femminili e una venditrice di arance e limoni in abiti d’epoca. Affianco si intravedono cassette di legno di faggio, su cui è impressa la stessa immagine pubblicitaria. I tipi di bellezza muliebre sono riferibili soprattutto alla tradizione garganica, napoletana e siciliana, ma anche a tutte le altre regioni dell’Italia (in un ampio ventaglio appaiono ragazze con i costumi tipici delle varie province). Emergono i canoni estetici del tempo, che esprimono il massimo nelle gote colorate e nei seni prorompenti. La simbologia della fecondità è ripresa dalla presenza di arance giganti poste vicino alle donne. Sullo sfondo di una carta-sipario, appare la collina verdeggiante di Rodi Garganico, con gli agrumeti ed frangivento; lungo la spiaggia si nota la presenza dei “baracconi”, gli stabilimenti di lavorazione e di confezionamento delle varie ditte (in primo piano quello con la dicitura Ciampa & Sons). Il porto è caratterizzato dalla presenza di numerosi barconi a vela e di “trabaccoli”.

In altre locandine campeggiano, con una frase-spot riferibile alla qualità/sicurezza organolettica delle arance rodiane, altre figure-simbolo: un tamburino batte a fatica il suo strumento (Drummerboy hard to beat – dura da battere!); in un manifesto della Società Agrumaria preparato per l’esposizione di Parigi del 1889 una bimba protegge le cassette di agrumi dall’assalto delle mosche, facendo scudo con il suo corpo (There are no flues on me – non ci sono mosche su di me!); un raccoglitore di agrumi in abito tipico (molto simile alla maschera napoletana di Pulcinella) mostra una bella arancia (Good all the year round – buona tutto l’anno!), evidenziando il suo punto di forza: la presenza del prodotto sul mercato mondiale per dodici mesi all’anno. mentre le arance provenienti dalla penisola sorrentina o dalla Sicilia maturano soltanto in determinati periodi.

Riguardo agli sfondi utilizzati nelle locandine, la Società Ciampa & Sons presenta il Golfo di Napoli con il Vesuvio lumeggiante sullo sfondo. I colori sono forti e appariscenti: rosso, ocra, verde, blu di Prussia, giallo; la Ditta De Felice utilizza colori evanescenti sul grigio azzurro, verde tenue, a simboleggiare una sorta di rarefazione del dato contingente, la mirata proiezione del prodotto agrumario sul mercato planetario. Gli agrumi sono assenti. La pubblicizzazione tende a staccarli dalla banalità utilitaristica del commercio. C’è la ricerca di un target di mercato diverso.

Gli slogan della Ditta Ciampa & Sons fanno perno su similitudini ovvie come frutta-salute, frutta-abbondanza, ma anche su abbinamenti inediti come frutta-felicità e frutta-pace.

È ampio l’uso del linguaggio figurato: le figure retoriche spaziano dall’allegoria al paradosso, alla metafora. Alcune richiamano il doppio senso: «The Triump of Neptune» (Il trionfo di Nettuno), indica il primato marittimo dei “trabaccoli” rodiani che trasportano il prodotto agli imbarchi mitteleuropei o alle stazioni ferroviarie dirette a Napoli per l’imbarco sui bastimenti americani; «The Pride of Rodi» (L’orgoglio di Rodi) fa leva sull’ambiguità della donna/arancia; il riferimento ad una delle Sette Meraviglie del mondo antico, il Colosso di Rodi, attesta la duratura potenza commerciale delle Società Agrumarie rodiane («Rodi For Ever». Rodi per sempre).

Parole chiave dell’economia rodiana, fatte proprie dalla Società Agrumaria Ricucci, sono commercio, navigazione, industria. Sopra il globo terrestre, sovrastato da un’aquila con gli agrumi tra gli artigli, campeggia il cartiglio con la scritta «L’union fait la force».

Slogan che potrebbero ispirare i grafici del Terzo millennio, con le tecniche della moderna comunicazione visiva, a produrre pubblicità efficaci per il rilancio degli agrumi del Gargano, nel solco della tradizione delle ditte rodiane che lanciarono il loro prodotto nelle fiere di Londra e Parigi….

©2007 Teresa Maria Rauzino. L’articolo è stato pubblicato sul quotidiano “L’Attacco” del 14 settembre 2007. Le immagini sono tratte dall’album fotografico Rodi Garganico. Splendori di un passato a cura di don Matteo Troiano, Edizioni Parrocchia San Nicola, Bologna 1999.

