Interessante ed originale per la città di Roseto Valfortore il volume dal titolo Roseto Valfortore dal documento alla storia, Foggia 2007 (pp. 199, ill. b/n, Edizioni del Rosone, Foggia), scritto dal prof. Alfonso Rainone con la collaborazione degli alunni della classe III D della scuola secondaria di primo grado della sezione associata di Roseto Valfortore facente capo all’Istituto “Paolo Roseti” di Biccari, patrocinato dal Comune di Roseto Valfortore, dall’Istituto Bancario San Paolo Banco di Napoli, filiale di Roseto, dalla ditta Fortore e Sviluppo – Fortore energia, e dalla stessa scuola della quale sono allievi i ragazzi.
L’originalità della ricerca consiste nel fatto che il prof. Rainone ha, a pieno titolo, adottato il metodo storiografico dello studio e dell’apprendimento della storia attraverso la consultazione dei documenti d’archivio.
Introdurre la ricerca storico-documentaria nella scuola non è cosa da poco. Ma, sicuramente, non deve essere stata cosa semplice per il professore ed i suoi giovanissimi allievi alla prima esperienza, interpretare, trascrivere, studiare ed apprendere il contenuto dei documenti esaminati; carte, spesso nemmeno inventariate, che rimarrebbero sconosciute se non fossero riportate alla luce dagli studiosi con spirito di dedizione ed abnegazione.
Il lavoro che racchiude anche la riproduzione iconografica del Catasto Onciario di Roseto Valfortore risalente al 1741, documento tratto dalle fonti dell’Archivio di Stato di Napoli, verte anche sullo studio e l’analisi delle fonti alternative quali epigrafi, lettere olografe ecc., ma anche dall’analisi dei documenti custoditi presso altri archivi quali la sezione dell’Archivio di Stato di Lucera, l’Archivio Parrocchiale di Roseto e l’Archivio Diocesano di Bovino. Uno studio a carattere scientifico e sistematico che racchiude gran parte della storia del piccolo centro del Subappennino Dauno tra Settecento ed Ottocento.
La bravura dei ragazzi poi, è stata quella di essere riusciti ad apprendere la metodologia di studio e a superare le difficoltà incontrate, come ad esempio il linguaggio e le espressioni desuete, tipiche di un idioma tramontato nel quale è proiettato il piccolo centro urbano.
Frutto di un’esperienza nuova per la scolaresca, il volume riporta alla luce uno spaccato di vita che riemerge come d’incanto grazie all’impegno ed all’abile guida del docente di Lettere.
«Il progetto si è svolto in ore extracurriculari, andando tuttavia ad intrecciarsi in modo unitario per gli approfondimenti sia alle attività curricolari di italiano e storia, che di quelle opzionali facoltative di conosciamo il territorio, percorsi di lettura e latino […]», è quanto afferma il prof. Rainone nella sua Introduzione spiegando ai lettori la metodologia applicata.
Già da qualche tempo nella scuola è stato introdotto il laboratorio di didattica della storia che, in collaborazione con gli archivi pubblici e privati, si pone come obiettivo l’insegnamento della microstoria attraverso la consultazione delle fonti archivistiche, perché la storia si può conoscere soprattutto dai documenti. Ma, come diceva Marc Bloch, le fonti devono essere esaminate attraverso varie direttrici prestando attenzione ai falsi storici che alterano la verità travisando le notizie. Il compito dello “storico” è quello di saper selezionare, compulsando i documenti, la verità dalla “fantasia” che trasforma la storia in leggenda.
L’attenzione, pertanto, deve essere rivolta a tale selezione in primis, poi viene la narrazione delle vicende attraverso lo studio dei fatti e dei relativi personaggi.
Nel volume in questione, è stato fatto proprio questo lavoro: selezione delle fonti, analisi delle stesse, ed infine, narrazione delle vicende più importanti con la possibilità di avere i documenti sottomano senza che i lettori debbano recarsi negli archivi.
Tra i rosetani famosi emerge il personaggio di mons. Francesco Saverio Farace, del quale si traccia oltre al profilo biografico, anche i tratti salienti della sua vita attraverso lo studio di atti notarili, epigrafi ecc.
Il dovizioso apparato iconografico completa il testo che, per il piccolo centro rosetano, resta una pietra miliare nel corollario della bibliografia locale.
È senz’altro questo un libro che non deve mancare nelle case dei cultori e non solo, un libro utile a tutti coloro che vogliano cominciare a ricercare per scoprire le loro “radici culturali”, perché, come spesso si dice, non si può vivere il presente senza conoscere il passato.
Della prestigiosa e nuovissima collana “Platea Magna” fa parte il recente volume curato da Antonio Ventura dal titolo Onciario della città di Ascoli 1753, patrocinato dal Comune di Ascoli Satriano e dal Centro Culturale Polivalente, pubblicato dalla casa editrice foggiana Claudio Grenzi Editore (pp. 381, ill., Foggia 2006, € 39,00).
L’interessante lavoro, curato sin nei minimi particolari dall’Autore, evidenzia quale fosse il sistema fiscale settecentesco nella cittadina daunia in relazione al numero dei fuochi e dei possedimenti di ciascuna famiglia.
Impreziosito dai contributi dei proff. Stefano Capone, dell’Università degli Studi di Siena, che analizza le riforme del Settecento apportate in un’epoca in cui predominava l’oscurantismo, Marco Nicola Miletti, dell’Università degli Studi di Foggia, che affronta lo studio sui profili giuridici del Catasto Onciario borbonico, e Nevill Colclough, dell’Università del Kent, che esamina la dinamica delle relazioni di parentela e dell’organizzazione familiare nella Ascoli dell’ancen régime, il volume offre ai lettori un quadro chiaro della situazione demografica, fiscale e politica dell’epoca.
Il Catasto Onciario costituisce una sorta di innovazione fiscale voluta da re Carlo III di Borbone e fa parte di una lunga serie di riforme legislative che apportarono radicali cambiamenti nel Regno di Napoli, fino allora offuscato dal potere vicereale che, dopo due secoli di governo sull’onda della politica oscurantista, aveva creato sperequazioni nella distribuzione dei carichi fiscali. L’intelligente intervento del sovrano, affiancato dal marchese pisano Bernardo Tanucci, contribuì all’espansione del progresso politico ed economico che caratterizzò tutto il Settecento napoletano.
Tornando al documento studiato e trascritto dall’Autore, esso riporta non solo la situazione finanziaria inerente ciascun contribuente, attraverso la valutazione in once dei profitti espressi in ducati, ma traccia anche in modo dettagliato un quadro chiaro della demografia ascolana: nel testo è riportato anche il numero dei residenti, quello dei forestieri, delle vedove, ecc., diviso per classi sociali e per attività, quale indispensabile ed utilissima chiave di lettura di uno spaccato del vissuto quotidiano.
Per ogni fuoco, costituito da un nucleo familiare di circa 4 o 5 unità, è calcolata una rendita pro capite di 42 carlini, a ciò sono sommate le tasse comunali previste dagli stati discussi dell’Università, ossia dai bilanci del Comune.
Alcune rendite sono soggette ad aggiornamenti annuali attraverso regole precise fissate dalla Regia Camera della Sommaria, allo scopo di fornire il metodo per la formazione della tassa. Da qui, la possibilità di conoscere dettagliatamente le situazioni patrimoniali di ciascun “contribuente”.
Non mancano, come sempre, i diritti di esenzione dalle tasse riconosciuti ai personaggi più in vista del paese. È questo il caso del duca Don Sebastiano Marulli, feudatario di Ascoli, il quale con i diritti, privilegi, e quanto altro acquisiti sui beni feudali e burgensatici, costituisce l’esempio di quella casta dotata di propri organi di rappresentanza cui tutti gli abitanti devono ubbidienza e, conseguentemente, cui sono riconosciuti sia pure in parte i diritti di esenzione dal pagamento delle tasse.
L’Autore, inoltre, non trascura di evidenziare anche l’aspetto antropologico del centro daunio fornendo, attraverso un’ampia carrellata, notizie preziose sul paese e sugli abitanti.
Il testo è infine arricchito da illustrazioni quali documenti e piante topografiche del territorio, rinvenute presso l’Archivio di Stato di Foggia, oltre ad una ricca raccolta di tabelle, un esaustivo glossario ed alle note che concludono il volume.
In definitiva è questo un libro preziosissimo che costituisce un valore aggiunto al patrimonio culturale della nostra storia.
Sulla scia del libro pubblicato nel 2004 da Marcello Ariano che parlava della tranvia di Torremaggire raccontando, in piena era futuristica, le vicende legate alla nascita ed allo sviluppo della rete tranviaria della cittadina dauna, in un volume fresco di stampa, viene oggi riproposto il tema dei trasporti ferroviari da due specialisti del settore: il geologo Salvo Bordonaro e l’architetto Bruno Pizzolante.
