VERONA (mura e porte veneziane)

CENNI STORICI

«Agli inizi del XII secolo, prima che la nuova cinta muraria, che possiamo chiamare comunale, la cingesse e la proteggesse ancora da nuovi nemici, Verona presentava il seguente assetto. Il terremoto del 1117 aveva fatto crollare, insieme con il periplo esterno dell'Arena, quasi tutte le costruzioni in muratura; restavano probabilmente in piedi, anche se lesionate, le mura teodoriciane che tagliavano la città da ovest ad est all'altezza degli attuali Portoni Borsari fino alla piazzetta Mura di Gallieno. Questo sulla destra dell'Adige; sulla sinistra, stando a quello che oggi possiamo decifrare dal percorso e dalla disposizione delle vie più antiche e dalle costruzioni ivi esistenti, il periplo teodoriciano doveva essere rimasto pressoché intatto. Ma la città non doveva certo presentare un aspetto "turistico": la maggior parte delle abitazioni erano "terranee", ad un solo piano e coperte di scandole di legno ("scandolitiae") o di paglia ("paliaritiae"), rarissime quelle con il primo piano ("solariatae") e con una scala lapidea o una loggia ("laubia"). A questo stato di fatto architettonico bisogna aggiungere il dato di fatto giuridico e cioè che una considerevole parte del suolo cittadino più antico era appena uscito, o stava uscendo, da una serie di vincoli regi e feudali che n’aveva impedito lo sviluppo urbanistico: così per le zone della Corte Regia, della Cortalta, del vescovo e del Capitolo canonicale con case ed orti. AI di sopra dei tetti può darsi che ancora si alzasse, insieme con i campanili e la longobarda Torre del Gardello, qualcuna di quelle quarantotto torri ricordate dal Versus de Verona ... A queste torri si aggiungeva forse già qualcuna di famiglia potente e ambiziosa e altre se n’aggiungeranno, e molte, se Ezzelino molte ne fece abbattere. E intorno le borgate, con nuova vitalità e nuove esigenze. Un esame dei più importanti avvenimenti politici del XII secolo, in relazione ai rapporti di Verona con l'Impero e con le città viciniori, convincerà che è opportuno attenersi, per l'epoca della costruzione della nuova cinta murarla, agli anni indicati da Mor, accettando il 1157 quale data approssimativa per la parte di cinta che correva dall’attuale prima arcata del ponte di Castelvecchio fino all’altezza del Ponte Aleardi ad oriente, e il 1193 per a cinta sulla sinistra dell'Adige; invece le indicazioni di Barbetta per il muro di Campo Marzo: intorno al 1037. Queste date ci riconducono agli avvenimenti legati alla guerra con Mantova della metà del XII secolo, e alle ostilità con Vicenza della fine dello stesso secolo: due complessi episodi di una vivace vita politico-militare di Verona che, tranne la parentesi della Lega della Marca Veronese e della più grande Lega Lombarda della Concordia, fu di fedeltà imperiale, in lotta e lizza, quindi, con le città vicine nella ricerca d’equilibri che proteggessero insieme interessi economici nuovi e antiche ambizioni territoriali e di prestigio.

