CENNI STORICI
Percorrendo la provinciale che da Villa Minozzo porta a Civago, e giunti in corrispondenza della galleria che permette l'accesso a questo abitato, si può scorgere sulla sinistra il rudere di una torre che la tradizione ha consacrato al nome dell'Amorotto.
Questa torre, pesantemente danneggiata dal terremoto del 1920, sorge sullo strapiombo della gola del torrente Dolo, all'altezza di 86 metri dal torrente stesso. Era un avamposto (ed è l'unica struttura rimasta) del castello delle Scalelle, una fortezza probabilmente eretta attorno al 1250 ed ubicata nel territorio di Gazzano allora denominato con il nome di "territorio delle Scalelle" II nome compare sul Dizionario topografico-storico degli Stati Estensi di Girolamo Tiraboschi: "Castrum delle Scalelle" dove si legge di un testamento fatto da Bartolomeo Dalli nel 1383, in cui si parla del castello e del Comune delle Scalelle e della rocca del Predario che, assieme ad altri feudi, vennero lasciati ai figli di Veltro da Vallisnera, fratello di sua moglie. Proprio con il nome "rocca del Predario" probabilmente si intende la torre in esame in quanto ancora oggi nelle vicinanze vi è una grossa lastra di pietra chiamata appunto "sasso di Pradarea". Ritornando al castello delle Scalelle possiamo dire che appartenne alla famiglia Dalli, casata a volte chiamata anche "da Dallo", che ha preso il nome dal luogo di provenienza situato in Garfagnana. Fra il XII e il XV secolo questi feudatari dominarono gran parte dell'Appennino ed in particolar modo la valle del Dolo. Cacciati i Dalli dalla popolazione nel 1426, quella zona dell'alto Appennino divenne teatro di scorrerie dei banditi che si prefiggevano di controllare il traffico sui valichi ed in particolar modo verso la Garfagnana.
La torre negli anni '20
Per quanto riguarda la struttura di questa torre, possiamo basarci su quanto hanno scritto Andrea Balletti e Giulio Ferrari. Il primo ci dice che "vi si giunge per un sentiero largo tre spanne [sentiero proveniente dalla mulattiera Novellano-Cervarolo-Civago e che passa 22 metri sotto la torre ed è oramai surrogato da arbusti e vegetazione] che si divincola sopra un precipizio di 64 metri, dopo il quale arrampicandosi per scheggie di macigno ci si può entrare carpone nella torre per un buco che basta ad una persona". Continua la descrizione dicendo che "La torre è rotonda del diametro di 5 metri, che lo spessore dei muri riduce di tre all'interno: ora è senza tetto, alta 8 metri e divisa in due piani, al secondo dei quali si saliva con uno scaletto, immesso nella torre mentre si fabbricava, e tirato poi su di piano in piano da chi voleva là ricoverarsi senza essere sorpreso".
Questa descrizione del Balletti ce la conferma pure Giulio Ferrari, aggiungendo inoltre che "a un terzo dell'altezza si apre una finestra sbarrata che da luce al piano sottostante. L'interno è in pessimo stato. Il piano superiore è sostenuto da un volto a crociera, in parte crollato, pauroso a vedersi: più sicuro appare, s'intende, il piano di sotto". Pure il Ferrari ci definisce questo "nido d'aquila" un ricovero momentaneo di "uomini di ferro" dove, dopo esser saliti con una scala a pioli al piano superiore, potevano così immergersi "in un sonno da banditi, ristoro a tante scorribande e a tante fatiche".
Il brigante che se ne impossessò
Questa torre, nei primi decenni del XVI secolo divenne luogo di rifugio di un temuto brigante, Domenico Amorotto, dal quale prese poi il nome. Domenico de' Bretti era figlio dell'oste di Carpineti detto "al Morot". Era una persona colta, sapeva leggere e scrivere e, nella società del tempo, c'era pure chi non lo credeva un disonorato o un delinquente e non lo considerava così "irrevocabilmente diffamato". Pure gli storici stessi lo definirono gentile, ospitale, generoso ed abile nel trattare affari.
Questo personaggio iniziò la sua "carriera da malfattore" nel 1510 uccidendo un suo nemico a coltellate, nella piazza del paese un giorno di mercato. Ricercato, preferì a questo punto darsi alla macchia e dedicarsi definitivamente al brigantaggio, chiamando intorno a sé, come scrisse Umberto Monti "quanti avevano conti da rendere alla giustizia ed erano vogliosi di menar le mani". Si raggruppò così attorno in poco tempo una serie di malavitosi e pure qualche signorotto che credette utile servirsi di lui per le proprie vendette private. La movimentata vita di questo personaggio è stata descritta da Fernando Fabbi nel 1955: Domenico, assieme al padre e ai fratelli Vitale e Alessandro a partire dal periodo in cui Giulio II si impadronì di Reggio e Parma (1512), si schierarono a favore del governo pontificio ricevendo così in cambio numerosi benefici, quali il possesso della rocca di Carpineti e la riscossione di dazi e gabelle nel distretto di Carpineti. Questa posizione dell'Amorotto - rafforzata dai privilegi ottenuti da Giulio II e confermati poi da Papa Leone X - causò serie difficoltà a Francesco Guicciardini salito al governo di Reggio nel giugno 1517. Egli diede così vita a rappresaglie, con lo scopo di liberarsi ad ogni costo del Morotto, tentando pure di porlo in pessima luce nei confronti della Curia romana, che però continuava ugualmente ad averlo in molta fiducia. Esempio significativo è il fatto che, lusingato dal uicciardini, l'Amorotto decise di cedere la rocca di Carpineti per quella di Brescello, ma dopo un anno circa il governo pontificio lo invitò a Roma perché riprendesse il possesso della montagna reggiana con lo scopo di difenderla contro gli Estensi.