I due tecnici, amanti della ricerca storica con particolare riguardo al settore tecnico-scientifico, con questa ultima fatica dal titolo La Ferrovia garganica, edita per i tipi di Claudio Grenzi Editore (pp. 151, Appendice, ill. b/n e colori, Foggia 2006, s.i.p.), realizzata per celebrare il 75° anno dalla fondazione della Ferrovia garganica, frutto di anni di ricerca, hanno ripercorso una tappa indicativa di un progresso che, per molti versi, ha apportato cambiamenti importanti al sistema dei trasporti garganici.
Da quando è stata costruita la ferrovia del Gargano il treno è stato il mezzo di locomozione più usato da turisti e residenti per gli spostamenti lungo le coste. La ferrovia garganica ha segnato un’epoca di nuovi contatti sociali, culturali ed economici rendendosi interprete delle nuove esigenze di mobilità della popolazione della zona, e non solo. Essa ha rappresentato il punto di contatto con le realtà degli altri centri urbani agevolando le relazioni sociali così com’è evidenziato in quarta di copertina che recita:
«[…] Dagli ordinati vigneti del Tavoliere alla lussureggiante baia di Calenella, passando per le balze erte del Gargano occidentale, per le scenografiche trincee e gallerie scavate a fatica nella roccia, per gli interminabili rettilinei immersi negli uliveti della piana di Carpino, immergendosi infine nel fresco della pineta Marzini, non senza aver più volte salutato le assolate spiagge dell’Adriatico e i bianchi paesi arroccati sulle alture.
Poco meno di ottanta chilometri di spettacolo ferroviario per la prima concessa in Italia nata in pieno Ventennio già con trazione elettrica, che da tre quarti di secolo effettua il suo servizio forse un po’ in sordina, attendendo oggi una valorizzazione che le deriverà da alcune iniziative di modernizzazione della linea, degli impianti e del materiale rotabile. […]».
La ricerca, svolta sulla base di documenti d’archivio e di notizie tratte dalle stampe d’epoca, dimostra la capacità degli Autori di saper affrontare argomenti di sicuro interesse storiografico.
Non mancano notizie su personaggi di spicco che hanno giocato un ruolo determinante nel territorio di Capitanata per la loro competenza professionale, o figure di rilievo del vissuto quotidiano; nomi ricorrenti che hanno fatto la storia della ferrovia garganica e che resteranno per sempre legati ad essa entrando a far parte del corollario di presenze umane o di “Risorse”, come si direbbe oggi, che, con il frutto del lavoro quotidiano, hanno contribuito all’incremento della rete ferroviaria che oggi serve un bacino di utenza stimabile in circa 135.000 persone. Quota che tende a raddoppiare durante il periodo estivo per l’elevata affluenza di turisti.
Tale tratta è identificabile geograficamente con la fascia settentrionale del promontorio del Gargano, estesa da San Severo a Vieste e, grazie ad un servizio di autolinee interconnesso con la ferrovia consente un’organizzazione impeccabile.
Più volte, per un rilancio del servizio, è stato incrementato il parco dei rotabili, primo passo per aumentare le corse ferroviarie puntando ad offrire maggiore sicurezza e più comfort. Così dal lontano 1869, anno a cui risale il primo progetto ferroviario a firma di Antonio Maria Lombardi, ad oggi, molte cose sono cambiate e, con le Ferrovie dello Stato sempre più in crisi, la ferrovia garganica punta ad una maggiore stabilità aziendale in vista anche dell’incremento del flusso migratorio e turistico che, oggi più di ieri, punta ai massimi livelli qualitativi; è questa un’azienda sempre più in espansione, con certezze che la rendono competitiva sul mercato dei trasporti interregionali.
Nel volume non mancano racconti ed aneddoti di un vissuto quotidiano che coinvolge emotivamente il lettore facendo scorgere, attraverso lo scorrere lento delle pagine, quella vena di ironia propria delle popolazioni garganiche, abituate a vivere tout-court le tradizioni e le memorie di un passato remoto o di un futuro prossimo che ancora oggi coinvolge. Si scorge così, il lento trascorrere del tempo che non lascia spazio ad altro che ai ricordi… ricordi che a volte sfuggono impalpabili ma che si ritrovano nelle immagini d’epoca, che con le planimetrie e i documenti di vario genere rendono il testo unico nel suo genere.
«Cosa c’è dietro l’angolo?». Con questa domanda rivolta agli ospiti, un noto presentatore e giornalista televisivo concludeva l’intervista in una trasmissione, in onda su RaiUno, negli anni ’70 del secolo appena trascorso.
Ebbene, la stessa domanda proiettata nella nostra città trova un’immediata risposta. Ci hanno pensato, infatti, Claudio Grenzi e suo figlio Paolo ad evidenziare gli angoli più suggestivi di Foggia, attraverso una recente e bella pubblicazione fotografica dal titolo Foggia in particolare (pp. 108, ill. b/n e colori, Foggia 2006).
Attraverso la caccia al dettaglio, ritroviamo Claudio Grenzi, noto editore foggiano, in veste di autore e di fotografo. In una passeggiata per le strade della nostra bella città, Claudio e suo figlio Paolo mettono in luce gli angoli e le vie più suggestive, ed i particolari che spesso sfuggono all’attenzione del passante o anche del cittadino residente che corre e, troppo spesso, non nota ciò che lo circonda e guarda le cose “senza osservare”.
Questo volume rappresenta un momento di pausa e di riflessione sulle bellezze architettoniche di Foggia e non solo.
Così, un soggetto ritenuto apparentemente “insignificante” assume in un contesto artistico una sua configurazione. Le peculiarità di taluni elementi architettonici non prescindono dal contesto contemporaneo nel quale sono collocate.
Architravi, roste, candelabri, gru, insegne di fabbriche e di esercizi commerciali, e, persino particolari di epigrafi e di lapidi funerarie, sono posti in luce attraverso lo “scatto” artistico dagli Autori nelle loro istantanee.
Già noto per le sue altissime qualità professionali, che esprime attraverso il lavoro quotidiano di grafico ed editore, Claudio Grenzi ha voluto, con l’ausilio di un altrettanto promettente figliuolo, regalare alla città un altro tassello di cultura. Quella cultura spesso bistrattata dalla vita frenetica e dagli interessi che il consumismo sfacciato pone alla base della vita moderna. Quella cultura che oggi viene seguita solo in apparenza per “darsi contegno”… ma che poi tutti calpestano…
“La caccia al particolare”, che gli Autori evidenziano nel loro volume, mette in luce lo stato di bellezza/degrado del nostro patrimonio artistico. Un degrado inesorabile e, per molti aspetti, anche voluto.
Voluto dalle sconsiderate demolizioni urbanistiche che troppo spesso sono giustificate dalle vetustà costruttive impossibili da recuperare… allora? È meglio abbattere! Già! Meglio abbattere se non si può recuperare…
Così il declino inesorabile della memoria storica prende il sopravvento sulla “Cultura” ed agli autori siano essi fotografi, storici o semplici cultori, non resta altro che “salvare il salvabile” soprattutto attraverso le testimonianze “cartacee”.
Bene hanno fatto gli Autori di questo prezioso libro di memorie a “salvare” quello che resta ancora da recuperare… mettere “nero su bianco” è pur sempre un tentativo di sensibilizzazione dell’opinione pubblica.
Sempre che ci si accorga dello scempio compiuto e si rifletta sul da farsi e ci si rimbocchi le maniche e non si continui a dire “tanto ci devono pensare le istituzioni…”.
È l’opinione del cittadino che va sensibilizzata… così, per fare un esempio, se solo ci fosse stata una campagna di sensibilizzazione pubblica, il seicentesco palazzo Poppa-Caponegro con l’arco di San Michele, ubicato nei pressi del Municipio di Foggia, esempio mirabile di architettura barocca, demolito negli ultimi anni per far spazio ad un’anonima ed orrenda costruzione moderna, edificata secondo quel principio di discutibile progettazione volta allo pseudo-recupero dei centri storici, avrebbe subito una sorte diversa. Come ancora è da definire la situazione del restauro di palazzo Trifiletti-Giovene in Corso Garibaldi, in procinto di subire lo stesso inesorabile destino.
«Non basta fotografare!», direbbe qualcuno, ma anche questo serve! Soprattutto se il messaggio parte da molto lontano… in questo caso poi, è un messaggio lanciato da persone che la cultura la vivono quotidianamente attraverso il proprio lavoro. Quel lavoro che esporta il “sapere” in tutto il mondo. Così, le pubblicazioni spedite in varie parti dell’universo della conoscenza e non solo, fanno sì che la storia del nostro territorio sia portata fuori dai confini, non arginata o ridotta ad un semplice fenomeno di carattere endemico.
Volendo riassumere in una formula matematica il concetto di “cultura” lanciato dagli Autori, possiamo affermare che se la conoscenza è sinonimo di progresso, l’ignoranza, in quanto mancanza di consapevolezza, è baluardo di distruzione della memoria.