È necessario anzitutto soffermarsi sul "muro vecchio di Campo Marzo" databile intorno al 1037 (indicazioni di Barbetta) del quale tuttora esiste, incorporata in una casa di Salita XVI ottobre, la "Porta S. Sepolcro". Si tratta di un unico arco a tutto sesto, in conci di tufo regolari, sostenuto da stipiti di marmo che si appoggiano ad una muraglia di ciottoli di fiume. L'occlusione del fornice risale agli anni della prima cinta comunale; per quest’apertura si usciva in direzione della Valpantena. Il muro di Campo Marzo proseguiva quindi lungo la linea delle attuali via Cantarane, via Don Mazza e via Museo, fino al fiume. Si trattava di una cinta di prima difesa che comprendeva i borghi sorgenti intorno all'antichissima Chiesa di San Giovanni in Valle e al più recente monastero benedettino di Santa Maria in Organo; già esistevano, inoltre, le chiese di San Nazaro, San Paolo, San Vitale. Nello stesso muro che abbiamo detto del tempo di re Arduino, si aprivano altre due porte: Porta del Vescovo, all'incrocio delle vie San Nazaro e XX Settembre (il nome è poi rimasto alla più avanzata attuale porta) sulla direzione della via Postumia; Porta di Campo Marzo, nei pressi della Chiesa di San Paolo, in via dell'Artigliere. Pur non molto adatta a lunga resistenza, questa cinta muraria dovette restare fin verso la fine del XII secolo, se non crollò, in parte più o meno consistente, nel terremoto del 1117; si trattava in ogni caso di un intervento di carattere esclusivamente difensivo, che non presenta le più complesse caratteristiche socio-politiche della recinzione comunale. Le mura comunali vengono alzate - come già detto - intorno al 1157, appoggiandosi, come par logico ed ovvio, a costruzioni poderose già esistenti, quali la rocca romana che fiancheggiava l'Arco dei Gavi, con le strutture che non riusciamo ad immaginare molto diverse dalle consimili dei "castella" alpini. La tecnica edificatoria di questa muraglia, di cui oggi possiamo osservare la notevoli resti che indicheremo, è sempre la stessa: dove è possibile, uso di recuperi romani (vedasi il lato sud della torre dell'orologio di Castelvecchio), e blocchi di tufo abbastanza sagomati ma non regolari, uniti con malta mescolata con pietrisco, per uno spessore che supera il metro di larghezza e, da quello che si può ancora arguire, i dodici/tredici metri d’altezza media. Di questa abbastanza poderosa cinta, che inglobava i già abbastanza antichi borghi di Fratta, Feraboi, Capitani, la Bra’ con le chiese pubbliche e private che vi erano state erette dal X secolo in poi e il porto, rimangono significativi resti nel muro interno del cortile settentrionale di Castelvecchio fino all'altezza del mastio, nelle cantine di palazzo Carli, sul retro del palazzo dei Mutilati, dove è pure visibile il basamento circolare di una torre in seguito rimaneggiata, in via Adigetto fino all'edicola romana infissavi all’altezza del Ponte Rofiolo. La linea della cinta seguiva la depressione naturale dell'Adigetto, forse allora ancora asciutto, o comunque non ad arte collegato con l'Adige.

Data la sua considerevole lunghezza, in essa si aprivano cinque o sei porte quasi in riva all'Adige, la Porta del Morbio (ora all'interno di Castelvecchio), così denominata dal nome di un personaggio che aveva possedimenti in questa zona: si tratta di un elegante fornice a tutto sesto, in piccoli conci regolari di tufo compattamente saldati insieme: è un tipo di postierla che possiamo ritenere nelle forme ancora sostanzialmente tardo-romane, facendo riferimento alla non dissimile postierla di Corte Farina. Poco più avanti si apriva l'Arco dei Gavi che venne trasformato in porta essendo costruito sull’importante via Postumia e prese il nome di Porta San Zeno: non solo la posizione, la forza e l'altezza dell'edificio concorsero a farne una porta di città, ma, forse, anche il fatto che era un naturale e storico corrispondente con la ormai più arretrata Porta Borsari; sappiamo quanto il mondo culturale comunale ci tenesse a questi rimandi e a questi parallelismi (basti solo ricordare i consoli). Un'altra porta si apriva più avantI, all’altezza dell’attuale via Manin all'incrocio con via Roma: Porta Orfano; quindi la Porta della Bra’, praticamente dove anche oggi si aprono i Portoni della Bra’; seguiva, alla posizione dell'attuale Ponte Rofiolo, la Porta San Fermo, da non confondersi con l'altra Porta San Fermo-Porta Leona; e infine, prima di chiudere la città con la riva dell'Adige in una zona vicina al Ponte Aleardi, una probabile apertura: sarebbe questa la sesta porta. L'andamento della cinta, seguendo la naturale depressione dell'Adigetto, era quasi ondulato, così come si nota ora nel più tardo muro ricostruito dopo il crollo dovuto all'inondazione del 1239, iniziando dai tempi di Ezzelino fino a quelli degli Scaligeri. Verso la fine del secolo venne completata anche la fortificazione muraria della città a sinistra dell'Adige, partendo dalla cima del Colle di San Pietro e scendendo verso il piano, come dimostrano i resti negli edifici dei padri Comboniani, dove è riconoscibile il basamento e la sagoma squadrata di una torre, e quelli, pure consistenti, di vicolo Case Rotte: in questo tratto, in via Fontana del Ferro, si apriva una porta nota con il nome di Porta Nuova del Castel San Pietro. Giangaleazzo Visconti trasformò questo tratto in base di un terrapieno girato all'esterno della città, sicché oggi appare muro di tenuta.

