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Chiesa e religiosità popolare a Peschici

Copertina volume Chiesa e religiosità popolare a Peschici, a c. di Teresa Maria Rauzino e Liana Bertoldi Lenoci, Centro Studi Martella editore, Vieste 1999.

Con le feste di S. Elia profeta, della Madonna di Loreto, di San Matteo e con le processioni della Settimana Santa, Peschici celebra i suoi riti religiosi più antichi e coinvolgenti.

Con il rientro degli emigranti dall’estero, convenuti apposta per l’occasione, si ripetono di anno in anno dei riti che con semplice, ma efficace teatralità, esprimono i destini di questa terra garganica e la sua speranza di prosperità, nel solco di una tradizione secolare.

Elementi culturali ed etnografici, non sempre avvertibili, concorrono a trasformare queste giornate in eventi religiosi dominati dalla coralità: Peschici, perduta nel mare dell’esistenza senza risposta, acquista soprattutto nel culto antico del santo profeta Elia che libera i suoi poveri, pochissimi abitanti, dalle cavallette, dalla siccità, dalle malattie e dalle incertezze della vita, la speranza di salvezza o quanto meno la speranza consolatrice di un futuro migliore.

I modelli della società di massa e consumistici non hanno ancora scalfito questa realtà, consolidata da secoli: un modo di fare e di essere collegato, nella sua dimensione più profonda, alla misteriosa ricerca di sé, della propria identità, del minimo di garanzia vitale.

Peschici, Madonna di Loreto

La religiosità popolare, secondo il nostro concittadino monsignor Domenico D’Ambrosio, è un mondo misterioso ed affascinante, al quale occorre avvicinarsi con atteggiamento cauto ed interlocutorio, in punta di piedi; vi si accede più facilmente formulando domande, anziché dando risposte. Va compresa nelle sue intenzioni, nel suo linguaggio, nella sua genesi e nelle sue mutazioni storiche. Molti sono i suoi valori, e occorre saper cogliere le sue dimensioni interiori. È innegabile la ricchezza interna, tematica, espressiva e d’ispirazione di questa forma di religiosità. Ma l’atteggiamento nei suoi confronti non può essere basato su approcci rudi, interpretazioni semplificate, accettazioni acritiche, spiantamenti violenti e immotivati.

La religione in cui siamo stati educati alla fede merita da noi il massimo rispetto, per quello che ci ha dato e per quello che ancora può darci, ma soprattutto perché costituisce la saggezza del nostro popolo: è la sua matrice culturale. Offre l’opportunità e l’occasione, talvolta unica, di trasmettere il messaggio del Vangelo, di approfondire la conoscenza della fede, di promuovere la vita religiosa a quelli che, abitualmente, non partecipano mai, o quasi mai, alla vita della Chiesa. Sono “i lontani”.

È proprio seguendo queste indicazioni che i ricercatori del Centro Studi “G. Martella” hanno elaborato la monografia Chiesa e religiosità popolare a Peschici. Non presumiamo, con questo libro, di aver dato un quadro esaustivo della storia sociale e religiosa. Per un’impresa del genere occorrono approfondimenti metodologici e di scavo archivistico, da cui siamo ancora ben lontani.

Abbiamo effettuato, per il momento, dei sondaggi su aspetti poco indagati della vita sociale e devozionale, aspetti che rientrano nella storia di vicende collettive anonime, che sfuggono all’analisi politica o economica.

Per l’indagine, abbiamo utilizzato una serie di archivi periferici, ritrovandovi dei documenti che, nel loro insieme, ci hanno consentito di cogliere la continuità di certi comportamenti religiosi collettivi: i libri parrocchiali.  A queste fonti si sono aggiunti gli atti sinodali, e soprattutto i resoconti ed i diari delle visite pastorali del cardinale V. M. Orsini, una documentazione estremamente preziosa per la sua unicità.

Ogni tentativo di capire la religiosità della popolazione peschiciana richiede una premessa: la sua area territoriale vive in una situazione di isolamento dal resto dell’Italia, una perifericità confermata ancora oggi da un assetto viario precario. Il Gargano nord non era assolutamente toccato da una rete stradale adeguata.

Le sue sedi vescovili erano poco ambite. Muoversi in visita pastorale era un’impresa, un rischio, un pericolo vero e proprio. La mancanza di una rete viaria fra diocesi e parrocchie costringeva i vescovi a percorrere itinerari tortuosi; a salire e a scendere impervi e scomodi sentieri sul dorso di un mulo o di un asino, per raggiungere le zone più interne. Questi fattori ne accentuarono l’isolamento.

Come era Peschici  nel XVII e nel XVIII secolo? Le sue strade rotabili non si spingevano all’interno del promontorio; chi era costretto al viaggio incominciava l’avventura attraverso sentieri esposti a tutte le incertezze del terreno e del clima, la via di comunicazione più comoda era sicuramente quella marittima. Il paese, essendo costiero, era agevolato dal porticciolo, facile via d’accesso; infatti, il cardinale Orsini, in occasione della sua visita pastorale del 1675, raggiungerà Peschici in barca.

Ma, fino a qualche anno prima, il mare aveva rappresentato più un pericolo che un vantaggio, per le frequenti incursioni dei predoni turchi. Il panorama era sicuramente suggestivo: pensiamo al Recinto Baronale, nucleo del centro storico abbarbicato sulla Rupe e fortificato dalla Rocca Imperiale, attuale Torre del Ponte.

I boschi circostanti erano rigogliosi di pini d’Aleppo, fonte di reddito per i pegolotti che ne sapevano estrarre la pece. Il clima, a parte quello delle paludose zone pianeggianti, abbastanza salubre. Ma, come vedremo per la fine del Cinquecento e tutto il Seicento, regnavano ancora malattie, fame, insicurezza sociale per le continue scorrerie dei Turchi, ed una certa violenza ambientale.

Nel Settecento si assiste ad  una forte ripresa demografica, il trend positivo si stabilizzerà alla fine del secolo, ma l’organizzazione assistenziale risulta ancora insufficiente rispetto alle esigenze della popolazione. C’è un monte frumentario, che nel 1725 il vescovo Marco Antonio De Marco porta a 132 tomoli di dotazione, e che dopo un anno aumenta a 142 tomoli, ma manca il monte di pietà che potrebbe essere certamente di aiuto ai poveri. Una confraternita è attiva presso la Chiesa matrice di Sant’Elia profeta: quella del Corpus Christi, poi Santissimo Sacramento.

Dalle ricerche effettuate, è emersa una struttura della Chiesa molto legata alla storia del territorio. La parrocchia è  una realtà sociale inserita non solo nella vita di pietà, ma anche nella vita materiale delle popolazioni locali: per secoli ne ha rappresentato il più importante punto di riferimento. La Chiesa matrice di Sant’Elia costituì per secoli un fattore di stabilità sociale: attorno alla “massa comune” dei beni della ricettizia – terreni seminativi, vigneti, oliveti e case – gravitava un numero considerevole di censuari e fittavoli.

I parroci, già a partire dalla seconda metà del Seicento, guidarono spiritualmente impegnativi organismi assistenziali gestiti dai laici, indispensabili alla sopravvivenza dei disagiati: le confraternite e il monte frumentario. Tutto nasceva dalla logica della pietà: le confraternite per seppellire i morti, il monte di pietà del grano per aiutare i contadini nel momento della semina, ma soprattutto «per troncar la  strada al detestabil peccato dell’usura». Infatti, frequentemente i  poveri, non potendo fronteggiare necessità impellenti, «sono sforzati per poco perder molto, ò far ubbligazioni con interessi grauissimi, e le donne non potendosi aiutare, pongono in pericolo il proprio honore».

Ed è proprio seguendo questi percorsi socio-devozionali che la ricerca chiarisce aspetti inediti della vita socio-religiosa ed economica della cittadina di Peschici, dal secolo XVII ai nostri giorni.

©2005 Teresa Maria Rauzino

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Microstorie

Vieste, lo Strapaese di Aliota

Mimmo Aliota, testimone del Novecento, dedica un altro volume di microstoria alla sua Vieste 

La copertina del volume di Aliota

Mimmo Aliota ha dedicato a Vieste ben dieci libri che delineano uno spaccato significativo della vita della sua città, dal primo Novecento ad oggi. L’ultimo, fresco di stampa, è Strapaese. Il titolo rispecchia una deliberata scelta dell’autore: uno stile diretto, senza retorica e cerebralismi, accessibile a tutti i lettori. Aliota vuole consegnare, soprattutto alla gente comune, un’immagine strapaesana che, altrimenti, morirebbe con la generazione degli ottantenni che hanno vissuto in prima persona il secondo millennio, e che sono gli ultimi portatori delle microstorie viestane. 

Microstorie rivissute con lo sguardo disincantato e ironico di chi conosce ormai tutto della vita cittadina, e ne disvela gli aspetti ancora inediti.

Protagonista è il popolo, inteso nella sua accezione classica, che assurge a un ruolo che non gli era stato assegnato dalla storiografia settecentesca. Vincenzo Giuliani, nelle sue Memorie storiche di Vieste, aveva proposto l’historie evenementielle della cittadina garganica. C’era, in essa, un grande eterno assente: il popolo. Non faceva storia, non era nessuno.

Quel mitico testo di Giuliani, conosciuto soltanto da pochi eletti, era diventato quasi introvabile a Vieste; pochi esemplari custoditi gelosamente, finché, grazie al gentile prestito di una copia originale, fu ripubblicato prima dal Faro di Vieste, poi dall’Arci e dal Centro Studi Cimaglia, un’associazione culturale che si è sempre identificata con il nome del suo fondatore, Mimmo Aliota, appunto.

Con la divulgazione del libro di Giuliani – precisa Aliota – cominciò la sua demolizione. Molte notizie furono corrette da chi cominciò a fare i dovuti riscontri, frequentando gli archivi dov’erano custoditi e documenti originali. Fu possibile ricostruire la vera storia del paese, almeno a partire dall’Ottocento. Una nuova storia, sull’esempio della scuola delle «Annales», che ha visto come protagoniste le classi subalterne e non più quelle dominanti.

Un popolo, quello viestano, schietto e solidale, nonostante una forte povertà lo abbia fortemente attanagliato fino al Ventennio fascista: solo nel secondo dopoguerra e negli anni Settanta, con l’avvento e l’espansione del turismo, le cose cominciarono lentamente a cambiare. 

Aliota raccoglie dalla viva voce dei portatori, testimoni delle memorie patrie, alcuni episodi di solidarietà che videro protagonista Vieste nei tragici giorni dell’armistizio del 1943. 

In quei tragici giorni, al porticciolo della sperduta città garganica approdò una piccola nave stracolma di soldati italiani in rotta dalla Jugoslavia occupata dalle truppe tedesche … Erano soldati braccati anche dai partigiani di Tito, ostili agli italiani; avevano bisogno di cibo, di vestiario, di aiuto, di mezzi di trasporto che li conducessero in salvo verso i luoghi di origine.

La popolazione viestana, incurante della presenza di una guarnigione tedesca che stazionava nei dintorni della città, fece il possibile per rifocillarli, rivestirli di abiti civili. I marinai approntarono i loro pescherecci per portarli lontano, ma un aeroplano di nazionalità non identificata mitragliò le barche appena salpate dal porticciolo e giunte all’altezza della Ripa, subito dopo la punta di San Francesco. Fu uno strazio vedere i profughi e i marinai buttarsi a mare per schivare le mitragliate. 