Ma non sempre l’ignoranza può giustificare taluni sconsiderati comportamenti! Comportamenti che scaturiscono da disagi sociali e mentali… Il fatto, ad esempio, che alcuni “soggetti” deturpino, con i loro graffiti in prevalenza volti ad allusioni falliche, i monumenti delle città, è sintomo di disagio sociale oltre che mentale…
Il problema allora è da ricercare alla base di una società che non garantisce più potere… che non difende… che non tutela…
Ai cultori della storia allora, non resta altro da fare se non denunciare questo disagio attraverso testimonianze, siano esse scritte o fotografate, proprio come hanno fatto gli Autori del volume.
Mai l’invito di un nostro amato concittadino, Renzo Arbore, vanto della cultura del capoluogo dauno, grazie al quale la storia delle nostre radici è stata esportata in tutto il mondo attraverso la musica, e che da qualche anno recita nelle pubblicità di rinomati prodotti commerciali – «Meditate gente!… Meditate…!» – fu tanto appropriato come in questo caso.
Non si può parlare di Ascoli Satriano, ridente cittadina della Capitanata, senza pensare alla figura dello storico ascolano più conosciuto nell’universo del sapere: Romolo Caggese.
Questi non ha certamente bisogno di presentazioni, tanto vasta è stata la sua produzione bibliografica; tralasciando volutamente la sua biografia già nota al pubblico di lettori, ci sembra sia necessario soffermarsi sul suo impegno costante che lo rese protagonista di tante collaborazioni con le più prestigiose case editrici e riviste scientifiche, tra queste si ricordano in special modo: la «Cambridge Medieval History», l’Enciclopedia Treccani e la «Rivista Italiana di Sociologia».
Allievo durante gli anni del liceo di Francesco Carabellese, noto studioso medievista, egli trasse vantaggio dai suoi insegnamenti per poi far confluire i suoi interessi negli studi storico-giuridici.
L’influenza dei suoi maestri tra i quali figurano Alberto Del Vecchio, docente di Diritto medievale presso la Scuoladi Paleografia e Diplomatica di Firenze, Gioacchino Volpe e Gaetano Salvemini oltre a Pasquale Villari, relatore della sua tesi di laurea, influirono notevolmente sulle sue future scelte professionali.
A tale riguardo significativa nel 1905 fu la pubblicazione del saggio riguardante le origini dei Comuni rurali in Italia, sulla «Rivista Italiana di Sociologia».
Tale saggio è stato recentemente ripubblicato in una monografia, dal Centro Culturale Polivalente di Ascoli Satriano, on lo stesso titolo: Intorno alla Origine dei Comuni Rurali in Italia (pp. 64, ill. b/n, Foggia 2005, s.i.p.), con prefazione del prof. Raffaele Licinio, ordinario di Storia Medievale presso la Facoltàdi Lettere e Filosofia dell’Università di Bari (e supplente in quella di Foggia).
Il lavoro, di sicuro interesse storiografico, scaturisce da un precedente studio svolto in occasione della preparazione della tesi di laurea avente per titolo: Un Comune libero alle porte di Firenze nel secolo XIII. Studi e Ricerche, riguardante il Comune di Prato ed il suo contado e pubblicata nel 1905. Inquesto saggio l’Autore afferma che parlare delle origini dei Comuni rurali in Italia non è cosa facile se si pensa che sono state sostenute le tesi più disparate: secondo alcuni studiosi i Comuni potevano aver avuto origine in continuazione dei municipi romani, ma Caggese contesta questa tesi adducendo una serie di ragioni plausibili che fanno scartare tale possibilità.
Secondo altri storici i Comuni erano sorti grazie ai diplomi ottoniani che avrebbero favorito le condizioni ambientali tali da renderne possibile la loro nascita; qualcun altro accennava alla presenza e al ruolo decisivo della signoria vescovile, tesi questa ritenuta la più attendibile da Caggese.
Premesso che il periodo che ricopre l’arco temporale che va dal VII al X secolo non dispone di molte fonti documentarie, ciò che è noto agli storici è che il sistema legislativo e giurisdizionale di allora era piuttosto precario. È facile perciò saltare a conclusioni aleatorie e poco dimostrabili, ma è anche vero che l’analisi di Caggese chiarisce molti punti rimasti fino ad allora oscuri; spiegando il funzionamento del sistema legislativo durante la signoria vescovile, l’Autore giunge alla conclusione che essendo il Comune un organismo economico, ma soprattutto un fenomeno sociale tra i più fecondi della storia italiana prima delle origini del capitalismo moderno, a suo avviso è importante stabilire l’analisi degli atteggiamenti dei gruppi sociali delle loro ragioni di vita connesse alle entità dei loro interessi.
Il Comune rappresenta la prima forma di Stato in Italia, ed è importante esaminare i caratteri, la struttura costituzionale, i suoi organi, le sue funzioni; inoltre, essendo anche un fenomeno politico, bisogna ricercare che cosa rappresenti in relazione alla politica imperiale ed ecclesiastica di quella fase del Medioevo. Tenendo conto anche della politica estera oltre all’economia rurale ed urbana, l’Autore sostiene che, fino a quando non saranno esaminate a fondo tali tematiche, la ricerca scientifica sulle origini dei Comuni rurali non troverà mai una risposta esaustiva.
Dalla lettura di questa monografia, ci sembra che Caggese, più che dare delle risposte in merito all’argomento, favorisca spunti per ulteriori domande, riteniamo che con questo intento abbia voluto sensibilizzare gli animi degli storici e stimolarli allo svolgimento di ulteriori e proficue indagini.
«L’Italia è una miniera di dialetti e tradizioni che affondano le loro radici nella cultura prelatina e variano da regione a regione, da città a città, da paese a paese, perché diverse erano le popolazioni che vi abitavano, dai Celti agli Apuli, dai Venetici agli Osci ai Siculi […]».
Così esordisce Francesco Granatiero nella Prefazione del suo volume scritto per conoscere le origini dei vari dialetti pugliesi, con particolare riguardo a quelli della Capitanata e della Terra di Bari dal titolo La memoria delle parole. Apulia. Storia, lingua e poesia, edito per i tipi delle Edizioni Claudio Grenzi di Foggia, racchiuso nella collana editoriale “Il Dialetto a Scuola – 1” (pp. 140, ill., Foggia 2004).
L’intento dell’Autore nel realizzare questo complesso lavoro è stato quello di promuovere lo studio linguistico in vernacolo nelle scuole di ogni ordine e grado nell’era della globalizzazione che porta ad un appiattimento linguistico e culturale con il “presentismo dell’utopia tecno-informatica” che rappresenta una seria minaccia per la memoria delle parole.
Il testo si pone come studio agile e ricco di curiosità culturali che suscitano l’interesse del lettore in quanto offre molti spunti di riflessione in campo linguistico dialettologico, etnografico e letterario.
Lo stimolo giunge direttamente dalla scuola, quale veicolo di formazione della futura “intellighenzia”, che non può essere privata degli utili strumenti che introducano allo studio della lingua dialettale senza pregiudizi, aprendo una seria riflessione su una materia troppo a lungo ritenuta argomento di scherno e di ignoranza.
È senz’altro utile ricordare l’importanza della dialettalità, ossia dell’immissione di termini dal vivaio dialettale, nella lingua della nostra letteratura come si evince dagli scritti del Verga, di Cesare Pavese o di Andrea Camilleri. Le forme di italiano che risentono del dialetto rappresentano una testimonianza viva della lingua, prima che deviazioni dalla norma o veri e propri errori.
Oggigiorno non stupisce la doviziosa presenza di poeti dialettali accanto ai grandi autori della lingua italiana. La poesia dialettale, infatti, non è più ritenuta un’amena curiosità né un semplice documento, sebbene restituisca alle parole tutta la dignità culturale del tempo o non tempo che scandaglia.
È importante che nella didattica dell’educazione linguistica il dialetto non sia utilizzato episodicamente con inevitabili diffidenze o ilarità, e con il rischio che sia considerato solo “oggetto da museo” ma, come dice Carla Marcato, «progettando attività e riflessioni che promuovano la consapevolezza linguistica, la considerazione della diversità, dalle varietà come arricchimento in un contesto di fatti linguistici, sociali, sociali, culturali (letterali, etnografici ecc.)».
Le numerose tabelle di apporti linguistici di cui il volume è corredato (prelatini, greci, latini, albanesi, bizantini, longobardi ecc.), la sezione grammaticale dei vari dialetti con le carte linguistiche, una interessante iconografia, nonché l’antologia dei poeti pugliesi ormai storicizzati tra i quali spiccano: Abbrescia, Lopez, Nitti, Strizzi, Gatti, Borazio, Angiuli e lo stesso Granatiero, commentati e corredati da un’esaustiva biografia associata ad un utile glossario, completano il simpatico ma rigoroso testo che vede associate preziosità, curiosità, storia ed etnografia.