Il secondo tratto di recinzione partiva dai tufi di San Zeno in Monte, e per la zona del Giardino Giusti (nel muro di cinta del Giardino rimangono i pilastri laterali di una porta a due fornici che si apriva sulla via Postumia ad oriente) arrivava fino all'Adige. Di questa parte rimangono resti consistenti in via Porta Organa, laterali a questa omonima Porta ad unico fornice con largo arco a tutto sesto, in cotto e tufo: il nome completo di questa apertura era Porta Organa Nuova, per distinguerla dalla Porta Organa ricordata anche nell’Iconografia Rateriana. Può darsi che si sia dovuto edificare un muro difensivo anche sull'Isolo di San Tomaso, ma di esso non ci sono rimaste sicure e puntuali testimonianze, al di là dell'ambiguo toponimo di via Santa Maria Rocca Maggiore. Sul lato nord-ovest la cinta nuova si staccava dal muro teodoriciano circa all'inizio di via San Carlo in asse con via Madonna del Terraglio e includeva la chiesa e il quartiere di Santo Stefano, come mostrano i resti, poveri e rimaneggiati, di vicolo Carbonai, e raggiungeva il fiume ad ovest della chiesa, prima del Rio di Valdonega, lasciando quindi fuori il nascente borgo di San Giorgio. In questo tratto occidentale si aprivano quasi sicuramente due porte: quella che sostituiva l'antica Porta romana di Santo Stefano sulla strada per la Valdadige, e un'altra all'attacco tra il nuovo muro e il muro teodoriciano, come passaggio per la Valdonega: Porta San Pietro, ricordata nei documenti dell'epoca ma della quale non rimane traccia alcuna in loco. Come si può vedere almeno un borgo, quello di San Zeno, è rimasto fuori di questa prima cinta comunale; ma non indifeso, perché, e non sappiamo da quando, vennero costruiti terrapieni, muraglie di difesa pur se non collegate col resto, nelle quali si apriva anche una porta per il passaggio verso la campagna: Porta Fura, ricordata in documenti della fine del secolo. Anche in questo caso si tratta di un solo arco a tutto sesto, in tufo, su pilastri di marmo misto di conci, questa volta regolari, di tufo e ciottoli di fiume: era la prima linea difensiva del grande e importante borgo. Anche uno sguardo superficiale dimostra l'ampio allargamento di Verona con questa recinzione comunale. che rompe definitivamente, soprattutto per la parte destra della città, gli schemi delle difese romane. Tuttavia anche questa cinta è da considerarsi sostanzialmente provvisoria, non solo per le successive ricostruzioni e ulteriori ampliamenti, ma proprio in considerazione dell'eccezionale sviluppo urbanistico che non molti decenni dopo trasformò Verona in gran centro, uno dei più importanti dell'Italia Settentrionale».