Tutte le barche restanti, incuranti del pericolo, corsero a soccorrere i naufraghi, e varie famiglie viestane rifocillarono per la seconda volta i naufraghi recuperati in mare. 

Passarono gli anni: 37 per l’esattezza. Vieste fu insignita nel 1980 della Medaglia d’oro per benemerenza patriottica dall’Associazione nazionale Reduci che aveva avuto notizia di questo atto solidale. 

Mimmo Aliota, nel suo libro, ci racconta storie di altri naufragi, sepolti da tempo nel dimenticatoio della memoria collettiva. Affioranti solo grazie a qualche toponimo o nei gesti dei vecchi marinai che, al timone dei barconi turistici, giunti nei pressi di quei luoghi, senza dare nell’occhio, si cavano ancora il berretto in segno di rispetto, e di nascosto, si fanno rapidamente il segno della croce. 

Un tempo, i marinai che transitavano sui piccoli velieri in rotta verso Vignanotica, presso Cala dei Mongoli, calavano sempre una scialuppa in mare. Un uomo si arrampicava su uno scoglio. Vi lasciava un fanale acceso, un’immagine sacra o dei fiori di campo. Il perché di questo gesto e la relativa storia è stata raccontata ad Aliota da Sante Trimigno e Rollo Croce: quattro pescatori, salvatosi da un naufragio, erano riusciti a raggiungere un piccolo riparo scavato nella roccia lungo la costa. Morirono assiderati dopo venti giorni di tempesta.

Tanti soccorritori si erano prodigati per raggiungerli e rifocillarli ma non erano riusciti nel loro intento: il luogo era inaccessibile per via di terra. Nessuno, in seguito, rimosse i resti mortali degli sfortunati naufraghi, che rimasero su quello scoglio, dispersi soltanto dal sole, dal vento e dalle pioggia. Oggi riposano ancora in quel mare, e in quegli anfratti del costone di tufo bianco tanto simile alle scogliere di Dover. 

Un’altra storia, fra le tante raccontate da Aliota, ci resta impressa nella mente. Correva sempre l’anno 1943. Il 17 settembre Vieste fu invasa da soldati italiani sbandati. I tedeschi cercarono di allontanarsi rapidamente su una camionetta. Dal terrazzo di una casa fu lanciata una bomba a mano. Un tedesco fu ucciso, altri furono feriti. La camionetta proseguì la sua corsa.

Il giorno dopo, i tedeschi ritornarono in forze per effettuare la rappresaglia sulla popolazione civile; sull’autoblindo portavano un cannone di piccolo calibro.

Ma i soldati italiani si erano già dileguati nella notte. I militari del castello issarono sul pennone una bandiera bianca in segno di resa, la popolazione cercò scampo nelle campagne, trovando ospitalità presso casini, torri e pagliai.

Il colonnello austriaco a capo delle truppe tedesche, dopo aver fatto mettere al muro un gruppo di viestani rimasti in paese, a un certo punto ci ripensò. Rinunciò inaspettatamente a farli fucilare. E cosa fece? Andò a sedersi nel salone del barbiere, che lo rase e lo incipriò. Visibilmente soddisfatto, il colonnello estrasse dalla tasca della sahariana una croce di ferro: era una decorazione guadagnata nell’Africa Korp di Rommel. Se l’appuntò con orgoglio sul petto, mostrandola ai viestani esterrefatti, che si lasciarono sfuggire un grido di ammirazione… 

Negli altri “quadri” strapaesani schizzati da Aliota, i Viestani diventano protagonisti di storie dal vago sapore pirandelliano. Come quella del titolare dell’unica armeria della città, il quale, dopo aver atteso per anni l’agognata pensione (la paga), il giorno fatidico non riesce a reggere l’emozione di cotanta grazia… Alla vista dei bigliettoni, contati uno a uno dal direttore dell’Ufficio postale, il suo cuore lo tradisce…

Storie particolari, e nello stesso tempo profondamente universali, quelle di Aliota, che restano impresse nella mente del lettore. Come quella di un pescatore, che paga lo scotto dell’invidia per una buona e inattesa pescata, il cui festeggiamento si trasforma quasi in una tragedia. 

Rapidi colpi di scena si alternano nei racconti, mai banali, mai scontati. Come la ruota della vita… 

M. ALIOTA, Strapaese. Le nostre storie, Leone Editrice, Foggia 2006.

©2006 Teresa Maria Rauzino.

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Le Feste dei Morti nel primo Novecento

Monte Sant’Angelo: campanile della chiesa di San Michele, fatto costruire da Carlo I d’Angiò (II metà XIII secolo).

Le antiche e suggestive tradizioni garganiche delle Feste dei Morti nel Gargano del Primo Novecento sono state documentate da Giovanni Tancredi e Angela Campanile. Tra gli “scherzetti” dei bimbi e (belle) preghiere...

Le feste dei Morti a Monte Sant’Angelo

Giovanni Tancredi, nel volume Folclore garganico, pubblicato nel 1938, dedica una bella pagina alla festa di Ognissanti e al giorno dei Morti. Esordisce dicendo che sulla sommità del Monte Gargano, tutta la natura sembrava partecipare all’evento.

Un sole smorto e le prime nebbie avvolgevano i monti e la città di Montesant’Angelo, mentre le foglie gialle e rossicce si staccavano dai tronchi e frusciavano sulla terra brulla ai primi soffi di vento gelido.

Un quadro d’insieme completato dal volo di uno stormo nero di cornacchie, che si alzavano pigramente e si disperdevano nell’aria, emettendo un rauco funebre grido.

Le donne del popolo “montanaro” il 1 novembre, giorno di Ognissanti, per devozione alle anime dei morti, lessavano nel latte delle piccole quantità di grano e granturco, condendone i chicchi con il vincotto di fichi.

La festa si connotava per l’attesa dei doni dei morti. Nella notte che precedeva il due novembre, i bambini di sette, otto anni appendevano una calza nella cappa del camino oppure dietro la porta dell’ uscio, le imposte dei balconi e delle finestre.

Credevano che i morti, tornati dall’oltretomba, dopo aver vagato qualche ora per il mondo, scoccata la mezzanotte, si sarebbero fermati anche nella loro casa per esaudire i loro segreti desideri.

La credenza era puntualmente confermata dai fatti. Durante la notte, effettivamente, la calzetta si riempiva di ogni ben di Dio: fichi secchi, castagne, noci, ceci arrostiti, mele, melacotogne, e talvolta anche di dolci e giocattoli.

I morti incutevano ai bambini un po’ di paura, specie prima addormentarsi, pur tuttavia la tetraggine del nome non impediva loro di addentare una mela, di sgranocchiare una cialda, di rompere una noce, anzi. Il senso di mistero accresceva il valore di quei doni.

La Festa dei Morti si connotava per il clima gioioso che i bambini creavano nelle vie del paese, bussando a piccoli gruppi, di porta in porta, alle case di parenti e amici. Non dicevano, come oggi: «Dolcetto o scherzetto», ma un perentorio «Damme l’anima dli murte», cui di solito si ribatteva: «e sott la cammise che purte» (e sotto la camicia che porti?). «Lu veddiche» (l’ombelico). «E crematine tlu diche» (te lo dirò domani mattina).

La festa veniva vissuta con partecipazione anche dagli adulti, specie i più poveri. Il due novembre, andavano questuando per le vie e in qualche casa signorile. I benestanti facevano loro distribuire il pane dei morti.

Un monaco, l’asceta Antonio Ricucci (soprannominato Infernale) quel giorno usciva con la bisaccia bianca ricolma di pane, per distribuirlo ai bisognosi che morivano di fame.

Tancredi ricorda che spesso i bambini, mai sazi delle inusuali leccornie, mettevano la calza anche la sera del due novembre, però quando il giorno seguente andavano a frugare vi trovavano soltanto cortecce di frutta, miste a carboni. Gli si faceva credere che i morti non amavano i piccoli troppo golosi.

Man mano che crescevano, i ragazzi più smaliziati perdevano il fascino «dla calezett» quando si accertavano che non erano i morti a visitare le case, ma i regali erano preparati dalla mamma, dal babbo, dai nonni; tuttavia si guardavano bene dal togliere ai fratellini minori la bella illusione in cui avevano creduto anch’essi, cercando di prolungarla il più possibile.

In effetti, i tempi erano magri, ma non vi era bambino che restasse deluso e senza regalo; tutti i genitori, anche i più poveri, avevano cura di far felici i loro piccoli.

Tancredi encomia il regime fascista, che ha introdotto la festa della Befana anche al Sud: «Prima ai nostri bambini ricchi e poveri non pensava la Befana, prodiga vecchierella dispensatrice di regali ai bimbi di altre regioni, nella notte del sei gennaio, ma erano le anime dei morti che nella notte ad essi destinata scendevano giù per i fumaiuoli e risalivano per la stessa via nera ed angusta. Ora ai nostri fanciulli poveri pensano molto provvidemente le Opere Assistenziali volute dal Duce».

Nella città dell’Arcangelo, anticamente, nel giorno dei morti, precisamente nella chiesa della SS. Trinità attigua all’ex convento delle Clarisse, veniva eretto uno scheletro umano dinanzi al quale la gente rimaneva atterrita, avvilita. Lo scheletro era posto a destra dell’entrata ed era uno spauracchio per tutti, specie per i bambini. «La classe predominante – conclude Tancredi – educava così il popolo che passava la vita preoccupato solo del futuro».

E a Peschici …

Nel volume Peschici nei ricordi (Grenzi 2000), Angela Campanile (ricercatrice del Centro Studi Martella) ci conferma questo aspetto “monitorio” della festa, vissuto in tutti i paesi del Gargano. Dal giorno di tutti i Santi fino al giorno 7 novembre, nella chiesa del Purgatorio si cantava la “Settena dei Morti”.

Era una preghiera che le anime dei morti innalzavano con mesti lamenti per farsi ascoltare dai vivi, affinché non smettessero mai di pregare per salvarle: «Siam alme purganti,/straziate sì forte/ch’è peggio di morte/il nostro penar. Immerse nel fuoco/ahi quanto soffriamo!/Soccorso cerchiamo./Aiuto, pietà!».

Le anime erano collocate nel Purgatorio, un carcere, un’oscura prigione, un mare di fuoco, dove l’arsura le bruciava. Soffrivano le pene dell’Inferno: «Oscura prigione/È nostra dimora / l’arsura tuttora / ci brucia quaggiù».

Ma i morti temevano soprattutto l’oblio e la dimenticanza: «Che pena crudele / l’oblio soffrir/ Che strazio sentire / del cielo l’amor!».

Le preghiere ed i suffragi da parte dei vivi servivano affinché le anime benedette del Purgatorio potessero “rinfrescarsi” («ci putèssine addifriscà»): «Amici spezzate/ le dure catene!/ Lenite le pene/ col vostro pregar!».

L’invocazione era poi rivolta alla Madonna: «O Madre di Grazie,/ deh, prega per noi!/ Salvaci, tu puoi, dal divo rigor!», e agli Angeli: «Alati Messaggeri/ dal Cielo scendeste/ le porte schiudeste/ di nostra prigion!».

Si scioglieva nella preghiera finale rivolta al «Cuore Sacratissimo di Gesù» affinché le accogliesse in cielo, dove insieme agli sfavillanti cori angelici, avrebbero cantato in suo onore degli inni di lode e di amore. Per l’eternità.