L’AUTORE Francesco Granatiero è nato a Mattinata (FG). Medico ospedaliero, vive e lavora a Rivoli (TO). Dopo alcune plaquettes di poesia in lingua, ha rivolto l’attenzione al dialetto del suo paese di origine: All’acchjiette (1976), U iréne (1983), La préte de Bbacucche (1986), Énece (1994), L’endice la grava (1997), Scúerzele (2002), Bbommine (2006). È presente nelle più importanti antologie e storie letterarie di poesia dialettale (Dell’Arco, Chiesa-Tesio, Brevini, Spagnoletti-Vivaldi, Serrao, Bonaffini-Serrao-Vitiello, Haller, Malato). Dall’86 al ’92 si è occupato del coordinamento editoriale della collana “Incontri” diretta da Giovanni Tesio per Boetti & C. Editori, in cui hanno visto la luce volumetti dei maggiori poeti dialettali del secondo Novecento.Ha pubblicato una Grammatica (1987) e un Dizionario (1993) del dialetto di Mattinata e Monte Sant’Angelo e due dizionari di proverbi, uno limitato a Mattinata e l’altro esteso a tutto il promontorio del Gargano.Dopo la memoria delle parole (2004), ha scritto un’antologia di 109 versioni in dialetto apulo garganico di 60 poeti (da Omero a Montale e Seamus Heaney), pubblicata nella stessa collana con il titolo Giargianese – Poesia in altre lingue (2006) e impreziosita da un cd (75 minuti, con musiche originali di Antonino Di Paola) comprendente tra l’altro, nella impeccabile interpretazione e nella calda vocalità di Granatiero, oltre a 56 versioni di testi altrui, 20 tra le più belle poesie tratte dalle sue raccolte.
FRANCESCO GRANATIERO, La memoria delle parole. Apulia. Storia, lingua e poesia, Edizioni Claudio Grenzi, Foggia 2004, pp. 140, ill.
Fresco di stampa il volume di Rita Borgia, attenta cultrice della storia delle tradizioni popolari, dal titolo: La religiosità popolare di Foggia, le edicole devozionali (pp. 120, ill. b/n e colori, Foggia 2004).
Il volume inaugura la collana Tradizioni e Culti in Capitanata curata della nuova casa editrice foggiana Parnaso.
Unico nel suo genere, il libro racconta spaccati di vita e di tradizioni che vanno dalla storia delle origini del capoluogo daunio alla fondazione degli ordini religiosi presenti nella città, alla presenza del culto religioso come espressione devozionale attraverso le edicole votive. Una guida utile e di facile consultazione, accessibile a persone di ogni età con la quale conoscere la storia e le proprie radici.
Per troppo tempo, i simboli devozionali sono stati ignorati, trascurati, depredati e distrutti. Le edicole, infatti, fino a qualche tempo fa, apparivano agli occhi del visitatore solo come delle semplici nicchie nelle quali erano contenuti i Santi protettori della strada, o del palazzo, o della casa presso cui erano ubicate.
È abbastanza semplice, a volte, rilevare come le vicende storiche dell’agglomerato urbano di Foggia coprano un arco cronologico relativamente lungo. Le origini della città tradizionalmente si fanno risalire all’anno Mille circa con il rinvenimento del Sacro Tavolo della Madonna Iconavetere affiorata dalla acque di un pantano.
Secondo il prof. Giovanni De Vita, docente di Storia delle Tradizioni Popolari presso l’Università degli Studi di Cassino, è opportuno sostenere che gli aspetti costitutivi e fondanti delle vicende storiche, senza puntare su rigide indicazioni temporali, siano da ricercarsi nelle questioni della transumanza appulo-abruzzese, tradotta in istituto giuridico dagli aragonesi [1].
Ma perché sorgono le edicole devozionali? Quando si hanno le prime tracce della loro esistenza? Non c’è, in effetti, una risposta a questi quesiti, esse sono presenti nella città in numero sempre maggiore, e solo di alcune si hanno notizie certe.
Secondo gli storici delle tradizioni esse sono sorte quasi spontaneamente probabilmente per illuminare le strade durante le ore notturne e per evitare assalti da parte delle frange di briganti verso i passanti. Altri cultori sostengono, invece, che non essendoci una datazione precisa della loro origine, esse sono sorte nel tempo per ragioni personali o legate a momenti particolarmente significativi per la famiglia che le commissiona. Certamente c’è un nesso fra sviluppo urbanistico e realizzazione delle edicole.
Il prof. Giovanni De Vita, a proposito delle edicole votive, sostiene che i segni di fede schedati e ubicati all’interno delle aree urbane delle città, spesso in alcuni casi non sono riconducibili alla tipologia dell’edicola o perché monumenti di devozione pubblica e municipale o perché cartelli indicatori [2].
Nel suo volume Rita Borgia, affiancata nel lavoro dalla restauratrice foggiana Maria Cirillo, non si limita solo a schedare le edicole per tipologie architettoniche con relativa datazione, ma le colloca in un contesto storico preciso e ne fa un’analisi storiografica puntuale, attraverso la descrizione anche della vita religiosa della città. Non sono tralasciate, infatti, la storia, la provenienza dei Santi venerati, le origini del culto con relative date di fondazione delle chiese, che l’Autrice pone in evidenza attraverso il dovizioso apparato iconografico nel quale non manca la documentazione d’archivio. Sono contemplate le riproduzioni degli atlanti antichi come quello del Michele o del Capecelatro, nonché le planimetrie dei palazzi, rinvenuti presso l’Archivio di Stato di Foggia, che impreziosiscono il testo.
Non mancano immagini di edicole ubicate in altre parti d’Italia o nei siti archeologici.
La panoramica che l’Autrice traccia della storia cittadina vista da altre angolazioni diventa nella parte centrale del volume, un insieme di immagini e colori che fanno riaffiorare alla memoria dei più anziani antichi ricordi.
Per il passante era consuetudine pregare davanti all’edicola devozionale, com’era consuetudine provvedere al riempimento delle lampade, che dovevano rimanere perennemente accese, con l’olio.
Dallo scorrere delle pagine del testo si evincono la fatica ed il duro lavoro costate all’Autrice per reperire le antiche e preziose immagini di Foggia, qualcuna gentilmente concessa da altri studiosi e cultori della storia cittadina tra cui emergono i nomi di Gennaro Arbore, Gaetano Spirito, Maria Teresa Masullo Fuiano, autrice di una delle presentazioni.
Sono riportate, inoltre, molte curiosità tra le quali: la trascrizione della canzone in vernacolo dedicata alla Madonna Iconavetere, scritta da Silvia Marangelli e Roberto Carreca, e della poesia di R. Lepore dedicata all’arco di San Michele.
A conclusione del bellissimo lavoro, segue una carrellata di edicole scomparse o riutilizzate per altri scopi, o dimenticate, o atipiche. Ogni edicola con peculiarità diverse l’una dall’altra.
Grazie all’impegno di Rita Borgia, questo contributo offre alla città uno strumento cognitivo attraverso il quale esaminare la parte inedita della nostra storia.
NOTE
1 R. AVELLO (a cura di), Segni di fede a Orta Nova, CRSEC, Cerignola, Foggia 2000, pp. 9 e ss.
Le Memorie e la Cronistoria del processo Matteotti di Mauro Del Giudice in un volume curato da Teresa Maria Rauzino
Fresco di stampa il nuovo libro curato da Teresa Maria Rauzino dal titolo: “Il magistrato che fece tremare il Duce. Mauro Del Giudice – Memoria e Cronistoria del processo Matteotti”, con prefazione e coordinamento editoriale di Silverio Silvestri e postfazione di Michele Eugenio Di Carlo (Ediz. Amazon Italia Logistica S.r.l., Torrazza Piemonte (TO), pp. 286, prezzo € 18,72).
In questo ultimo lavoro che ha richiesto anni di impegno, peraltro basato su fonti inedite, per la prima volta L’Autrice, attraverso il rinvenimento delle Memorie inedite del magistrato, ripercorre le fasi salienti della Sua vita professionale e personale.
Di grande rilievo è poi il periodo, molto sofferto e turbolento, trascorso durante l’istruttoria del processo per l’assassinio dell’onorevole Matteotti nel quale il principale responsabile fu il Regime Fascista.
Del Giudice consapevole di questo, da uomo integerrimo, cercò di far emergere una verità scomoda, una verità che doveva essere celata a tutti i costi. L’Autrice nell’ introduzione scrive:
«Questo manoscritto inedito, donato da Del Giudice al Comune di Rodi Garganico, lo abbiamo fortunosamente ritrovato nella locale biblioteca, dove sono collocati, in ordine sparso, i libri del magistrato, alcune sue opere pubblicate a stampa e le sue “carte inedite”. Un’ulteriore ricerca in varie biblioteche italiane ci ha permesso di recuperare in fotocopia i volumi mancanti. Soltanto così, già in un precedente nostro saggio, pubblicato da Giuseppe Cassieri nella collana “Gli ori del Gargano”, abbiamo potuto avviare una prima analisi del pensiero giuridico-letterario del magistrato rodiano».