Il bando di Guicciardini
Solo dopo diversi scontri conclusisi senza alcun risultato, dopo atti vandalici contro Domenico e contro lo stesso paese di Carpineti, dopo vari e vani tentativi di trasferire l'Amorotto a Bologna spogliandolo della Rocca, il Guicciardini diede così sfogo alla propria ira promulgando nel gennaio del 1521 un bando che condannava a morte Domenico, Vitale ed un'altra ventina di banditi. Nel bando si permetteva a chiunque di potere non solo offendere, ma ammazzare senza pena alcuna, qualunque dei banditi, e quelli che con o senza armi li favorissero, sarebbero del pari dichiarati ribelli, condannati nella confisca dei beni ed esposti ad essere liberatamente offesi ed ammazzati da chiunque. Si stabiliva inoltre che "chi ucciderà o darà prigionieri Domenico e Vitale o anche uno solo di loro due, avrà un premio di 200 ducati d'oro, e, se costui fosse bandito, non solo sarà libero, ma potrà liberare altri due banditi a suo piacimento, e chi ammazzerà o darà prigioniero qualche compagno dell'Amorotto, guadagnerà 10 ducati d'oro per ogni bandito ucciso o catturato, e, se questa operazione verrà fatta dagli uomini di qualche comunità, questa sarà in perpetuo libera da ogni tassa e chi ucciderà o consegnerà Domenico o Vitale o qualcuno di loro, avrà in premio, oltre le taglie suddette, tutti i beni immobili di Domenico e Vitale". Tuttavia questo minaccioso bando non servì a portare la tranquillità in Appennino, poiché nessuno ebbe il coraggio di tradire e di mettersi contro questo uomo indomabile.
La morte di Domenico
Malgrado ciò, Guicciardini non si diede per vinto e scatenò nuove inutili rappresaglie, e, per catturarlo, finse di voler scendere a trattative con il bandito. Rendendosi conto che l'Amorotto continuava a godere dell'appoggio di Roma inviò milizie nel Frignano, allora occupato da Cato da Castagneto. Costui tentò di mettersi contro il Morotto, ma ebbe la peggio perché fu preso e ucciso a tradimento nel castello di Fanano. Si scatenò così il 24 agosto 1522 una strage, passata alla storia con il nome di "guerra dei montanari"; l'epilogo si ebbe il 5 luglio 1523 quando Domenico venne prima ferito in battaglia dallo zio di Cato e, mentre stava rientrando a Carpineti, ucciso da due suoi rivali che accorrevano in aiuto ai Castagneto: Tebaldo Sessi e Antonio Pacchioni. Si narra che il primo lo trafisse ed il secondo gli staccò la testa ed una mano, poi esposte a Spilamberto, con l'intento di incutere paura ai malviventi.
Con grande soddisfazione di Francesco Guicciardini e di coloro che abitavano la montagna, ritornò quella tranquillità, se di tranquillità si può parlare, che era stata perduta nel periodo in cui Morotto "governò" la montagna reggiana.
Dire di preciso quando e per quanto tempo l'Amorotto si sia rifugiato nella torre nei pressi di Civago, risulta difficile da stabilire. Nonostante questa torre fosse dominata dal bandito fra il 1510 e il 1523, essa veniva utilizzata saltuariamente come ricovero, quando era opportuno far perdere le tracce.
L'immaginario popolare
Termina così la movimentata vita di Domenico Amorotto che, assieme alla torre da lui un tempo occupata, da origine a diverse leggende intrise di mistero, ferocia e ammirazione.
Per sottolineare l'astuzia di questo famoso montanaro si dice che un giorno, rifugiatosi nella torre, venne sorpreso da due guardie; così per intimorirli chiamò ad alta voce venti persone, invitandole ad uscire per affrontare i militi. Le guardie impaurite dalla presenza di tanti uomini, preferirono scappare, non sapendo che in quel momento il brigante si trovava completamente solo.
Secondo un'altra leggenda le ragazze - si dice solo quelle belle - che venivano portate sulla torre, finivano poi per essere uccise dal bandito e lì sepolte.
Il racconto più conosciuto è tuttavia quello che narra di un tesoro nascosto personalmente dall'Amorotto in una buca nelle vicinanze della torre e che sarebbe stato scoperto solamente da chi avesse trascinato fin lassù una mucca per la coda.
Altre narrazioni infine parlano di efferatezze tali da accostare addirittura Amorotto alla figura del diavolo.
Bibliografia e Sitografia
https://www.appenninoreggiano.it/it/scheda/la-torre-dellamorotto
https://4000luoghi.provincia.re.it/apex/f?p=200:4:::NO:RP:P4_ID:3870
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