Infatti il Paradiso era davvero «una bella cosa» recitava un’altra preghiera di Peschici. Chi aveva la fortuna di arrivarci, dopo una vita di stenti e di duro lavoro, andava finalmente a godere il giusto premio:

«U paravèise / jè na bella càuse / Chi ci va / ci va a ripàuse».    

©2007 Teresa Maria Rauzino. L’articolo è stato pubblicato sul quotidiano «L’Attacco» dell’1 novembre 2007.

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Nel segno di Dio, Patria e Famiglia

Ritratto di Giuseppe Luigi Crucinio, artefice della «fabbrica del consenso» del fascismo in Capitanata

Giuseppe Luigi Crucinio

Marcello Ariano, dopo aver posto la sua attenzione su un leader del fascismo nazionale come Gaetano Postiglione, ci documenta la vicenda culturale e politica di un personaggio sconosciuto: Giuseppe Luigi Crucinio. Chi era e cosa fece di tanto particolare Crucinio, per meritarsi una biografia così articolata?

Nato nel 1891 a San Nicandro Garganico, in una famiglia piccolo-borghese, dopo aver superato nel 1910 l’esame di ammissione al Regio Ginnasio “Vincenzo Lanza” di Foggia, frequenta la Scuola Normale, conseguendo nel 1913 l’abilitazione all’insegnamento elementare. Vincitore di concorso, presta servizio nel capoluogo daunio. Diventa Capo dell’Ufficio Stampa e Propaganda del PNF e corrispondente di vari quotidiani locali, regionali e nazionali: «Fiammata», «Il Popolo nuovo, «la Gazzetta del Mezzogiorno», «Il Popolo d’Italia», «Il Corriere italiano», «Regime fascista», «L’Avvenire».

Crucinio aveva aderito al fascismo nel 1924. Aveva lasciato il Partito Popolare per dissenso verso la linea di don Sturzo, da lui ritenuta inadeguata a rappresentare politicamente i cattolici e ad integrarli pienamente nella vita nazionale.

Spirito eclettico (è pubblicista, poeta, scrittore, pittore), versatile e dinamico, promuove varie attività sociali: nel 1914 istituisce a San Nicandro un ricreatorio per 150 bambini, con attività musicali; nel 1918 a Foggia dà vita all’Università Popolare; si occupa dell’alfabetizzazione e del recupero dei detenuti. Ma è su «Il Popolo nuovo» che Crucinio estrinseca la sua “mission” di divulgazione del credo cattolico/fascista.

Il settimanale è “utilizzato” dal suo fondatore e direttore Gaetano Postiglione per coagulare e gestire il consenso, con il sostegno della migliore intellighenzia di Capitanata. Gli intellettuali, ma anche i numerosi tecnici che vi scrivono, collaborano in veste di protagonisti al processo di “modernizzazione” della provincia, aderendo in pieno al ruolo strategico che Mussolini aveva assegnato alla stampa: diventare la forza viva al servizio del regime.

Quando Postiglione morirà, nel dicembre 1935, a Crucinio e agli altri intellettuali verrà a mancare un importante referente politico; la immediata chiusura del giornale li priverà di uno strumento di intervento attivo nella vita locale. Crucinio sparirà gradualmente di scena, a causa di una grave malattia: nel 1939 viene colpito da tubercolosi; la morte lo coglie il 1° dicembre 1942 all’ospedale Forlanini di Roma «nell’esilio tormentoso, senza speranza di guarire mai».

LA FUNZIONE “SACERDOTALE” DI CRUCINIO

Parecchi storiografi stanno analizzando le modalità, i meccanismi, con cui il fascismo utilizzò, consapevolmente, tutti i mezzi massmediali atti a convertire, conquistare e plasmare la coscienza morale e i costumi degli Italiani. Per la catechizzazione collettiva si avvalse di un composito drappello di veri e propri attivisti culturali, presenti nelle diverse realtà del paese. 

Crucinio fu uno di costoro: svolse la funzione di mediatore culturale tra società e regime, con una differenza rispetto agli altri intellettuali foggiani: egli rese manifesto, disvelò i caratteri “religiosi” del Littorio. In Capitanata egli svolse, con perfetta valenza, una funzione quasi sacerdotale in quella che Cannistraro definì la «fabbrica del consenso» fascista.

Nella produzione pittorica di Crucinio figurano opere che traggono ispirazione dall’universo simbolico/religioso fascista. Nel suo emblematico «Leve fasciste», egli rielaborò un rito di passaggio simile alla Cresima: «Le giovani leve fasciste vengono consacrate e fascisticamente diventano membri del partito». Questa cerimonia pubblica si svolgeva contemporaneamente in tutte le città del Regno d’Italia, e nella forma più solenne a Roma, alla presenza del duce Benito Mussolini.

Ne «La Casa del fascio del villaggio rurale La Serpe», Crucinio esprime una simbologia quasi religiosa: nella cultura littoria, le Case del fascio rappresentano le chiese della fede fascista. L’artista prende spunto dai fatti concreti del regime: le realizzazioni urbanistico-sociali che erano sotto gli occhi di tutti. Ne «Le Case povere» rappresenta l’ultimo residuo della Foggia destinata a sparire, i quartieri malsani del capoluogo daunio al centro degli interventi di risanamento dell’amministrazione podestarile.

Il fascismo è evocato come «movimento costruttore guidato dal Duce che sta conducendo l’Italia alla suprema grandezza»: gli interventi “modernizzatori” trovano riferimento nella «Fontana del Mercato», la politica sociale del fascismo è rappresentata dalle case popolari di Foggia, la Bonifica del Tavoliere è visualizzata, e non a caso, in un borgo rurale.

Per rendere più efficace quest’ultimo messaggio, Crucinio contestualizza Mussolini nell’ambiente pugliese: egli diventa il “Duce agricoltore”, reggente un fascio di spighe della terra di Capitanata.

Secondo il giudizio di Marcello Ariano, Crucinio fu l’interprete ideale della cultualità fascista, nel segno di Dio, Patria e Famiglia. Un leit motiv estremamente caro alla retorica di regime dopo la firma dei Patti Lateranensi che sanciranno l’allineamento definitivo dell’intellighenzia cattolica a quelli che erano i miti e gli ideali littori.

Crucinio, fin dai primi anni dell’avvento del fascismo, aveva fatto una precisa scelta di campo: non volle appartenere alla schiera degli ignavi che «vissero senza infamia e senza lode». Come altri intellettuali di Capitanata, da Alfredo e Silvio Petrucci a Giovanni Tancredi (per citare solo i garganici) egli parteciperà alla scommessa generazionale del fascismo di creare la ‘”nuova Italia” fatta di idee, di credenze, e forse anche di accattivanti suggestioni.

Ma le sue furono soprattutto motivazioni politiche ed ideali, impregnate di un forte sentimento religioso: profondamente cattolico, è attratto dal fascismo perché vede in esso la categoria culturale capace di affermare la dimensione spirituale della politica. Questa scelta fu confermata con consapevolezza e con coerenza nella prassi della sua vita. La militanza laica nel Terz’ordine Francescano gli ispirò spesso temi religiosi a sfondo sociale.

La valorizzazione del ruolo dei Padri Giuseppini del Murialdo a Foggia; gli articoli dedicati ad altri ordini religiosi come le Suore Marcelline, attestano la funzione di raccordo svolta da Crucinio fra i settori del mondo cattolico foggiano e il fascismo locale.

La dirigenza fascista che faceva capo a Postiglione mostrò una forte disponibilità all’ascolto della voce e del punto di vista degli ambienti cattolici moderati: questo interesse si manifestò proprio nel grande spazio riservato agli articoli di Crucinio sulle colonne de «Il Popolo Nuovo».

LA SCUOLA FASCISTA

Crucinio incarnò in modo perfetto il ruolo assegnato dal regime fascista agli insegnanti, una categoria sociale e professionale cardine per produrre consenso e per allargare lo spazio del controllo politico: in primis i maestri elementari furono investiti di una “missione”, di un ruolo delicato e oneroso nel processo di formazione: toccò loro alfabetizzare e inculcare il credo fascista alle nuove generazioni.

Il mondo della scuola è uno degli interlocutori privilegiati di Mussolini: gli insegnanti di ogni ordine e grado assursero al ruolo di protagonisti all’interno della società fascista. Il Duce, forse perché anche lui era stato maestro elementare, affermò e sostenne l’autorevolezza dei docenti, la loro insostituibile funzione guida nell’Italia che il Littorio voleva trasformare.

Secondo il suo pensiero, la scuola doveva uscire fuori dal limbo della apoliticità: non doveva solo limitarsi a strappare all’analfabetismo le masse popolari italiane (anche se su questo fronte i risultati furono tangibili, rispetto ai precedenti governi liberali); doveva assumersi l’arduo e delicato compito di “forgiare” la personalità dei giovani, inculcando in loro il nuovo spirito sociale.

Gli insegnanti saranno tutti mobilitati in questo capillare lavoro di indottrinamento: compito della Scuola di ogni ordine e grado sarà di creare il “nuovo Italiano”: ecco perché essa mobilitano i suoi insegnanti più validi nel supporto culturale alle organizzazioni giovanili, in primis l’Opera Nazionale Balilla (ONB).

Con continui appelli e circolari ministeriali, il fascismo si rivolge ai dirigenti scolastici e agli insegnanti, sollecitandone l’impegno a favore delle iniziative e attività del regime, per la battaglia del grano, perché la marcia su Roma sia commemorata nelle scuole, perché si adoperino a convincere gli alunni a iscriversi all’ONB e a contribuire alle sottoscrizioni indette dal PNF.

Ai docenti più preparati vengono affidati i compiti celebrativi in occasione di cerimonie legate all’epopea fascista e ai fasti imperiali. La scuola diventa il canale di trasmissione della cultura nazional-religiosa del Regime: il culto dello Stato, la glorificazione della grande guerra, l’esaltazione della patria, identificata col fascismo, e tutto il patrimonio simbolico dell’ideologia con i suoi riti e le sue cerimonie, rientrano nel corpus pedagogico, unificante i vari gradi dell’istruzione. 

LA PAROLA CHE SUSCITA EMOZIONI

Mussolini aveva confidato a Ludwing: «La potenza della parola ha un valore inestimabile per chi governa. Occorre solo variarla continuamente». È indubbio che lo seppe fare. Fin troppo bene. Il fascismo usò le parole come strumenti atti a suscitare emozioni (la definizione è di Roberto Vivarelli). Nel suo piccolo, questa arte della parola Crucinio la conobbe bene e la utilizzò consapevolmente. La sua pubblicistica si avvale di tecniche diverse e viene calibrata secondo la situazione. I suoi poliedrici contatti gli avevano dato “il polso” di quella che era la reale società foggiana e dei vari target che la componevano.

Illuminante è il suo distinguo tra conferenza e propaganda: «La conferenza è adatta alle menti colte; ma accanto ai ceti benestanti e professionali vivono gli operai, i contadini: gente di diversa cultura, verso cui la comunicazione va assolutamente mediata. Qui occorre la propaganda spicciola, metodica, continua, scevra di fronzoli, di fregi, occorre la parola buona, chiara, comprensibile, incitatrice. Non la cattedra, ma la lezione alla buona, che metta in condizione i lavoratori di poter comprendere e seguire il fascismo, in tutte le sue molteplici e dinamiche manifestazioni».

Le masse vanno quindi integrate al regime ponendosi al loro livello, ma le parole vanno sapientemente dosate in un climax che porti il destinatario del messaggio ad abbracciare fideisticamente il credo fascista.