Nel Proemio delle Memorie inedite, datato Trani 26-XII-1928, Del Giudice sottolinea le motivazioni che lo hanno spinto a raccontarsi, ad affermare le sue verità. Giunto alla fine di una lunga, travagliata e spesso dolorosa carriera, reputando di aver assolto il compito da Dio assegnatogli in questo mondo, vuole mettere a profitto i pochi giorni che gli restano da vivere, “per buttare, così alla buona, sulla carta, le memorie della vita trascorsa. Scrivo per dire il vero sul mio conto e non già per odio di altrui o per disprezzo”, tende a precisare. Il magistrato rodiano è amaramente persuaso che il mondo volti le spalle agli uomini virtuosi, facendo loro scontare questo pregio, mentre celebra il successo raggiunto “per la via più rea” dagli uomini mediocri. Spetta ai posteri l’ardua sentenza: “La posterità è un giudice severo, ma giusto, imparziale e illuminato. La verità è insopprimibile, viene sempre alla luce”».
«Il mezzo migliore perché la verità risplenda – sottolinea Del Giudice – è raccontare i fatti salienti della propria vita, offrendo al pubblico un’ampia copia di dati e documenti, atti a frustrare le nefaste azioni dei detrattori e di chi ha interesse a nascondere la verità». Ma questo lavoro anche se riuscirà a terminarlo, difficilmente vedrà la luce negli anni della dittatura fascista, e comunque prima della sua morte: forse rimarrà per sempre inedito se, chi lo amò e gli sopravvivrà, non avrà cura di pubblicarlo, per rivendicare la sua memoria che, forse, il dente della calunnia cercherà di lacerare (ovvero offuscare del tutto)».
«Un compito – scrive la Rauzino – che ci accingiamo ad assolvere noi, dopo novantaquattro anni dall’inizio della stesura delle “Memorie” – perché la figura di Mauro Del Giudice merita di essere portata a conoscenza di tutti come fulgido esempio di onestà intellettuale. Le “Memorie”, attraverso la filigrana della sua vita, testimoniano esemplarmente la sua irruente forza morale. Del Giudice spera che la sua esperienza sia di aiuto agli uomini probi, onesti ed amanti del vero. Sarà un documento utile per far loro capire quanto sia dura la strada da percorrere … specie per chi, come lui, ha avuto la disgrazia “di nascere sotto gravoso e pesante cielo, in terreno servo e soggetto e ferace di pungenti spine e d’inestricabili pruni e triboli”. Il magistrato cita letture, frasi di poeti e scrittori classici, passi danteschi, non per sfoggiare la sua erudizione, ma per validare le sue azioni. Il corpus di testi e autori spazia in diverse aree: filosofia, teologia, storia dei popoli, diritto civile, letteratura, mitologia, cronaca dell’età contemporanea, raccolte di studi storico-giuridici sul pensiero illuminista. Le recensioni ai suoi libri sono la prova della circolazione delle sue idee e del suo nome».
Dopo travagliate vicende di vita vissuta in diverse regioni d’Italia, verso il calare della tarda età, Mauro Del Giudice si ritirò a Vieste dove completò i Suoi scritti narrando gli avvenimenti della propria vita, specie quelli che lo avevano coinvolto nell’istruttoria dell’assassinio di Giacomo Matteotti.
A tale riguardo la narrazione si fa esplicita ed interessante. La Rauzino analizza con rigore scientifico le cronache dell’epoca ad iniziare da quelle locali. Ella, tra le tante, riporta alcuni brani del giornale “Il Foglietto” di Lucera e scrive:
Il «Foglietto», giornale della Daunia, il 22 giugno 1924, nell’articolo “La commossa indignazione della Capitanata per l’orrendo assassinio dell’on. Matteotti“, commenta così il delitto politico più eclatante del Ventennio, che farà vacillare seriamente il governo fascista:
«Un crimine truce e fosco senza precedenti nella storia politica del nostro paese – la barbara uccisione dell’onorevole Matteotti – ha intensamente commosso la nazione tutta. Anche perché dall’istruttoria vengono giorno per giorno fuori gravi e tremende responsabilità, dirette e indirette, di personaggi del partito dominante che occupavano posti eminenti nelle gerarchie del Partito e nella Politica. All’indignazione dell’Italia e del mondo civile si è associata la nostra Capitanata che con virile compostezza segue ora ansiosa le vicende delle indagini e gli eventi politici, nella fiduciosa speranza che l’opera della giustizia voglia rintracciare e colpire gli assassini e che – ristabilito sovrano l’imperio della legge per tutti – il sangue dell’onorevole Matteotti voglia fecondare l’auspicata normalizzazione che sola potrà assicurare alla nazione un periodo di tregua, di pace e di lavoro. La Nazione sovratutto».
L’editorialista del foglio lucerino informa i lettori che la grave e delicata istruttoria del processo è stata avocata dalla Sezione di accusa di Roma, presieduta da un magistrato di «altissimo valore morale e giuridico»: Mauro Del Giudice. L’insigne magistrato, autore di numerose, apprezzate pubblicazioni, è un comprovinciale, nativo della «forte» terra garganica, pubblicista del settimanale: «È titolo d’orgoglio di questo giornale essere stato onorato della collaborazione e della simpatia del commendator Del Giudice. Alla sua opera illuminata e alla sua coscienza adamantina son rivolti, in vigile e fiduciosa attesa, l’interesse e la dignità della Nazione. L’illustre figlio della Capitanata renderà ancora un gran servizio alla giustizia e alla civiltà».
Il 10 giugno 1924, quando per Roma si sparse la voce che una banda di criminali fascisti aveva rapito il deputato socialista Giacomo Matteotti, Mauro Del Giudice ebbe l’immediata premonizione che «una tegola stesse per cadere sulla sua povera testa». L’indagine, avviata dalla Procura generale, aveva dato scarsi risultati. Come era accaduto in precedenza per i delitti politici di eccezionale gravità, il procuratore Crisafulli presentò l’istanza per l’avocazione dell’istruttoria alla Sezione di accusa, della quale Del Giudice era presidente. Quella mattina, questi trovò il documento sul suo tavolo. Il suo amico Donato Faggella, primo presidente della Sezione di accusa, con aria apparentemente indifferente, gli domandò: «Che intendi fare?». Del Giudice non era abituato a tirarsi indietro. Non lo fece neppure quella volta. Sebbene avesse sessantotto anni, non delegò ad altri la responsabilità di un’istruttoria scottante che coinvolgeva il Direttivo del Partito nazionale fascista e il Capo del Governo. Faggella aveva ricevuto fortissime pressioni per esercitare tutta la sua influenza su Del Giudice, per indurlo a rinunciare all’incarico. Stimava troppo il magistrato rodiano per insistere, ma lo mise in guardia sull’alta posta in gioco, la credibilità della Giustizia: «Del processo che tu istruisci non rimarranno che le sole carte, però da esso deve uscire intatto l’onore della Magistratura di Roma». Del Giudice era ancora più pessimista: di quell’istruttoria, molto probabilmente, non sarebbero rimaste neppure le carte, il Regime le avrebbe fatte sparire dopo aver operato il salvataggio degli assassini, dei loro complici e mandanti. Rassicurò Faggella: avrebbe reso onore alla Corte d’appello di Roma. Il suo nome sarebbe uscito illibato. Si augurava che anche i suoi colleghi facessero altrettanto.
Mauro del Giudice alla Quartarella alla ricerca del cadavere di Matteotti
Il 19 giugno 1924 iniziò l’istruttoria. Il procuratore Crisafulli, che riceveva direttive dal ministro Oviglio, gli affiancò il sostituto Umberto Guglielmo Tancredi. Del Giudice temeva interferenze, ma i suoi dubbi sparirono quando vide che quest’ultimo era disponibile ad accertare le responsabilità degli esecutori materiali del delitto e anche degli alti mandanti, compreso Mussolini.
La sera stessa, Del Giudice e Tancredi si recarono al carcere di Regina Coeli. Interrogarono Amerigo Dumini, il quale, appena li vide, con spavalderia disse: «Ma loro cosa sono venuti a fare? Il Presidente (Mussolini) è informato di quanto loro stanno facendo?». Del Giudice lo fissò severamente. L’inquisito capì che, se avesse mancato di rispetto ai magistrati, per lui era pronta la cella di rigore; mise da parte i suoi modi arroganti, ma negò ogni responsabilità. Quando, due mesi dopo, la giacca di Matteotti fu trovata sotto un ponte della Flaminia, Del Giudice tornò a interrogarlo ponendogli sotto gli occhi l’indumento macchiato di sangue, ma anche questa volta Dumini non mostrò alcun cedimento.
Mauro del Giudice alla Quartarella alla ricerca della giacca di Matteotti
La vicenda Matteotti suscitò un forte interesse pubblico e mediatico. Quando l’Agenzia Stefani annunciò che Del Giudice aveva emesso i mandati di cattura contro Cesare Rossi (direttore dell’ufficio stampa, eminenza grigia del Duce) e contro Giovanni Marinelli (segretario amministrativo del Partito fascista), si registrò immenso stupore e vivissima soddisfazione non solo a Roma, ma in tutta Italia. Si capì che l’autorità giudiziaria sarebbe andata fino in fondo.”