«Dopo momenti d’incertezza e di tentativi vari, sempre comunque infelici, di recuperare l'antica libertà, il 22 giugno del 1405 Verona fece atto di dedizione a Venezia, e il giorno dopo accoglieva solennemente i nuovi signori. I patti di sottomissione furono confermati con la "Bolla d'oro" del 16 luglio 1405, essendo doge Michele Steno. Venezia si riservava il diritto di nomina dei Rettori (il Podestà e il Capitano) che sarebbero stati le massime autorità della città, affiancati dai più antichi organismi istituzionali del "Consiglio dei XII" e del "Consiglio dei L", che sostituirono definitivamente il pletorico "Consiglio dei Cinquecento" o "Consiglio Maggiore". La "Bolla d'oro" fu aggiunta agli "Statuti" riformati nel 1450 (stampati nel 1475), e costituì la "carta" fondamentale del diritto cittadino in Verona fino alla caduta della Repubblica di Venezia nel 1797. In questi quasi quattro secoli di sudditanza, per quanto riguarda la pianificazione urbana di Verona, soprattutto dal punto di vista delle costruzioni difensive, bisogna distinguere, per opportunità descrittiva, almeno tre momenti che, sinteticamente, si possono così enunciare: opere di completamento e adattamento dell'esistente nei primissimi anni della dominazione veneziana (la pace di Lodi segna un po' il punto fermo di questo primo periodo); opere di rafforzamento e sistemazione durante il periodo d’occupazione imperiale dal 1509 al gennaio 1517 (bisogna ricordare che all'occupazione di un esercito mal pagato, e quindi predatore e insolente, si aggiunse nel 1511-1512 il flagello della peste con annessi e connessi; carestie ed epidemie varie, del resto, avevano durante il '400 variamente spazzato la popolazione veronese: una stima non pacifica dà, infatti, una popolazione di 14.800 abitanti del 1409 (altri n’afferma 20 mila 100) e bisognerà attendere la metà del XVI secolo per superare la soglia dei 40.000); organizzazione e programmazione completa della definitiva strutturazione del sistema fortificatorio e, di rimando, urbanistico, dopo la pace di Bruxelles, comprendente un periodo che va, grossomodo, dal 1517 al 1578: prendendo quest'ultima data come segno provvisorio di un discorso che dovrebbe essere molto più complesso. Su quest'ultimo periodo sarà comunque necessario articolare più partitamente l'analisi, perché in esso sono concentrati tutti i lavori più importanti dell'operazione fortificatoria veneziana, e in esso compare la fondamentale figura di Michele Sanmicheli.

È inoltre necessario sottolineare il fatto che, mentre il primo secolo di dominazione veneziana non vide sostanziali modifiche al sistema difensivo, la prima metà del secondo secolo conobbe, invece, la radicale trasformazione di tutto il settore meridionale delle mura con la scomparsa pressoché totale delle strutture scaligere, e sostanziali interventi anche sulla sinistra del fiume. È evidente che il fatto è dovuto alle cambiate necessità di difesa e d’offesa venutesi a creare con la diffusione e il perfezionamento delle armi da fuoco. A noi interessa inoltre sottolineare che, nonostante fossero pur presenti intendimenti diversi anche negli stessi architetti militari che sovrintesero ai lavori più importanti e complessi (leggi: Sanmicheli), tutto il tessuto urbano di Verona ne risultò stravolto, soprattutto nelle zone dei "borghi " e si fissò il "destino" militare della nostra città: un "destino" che Venezia giocò sapientemente, sia nel periodo per lei assai critico della guerra della Lega, quando preferì lasciar cadere Verona nelle deboli mani degli Imperiali, sia dopo, quando centrò su questa città tutto il sistema difensivo occidentale. Veniamo dunque alla descrizione particolareggiata dei tre momenti sopra ricordati. Con un "ducale" del 22 ottobre 1408, viene istituito in Verona l'ufficio dei "provisores ad fortilicia": una specie di collegio ispettoriale con compiti anche di programmazione, creato per accelerare e consolidare l'integrazione non solo di Verona, ma anche delle altre province che via via passavano sotto Venezia: il programma prevedeva, dunque, un vero e proprio sistema difensivo organizzato per punti forti. A questo scopo, gli ispettori ufficiali della Repubblica compiranno viaggi periodici e sistematici per rendersi conto de visu della reale situazione fortificatoria delle singole città. A partire dal 1413 fino al 1428, sotto la direzione dell'”inzegnario” Picino o Pecino o Pincino, viene attuata la ricostruzione su base molto più completa e organica della "cittadella" di pianura: oltre al rafforzamento delle mura e delle porte d’accesso, si studia un vero e proprio piano d’autonomia alimentare interna, con la creazione di quei "broli" e di quegli "orti" che sono ricordati anche da Corna di Soncino e da Sanudo.