Interessante, a questo proposito, l’analisi lessicale che Ariano fa della cronaca del 28 ottobre 1934, anniversario della Marcia su Roma, pubblicata da Crucinio su «Il Popolo Nuovo»del giorno successivo. Il periodare del cronista è dosato in un crescendo di aggettivi che da “sacro, epico, eroico, glorioso, indomito, fatidico, vibrante” culminano in “supremo”. Per tornare, aggiungiamo noi, al punto di partenza con l’aggettivo “religioso”.

Ritroviamo i leit motiv cari al repertorio civile e valoriale littorio: l’identificazione della patria con il fascismo, il tema della giovinezza, la glorificazione della vittoria, l’immancabile appello ai Caduti, il mito del Duce, esaltato dall’utilizzo di un potente e moderno strumento di penetrazione mediatica qual è la radio, che trasmette il discorso di Mussolini. 

È un esempio di quel nuovo linguaggio fascista che Marcello Ariano analizza come nota a margine, a conclusione della biografia su Crucinio: «Verso questo linguaggio – sottolinea – non ci si può porre con la mentalità ed i parametri lessicali odierni, né archiviarlo come d’epoca. Il linguaggio fascista ha tutti i crismi di un vero e proprio linguaggio: ha i suoi codici semantici, i suoi moduli espressivi, la riconoscibilità, la tradizione, il riferimento a comportamenti condivisi. Andrebbe studiato senza pregiudizi, nella sua globalità e inquadrandolo in una prospettiva storica» . 

Marcello Ariano lo ha fatto nel suo libro, confermandosi valido storiografo di un periodo, il Ventennio fascista, ancora tutto da indagare, specie in Capitanata.

   
    
MARCELLO ARIANO, Giuseppe Luigi Crucinio. Nel segno di Dio, Patria e famiglia, Edizioni del Rosone, Foggia 2002.

©2006 Teresa Maria Rauzino.

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Microstorie

Le opere scelte di Francesco Gentile

Fresco di stampa il nuovo volume contemplato nella collana editoriale Spicilegio della raccolta dei Quaderni del Centro Distrettuale CRSEC FG/32 a cura di Daniela Mammana, responsabile di tale Centro.

In questo lavoro la curatrice ha voluto raccogliere alcuni scritti dell’intellettuale Francesco Gentile con «l’intento […] di restituire visibilità storica all’opera e alla figura di questo vivace intellettuale pugliese, nato ad Ascoli Satriano, ma vissuto a Foggia già dal primo decennio del secolo scorso, dove svolse la sua attività di critico d’arte, conferenziere, pubblicista e protagonista della “terza pagina” dei periodici locali partecipando intensamente ai fermenti politici e culturali degli anni suoi e dando vita a numerosi studi, prevalentemente a carattere storico-artistico. […]».

Con queste parole Daniela Mammana spiega, nella sua Presentazione, la metodologia della ricerca che, in questo caso, si avvale oltre che delle notizie attinte da fonti dirette, lasciate dal personaggio oggetto dello studio, anche dalle testimonianze dei suoi discendenti, e qui entrano in campo la nipote, Paola Gentile ed i suoi cugini, Giuseppe e Silvana, che hanno contribuito, con i loro ricordi, alla ricostruzione dell’aspetto umano dell’intellettuale pugliese.

Nella sua carriera Francesco Gentile si occupò di vari argomenti a carattere storico e sociale che in questo lavoro vengono evidenziati attraverso alcuni scritti che meglio denotano le sue doti professionali, la vastità di interessi e l’impegno socio-culturale.

La poesia dei ruderi, frutto di una relazione preparata per una conferenza, evidenzia il concetto di restauro innovativo rispetto a ciò che fino ad allora veniva propinato. Nei paragrafi dedicati alla descrizione della cattedrale e del palazzo imperiale di Foggia nonché del castello di Lucera, Francesco Gentile traccia un quadro storico-artistico delle tre costruzioni criticando aspramente i rifacimenti eseguiti senza il rispetto delle architetture originarie.

Profili di artisti, anche questi scritti sono frutto di una serie di articoli e conferenze con lo scopo di porre in luce la poliedricità degli artisti foggiani dei quali già da qualche tempo l’opinione pubblica non teneva più conto. Così l’Autore “rispolva” personaggi del calibro di Bartolomeo da Foggia e di suo figlio Nicola che gran lustro diedero alla città con le loro pregevoli opere; di Gualtiero da Foggia, personaggio contemporaneo di Nicola, scultore altrettanto affermato; di Domenico Caldara pittore di chiara fama che con Saverio Altamura e Nicola Parisi si distinse per le maestose opere pittoriche tanto che la sua fama giunse fino ai Borbone, e nella capitale, per un periodo, fu anche pittore di corte. A tale riguardo, celebre fu la sua fama quando eseguì il dipinto dal titolo Gli ultimi momenti di Ferdinando II.

L’Autore, inoltre, non manca di tratteggiare anche i profili di Vincenzo Acquaviva, Vincenzo Dattoli, Giuseppe Fania e Saverio Pollice. Le interessanti dissertazioni sul santuario dell’Incoronata di Foggia e sul culto della Madonna Iconavetere della stessa città completano il testo.  

Il volume è altresì corredato dalla riproduzione di numerose immagini d’epoca tratte da opere letterarie coeve e da documenti originali che fanno di questa pregevole raccolta un esemplare utilissimo per la divulgazione e la conoscenza della storia del capoluogo daunio e non solo.

Raccontare in questi scritti scelti la vita e le opere di questo personaggio, protagonista indiscusso del suo tempo, esempio di una cultura sempre attuale e mai desueta, che troverà in Carlo, suo figlio, la massima espressione filosofica e scientifica, di una mente eccelsa maestra di vita, è sata un’iniziativa encomiabile da parte della curatrice del volume, meritevole di ogni apprezzamento positivo, poiché questo lavoro contribuisce all’arricchimento del nostro patrimonio storico-artistico e rappresenta un tassello in più da collocare tra le opere letterarie della nostra bella terra.

    
      

©2007 Lucia Lopriore. Le immagini di questa pagina sono tratte dal volume citato.

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Microstorie

Aristocratici Napoletani tra Capitanata e Valle d’Itria: i Duchi di Sangro

Presentato da Gloria Fazia e Mimmo Di Conza al Museo Civico di Foggia il nuovo libro di Lucia Lopriore, frutto di un impegnativo lavoro storiografico. È seguita una proiezione multimediale a cura dell’Autrice.

La copertina del libro.

L’acquisto del feudo di Orta di Capitanata, attuale Orta Nova (FG), evidenzia l’intreccio indissolubile che congiunge sempre microstoria e macrostoria. Con tale acquisto fu concesso al duca de’ Sangro il giuspatronato sulle chiese di Santa Maria delle Grazie e di Santa Caterina, ad essa annessa. Tale diritto vincolava il nobile casato a provvedere a tutte le esigenze di culto richiesti dal vescovo di Ascoli Satriano: oltre agli arredi sacri, il Duca dovette donare una bella campana.

La curiosità storiografica di Lucia Lopriore, autrice del volume Aristocratici Napoletani tra Capitanata e Valle d’Itria: i Duchi de Sangro, Edizioni del Rosone, Foggia), è nata proprio dalla visione/ricognizione di questa campana quando, notando che era marcata dallo stemma araldico dei de’ Sangro, scoprì che il prestigioso casato era stato legato, sia pure per un breve periodo, alla sua città natale.

Di sicuro interesse storico si rivela il suo accurato studio svolto sulla linea dei duchi di Sangro per l’intreccio delle strategie sociali, familiari, politiche e culturali che la famiglia adottò per sostenere il proprio status sociale. La partecipazione attiva dei suoi componenti alla vita politica nazionale ed internazionale e la celebrazione dei matrimoni, volta all’espansione dell’asse patrimoniale, pone in luce aspetti che rendono bene l’idea del modo in cui si svolgeva l’intricata strategia per garantirsi il massimo potere.

Nel corso della ricerca archivistica e della ricognizione sul campo, che l’hanno portata a ripercorrere tra Puglia e Campania i luoghi dei De Sangro, la Lopriore si è resa conto che la letteratura specializzata forniva notizie solo sui rami principali del casato: sui duchi di Vietri, di Torremaggiore, sui principi di San Severo, di Fondi, solo per citarne alcuni. Nessuno degli storici accreditati aveva mai esaminato attentamente la linea cadetta dei duchi di Sangro, quella dei marchesi di San Lucido. Le loro res gestae erano praticamente sconosciute.

Assenza di notizie dovuta al fatto che in passato l’asse ereditario nobiliare negli Stati europei era basato sulla legge del maggiorasco; difficilmente i genealogisti accreditati studiavano i rami ultrogeniti, relegati ad un ruolo marginale. Da qui l’approfondimento volto a soddisfare le curiosità dell’Autrice, ma soprattutto a fornire notizie preziose agli studiosi e ai lettori desiderosi di conoscere la storia di questo ramo dei de Sangro.

Un lavoro, quello della Lopriore, che ha richiesto un notevole impegno per le innumerevoli difficoltà incontrate in sette lungi anni di ricerca. Ma mai, come in questo caso, “andar per archivi” è stato così produttivo, oltre che entusiasmante. L’importanza degli archivi, lo sappiamo bene, è data proprio dalla possibilità di rinvenire tra le tante carte, spesso nemmeno inventariate, fonti essenziali per la ricostruzione del passato altrimenti condannato all’oblio. Per riportarlo alla ribalta della storia.

Per questo lavoro, ricordiamo che l’Autrice ha analizzato una notevole mole di documenti custoditi negli archivi di varie città; numerosi, quindi, sono stati gli spostamenti ed i contatti avuti con istituzioni di tutta Italia: a Napoli (Archivio di Stato, Biblioteca Nazionale, Archivio Storico del Banco di Napoli – Fondazione, Museo Duca di Martina, Soprintendenza Speciale per il Polo Museale Napoletano, Museo Civico ” Filangieri ” (peraltro chiuso al pubblico per restauri); a Roma (Archivio Centrale dello Stato); a San Basilio – Mottola (TA) (Hotel Casa Isabella); ad Ascoli Satriano (Archivio Storico della Curia Vescovile); a Martina Franca (Biblioteca Comunale “Isidoro Chirulli”e Archivio del Gruppo Umanesimo della Pietra).

Qui, grazie alla consultazione dell’archivio privato, di dipinti, foto ed altro materiale appartenente alla famiglia de’ Sangro, e donati alle due istituzioni citate dagli eredi, l’Autrice ha potuto ricostruire anche le più significative vicende riguardanti la famiglia in Valle d’Itria.

La ricerca ha dato esiti importanti, portando la Lopriore ad approfondire via via la storia araldica del nobile casato, dalle origini fino ai nostri giorni. Non diversa da quella degli altri nobili fu infatti la vita sociale dei duchi de’ Sangro, discendenti dai Marchesi di San Lucido.

Con qualche sprazzo di notorietà, che li portò alla ribalta della storia moderna e contemporanea.

Don Nicola de’ Sangro ebbe un ruolo determinante nel 1795 in relazione alle vicende storiche ed economiche della Capitanata, ossia quando acquistò il feudo allodiale di Orta. Il possesso cessò con l’entrata in vigore della legge del 21 maggio 1806. I suoi successori si distinsero per le loro gesta eroiche; suo figlio Riccardo, terzo duca di Sangro sposò Maria Argentina Caracciolo, che ereditò il titolo di duchessa di Martina Franca dopo l’avvenuto decesso della madre, Francesca del Giudice Caracciolo. Il nome di Riccardo  è legato ad una rapida carriera militare.