Furono tante le testimonianze raccolte sul caso, ma alla fine:
“Mussolini, tramite il segretario del Partito fascista Roberto Farinacci, avvocato di Amerigo Dumini, ottenne che il processo fosse trasferito a Chieti «per ragioni di ordine pubblico». Con sentenza del 24 marzo 1926, la Corte d’Assise teatina, addomesticata dal Regime fascista, mise fine alla vicenda processuale dell’assassinio Matteotti: assolse Malacria e Viola, e condannò a poco più di 5 anni di reclusione Dumini, Volpi e Poveromo. Non potendo smontare il corposo impianto accusatorio raccolto nei quarantaquattro fascicoli dell’istruttoria, si operò la separazione tra responsabilità del rapimento e responsabilità dell’omicidio, orientando così la sentenza verso il meno grave reato preterintenzionale.
Pene di fatto scontate per pochi mesi dai condannati, grazie al provvido decreto emanato il 31 luglio 1925 – quindi dopo il deposito dell’istruttoria e prima dell’inizio del processo – che dichiarava non punibile l’omicidio preterintenzionale e i reati ad esso connessi. La tragedia del delitto Matteotti finì in una farsa”.
Come poteva il processo avere un finale diverso? Il Regime doveva “Imperare” e i colpevoli, nonostante le prove schiaccianti, non potevano essere condannati con pene gravi. Così tutto fu messo a tacere e la questione si risolse senza che la giustizia trionfasse.
A questo punto viene da chiedersi, rapportandoci ai giorni nostri, cosa sia cambiato da allora. La Rauzino nel testo pone in evidenza gli aspetti più reconditi di una vicenda che se fosse stata trattata in un periodo diverso forse avrebbe avuto altri risvolti. Ma forse anche no.
Questi ed altri sono gli avvenimenti che emergono dalle Memorie del personaggio oggetto dello studio. A tale riguardo a noi piace evidenziare che c’è differenza fra un libro di Storia ed un romanzo storico. Il romanzo storico utilizza personaggi realmente vissuti ma le storie sono frutto della pura fantasia dell’autore, così menzioniamo il famoso romanzo de: “I promessi Sposi”, dove suor Virginia de Leyva (nata Marianna) (Gertrude), Bernardino Visconti (l’Innominato), Gian Paolo Osio (Egidio), solo per citare alcuni personaggi, restano un punto fermo nel romanzo, ma le vicende sono frutto dell’immaginazione di Alessandro Manzoni che, su suggerimento dell’amico Walter Scott, ritiratosi nella villa di Brusuglio dopo i moti del marzo 1821, decise di utilizzare i personaggi descritti dall’abate Giuseppe Ripamonti nella sua Historiae Patriaae, (Libri X,Milano 1641), creando quello che poi sarebbe diventato un capolavoro della letteratura italiana, studiato ancora oggi.
Diversamente, il libro di storia ripercorre fasi di ricerca documentale basate su fatti accaduti ma senza aggiunte. Facendo parlare i documenti. Quello dell’Autrice riteniamo che appartenga di certo alla tipologia del libro di Storia. Un libro avvincente e coinvolgente, una preziosa testimonianza che si aggiunge alla doviziosa produzione dell’Autrice sulla Storia del Gargano e non solo. Una ricca Appendice con documenti ed immagini inedite, infine, completa ed impreziosisce il volume. A Teresa Maria Rauzino va il nostro augurio di un meritato successo.
Teresa Maria Rauzino ricostruisce in un innovativo lavoro storiografico la vita del prestigioso Istituto classico di Foggia
Copertina del volume Il Regio Liceo Lanza. Dalle Scuole Pie agli anni del Regime
Il Regio Liceo Lanza. Dalle Scuole Pie agli anni del Regime. Questo il titolo del libro di Teresa Maria Rauzino, nota ricercatrice e presidente del Centro Studi “Giuseppe Martella” di Peschici, edito per i tipi delle Edizioni Parnaso di Foggia (ill., pp. 400, prezzo € 20,00).
Questo lavoro inaugura la prestigiosa collana editoriale intitolata “Anni di Scuola” della neonata casa editrice di Luigi Pietro Marangelli che tiene a “battesimo”, con questa pubblicazione, l’Autrice. È questo infatti, il primo lavoro monografico di Teresa Maria Rauzino, che finora è stata impegnata a lungo nel recupero della storia e delle tradizioni della sua cittadina d’origine e del Gargano. Non nuova alle iniziative editoriali (ha curato alcuni volumi de “I luoghi della memoria” del Centro Studi Martella) è stata, recentemente, protagonista di una “battaglia” che l’ha vista e la vede impegnata, con la sua associazione e la professoressa Liana Bertoldi Lenoci, nel recupero dell’antica abbazia benedettina di Kàlena.
Il volume appena editato, frutto di una difficile ricerca durata tre anni e mezzo, racconta la storia del mitico Liceo “Vincenzo Lanza” di Foggia dalle origini fino agli anni immediatamente successivi al regime fascista. Un lavoro unico nel suo genere, che rappresenta una pietra miliare non solo per lo storico Istituto e per la città, ma anche per la storia dell’ordine classico.
La Rauzino, ex allieva dell’Istituto, ha voluto rendere omaggio alla sua scuola, ricostruendo uno spaccato di vita, di storia, di costumi, di usi e di consuetudini della città di Foggia.Lo studio, meticoloso e capillare per la metodologia storiografica seguita, traccia, attraverso un lungo excursus storico, derivante dalla consultazione delle carte degli archivi pubblici e privati, una nuova strada per acquisire conoscenze sulla storia della scuola.
Varie le tematiche proposte dall’autrice in questo lavoro: in primis affronta il tema della importanza degli archivi scolastici come fonte di ricerca,dove paragona l’esperienza della ricerca storica ad una «entusiasmante avventura che può portare alla scoperta di piccoli tesori o, come più spesso è probabile, al deludente nulla». Nel capitolo relativo, parla degli archivi scolastici e dell’importanza di preservarli dalla distruzione e dall’incuria.
Per il “Liceo Lanza” è successo proprio questo: il trasferimento delle sedi, gli eventi bellici, l’incuria da parte di chi, insensibile al problema del recupero cartaceo, non si è preoccupato nel tempo della conservazione dei documenti, preziosa fonte per tutti gli storici, utile alla ricostruzione degli eventi del passato. Per l’Istituto di Foggia, l’avventura della dispersione documentaria cominciò con lo storico incendio della sede del Palazzo di Città, nel 1898, quando il popolo foggiano insorse contro gli amministratori a causa delle tasse troppo alte. Allora il Liceo “Lanza”, che nel 1868 aveva rimpiazzato le Scuole Pie nell’attiguo Palazzo San Gaetano, antica sede dei Padri Scolopi, si era appena spostato a Palazzo Lanza, attuale sede dell’Università. Nell’incendio del municipio furono bruciate tutte le carte dell’archivio comunale. Il danno fu di una tale entità che, ancora oggi, i ricercatori trovano difficoltà a colmare il vuoto storico lasciato dalla distruzione di quell’archivio.
I PRESIDIDUCE
La parte centrale del volume interessa tematiche varie che vanno dalle politiche scolastiche postunitarie, alla didattica nell’Ordine classico, al sorgere della scuola come Liceo, ai primi docenti, alla fondazione del convitto, fino a tracciare una curva ascendente che arriva agli anni del Ventennio fascista, in cui la scuola era funzionale alla cosiddetta “fabbrica del consenso”.Ed è proprio dalla lettura di queste pagine che emerge la personalità dei “presididuce” come vengono definiti, in quel periodo, i capi d’Istituto.
«I Presidi dell’epoca – si legge nel libro – ci forniscono notizie sugli studenti e le loro famiglie, e soprattutto sulla classe docente, sottoposta ad un controllo che oggi ci sembra davvero poco rispettoso della libertà di insegnamento e della privacy […]. La documentazione di prima mano, ci ha permesso la ricostruzione di una tranche de vie, che illustra il “fare scuola” negli anni del Regime. La storia del Regio Liceo “Lanza” diventa storia emblematicadi una scuola, più o meno allineata alle direttive di un governo dittatoriale. Diventa storia di un gruppo significativo della classe dirigente italiana, i Presidi, in un periodo cruciale della storia nazionale, in cui la scuola è un binario privilegiato per veicolare una “missione forte”: forgiare il “nuovo italiano di Mussolini”».
In questo contesto, si evince il tratto umano dei personaggi protagonisti della vita scolastica.
Uno fra tutti, può senz’altro essere rappresentato dal prof. Oronzo Marangelli, docente dissidente degli anni del Regime. Il professore, grazie alla segnalazione negativa e di un ispezione ministeriale sollecitatadai “presideduce” del Lanza e del Poerio, viene volutamente allontanato da Foggia e confinato a Benevento perché personaggio ritenuto “pericoloso” per la scuola. Chi la pensava in modo diverso dall’ideologia in quel tempo dominante non poteva quindi insegnare nel “Palazzo degli Studi”, allineato su strette posizioni governative. Esperto paleografo, autore di opere elogiate dal Kehr, Marangelli era stato già allontanato dalla Biblioteca Minuziano di San Severo a causa delle sue idee politiche: nei suoi articoli sul «Popolo nuovo» si era permesso di “ignorare” i meriti del fascismo e di Postiglione quando aveva parlato dell’importanza dell’Acquedotto Pugliese per “l’arsa Puglia”.