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Microstorie

Di torre in torre, alla scoperta dei monumenti sgarrupati del Gargano

Per contrastare i pirati e i corsari, l’imperatore Carlo V, a partire dal 1537, dette l’avvio alla costruzione di numerose torri lungo tutte le coste del vicereame di Napoli. Il sistema delle torri era funzionale all’avvistamento degli invasori che giungevano dal mare. Il principio difensivo di proteggersi mediante torri di avvistamento, adottato già dall’epoca romana, continuava ad essere ancora validissimo: alcune furono ricostruite negli stessi luoghi occupati un tempo da torri romane, bizantine, sveve o angioine. Il piano difensivo, ideato dal vicerè Pedro di Toledo, fu attuato da don Pedro Afan de Ribera. Per una difesa efficiente della costa della Capitanata ravvisò la necessità di costruire dieci torri sui litorali dal Fortore a Manfredonia. Accanto alle torri cilindriche ne comparvero di quadrate, specie nei punti nevralgici e maggiormente esposti della costa.

La distanza tra le torri variava in funzione della morfologia della costa: poteva raggiungere i 30 chilometri , nel caso di zone concave di spiaggia o di coste rocciose senza insenature; ridursi a circa 10 chilometri nel caso di costa frastagliata.

Per uniformare le tipologie e le modalità difensive, ogni opera fortificata doveva essere autorizzata dalla Regia Corte, mentre le torri già esistenti e ritenute idonee furono espropriate. L’ubicazione delle torri avveniva in modo tale che esse costituissero un cordone ininterrotto: ogni torre “guardava a vista” la precedente e la successiva. Salvo casi particolari, le torri furono costruite con grande parsimonia. Quelle costruite in precedenza dai privati oppure dalle varie Università (i Comuni), vennero incamerate dallo Stato, previo rimborso delle spese sostenute per la costruzione. Furono denominate torri “cavallare”, perché poste sotto la guardia di un uomo a cavallo, in grado di allertare rapidamente il più vicino presidio militare.

Le Università dovettero farsi carico del pagamento dei salari dei militi e dei cavallari in servizio presso le torri e, per le torri che ne erano dotate, della «feluca di guardia» (rematori con barca). I lavori di costruzione procedettero con grande lentezza. Nel dicembre 1594 Carlo Gambacorta, marchese di Celenza Valfortore, visitò le torri costiere della Capitanata e compilò delle minuziose schede su ognuna di esse, oggi conservate presso la Biblioteca Nazionale di Parigi. Ogni scheda, oltre ad una relazione sullo stato di ciascuna torre, ne contiene la pianta, la sezione e la veduta prospettica.

Le torri erano quasi tutte quadrangolari a tronco di piramide. Il coronamento presentava per ogni lato quattro o cinque caditoie, cioè delle botole aperte in successione lungo il cammino di ronda della costruzione difensiva, e da cui era possibile rovesciare sul nemico sottostante ogni tipo di proiettile o oggetto contundente. Per lo più ad un solo vano e con una sola porta, le torri avevano una cisterna per la raccolta delle acque piovane. L’accesso era consentito mediante una scala volante o fissa e un piccolo ponte levatoio collocati entrambi sulla parete a monte. La parete rivolta verso il mare era cieca (dal momento che era la più esposta al pericolo) e le due laterali erano munite di feritoie. Le informazioni venivano trasmesse da una torre all’altra. L’avvistamento di navi sospette veniva annunciato durante il giorno con colonne di fumo, durante la notte con l’accensione di fiaccole: il numero di fuochi era pari al numero delle imbarcazioni nemiche avvistate.

L’habitat del territorio di Montepucci e Peschici

Cessato il pericolo turco, le torri costiere furono mantenute in piedi dignitosamente finché ebbero una funzione specifica: fino al secolo scorso, in qualche caso fino a pochi decenni fa, servivano per avvistare i contrabbandieri. In seguito sono cadute in rovina. L’abbandono è stato totale sia che fossero proprietà di privati sia che appartenessero al Demanio. 

Alcune torri (Sfinale, Calalunga, Portonuovo, San Felice, Torre Petra, Monte Pucci) hanno perso il coronamento ed esso è stato sostituito con sovrastrutture più moderne. Altre, come le torri di Sfinale e Calarossa sono ridotte a ruderi. Altre torri, pur restaurate, sono sulla via del degrado: torri poste in una stupenda cornice paesaggistica sono escluse dalla pubblica fruizione in quanto non è stata prevista alcuna valorizzazione: la Torre San Felice (Vieste), soggetta a continui atti vandalici, è stata letteralmente murata; la torre di Montepucci è chiusa al pubblico. Un vero peccato, visto l’importanza che ebbero un tempo e che potrebbero tornare ad avere come “sentinelle” del mare. Ricordiamo che le torri sono dei monumenti nazionali sottoposti a vincolo come tutti gli edifici storici di un certo valore e di una certa vetustà e dovrebbero essere protette e valorizzate dagli Enti territoriali sotto la cui giurisdizione ricadono. Un compito puntualmente disatteso.