Il sovrano, dopo la Restaurazione, per dimostrargli riconoscenza per la sua fedeltà, promosse Riccardo tenente colonnello del primo reggimento Lancieri. Riconoscimenti gli furono conferiti nel 1843 con l’investitura di cavaliere dell’Ordine di San Gennaro. Ferdinando II, che lo volle al suo fianco nel maggio del 1848 durante la campagna nello Stato Pontificio, il 15 giugno 1849 lo promosse Generale.

Nel 1855 Riccardo de’ Sangro fu nominato maresciallo di campo ed aiutante del re ed ebbe il comando della divisione di cavalleria leggera e delle Guardie d’Onore; nel maggio del 1859, durante gli ultimi giorni di vita del re Ferdinando II, egli fu il suo più assiduo assistente. Confermato in tutte le sue cariche dal nuovo re Francesco II, lo seguì a Gaeta, imbarcandosi con lui il 6 settembre 1860 sulla nave Saetta. L’8 ottobre 1860, per premiare il suo fedele attaccamento, il giovane sovrano lo promosse Tenente Generale. Nel castello di Gaeta, assediato dalle truppe piemontesi, contrasse il tifo, ma salì agli onori della cronaca con il titolo di difensore di Gaeta.

Durante il secondo conflitto mondiale, il suo omonimo Riccardo de’ Sangro diede alloggio nella sua villa di Ravello a Vittorio Emanuele III e alla regina Elena. Nel dopoguerra, insieme ad alcuni membri dell’aristocrazia napoletana, tra cui la nipote Maruska Monticelli Obizzi di Sangro, figlia della sorella Isabella, egli contribuì alla ricostruzione del patrimonio artistico del Museo Filangieri danneggiato dalla guerra.

Nel 1978 un altro  Riccardo, seguendo l’esempio dello zio, donò al Museo Duca di Martina di Napoli quel che restava della collezione di ceramiche ed altri oggetti in suo possesso, appartenuti a Don Placido de’Sangro, duca di Martina, integrando, così, la pregevole e cospicua collezione dell’antenato.

Oggi la linea maschile dei duchi de’ Sangro è estinta. Prosegue in quella femminile, rappresentata attualmente dai pronipoti di Riccardo, i nobili Notarbartolo e Parisi Avarna.  

RAIMONDO, IL PRINCIPE DI SANGRO PIÙ FAMOSO 
Il più noto esponente della linea primogeniturale di questa illustre casata, che senza dubbio lasciò un ricordo indelebile, fu Raimondo de Sangro, principe di San Severo. Esimio letterato, esperto nelle arti e nelle scienze, si distinse per la sua perizia nel progettare e dirigere opere di architettura militare e fu tenuto in gran conto dai regnanti d’Europa.
La cappella del principe, intitolata a Santa Maria della Pietà, fu decorata con colori preparati dallo stesso Raimondo, che nel 1753 fece scolpire dal Sanmartino il “Cristo velato” che rese celebre la cappella in tutta l’Europa. Il procedimento per marmorizzare il velo del “Cristo” e la rete che ricopre la statua del “Disinganno”, collocati nella cappella, fu opera di Raimondo il quale, grazie a un complesso procedimento chimico, riuscì ad ottenere su queste opere gli effetti ottici di particolare suggestione.
Nel succorpo della cappella sono tuttora custodite le famose macchine anatomiche che nel 1764 Raimondo fece costruire dall’anatomopatologo Giuseppe Salerno, utilizzando scheletri umani autentici con spago, cera e filo di ferro per ricostruire il sistema circolatorio, da mostrare ai medici dell’Ospedale degli Incurabili affinché non incorressero in  errori dovuti alla loro scarsa conoscenza dell’anatomia.Molti altri furono i successi di Raimondo de’Sangro in campo alchimistico e scientifico: inventò particolari tipi di inchiostro indelebile (utilizzati poi nella sua stamperia) e complessi sistemi per la costruzione di un teatro pirotecnico. Praticò l’esoterismo e fu anche in grado di predire la propria dipartita.
Negli anni compresi tra il 1750 ed il 1759, Raimondo si lasciò convincere da Guglielmo Moncada a far parte della massoneria, vi entrò nel giugno 1750 e fu riconosciuto “gran maestro”; fu lui a suddividere i massoni partenopei nelle distinte logge “di Sangro”, costituita da nobili e “Moncada”, composta da borghesi e commercianti. Avversato dai Gesuiti, dopo alterne vicende, Raimondo decise di lasciare la massoneria, ma i confratelli lo accusarono di aver rivelato la loro identità al sovrano. Ingiustamente.   

©2008 Teresa Maria Rauzino

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Microstorie

Gli Eccitati viciensi

L’unica Accademia illuminista di Capitanata del XVIII secolo non è più l’araba fenice.

A metà Settecento, all’interno delle Accademie illuministe europee, notiamo una maggiore attenzione alla “felicità” dei popoli: il sapere viene finalizzato alla “pubblica utilità”, le conoscenze diventano spendibili nella realtà territoriale in cui si vive, affinché gli abitanti di quel territorio stiano meglio, migliorino la loro qualità di vita. Gli intellettuali sono quindi meno eruditi, meno enciclopedici, selezionano gli argomenti di studio. Il loro sapere non è più fine a se stesso. Essi vogliono indicare una strada, tendono a porsi come riformisti, legislatori della società, indicando soluzioni più razionali rispetto al passato. Vogliono soprattutto cambiare la mentalità degli uomini del loro tempo.

Questi intellettuali vissero non solo in Europa ed in Italia, ma anche in mezzo a noi.

Tra il 1730 ed il 1750, il mondo meridionale viene attraversato da idee originali, che non soffrono di gallomania, nel senso che l’elaborazione è autonoma rispetto alla cultura dei lumi francese. Anche Vico del Gargano, un centro minore del Regno borbonico, sa aprirsi a stimoli provenienti da Napoli e da più lontane realtà culturali. Qui gli illuministi si riuniscono nell’Accademia degli Eccitati viciensi, fondata il 3 maggio 1759 nella Chiesa extramoenia di S. Maria del Refugio (oggi detta del Purgatorio).

Vico del Gargano, la chiesa di S. Maria del Refugio (oggi del Purgatorio). Interno: navata principale

È l’unico sodalizio illuminista di Capitanata di cui oggi si abbiano fonti documentarie. Fonti custodite da Isabella Damiani (erede dell’archivio della famiglia Mattei-Della Bella) e pubblicate da Filippo Fiorentino nel volume L’Accademia degli eccitati viciensi (Edizioni del Rosone, Foggia, 2003. pp. 129). Manoscritti rincorsi e strenuamente ricercati dallo storico vichese per tutta una vita. Gli Eccitati furono il tema della prima “ricerca” assegnatagli alle scuole elementari dal suo maestro.

Di quei manoscritti, nei lunghi pomeriggi di conversazione, gli aveva parlato un altro studioso, Giuseppe d’Addetta, il quale si rammaricava di non averli mai potuto rintracciare. Queste carte erano “memoria smarrita”: l’unica traccia era contenuta in un breve transunto, citato nelle Memorie del notaio Vincenzo de Ambrosio.

Nel 2002, finalmente, Isabella Damiani mostrò i manoscritti originali a Fiorentino, facendogli «scoprire d’incanto la lunga traversata del linguaggio, radicato nella vita di esseri umani, che in quegli scritti testimoniavano di aver agito, sofferto, comunicato forti emozioni. L’unica Accademia di Capitanata del XVIII secolo non era più l’araba fenice!».

La pubblicazione di questo autentico “oro del Gargano” letterario doveva essere la pietra miliare per il rilancio delle istituzioni culturali del Gargano, nel «segno della più corale intellettualità agita a Vico». L’intento di Fiorentino era di riattualizzare le finalità degli Eccitati viciensi nella realtà del terzo millennio: un sogno interrotto dalla sua prematura scomparsa.

Vico del Gargano, la chiesa di S. Maria del Refugio (oggi del Purgatorio), Particolare

LE FINALITÀ DEL SODALIZIO

Il termine “Eccitati” richiama le diverse accademie omonime operanti sin dal ‘600 in Italia, porta nell’etimo il significato di eccitare, che vuol dire svegliare, stimolare, sollecitare i sensi e la mente ad uscire dal letargo dell’oscurantismo e del dogmatismo. I promotori sono «alcuni cittadini amanti dello studio letterario che vogliono accendere gli animi dei giovani all’amore per le scienze, per incoraggirli, ed aiutarli al proseguimento de’ Studi».

Per protettrice, gli Eccitati scelgono la Vergine dei Sette Dolori, ma il loro simbolo è Pallade Atena che scuote dal sonno un uomo, presentandogli un libro. Gli eccitati guardano la realtà con occhi nuovi, guidati dal lume della ragione.

«Il loro statuto – afferma Fiorentino – è uno specchio dell’io che non vuole essere colonizzato dalla rassegnazione e si propone di migliorare l’altro, uno sforzo che andrà ben oltre lo spazio temporale di vita dell’Accademia (…).Voler sagomare l’uomo nuovo nel tessuto della società garganica costituisce la proposta pedagogica più rilevante (…)».

Il settimanale appuntamento prende avvio il 3 maggio 1759. Gli Accademici escludono le “chimeriche fanfaluche” dal loro orizzonte culturale. Sono lontani dagli intenti ludici dell’Accademia arcadica degli Oziosi (1611), dove i soci erano obbligati a parlare sempre in versi e che trasgrediva pagava pegno, offrendo gelati e confetture. Incitano i giovani a camminare per il sentiero della virtù, le dissertazioni possono spaziare su varie materie (fisica, morale, giuridica, storica, politica).

Argomenti utili alla società come quelli dell’Accademia Palatina di Medina Coeli o quella degli Investiganti, attiva a Napoli fra la fine del Seicento e i primi decenni del Settecento. Non mancano richiami all’Accademia delle Scienze, fondata da Celestino Galiani, un garganico operante presso l’Università di Napoli. I soci del sodalizio di Vico non nascondono di sentirsi in contrasto con la propria età. Il loro obiettivo è quello di alimentare un vivaio per la rigenerazione della comunità, l’intento è di formare una classe dirigente in grado di affrontare i mutamenti in un’epoca di transizione.

Sabato primo dicembre 1759 le regole dell’Accademia, le cariche e la formula del diploma sono lette e approvate all’unanimità. Tra i 18 soci fondatori, la maggior parte appartiene al clero secolare, solo un piccolo gruppetto appartiene all’ordine “mezzano” dei professionisti (avvocati e dottori fisici). Non tutti sono di Vico. Vi sono due “lettori” cappuccini: Padre Amadeo proviene dal convento da Rodi e Padre Santi da quello di Monte Sant’Angelo; vi sono poi Giuseppe Giordano, studioso di Legge, di Lucera; Ignazio Ruggiero, avvocato di Rodi; il signor Ubaldo Andreatini, di Pesaro, Razionale della Casa Di Tarsia (cioè degli Spinelli, feudatari di Vico), e Domenico de Muti, dottore fisico docente presso la Regia Università di Napoli.