Certo il “caso” Marangelli doveva costituire “l’esempio” della sorte toccata ai dissidenti, affinché nessuno di essi potesse agire autonomamente manifestando le proprie idee, soprattutto a scuola, ma fu davvero soltanto questo il motivo dell’allontanamento di Marangelli dal Palazzo degli Studi foggiano? A nostro avviso, il motivo dell’emarginazione del professore poteva derivare dalla celata paura di essere “scavalcati” da una persona molto più colta, più intelligente, più sensibile e più lungimirante di coloro che, accecati dall’ottusità derivante dal ruolo del momento, applicavano alla lettera le paradossali ed inaccettabili idee imposte dal regime.
Confinato a Benevento, non riuscendo a sopportare tale situazione, Marangelli pur di ritornare a Foggia dalla sua famiglia, si era imposto di “rientrare nei ranghi”… ma tutto fu inutile. Dovette rifare il concorso nazionale (risultò primo) per tornare ad insegnare in Puglia. Dalla lettura di queste dense pagine di storia, il professor Marangelli emerge come la vittima sacrificale di un regime limitativo della libertà di pensiero.
Un altro aspetto che evidenzia le peculiarità del clima politico di quegli anni, è dato dai frequentatori della “Libreria Pilone” di Foggia, che riuniva gli intellettuali dissidenti della città. Costoro andavano contro il regime fascista, ed erano persone costrette a mascherare il loro pensiero politico in nome degli “ideali imposti dal Regime”. Si riunivano segretamente mettendo a rischio la libertà personale, come accadde per i professori Francesco Perna ed Antonio Vivoli che vennero tradottia Bari dall’Ovra quando fu scoperta la loro appartenenza al Partito Liberal Socialista di Tommaso Fiore.
Dal libro della Rauzino emerge uno spaccato di vita e di consuetudini che oggi ci sembra lontano anni luce. Inconcepibile risulterebbe oggi, ai nostri occhi, il ruolo della donna nella società durante gli anni del regime: era relegata al ruolo di madre e moglie, di angelo del focolare, di massaia votata all’arduo compito di educare i figli per la “Patria”. Queste idee, durante gli anni del regime, vengono proiettate anche nella scuola. I presididuce, in quegli anni convinti sostenitori delle idee del regime, fecero di tutto per mettere in difficoltà le colleghe: nelle loro relazioni al Ministero dell’Istruzione pubblica e dell’Educazione Nazionale non mancano di sottolineare quale fosse il ruolo della donna: non nella scuola o negli uffici, ma a casa! A curare i figli. Tutto questo però si rivela un fallimento, la donna non abbandona il proprio ruolo di educatrice e di madre ma non lascia nemmeno che le idee misogine dei presidi prendano il sopravvento.
Non mancano nel volume della Rauzino momenti densi di pathos, che emergono dal ricordo dei protagonisti delle interviste, personaggi che oggi costituiscono le classi dirigenti e non solo, nomi come Renzo Arbore, Antonio Pellegrino, Gustavo de Meo, Gaetano Matrella, Mario Pellegrini, Emilio Benvenuto, Mario Sarcinelli, solo per citarne alcuni. Ciascuno, secondo la propria esperienza, si è raccontato ed ha raccontato il modo di vivere della scuola dagli anni Trenta agli anni Cinquanta. Oggi sono tutti valenti professionisti noti a livello nazionale ed internazionale… se solo si pensa ad Arbore e a Sarcinelli. Gli alunni del Liceo sono diventati gli uomini pensanti di oggi, questo dalla fondazione ad oggi è l’intento precipuo della “Scuola”: quello di “forgiare” le classi dirigenti del “domani”.
Questa idea di “ammaestrare” è stata sempre presente nelle classi dirigenti scolastiche fin dal periodo postunitario, nella seconda metà dell’Ottocento. Anche quando fu fondato il Regio Istituto Tecnico “Pietro Giannone” di Foggia, nel 1885, in una relazione relativa agli anni 1887-88, il Preside Narciso Mencarelli affermava che il compito dei docenti dell’Istituto era quello di «Ammaestrare la gioventù ai principi del vero». (n. d. r.)
La frequenza al “Liceo Lanza” non fu solo appannaggio di chi poteva permettersi di “studiare”. Con le imposizioni dei Presidi che si sono succeduti, non si è voluto distinguere, ma si è sempre cercato di “uniformare” tutti gli studenti. Basti consultare, nel volume, la lista del corredo di cui gli “Ospiti” del Convitto Lanza dovevano “dotarsi”. Negli anni a venire, tutti ebbero l’obbligo di vestire in modo uniforme, furono aboliti i pantaloni corti per i ragazzi, mentre le ragazze dovevano portare i grembiuli. Anche le insegnanti dovevano, secondo alcuni presidi, vestirsi in modo “decoroso” senza stimolare gli “appetiti” maschili.
Il volume è impreziosito dalla trascrizione di documenti rinvenuti nei vari archivi, da quello di Stato di Foggia, a quello del Museo Civico per la parte antica, a quello del Comune. Il periodo ottocentesco della scuola emerge attraverso l’analisi documentaria della carte rinvenute tra i manoscritti custoditi al Museo Civico della città. L’autrice trascrive alcune parti delle relazioni di padre Marcangelo; non mancano inoltre: gli Statuti del Convitto, la scuola che precede il “Liceo”, i relativi Bilanci con i Rendiconti degli introiti del Convitto, il quadroorario delle lezioni, i voti d’esame degli allievi del 1868, ecc. Notizie inedite che tratteggiano i primi anni della vita della scuola. Anche queste sono pagine importanti, pagine che descrivono per la prima volta la situazione storica del momento: i contrasti, le scelte derivanti da una politica che contrapponeva le Scuole Pie degli Scolopi a quelle pubbliche, la Destra storica alla Sinistra. E, se riflettiamo, tutto ciò non si discosta molto dalla situazione politica di oggi.
Un profilo di Vincenzo Lanza, scienziato e patriota tratteggiato da Nazario Barone, studioso di storia militare risorgimentale, chiude questo bellissimo lavoro con una serie di cartoline d’epoca a lui dedicate, che testimoniano il radicale cambiamento dell’assetto urbano, avvenuto nel corso del Novecento anche a Foggia. Le planimetrie e le incisioni antiche delle varie sedi del Liceo ritraggono la Scuola nei vari passaggi epocali.
In memoria di un intellettuale di grande profilo, scomparso improvvisamente il 27 maggio 2007.
Non si può parlare di Cultura senza pensare a Stefano Capone, venuto a mancare prematuramente il 27 maggio. Studioso di grande poliedricità professionale, si è distinto nel campo dello scibile del sapere, spaziando da argomenti inerenti la storia moderna, il teatro, lo sport.
Capone ha diretto numerosi spettacoli teatrali e collaborato con più case editrici, ricoprendo al loro interno incarichi importanti. È stato direttore della prestigiosa collana editoriale “Documenti, Studi e Ricerche sul Regno di Napoli”, delle Edizioni del Rosone “Franco Marasca” di Foggia. Si laureò nel 1983 inLettere moderne presso l’Università degli Studi di Napoli, riportando la votazione finale di 110/110, con una tesi in Sociologia della Letteratura: Documenti dell’impresa teatrale del primo periodo dell’opera buffa (relatore prof. Michele Rak).
Negli anni compresi tra il 1987-96 Capone fu docente ordinario di materie letterarie presso istituti superiori di secondo grado, ma la sua passione era insegnare all’Università.
Tra le attività didattiche, svolte presso il Dipartimento di Filologia Moderna dell’Università degli Studi di Napoli nel corso di Sociologia della Letteratura, figurano nell’anno accademico 1985-86 la conduzione di un seminario su “I teatri della melocommedia” e nel 1986-87 su “La melocommedia e l’opera buffa nella Napoli del ‘700”.
Nel 1993 animò un ciclo di lezioni su “L’impresa teatrale della commedia per musica” presso il corso di Storia della Critica Letteraria del Magistero di Arezzo (Dipartimento di Letterature Moderne e Scienze dei Linguaggi).