La Soprintendenza ai beni monumentali della Puglia, il Parco del Gargano, la Comunità montana del Gargano, la Provincia di Foggia, la Regione Puglia , e i vari comuni nel cui territorio le varie torri costiere sono ubicate, cosa intendono fare per non farle morire?

Torre Montepucci

TORRE MONTEPUCCI (PESCHICI)

La Torre di Montepucci, in località Peschici, è ubicata su un tratto di costa affacciato direttamente verso nord, per cui è possibile in estate vedere sorgere e tramontare il sole sullo stesso mare. In lontananza, si scorgono le Tremiti e le lontane isole della Dalmazia. Verso Oriente è l’abitato di Peschici, affacciato sulla sua Rupe in una posizione straordinariamente suggestiva. Più vicino, su uno sperone roccioso, si trovano tre trabucchi da pesca. Guardando verso occidente si spazia lungo la costa che, in un susseguirsi di spiagge e falesie, porta a San Menaio, a Rodi Garganico, alla duna che separa il lago di Varano dal mare. Il rilievo di Monte d’Elio chiude l’orizzonte a ovest. Il Monte Pucci, che risale verso sud fino alla Foresta Umbra, è ricoperto da una fitta pineta di pino d’Aleppo, che in queste zone è autoctono; ad esso si accompagnano arbusti di lentisco, fillirea, cisto e varie specie di orchidee di cui il Gargano è particolarmente ricco. La pianta più caratteristica è la campanula garganica.

Intorno agli anni Sessanta, la Torre di Montepucci divenne, per qualche anno, la residenza dell’artista Manlio Guberti che vi aprì un ospitale Club della Tavolozza. Pittore, incisore e poeta, Guberti aveva studiato musica e giurisprudenza, laureandosi nel 1939 all’Università di Bologna. Si diplomò nel 1944 all’Accademia di Belle Arti di Roma. Partecipò alla Biennale di Venezia e ad oltre 50 esposizioni personali in Italia e nel mondo. La città di Yaroslav, a nord di Mosca, ha acquisito molti dipinti e incisioni all’artista per dedicargli una sezione della propria galleria. Guberti amava i luoghi incontaminati e selvaggi, i deserti. All’inizio degli anni Cinquanta trascorse un periodo negli Stati Uniti, nel Far West dove interpretò magistralmente la magia del deserto. Un uomo coltissimo, curioso di tutto, che amava molto la solitudine del selvaggio Gargano, e di Montepucci in particolare. Manlio era capace di contemplare un’onda, intuendo l’ordine nell’apparente disordine e leggendovi armonie “frattali”. Scrive nel suo epistolario dal Monte Orcius: «In questi giorni ho fatto diversi studi di onde, specialmente vedendole dall’alto capisco perché gli antichi aggiogarono al carro di Poséidon i cavalli, che sono forse gli animali più belli della terra…».

SCHEDA TORRE

Denominazione manufatto: Torre di Montepucci
Località: promontorio del Gargano; 
Comune: Peschici; 
Prov incia: Foggia.
Latitudine: 41° 56’ 49” 20;
Longitudine: 16° 1’ 0” 12
Significato del toponimo: prende il nome dal toponimo della zona, probabilmente Monte Orcius.
Sistema di comunicazione: consisteva in segnalazioni visive dall’una dall’altra torre tramite fumo o fuochi, con 
l’uso di campane o corni. Uomini a cavallo (cavallari) perlustravano tutto il territorio circostante.
Proprietà attuale: demanio dello Stato.
Utilizzazione originale: la torre serviva a controllare le incursioni saracene. La sua presenza ricorda periodi in 
cui il mare non era una presenza amica, ma un pericoloso varco aperto per pirati e corsari, che 
periodicamente razziavano schiavi e raccolti sulle coste del Gargano.
Utilizzazione attuale: nessuna utilizzazione. Da qualche anno è posta sotto sequestro, per evitare un’utilizzazione 
impropria da parte degli ultimi concessionari.
Epoca di edificazione: XVI secolo, 1569.
Autore: la torre venne edificata per volontà di Alfonso Salazar che visitò la nostra regione e appaltò la 
costruzione di 21 torri a Giovanni Maria della Monica.   
Tipologia planimetrica: la struttura è a tronco piramidale senza caditoie in controscarpa e senza cordolo. La
torre è completa nei due piani.
Qualità del mare: le acque del mare di Montepucci confluiscono in quelle della baia di Peschici, che hanno
ottenuto la bandiera blu della FEE. La mancanza di fabbriche industriali e di scarichi fognari ne garantisce
un’ottima balneabilità. Sono il paradiso dei sub.

©2008 Teresa Maria Rauzino (testo e foto).