Ogni eccitato si fa chiamare con «un anagramma o purissimo, o puro, o almeno impuro del proprio nome e cognome»: ritroviamo Tirsi Pinifero (Pietro de Finis); Arcadio Clorimene (Domenico Arcaroli); Zenone Tunicco (Vincenzo del Conte); Amantio Schigi (Giacinto Mascis); Serpillo Amante (Pietro Masella); Artemio Palles (Pietro Masella); Lacedomio Gentilini (Michelantonio Cilenti; Laudatore Benandi (Ubaldo Andreatini), Alcide Lalimbelli (Michele della Bella), Nicomaco Errialdo (Angiolo Domenico Arcaroli), etc.

L’otium letterario degli Eccitati è praticabile soltanto dopo che l’aspirante socio abbia compiuto i 21 anni. I novizi, una volta riconosciuti abili, dopo il praticantato di un anno, possono ricopiare le composizioni da raccogliere in un volume. Spetta a loro comporre le liriche che chiudono le dissertazioni. All’Accademia potranno dare decoro anche i soci onorari, soggetti che elevano la caratura del sodalizio con il loro nome prestigioso.

Durante le dissertazioni sono ammessi gli uditori, oltre ai soci. Sarà il cerimoniere ad assegnare «ai più degni il luogo più degno». Agli altri, il posto sarà assegnato a seconda della loro professione, età, mestiere.

GLI ECCITAMENTI

Le dissertazioni dovranno essere chiare, utili ed amene, cioè piacevoli. L’avvertenza è che il discorso non superi la soglia dell’attenzione fissata al massimo in un’ora e che trovi “alati commenti in versi”. «Poesia necessaria contro l’essiccamento della mente – commenta Fiorentino – Ritagli di scrittura poetica aggrappati senza mediazione alle dissertazioni».

Interessanti appaiono certe intuizioni di tecniche di comunicazione mediatica. Per motivare il pubblico a ripresentarsi di sabato in sabato all’appuntamento settimanale, ogni relatore alla fine del suo discorso annuncia l’oggetto della prossima dissertazione. La conferenza diventa simile «a un moderno palinsesto mediatico che restituisce alla cittadinanza una fiammata sempre nuova e rischiarante per veicolare le idee».

I componimenti più riusciti trovano ispirazione nella devozione della Vergine Maria del Refugio: il giovedì santo, per ricordare i suoi “sette dolori” oppure il due luglio o il quindici agosto «per celebrarla piena di grazie, e ricolma di gloria in cielo». L’ispirazione “scorre intensa tra le rive della poesia” quando la ricorrenza mariana raccoglie più gente nella chiesa del Purgatorio e l’ampia navata diventa luogo dell’accademica adunanza, quando commosse vibrazioni di pensiero vengono esternate con lo sfondo del parato festivo, con le “frasche” in rame dorato sbalzato, carte-gloria e il paliotto dell’altare maggiore in lampasso di seta o in damasco rosa ricamato.

Le date del 27 marzo 1760 e del 2 luglio, rispettivamente Giovedì di passione e Madonna delle Grazie, ci restituiscono l’acutezza e il bagliore di intelligenze di questi uomini che hanno composto una corona di 16 sonetti “di una dolcezza disarmata”, dedicati alla Madonna dei sette dolori. Potremmo definirli un originalissimo “Planctus Mariae”. Una tradizione viva ancora oggi. Nei riti della settimana santa, le donne del Sud, eseguendo il planctus, sanno trovare le parole, i suoni e i gesti per svolgere il loro personale “lavoro del dolore”. Lamentano la perdita del Cristo che rappresenta simbolicamente le proprie perdite.

I testi superstiti delle altre “dissertazioni” degli Eccitati viciensi ormai hanno perso l’originaria sequenza, ma è possibile riordinarli, tenendo presente le date. In bilico tra il nuovo indirizzo storico-giurisdizionale di matrice giannoniana, l’illuminismo e le tradizioni letterarie dell’Arcadia, gli “eccitamenti” vanno dai pregi della lingua toscana, all’origine della moneta segnata e non segnata.

Ma vi sono anche dei temi che proiettano gli eccitati viciensi in ambito mondiale, in una società aperta, interculturale. Ad esempio, la dissertazione sul culto politico di Confucio, trattato da Serpillo Amante (Pietro de Finis, diacono e professore di teologia) testimonia l’interesse per la lingua e la scrittura cinese, che aveva portato Papa Clemente XII, nel 1732, ad istituire a Napoli il Collegio dei Cinesi, l’attuale Istituto Universitario Orientale. L’intento era quello di formare missionari che propagassero il cattolicesimo in Cina, ma anche di formare interpreti in grado di agevolare i rapporti commerciali con i paesi dell’estremo Oriente.

Innovazione, quella degli Eccitati, non disgiunta dalla tradizione, che si pone in continuità con il passato, il solo in grado di offrire una prospettiva, di imprimere una rotta e di orientare verso nuovi mondi possibili. Una visione che coinvolge sì la ragione, ma che non disdegna il contributo della fede, la sola in grado di superare la precarietà della vita.

CHI RACCOGLIERA’ IL TESTIMONE?

Attiva per breve tempo, c’è da chiedersi quale incidenza l’Accademia degli Eccitati abbia avuto a Vico. Volse in beneficio comune quei lumi che ciascun socio aveva acquisito nel suo studio privato? L’incidenza fu minima nell’immediato, non riuscì a penetrare la ruvida corteccia della gente comune raccolta nel fitto tessuto di case- botteghe, di sottani, radicata agli aromi di palmenti, di sotterranei trappeti e di centimoli.  

Ma a Vico, Domenico Arcaroli, che diventerà poi vescovo di Vieste, e gli Eccitati che lo coadiuvarono, interpretarono degnamente il riformismo illuminato di alti prelati pugliesi come Celestino Galiani, Domenico Forges Davanzati, Giuseppe Capecelatro e Luca de Samuele Cagnazzi. In un contesto in cui il popolino era più disposto ad ascoltare i rozzi santoni piuttosto che gli ecclesiastici colti, le loro dissertazioni sono infatti immuni dalla mentalità magico-sensitiva popolare, che a Vico del Gargano in quel tempo era vincente. Ricordiamo che, a quel tempo, il paese garganico vantava una rinomata cabala. Un prete di nome Giuseppe Roberti aveva fama di dare “convincenti risposte a quesiti di scienza, di storia e su futuro”. Risposte che, lette oggi, ci fanno davvero sorridere.

Bisogna riconoscere che non pochi eccitati viciensi sono scesi “ nella feccia di Romolo”, per usare l’espressione di Giambattista Vico. Giacinto Mascis si caricò della responsabilità di sindaco di Vico e don Pietro de Finis fece costruire il monumentale cimitero di San Pietro, costruito fuori le mura del paese nel 1792, per motivi igienici, molto tempo prima dell’editto napoleonico di Saint Cloud (1804). De Finis aveva trentasei anni nel 1759. Già nel 1751 aveva aperto a sue spese, per tre anni, una scuola per tutti.

Suo discepolo fu Michelangelo Manicone (che lo ricorderà come «il maestro mio di grammatica»). Manicone non sarà tra i soci fondatori dell’Accademia (aveva allora soltanto 14 anni) ma respirò l’aria illuministica diffusasi nel 1759-60 nel suo paese e la dilatò nelle sue opere. Autore de La Fisica Appula e de La Fisica Daunica , è una figura eclettica di naturalista, erudito, ricercatore, ecologista ante litteram, politico progressista. Nella “Dottrina Pacifica” del 1790 grida contro gli abusi dei tiranni, invoca la riforma della Chiesa.

Aspirazioni e ansie di strati illuminati della gente di Vico furono simboleggiati da un maestoso albero, l’albero della popolar libertà, piantato da Manicone a Largo Fuoriporta, proprio davanti alla chiesa che ospitava l’Accademia degli Eccitati. Quell’albero, divenuto Arbor Adae, albero dell’Inferno, segno di scandalo per il restaurato governo borbonico, verrà abbattuto, sostituito da una Croce e poi da un pubblico fanale dell’illuminazione. Un lampione che, secondo Giuseppe del Viscio, poteva al massimo rischiarare le tenebre della notte, non il buio del tempo (1886).

Rimasta immobile per oltre duecentoquarant’anni, la Repubblica letteraria di Vico si ripropone oggi per prolungare il suo cammino. Il tempo presente è altrettanto difficile ed avaro di sintonie immediate.

Chi raccoglierà il testimone?

FILIPPO FIORENTINO, L’Accademia degli eccitati viciensi, Edizioni del Rosone, Foggia 2003, pp. 129.

          

©2006 Teresa Maria Rauzino.

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Poma Santa Maria saccheggiata come la MSC Napoli

Nel 1607 una marsiliana si arenò nel lido di San Nicandro Garganico, tra Torre Mileto e Calarossa.

Uno dei cannoni della Poma Santa Maria esposti nel piazzale antistante Torre Mileto.

Tutti abbiamo assistito, in diretta TV, al saccheggio della porta-container MSC Napoli, naufragata nel Canale della Manica. Durante una fortissima mareggiata causata dall’uragano Kyrill, la Napoli si è incagliata nei pressi della costa del Devon vicino a Plymouth. Circa 200 dei 2.400 container trasportati sulla nave si sono arenati sulla costa. 

È accaduto il fatto singolare che migliaia di persone, invece di preoccuparsi dei danni ambientali provocati dal riversamento in mare del greggio trasportato dalla nave, si sono recate in spiaggia per raccogliere spasmodicamente tutto il materiale possibile. Nonostante la guardia costiera ammonisse a stare alla larga dai container portati a riva dalla corrente, la prospettiva di arraffare generi di vario tipo ha attirato tantissima gente proveniente da tutta la Gran Bretagna e persino dalla Francia. In fondo, una fortuna simile quando sarebbe capitata più?

Tanti ragazzi si sono precipitati nel Devon. Non sono andati lì per salvare i gabbiani con le piume incrostate di oro nero o per dare una mano a quanti stavano tentando di salvare l’ambiente. Anche loro come i grandi, si sono precipitati per “ripulire” il carico della nave-container colata a picco. È stato come partecipare ad una vera e propria caccia al tesoro. Si poteva aprire un container di pannolini e fare cilecca così come si poteva fare tombola aprendo un container con tante belle moto, le mitiche BMW da 22mila sterline cadauna.

Il “tesoro” della MSC Napoli comprendeva anche bottiglie di vino, prodotti di bellezza e profumi di marca, ricambi di auto, prodotti alimentari, barilotti, e tante altre cose, fra cui 200 tonnellate di greggio, fuoriuscito dai container che ha inquinato le acque e le spiagge. Ma più che la nafta, si è temuto il riversamento in mare di 150 cassoni di materiale altamente inquinante. Il cargo trasportava sostanze nocive come pesticidi e acido per batterie. Il timore era che la gente aprisse anche i container con sostanze chimiche pericolose per la salute pubblica.

        

Di fronte a scene di vero e proprio saccheggio, definite eufemisticamente «recupero di merci alla deriva», la polizia si è arresa e ha lasciato fare. Una legge della marina mercantile britannica del 1995 prevede che, in questi casi, prelevare merci naufragate non significa commettere reato. Ma le merci raccolte, se i legittimi proprietari ne faranno espressa richiesta, dovranno essere restituite. Spetterà all’ufficiale giudiziario «curatore del relitto» risolvere la questione della proprietà degli oggetti ripescati. Ecco perché la polizia, pur consapevole che l’avvertimento non avrebbe sortito un grande effetto, ha raccomandato a tutti “i prelevatori” di compilare un modulo, indicando i beni presi dai container.