Già nella sua tesi di dottorato aveva disquisito sull’opera comica napoletana, di cui fu un profondo conoscitore. Secondo Capone, questa forma poco conosciuta di spettacolo musicale e teatrale fu di fondamentale importanza nella storia della letteratura, della musica settecentesca e del melodramma ottocentesco. Le sue influenze hanno determinato varianti del gusto, del costume e del vivere, alimentando una maniera teatrale europea (l’opera buffa), il dramma giocoso goldoniano, il dramma per musica mozartiano e il mito della “scuola napoletana”. La ricerca, basata sull’indagine diretta delle fonti primarie verbali e musicali (libretti e partiture) e su documenti d’archivio, ricostruisce la storia di un genere unico e realizzabile solo a Napoli in un preciso momento storico (l’avvento del viceregno austriaco). Il lavoro è diviso in 5 capitoli: I. Teorici e critici dell’opera comica. II. Teatro e musica a Napoli. III. I libretti. IV. I due poli: l’opera comica napoletana e il dramma giocoso veneziano. V. L’impresa d’opera: impresari, librettisti, cantanti e addetti ai lavori. L’analisi dei reperti archivistici e della storiografia tradizionale consente a Capone di ricostruire anche il percorso imprenditoriale dell’opera comica, di tracciare i profili dei suoi autori, impresari, musicisti, addetti ai lavori, di delineare il suo spirito di opera moderna e collettiva, di identificare il suo pubblico e di stabilirne i costi di gestione.
La ricerca: in questo mio intervento, mi sembra giusto ricordare Stefano Capone, personaggio “chiave” delle cultura non solo foggiana ma cosmopolita, con una breve recensione di tre delle sue opere più significative, dedicate al teatro e alla storia del Regno delle due Sicilie e della Rivoluzione partenopea del 1799.
1) – Bello, interessante e avvincente per tutti coloro i quali desiderino cimentarsi nella conoscenza del teatro settecentesco il volume dal titolo Piccinni e l’opera buffa, modelli e varianti di un genere alla moda (pp. 229, ill., Edizioni del Rosone Franco Marasca, Foggia 2002). Il testo, annoverato nella collana editoriale “Euterpe” diretta da Pasquale Rinaldi, tratta con estrema puntualità un tema che per lungo tempo ha rappresentato l’alternativa al solito argomento proposto nelle rappresentazioni teatrali settecentesche.
«La Cecchina – esordiscel’Autore – è un’opera che riflette il razionalismo del secolo, la trasparenza di un gusto, la dimensione di una nuova e precisa sonorità. Nel 1760 il Settecento nobiliare feudale cominciava a denunciare il suo declino, a favore di altri gruppi sociali: la borghesia mercantile o intellettuale, il ceto medio dei togati».
La Cecchina del Piccinni esordiva al Teatro delle Dame di Roma nel lontano 1760, inuna veste nuova e diversa da quella proposta fino ad allora: l’opera buffa. Dopo due secoli è ancora considerata di grande attualità e, con La Ninapazza per amore di Paisiello e Il matrimonio segreto di Cimarosa, è una delle opere universali del Settecento, definita il trait d’union tra Napoli e Venezia, rappresenta il passaggio dall’opera comica napoletana all’opera buffa veneziana, ovvero il modello-guida al quale aderirono molti operisti coevi. Completano il volume un dovizioso apparato iconografico ed un’Appendice ricca di notizie inedite ed interessanti.
2) – Interessanti pagine di storia racchiude il volume dal titolo Le nozze del principe, pubblicato da Capone nel 2002 per le Edizioni del Rosone “Franco Marasca”.
L’Autore, come afferma nella sua premessa, «ricostruisce le circostanze in cui furono realizzati una Cantata, alcuni diari, suppliche e feste a Foggia, in occasione del matrimonio tra Francesco di Borbone e Maria Clementina d’Austria celebrato il 25 giugno 1797. Letterati e cortigiani, cuochi e musicisti organizzarono nella città della Dogana della mena delle pecore, […] una serie di festeggiamenti per celebrare queste nozze in un momento di gravi difficoltà per la dinastia dei Borboni[…]”».
Per un solo giorno Foggia fu capitale e per tutto il periodo di permanenza dei sovrani nel capoluogo daunio, furono celebrate feste, banchetti, intrattenimenti e quanto altro di consueto si era soliti svolgere a Napoli. I piaceri dell’aristocrazia napoletana furono adattati ad un ambiente che da secoli era ricettivo solo di regole ed usi propri della cultura agreste e bucolica.
Il lavoro è impreziosito nell’Appendice del volume dalla trascrizione di preziosi carteggi rinvenuti presso l’Archivio di Stato di Foggia e nella sezione di Lucera, riguardanti concessione di mutui, o dispacci e disposizioni Reali, bandi, ed infine anche dalla trascrizione della Cantata bucolica dal titolo “La Daunia Felice”, scritta in occasione delle regie nozze dal foggino Francesco Saverio Massari e musicata da Giovanni Paesiello.
3) – Prezioso e denso di interessanti notizie il volume dal titolo I racconti della rivoluzione, Documenti per una storia del 1799 inCapitanata.
In questo volume, Capone ricostruisce con puntuale precisione i moti rivoluzionari proiettati nelle dinamiche dell’Università di provincia tratteggiando gli eventi accaduti durante sei mesi di insorgenze, riportandone i conflitti tra comunità e parti del popolo, commentati da vari testi e generi del racconto. L’Autore chiarisce le dinamiche sociali e politiche del regno di Napoli offrendo così ai lettori numerosi spunti di riflessione.
Storicamente il 1799 fu un anno che determinò grandi mutamenti nel Regno di Napoli. Il giacobinismo già da tempo dilagava nella capitale partenopea riscuotendo entusiastici consensi soprattutto tra gli aristocratici napoletani che, facendo propri gli ideali di libertà e fratellanza dettati dalla rivoluzione francese, cospirarono contro il sovrano borbonico, costringendolo per ben due volte all’esilio ed, in seguito, a prendere importanti decisioni che ebbero ripercussioni significative negli eventi storici successivi a tale periodo. Ne sono un esempio: l’abolizione degli antichi Sedili e l’istituzione del Supremo Tribunale Conservatore che raccoglieva l’elenco dei nobili conservandone la memoria. Anche la Capitanatanon fu risparmiata e, di riflesso, subì l’onda di tali mutamenti storici.
La parte conclusiva del testo contiene la trascrizione di documenti archivistici rinvenuti presso l’Archivio di Stato di Foggia e presso la sezione di Lucera.
LA PRODUZIONE
Tra le più importanti opere pubblicate da Capone ricordiamo: Li stravestimiente affortunate: storia di un’opera proibita, in «Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Napoli», Napoli, n.s. XIV (1983-84); I teatri della melo commedia, Napoli 1986; La struttura dell’impresa teatrale e la produzione buffa del Teatro dei Fiorentini: da Nicola Serino a Berardino Bottone, in «Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Napoli», n.s. XVII (1986-87); Pirandello dopo D’Annunzio, in Dittico pirandelliano, Foggia 1989; I Conservatori nella Napoli barocca, in AA. VV., Centri e periferie del Barocco, Istituto Poligrafico dello Stato, Roma 1990; Esotismo, Oriente e India nei libretti di opere in musica napoletane della seconda metà del ‘700, Napoli 1990; Autori, imprese, teatri dell’opera comica napoletana. Documenti per una storia del teatro napoletano del ‘700 (1709-1737), Foggia 1992; Caratteri e passioni nell’opera comica, in Il mondo delle passioni nell’immaginario utopico, a cura di Bruna Consarelli e Nicola di Penta, Giuffré, Milano 1997; Le nozze del principe. Diari, cantate, suppliche, bandi e altri generi letterari per le nozze di Francesco di Borbone a Foggia” (1797), Foggia 1997; Francesco D’Andrea e il rinnovamento culturale del Seicento a Napoli (in occasione del rinvenimento di un manoscritto sconosciuto degli Avvertimenti ai nipoti), in «La Capitanata. Rassegnadi vita e di studi della Provincia di Foggia», XXXIV (1997), n. s., n. 5; I racconti della rivoluzione. Documenti per una storia del 1799, in «Capitanata», Foggia 1999; Una raccolta di libri napoletani del ‘700 nella biblioteca provinciale di Foggia, in Editoria e cultura a Napoli nel XVIII secolo, a cura di Anna Maria Rao, Napoli 1999.
I CONVEGNI
Impegnato nelle attività di ricerca, Stefano Capone partecipò a vari convegni nazionali e internazionali: nell’ottobre 1987 relazionò su I Conservatori nella Napoli barocca al Convegno “Centri e periferie del Barocco”; nel giugno 1988 disquisisce su Esotismo, Oriente ed India nei libretti di opere in musica napoletane della seconda metà del ‘700, al Convegno Internazionale “Napoli e l’India”. Nel settembre 1988 illustrò I libretti d’opera per matrimonio al Convegno Internazionale di Studi “Parma, i Borbone, l’Europa. Riformismo politico e modelli culturali”; nel maggio 1995 su Caratteri e passioni nell’opera comica, al V Convegno Internazionale sulle “Utopie Passioni Caratteri Gestualità in Utopia”; nell’ottobre 1995 su Il sistema delle parti nel teatro comico, al VII Corso Internazionale d’Alta Cultura “Il gran teatro del Barocco: la scena e la festa”; nel dicembre 1996 analizzò Una raccolta di libri napoletani del ‘700 nella Biblioteca provinciale di Foggia, durante il Convegno di studi “Editoria e cultura a Napoli nel XVIII secolo”.