È un'altra prova delle difficoltà di realizzare in modo pacifico il passaggio di Verona dalla sua posizione di "signora" del Veneto, a quella di soggetta di Venezia. Se Sanudo chiama questa "cittadella" "ochio" di Verona, è pur vero, invece, che questo "ochio" spiava: più pronto all'offesa contro la città che alla difesa in generale. E corpo estraneo fu sempre sentita questa "cittadella" per tutto il secolo, fino a che lo stesso doge, all’epoca Leonardo Loredan, darà il suo consenso alla proposta di Giovanni Mocenigo di sopprimere questa gran caserma cittadina. Bisognerà però attendere i progetti di Sanmicheli per vedere attuata la sistemazione urbana di quest’importante e vasta fetta di città. Ancora oggi sono leggibili i segni di questa storia: gli spazi di piazza Cittadella, della zona ex-Stadio, il cortile del collegio Alle Stimate, gli spazi intorno alla caserma Mastino e la suddivisione dei lotti nella zona palazzo Inps e palazzo del Tesoro non possono non rimandare alla situazione particolare di questa parte di Verona. Sistemata la "cittadella" di pianura, probabilmente sempre lo stesso "inzegnario" provvide ad ultimare i lavori della "cittadella" di collina: in quest’occasione Castel San Felice trovò il suo primo completamento: le sue strutture, infatti, saranno soggette ad una serie multipla e complessa d’interventi che possiamo considerare provvisoriamente compiuti, forse, con gli adattamenti di questo secondo dopoguerra. Ci sembra di poter dire che intorno ad esso si esercitò particolarmente la perizia (e qualche volta anche lo sfizio) architettonico di tutte le generazioni fino a noi: invitava a ciò la sua posizione e la più vasta struttura difensiva offensiva consolidatasi negli ultimi decenni del XIV secolo. Altri interventi su questo complesso difensivo (comprendendo dunque anche Castel San Pietro e il muro della "Bàcola") verranno attuati fra il 1451 e il 1452: due date che segnano a tutti gli effetti come una specie di spartiacque nella politica architettonica in generale, e quindi anche difensiva, di Verona: non sarà un caso, infatti, che proprio in questo decennio (ca. 1460) uno Statuto cittadino vieti, comminando gravi pene per i trasgressori, di continuare ad usare i blocchi dell'Arena per edificare. L'Arena, di fatto e per secoli (soprattutto dopo i terremoti del 1117 e del 1183), era stata adibita come una vera e propria comoda cava cittadina, in cui il materiale era già bello e pronto, nonché squadrato! I blocchi del nostro anfiteatro, che nel ricordato Statuto viene ora definito "aedificium memoriale et honorificum" grazie ad un vero e proprio recupero archeo-filologico, si ritrovano proprio anche nelle costruzioni testé ricordate di Castel San Felice e Castel San Pietro.