«Se fossimo ai piedi del Vesuvio – ha commentato Enrico Franceschini su Repubblica – nessuno si meraviglierebbe: ma siamo nella civile Inghilterra. La riprova che, quando c’è da arraffare, tutto il mondo è paese».

Questa frase ha provocato la reazione indignata di Valeria Valente, assessore al Turismo del Comune di Napoli, che lo ha accusato di voler tener vivo uno stereotipo anacronistico: «Il saccheggio sulla spiaggia richiama, nella mente del giornalista, scenari napoletani; forse, e gli posso dare ragione, nella Napoli occupata dagli Alleati, un carro armato poteva essere smontato e rivenduto in pochi minuti, e la cosa poteva essere in modo oleografico raccontata da penne grandi e impietose come quelle di Curzio Malaparte. Ma sono passati oltre cinquant’anni, siamo in un altro secolo e riproporre certe immagini è inutile e sbagliato».

Non condividiamo l’indignazione “meridionalista” della Valente; il commento del cronista di Repubblica ha immediatamente evocato in noi il ricordo di una vicenda analoga accaduta nel 1607 sulle coste del Gargano Nord, in seguito all’affondamento, nei pressi di torre Mileto, di una nave denominata Poma Santa Maria.

Le fonti documentarie, da cui si evince la storia del saccheggio avvenuto nel lido di Santo Nicandro, sono state pubblicate da Antonio Russo nel volume Poma Santa Maria un naufragio del 1607 a torre Mileto,  per i tipi del Rosone, con un’interessante introduzione di Filippo Fiorentino.

La Poma era una marsiliana, un veliero mercantile di modeste proporzioni, che percorreva le vie marine dell’Adriatico, allora denominato Golfo di Venezia, trasportando merci da Corfù alla Serenissima.

Fra le merci imbarcate e disperse dopo il naufragio sulla costa antistante torre Mileto e torre Calarossa, oltre a generi di prima necessità come l’olio d’oliva e la farina, c’erano anche articoli di lusso come un grosso quantitativo di 1400 di pelli di montone che non risultavano caricate sulla marsiliana. Non risultavano imbarcati 12 cannoni e un numero imprecisato di archibugi. Un vero e proprio arsenale di armi, merce scottante che non figurava nella lista perché di contrabbando.

A differenza delle autorità inglesi, che non si sono preoccupate di recuperare il contenuto dei container, le merci razziate a Torre Mileto vennero prontamente recuperate dal commissario al contrabbando don Rodrigo di Salazar. Ben 80 persone, che avevano fatto la parte del leone nel saccheggio delle merci arenate, vennero arrestate, e costrette a consegnare la merce.

L’obiettivo del recupero delle merci, prelevate dagli abitanti di San Nicandro, Rodi, Cagnano, Ischitella, Carpino e Peschici, e poi vendute per ricavare fondi da versare al Tesoro del Vicereame, fu tenacemente perseguito dalle autorità spagnole, in particolare dal suddetto don Rodrigo, che fece incarcerare tutti coloro che avevano sottratto parte del carico naufragato. Egli rischiò addirittura il conflitto di competenze con le autorità locali che invece volevano assicurare il diritto di prelazione agli abitanti dell’Università. Sostenne caparbiamente le ragioni del proprio ufficio in rapporto a questo carico di merci della Poma Santa Maria.

Per le popolazioni del Gargano, l’affondamento sottocosta di un bastimento carico di merci rappresentava un evento provvidenziale, visto che nessuno aveva avanzato diritti legittimi, nemmeno Simon Batacchio, il “patron” della barca che, conscio delle sanzioni cui sarebbe incorso a causa della merce scottante, imbarcata clandestinamente a Corfù, aveva raggiunto subito Venezia, abbandonando il relitto al suo destino. Di qui il riversarsi della popolazione di tutti i centri del Gargano sulla spiaggia di Torre Mileto, per recuperare il materiale spiaggiato ritenuto proprietà nullius, cioè di nessuno.

Il disagio vissuto dalle classi povere del Promontorio in quel periodo era molto forte. La dominazione spagnola, che si esercitava esosamente attraverso il potere dei Viceré, aveva generato malcontento a causa di ruberie e imposte che prelevavano gran parte del reddito. Al clima di forte indigenza si aggiunse il pericolo di attacchi continui dal mare.

Una sequenza di edifici fortificati supportava la difesa costiera contro le continue razzie di cui si rendevano protagonisti corsari e pirati che militavano sotto le bandiere dell’Islam, ma anche predatori illirici che avevano le loro basi logistiche sulle coste albanesi. Nel 1606 Durazzo fu messa a ferro e fuoco dalle galee e dalle truppe inviate del viceré Alonso Pimentel de Herrera, conte di Bonavente, ma ciò non servì a scongiurare il pericolo delle razzie turchesche che, fortissimo nel Seicento, perdurò anche nel secolo successivo.

L’interesse del prof. Antonio Russo per la Poma Santa Maria è nato dopo che un gruppo di sub dei carabinieri di Taranto nel 1975 riportò a riva tre grossi cannoni, avvistati nelle acque antistanti la torre di vedetta e segnalati alla Soprintendenza Archeologica della Puglia. Probabilmente un’ulteriore immersione potrebbe portare alla luce altri 8 cannoni e gli archibugi ancora sommersi nel fondo della marsiliana.

    

Ma cosa fu recuperato nel relitto della marsiliana dai sommozzatori giunti da Peschici nel 1607, e che pretesero di essere compensati con un terzo del materiale riportato in superficie? Una balla di 1400 pelli, riconciate dagli artigiani di Peschici e Rodi per essere rivendute; quaranta cardovane (?); un’ancora; una gomena, i documenti di trasporto; un tabarro (cioè una cappa) di panno; dodici staia di farina rotti; alcune schiavine pelose (mantelli a ruota di pelliccia); uno staio d’olio; due cannoni (di cui si sono perdute le tracce).

Oggi, dopo varie peripezie e traslochi tra Palazzo Zaccagnino, il piazzale antistante il deposito della nettezza urbana e Palazzo Fioritto, i tre cannoni del XVII secolo, parte del carico trasportato dalla Poma Santa Maria affondata nelle acque di Torre Mileto il 24 marzo 1607, e ripescati nel 1975, sono stati postati nel piazzale antistante Torre Mileto.

La Torre, restaurata due anni fa dal Parco del Gargano e dal Comune di san Nicandro, è ancora in attesa di un’adeguata valorizzazione. Le torri che, dalla fine del Cinquecento, difesero le coste di Capitanata, hanno subito la medesima sorte: alcune restaurate, altre sgarrupate (come Calarossa e Sfinale), sono tutte “regolarmente chiuse” alla pubblica fruizione.

©2007 Teresa Maria Rauzino. Il presente saggio è stato pubblicato sul quotidiano «L’Attacco» del 15 febbraio 2007.

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Microstorie

Slavi ed ebrei nel campo di concentramento di Manfredonia

Il silenzio sulle foibe, e sull’esodo forzato di dalmati e istriani dalle loro terre, è forse la pagina più oscura della nostra storia repubblicana. Ma ancora più oscure sono le pagine che l’Italia ha scritto tra il 1919 e il 1944 in Slovenia e Croazia – sulle quali continua ipocritamente il silenzio – a cui va fatta risalire la feroce reazione degli Slavi di cui si parla in questi giorni.

È singolare che a sollevare la questione (solo delle foibe e dell’esodo, ovviamente) siano, anche a Foggia e in Capitanata, proprio gli “eredi” di quel regime che fu il primo responsabile della sanguinosa e sanguinaria reazione slava.

A tutti coloro che vogliono saperne di più su questa storia “dimenticata” consigliamo la lettura di un libro (a cura) di Costantino di Sante: Italiani senza onore (edizioni Ombre Corte, pp. 270) che pubblica documentazione inedita sui crimini compiuti dall’esercito del Duce in Jugoslavia. Ci fornisce una dettagliata, illuminante cronistoria dell’antislavismo viscerale perseguito dal regime fascista nei Balcani, brutto retroscena della bruttissima storia delle foibe.

La politica di occupazione italiana si contraddistinse per una serie ripetuta di violenze, angherie e sopraffazioni che non furono il risultato di scelte isolate dei comandi militari, ma componente essenziale della strategia di dominio territoriale dell’Italia fascista il cui scopo era arrivare alla «distruzione totale e integrale dell’identità nazionale slovena e croata».

«Di fronte ad una razza inferiore e barbara come la slava – scriveva Benito Mussolini già dal 1920 – non si deve seguire la politica che dà lo zuccherino, ma quella del bastone. I confini dell’Italia devono essere il Brennero, il Nevoso e le Dinariche: io credo che si possano sacrificare 500.000 slavi barbari a 50.000 italiani».

In una lettera spedita in data 8 settembre 1942 (N. 08906) dal generale Roatta al Comando supremo, viene proposta, addirittura, la deportazione dell’ intera popolazione slovena.

Nella riunione di Fiume del 23-5-1942, lo stesso Roatta aveva riferito le direttive di Mussolini: «Il DUCE è assai seccato della situazione in Slovenia perchè Lubiana è provincia italiana. Ha detto di ricordarsi che la miglior situazione si fa quando il nemico è morto. Occorre quindi poter disporre di numerosi ostaggi e applicare la fucilazione tutte le volte che ciò sia necessario. /…/ Il Duce concorda nel concetto di internare molta gente – anche 20-30.000 persone. Si può quindi estendere il criterio di internamento a determinate categorie di persone. Ad esempio: studenti. L’azione però deve essere fatta bene cioè con forze che limitino le evasioni. /…/ Ricordarsi che tutti i provvedimenti di sgombero di gente, li dovremo fare di nostra iniziativa senza guardare in faccia nessuno».

Tutti conosciamo Auschwitz e Buchenwald, ma decenni di censure ci hanno impedito di sapere che noi, italiani, costruimmo e gestimmo i lager di Kraljevica, Lopud, Kupari, Korica, Brac, Hvar, Rab (isola di Arbe). Alla fine del Ventennio gli occupanti italiani costruirono nelle terre slave campi di concentramento che, seppur non scientificamente predisposti allo sterminio, furono la causa di migliaia di morti e di infinite sofferenze. Furono creati campi anche in Italia, per esempio a Gonars (Udine), a Monigo (Treviso), a Renicci di Anghiari (Arezzo) e a Padova. Secondo stime rapportate nel volume dell’A.N.P.P.I.A. “Pericolosi nelle contingenze belliche”, i fascisti internarono quasi 30.000 sloveni e croati, uomini, donne e bambini .

SLAVI INTERNATI A MANFREDONIA

Facendo riferimento a uno studio effettuato da Viviano Iazzetti (funzionario dell’archivio di Stato di Foggia), sul campo di concentramento pugliese di Manfredonia (che funzionò dal 1940 alla fine dell’estate del 1943) possiamo confermare che un gruppo consistente delle persone ivi internate proveniva dalla provincia di Fiume erano cittadini italiani “slavofili“ sospetti di attività antinazionale; ex jugoslavi sospetti di attività antitaliana. Per ex jugoslavi – precisa Iazzetti– si intendevano gli internati originari dei territori dell’Istria annessi all’Italia in seguito allo smembramento dell’impero austro-ungarico conseguente il primo conflitto bellico mondiale.

Nel campo di concentramento di Manfredonia la libertà degli internati era limitatissima. Essi potevano passeggiare liberamente soltanto per alcune ore della giornata ed esclusivamente nell’ambito della zona delimitata. Quando i reclusi si trovavano in quest’area venivano attivati sei posti fissi di guardia per la loro vigilanza e contemporaneamente degli agenti in bicicletta percorrevano la nazionale per Foggia, lungo il tratto antistante il campo, onde evitare contatti con estranei. Al rientro degli internati nelle camerate venivano chiuse finestre e porte applicando a queste ultime dei lucchetti dall’esterno. Durante la notte funzionava un servizio di ronda sia all’esterno che all’interno del campo.

Una immagine dell’ex campo di concentramento di Manfredonia

Per gli internati non era possibile intrattenere rapporti epistolari con i familiari senza la preventiva autorizzazione ministeriale e subordinatamente al vaglio della posta per motivi di censura. Gli internati avevano l’obbligo di presentarsi negli Uffici della Direzione, ogni qualvolta invitati, a capo scoperto, abbigliati compostamente e salutando romanamente.

Per poter leggere dei libri italiani occorreva l’autorizzazione della direzione, mentre, per i giornali ed i libri in lingua straniera, quella del ministero. Era vietato usare lingue straniere nelle conversazioni. Della traduzione della corrispondenza degli internati serbo-croati e Sloveni si occupava la signora Maria Nannut presso il campo di concentramento di Fabriano.

Il campo di Manfredonia fu una “cosa all’Italiana”, non furono uccisi internati come nei famigerati campi nazisti. Ma non dimentichiamo che il 1° luglio 1940 nel campo suddetto giunsero 31 ebrei tedeschi. Iazzetti, nel suo saggio, ne ha citato nomi e cognomi e paternità:

Pressburger Alfred di Leopold
Rector Arthur fu Simon
Scharf Iakob di Jonas
Winkler Ugo Israele di Iulius
Zeilinger Leopold fu Gustavo
Morgestern Hans di Mauritz
Moser Louis fu Heinric
Kollmann Carl di Sigfrid
Kerbes Lemel fu Wilhelm
Hutzler Ludwig fu Leopold
Gluecksmann Eugen fu Antonio
Heinz Paul di Leopold
Leer Oskar di Franz
Mandel David fu Leiser
Mausner Iakob fu Leiser
Josesfsberg Iakob fu Zaibel
Kollmann Hans di Sigfrid
Schwarz Iulius fu Samuel
Tsch Oskar fu Albert
Aussemberg Chaskel fu Kaim
Lueksmann Ferdinand fu Filippo
Zilberstein Markta fu Habraham
Sommerfeld Leo fu Max
Koldegg Erwin fu Max
Samek Arthur di Adolfo
Halperin Benjamin di Giuseppe
Lawetzky Franz di Adolfo
Nussbaum Ernest Ludwig di Josef
Roth Leon di Wolf
Schwarzwald Norbert di Isacco
Wollner Sieghard di Max

Il 18 settembre 1940 gran parte di essi furono trasferiti presso il campo di concentramento di Tossicia in provincia di Teramo. Restarono a Manfredonia Halperin, Lawetzky, Roth, Swarzwald e Wolner che a loro volta, ad eccezione dell’ultimo di cui si perdono le tracce, furono trasferiti nel campo di concentramento di Campagna (in provincia di Salerno) il 26 febbraio 1942.

Viviano Iazzetti si chiede quale sorte toccò a queste persone ( di cui comunicò i nominativi alla Comunità ebraica di Roma fin dal 1984-85), invitando gli studiosi ad effettuare questa ulteriore ricerca.

Oggi finalmente questo ci è stato reso possibile dalla consultazione di una banca dati delle vittime della Shoa postata in Internet. Da una nostra personale ricerca sul sito www1.yadvashem.org, ben 16 su 31 ebrei tedeschi risultano periti nei famigerati campi di concentramento nazisti dove si consumò la Shoa. Sono Pressburger Alfred, Rector Arthur, Scharf Iakob, Winkler Ugo Israele, Zeilinger Leopold, Kollmann Carl, Kerbes Lemel, Gluecksmann Eugen, Mandel David, Mausner Iakob, Kollmann Hans Schwarz Iulius, Sommerfeld Leo, Halperin Benjamin, Nussbaum Ernest Ludwig, Roth Leon.

Nelle schede on line non sempre è riportata la paternità, oltre che la nazionalità, e talvolta ci sono omonimie: speriamo vivamente che il numero delle vittime sia stato inferiore al numero da noi rilevato.

Al Comune di Manfredonia chiediamo che sia posta almeno una targa a loro ricordo nel luogo (l’ex macello comunale, oggi dismesso) che li ospitò.

    
PER APPROFONDIRE:
Una memoria dimenticata. Il campo di concentramento di Manfredonia

©2005 Teresa Maria Rauzino. L’articolo è stato pubblicato sul mensile «Sudest» (n. 5, marzo 2005,  pp. 98-101). Le foto dell’ex macello comunale, sede del campo di concentramento di Manfredonia, sono state scattate dal fotografo del «Corriere del Golfo».

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Microstorie

Ralph de Palma. L’uomo più veloce del mondo che veniva da Foggia

Copertina del volume.

Dopo i Vademecum della Provincia di Foggia e Capitanlibri, Maurizio De Tullio si cimenta in un arduo lavoro di ricerca per ricostruire l’avvincente storia di Ralph de Palma, un campione automobilistico del primo Novecento.

Forte della sua esperienza giornalistica, l’Autore si avvale della grande Rete telematica per consultare le fonti sull’emigrazione, ricerca testi presenti in varie biblioteche nazionali ed estere, riscontra dati e documenti anagrafici in archivi pubblici e diocesani, dà una sua chiave di lettura all’interpretazione talvolta problematica degli stessi, delineando un quadro esaustivo della biografia del grande campione italo-americano che batté tutti i record.

Con questo volume, De Tullio riesce soprattutto nell’ardua impresa di restituire alla Capitanata l’immagine di un eroe, Ralph De Palma, da noi quasi ignorato, e che fece grande lo sport dell’automobilismo, divenendo, ai suoi tempi, l’icona vivente del “grande sogno americano”. Quel bambino, vissuto a Biccari fino all’età di dieci anni, non aveva mai visto il mare: solcherà per la prima volta l’Oceano Atlantico con la sua famiglia per raggiungere Lamerica, e precisamente la Grande Mela.

Oltreoceano, quel bambino, che non aveva mai giocato con le macchinine, riuscirà – come scrive De Tullio – a far sognare milioni di persone. Con auto vere. Le sue straordinarie gesta sportive (2557 vittorie su 2889 corse effettuate nel corso della sua lunghissima carriera) lo imposero all’attenzione planetaria: per milioni di emigrati italiani sparsi per il mondo egli divenne l’eroe internazionale di cui andare fieri. De Palma riuscì ad affermarsi in un’epoca in cui gli italiani erano considerati all’ultimo livello della scala sociale statunitense: erano i paria della società, un po’ come sono ritenuti oggi gli extracomunitari. Ecco perché, nelle prime biografie apparse sui giornali dell’epoca, alcuni dati, a partire dal nome americanizzato in Ralph, furono modificati per accreditare un’origine sociale più accettabile agli occhi dei fans. Sulla sua tomba, il campione farà apporre soltanto le date di nascita e di morte, senza accenno al luogo d’origine italiano.

Raffaele De Palma era nato il 19 dicembre 1882 a Biccari, un paesino del Subappennino dauno che di lì a un decennio sarebbe stato decimato dall’emigrazione transoceanica. I genitori erano originari di Troia. I De Palma partirono per gli Stati Uniti verso la fine dell’Ottocento, imbarcandosi , a varie riprese, su dei piroscafi che, dopo un mese di viaggio, li sbarcarono a Ellis Island, l’Isola delle lacrime, dove come tutti gli immigrati subiranno un’umiliante quarantena prima di essere accettati nel Paese della Libertà.

La famiglia De Palma, alla ricerca di quel riscatto sociale così difficile da realizzare in patria, a differenza di tante famiglie di emigranti, realizzerà il suo sogno.

L’emigrazione oltreoceano, tra il 1892 e il 1924, fu la scelta obbligata di circa 22 milioni di migranti, per la maggior parte italiani. Nel 1910 New York era considerata, per il suo alto numero di abitanti provenienti dal Belpaese, la quarta città italiana dopo Napoli, Roma e Milano.

I De Palma vivevano a Brooklyn, uno dei più poveri quartieri newyorkesi. Ralph cominciò ad aiutare il padre nella barberia di famiglia, poi lavorò come pony express di un negozio di frutta e verdura. La bicicletta diventò la sua prima grande passione e nel 1899 egli vinse la sua prima gara ciclistica. Nel 1902 esordì nel ciclismo professionistico; le gare si svolgevano allora al chiuso di un velodromo con piste in legno e curve molto inclinate.

De Palma esordì nella carriera automobilistica nel 1908, e la concluderà nel 1934. Il campione italo-americano guidò le auto delle migliori ditte dell’epoca: Fiat, Mercer, Simplex, ma legò il suo nome soprattutto alla Mercedes. Partecipò alle mitiche corse di Vanderbilt Cup, alle 500 miglia di Indianapolis, al Gran Premio di Francia. Indianapolis, a quasi un secolo di distanza, colpisce l’immaginario collettivo degli appassionati per alcune epiche gesta che l’hanno segnata fino a consacrarla definitivamente come il Tempio della velocità. Ralph de Palma abbinò il suo nome a questa corsa, lunga e massacrante, sin dalla seconda edizione, quella del 1912, vincendo l’edizione del 1915.

Ralph De Palma (a sinistra).

Le gare di Formula Uno di oggi, per quanto avvincenti, non sono paragonabili alle emozioni offerte agli spettatori che assiepavano le tribune e le piste dei circuiti e degli autodromi circa un secolo fa. Quel che era profondamente diverso era la corsa in sé che aveva la preminenza su ogni cosa e De Palma seppe comunicare agli spettatori proprio quello che essi si aspettavano da un pilota: emozioni, passione, grinta, coraggio. Una carriera longeva, la sua, nel segno dell’agonismo e della lealtà sportiva: Ralph dimostrò che le gare si potevano vincere usando l’intelligenza.

Quando gli Stati Uniti entrarono nel primo conflitto mondiale, tutte le attività sportive agonistiche vennero sospese. De Palma si arruolò nell’aviazione, dopo aver conseguito il brevetto di pilota a Daytona. Dopo la guerra, nel 1919, ritornò in questa città alla guida di una potentissima Packard 905 bianca, la mitica vettura con motore V12 su auto prodotte in serie. Sulla sabbia di Daytona Beach, toccò la fantastica velocità media di 149,87 miglia orarie (oltre 241 km all’ora). Divenne l’uomo più veloce del mondo!

Ralph De Palma riposa oggi all’Holy Cross Cementery di Culver City, nei pressi di Los Angeles, in California. Sulla lapide della sua tomba compaiono solo gli anni di nascita e di morte: 1882 e 1956. L’epigrafe ricorda “il campione automobilistico prediletto vincitore della corsa di Indianapolis del 1915 (Bloved automobile racing champion 1915 Indianapolis speedway winner)”.

Un eroe dello sport che, nel 50° anniversario dalla scomparsa, Maurizio De Tullio ha riproposto all’attenzione nazionale, partendo proprio dalla terra di origine di De Palma: Biccari.

@Teresa Maria Rauzino

MAURIZIO DE TULLIO, Ralph de Palma. Storia dell’uomo più veloce del mondo che veniva da Foggia,  Edizioni Agorà, Foggia 2006, euro 12,00.