Per il secondo momento, basterà ricordare l’elevazione di un bastione in terra battuta, là dove sorgerà pochi anni più tardi il Bastione di Santa Toscana: l'urgenza non permetteva altro. Questa stessa urgenza e necessità indusse gli Imperiali a mozzare le torri che s'alzavano sopra l'antica Porta San Giorgio (che verrà rifatta tra non molti anni) e sopra Porta Vescovo, che sarà la prima delle nuove porte veneziane. Inoltre venne reso più massiccio e compatto il muro di Cangrande prospiciente Valdonega, chiudendone e incorporandone le merlature, come ancora oggi si può ben vedere. Come si vede, tutte operazioni rapidi e facili, richieste esclusivamente dalla guerra in atto: non si tratta assolutamente di un piano organico d’interventi. Riconquistata pacificamente Verona con la pace di Bruxelles, i Veneziani entrarono ufficialmente in città il 18 gennaio 1517: in quella domenica, durante la messa solenne celebrata in Duomo, venne letta la "Patente della Signoria" nella quale si concedeva il perdono dogale a tutta la città. Ma Venezia non era affatto tranquilla, se la prima operazione che volle fu quella che potremmo chiamare delle "spianate": due "ducali" del 18-19 novembre 1517 e del 22 gennaio 1518 ordinavano, infatti, l'abbattimento di tutte le costruzioni e il divieto di coltivare alberi da fusto per uno spazio di un miglio tutto intorno alla città. Le case che già allora univano il centro con le borgate suburbane di San Massimo e Santa Lucia vennero spianate: Verona risultò così completamente isolata dentro la sua compatta cinta muraria, una specie di gran fortezza, un "bello arnese" (come lo avrebbe chiamato Dante) isolato, alla fine della pianura prima dell'alzarsi delle colline. L'iconografia in proposito è ricca e significativa. Nello stesso anno 1518 un'altra disposizione del Senato della Repubblica fissa in 6.000 ducati annui la spesa necessaria per il progetto fortificatorio.

Per il terzo momento è necessario ora operare un'ulteriore distinzione di periodi e di responsabilità. Dalla rioccupazione fino al 1523 dirige e sovrintende a tutta l'operazione, il comandante militare Teodoro Trivulzio, insieme con un'equipe d’esperti e d’ingegneri, quali Gian Maria Fregoso, Troilo Pignatelli, Zuan Maria Gomito e Filippo da Monselice: a loro dobbiamo un piano sostanzialmente organico di risistemazione di tutto il complesso fortificatorio, con una serie d’interventi, diciamo così, d’ordine generale, attraverso due strutture che resteranno fondamentali anche nelle altre operazioni d’architettura militare in Verona e fuori: le "rondelle" e i "bastioni". Una massiccia torre che costituisce il perno difensivo del sistema murario, la prima; più complesso il secondo, formato da un saliente a due facce, due fianchi (con o senza semigole e orecchioni), scarpata, rivestimento, cordone, parapetto e terrapieno: una muraglia molto più complessa di quella dei secoli di Cangrande! A questo punto va ricordato almeno il bastione delle "Boccare" (dì fronte a via Nievo), anche perché la sua attribuzione è stata recentemente (1978) riportata proprio a Teodoro Trivulzio, togliendola a Michele Leoni. Si tratta di un vero e proprio capolavoro d’ingegneria in senso assoluto: un grande ombrello marmoreo aperto su di un "manico" poderoso che si lancia sul soffitto piegato e girato, aperto quattro volte nelle quattro bocche da fuoco: le "boccare". C'è da augurarci che questo bastione venga presto pulito e liberato da tutti gli intralci d’ordine vario (fisico e burocratico) che ne rendono inagibile la visita: sarà a dir poco sorprendente per i veronesi entrare in questa specie di grande circo in muratura, sotterraneo! Meno interessante, ma non meno importante, il bastione di "S. Spirito". Viene infine ricostruita in questa prima fase di lavori la Porta del Vescovo: sul fronte esterno è leggibile la data del completamento dei lavori: 1520. Il progetto era iniziato nel 1517, dopo un'ispezione del futuro doge Andrea Gritti e Giorgio Cornaro e fu ultimato sotto la rettoria di Pietro Marcello e Andrea Magno. Il disegno è chiaramente riferibile al gusto rinascimentale veneziano, ma la sua armonia è stata notevolmente alterata da una serie di lavori, alcuni consigliati da Sanmicheli a cui questa Porta sembrava sguarnita e poco adatta al suo uso di "cavaliere" tra il bastione delle MaddaIene e il torrione dl Santa Toscana, altri compiuti dagli Austriaci nel 1860. Qualcosa della Porta del 1520 è possibile vedere nel disegno fine Settecento dell'ingegnere Adriano Cristofali. La lapide sulla facciata interna ricorda che attraverso questa porta il 16 ottobre 1866 entrarono in Verona le truppe italiane. Tra il 1523 e il 1525, in un intrecciarsi di non chiare operazioni e intendimenti, viene ultimata la serie delle rondelle e dei bastioni soprattutto del lato sinistra-Adige: sono tre anni di "disordine", come si può leggere nelle relazioni degli ispettori veneziani. Un "disordine" che durerà fino al 1532, anno in cui tutta la direzione dei lavori verrà definitivamente affidata a Michele Sanmicheli. Intanto, in questi dieci anni, troviamo al lavoro, variando più volte impostazione, Bernardino da Treviso e Michele Leoni, con la presenza attiva, sia a livello culturale che a livello più rigidamente militare (ed è una presenza che durerà anche dopo), del duca d’Urbino Francesco Maria della Rovere. Vengono quindi compiute almeno due grandi strutture: Porta San Giorgio (la data 1525 è chiaramente leggibile sul fronte esterno) a cavaliere tra l'omonimo bastione e il fiume, e il bastione delle Maddalene nel 1527.

Vale la pena di soffermarci almeno un attimo su entrambe queste costruzioni. La Porta San Giorgio veneziana venne aperta più a fiume rispetto alla più antica Porta medievale, al posto della quale era stato costruito il bastione: si tratta di una compatta, ma armonica costruzione di tipo, diciamo così, romano: un fronte "ad agrum" ricoperto di lastre di marmo chiaro con un grande arco centrale e quattro porticine laterali ad architrave (le ultime esterne sono murate). Diversamente dalle Porte Romane il complesso è interamente coperto, senza cioè cortile interno, così come cinque anni prima era stato fatto a Porta Vescovo. I sei scudi, quattro grandi e due piccoli, le due grandi targhe sulle porticine laterali, la scansione in tre larghi spazi realizzata per mezzo di quattro lesene. la "lettura" classica dello spazio di questa facciata confrontata con le architetture affrescate sui muri interni del Duomo di Verona, hanno suggerito di attribuire il progetto di Porta San Giorgio e anche quello di Porta Vescovo all'architetto veronese Giovanni Maria Falconetto. Certamente non sono sanmicheliane. Il fronte interno di Porta San Giorgio è più semplice, ma non meno armonico: si compone di tre fornici, i due laterali con ghiera interna, in una cortina di leggero bugnato disegnato. Gli Austriaci interverranno su questa Porta nel 1838, abbattendo un torrione che era stato costruito nel 1620 ed aveva ospitato la cappella detta "del Cristo". Il bastione delle "Maddalene", che possiamo ritenere iniziato nel 1527, rivela nella sua struttura poligonale l'influenza dell'architetto militare Francesco da Viterbo, uomo di fiducia di Francesco Maria della Rovere: si alza tra Porta Vescovo e il più complesso bastione di "Campo Marzo". È a pianta pentagonale e capovolge nella sua realizzazione il compito originario del bastione: da difensivo ad offensivo. Sono innovazioni che si ritrovano anche nelle fortezze dell'Italia centrale e sono dovute all'équipe d’architetti e alle idee che portava con sé il duca d’Urbino. Così dicasi per i "puntoni" di Castel San Felice, di questo torno di tempo: quella maestosa prora di nave (e i Veronesi la conoscono con il nome di "nave") che punta a Nord: alle colline e alle montagne, dell'ostile Impero. L'altro "puntone", più ad oriente, è austriaco. Nel 1528, a Bernardino da Treviso succede nella direzione tecnica dei lavori Michele Leoni, che rimase per circa quattro anni avvalendosi, forse, dei consigli di Nicolò Tartaglia: un tempo venivano attribuite a Leoni costruzioni singolari e innovative, come ad esempio i bastioni delle "Boccare" e delle "Maddalene"; una più attenta lettura del suo procedere non innovativo gli ha tolto molti dei meriti antecedentemente attribuitigli. Il 1532 segna una svolta per la storia urbanistica di Verona...».

Bibliografia e Sitografia

http://guide.travelitalia.com/it/guide/verona/mura-e-porte-comunali-verona/

http://guide.travelitalia.com/it/guide/verona/mura-e-porte-veneziane-verona/

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