Giaglione (resti del castello Superiore Aschieri de Jalliono)

CENNI STORICI

Non vi è nulla di certo sulla data di costruzione del castello. Alcuni, come Baldassarre Molino, autore del libro Giaglione, storia di una comunità, hanno avanzato alcune ipotesi in base alla tipologia muraria (pietre disposte a spina di pesce) di quei pochi tratti di muro ancora visibili in cima al cumulo informe che identifica la zona in cui sorgeva il castello. Secondo queste ipotesi e da quanto afferma il padre cappuccino Placido Bacco da Giaveno, vissuto nel XIX secolo, la costruzione potrebbe risalire agli anni intorno al 1230, quando il ramo de Jalliono (o, equivalentemente, de Iallono, cioè di Giaglione) della famiglia Aschieri, prese possesso del territorio. In particolare la costruzione sarebbe da attribuire ad Amedeo Aschieri de Jalliono.

Le prime notizie sicure provengono dai documenti d’investitura, conservati nell’archivio di Stato di Torino. Il 30 maggio 1345 Micheletto Aschieri de Jalliono riceve investitura di “due castelli o case forti site presso Giaglione”, castelli che sono denominati uno “castello superiore”, quello in cui dimora il Micheletto Aschieri, l’altro “castello di Menate” (ancora oggi esistente).

Pare che a questa data il castello si configurasse più come una casa forte, “scomoda ed angusta” come dice il Molino, anche per la semplicità della vita condotta da Micheletto e come è testimoniata dagli atti della Confraternita dello Spirito Santo.

La posizione del castello era tale da permettere il controllo di importanti vie di comunicazione. A pochi metri di distanza, verso occidente, una via conduceva a nord verso la Novalesa, sede della nota abbazia risalente al VIII secolo (l’atto di fondazione, conservato nell’archivio di stato di Torino, è del 726 d.C.), e a sud verso il passo del torrente Clarea, nel XVI secolo sede di barricate che delimitavano il confine tra il ducato di Savoia ed il Delfinato. Ad un centinaio di metri dal castello, sulla via verso il passo della Clarea, un’altra mulattiera si dirama ancora oggi da questa, per dirigersi a monte verso il Moncenisio, oggi territorio francese.

Un atto di investitura del 1437, questa volta emesso a favore dei fratelli Antonietto e Micheletto de Jalliono (quest’ultimo nipote del sopraccitato Micheletto), descrive in modo abbastanza dettagliato il castello che in tale data si componeva di una parte a monte (il nucleo più antico del castello) e di una parte a valle (il “ricetto”). Per il castello a monte, cioè verso occidente, vengono citate nel documento di investitura “una torre grande con torre, cui sono adiacenti una cucina vecchia, una cucina nuova e una prigione”. Ad occidente e ad oriente di questo nucleo inoltre dovevano trovarsi due cortili o corti (il termine usato dal documento è “platea”). Il mastio (la “turrim magnam”) era alta cinque piani (“quinque solos”). Inoltre pare che ci fossero anche due grandi sale con due logge, sale che vengono ereditate da Antonietto e che confinavano ad occidente con il nucleo più antico del castello stesso e con una camera di proprietà del fratello Micheletto.

Per il ricetto, l’atto di investitura del 1437 cita un generico possedimento consistente in “un caseggiato, delle stalle, dei fienili ed un forno”. Adiacenti al ricetto v'erano, sempre secondo l’atto, una vigna ad est, un cortile a nord e un campo a sud.

In seguito all’incendio del 1536, appiccato dalle truppe francesi di Francesco I re di Francia, durante la sua incursione in Italia per conquistare Torino e impedire la successione al ducato di Milano del figlio dell’imperatore Carlo V dopo l’estinzione degli Sforza, Gaspardo Aschieri, signore del castello a quel tempo e nipote di Antonietto, presenta alla comunità una richiesta di rimborso dei danni (1538). Tale richiesta, nell’enumerare le parti del castello che erano state danneggiate, cita per il ricetto “cinque stalle, una sala grande con cucina e loggia, cinque camere, due fienili ed una cantina”. La stessa richiesta di danni del 1538 enumera anche le parte del castello “a monte” che erano state intaccate dal fuoco. Esse sono “una sala grande superiore con le sue pertinenze; due camere sopra la porta di ingresso al castello; una cantina con un granaio al di sopra e un’altra camera al di sopra del granaio; una torre di cinque piani”. Da quest’ultimo passo, si può dedurre con ragionevole certezza che i piani fossero almeno tre, visti la disposizione della cantina, del granaio e della camera sopra il granaio qui citati, anche se non sappiamo se questi facessero parte del mastio (al piano terreno del quale pare ci fosse una cantina in cui veniva conservato il vino).

Nella prima sala del museo del Forte di Exilles [1] in Alta Val Susa, a circa una decina di chilometri dal comune di Giaglione, sono esposti due disegni raffiguranti il versante orografico sinistro dell’Alta Val Susa fino a Susa. Una di essi risale alla metà del '500 ed è attribuito a Giacomo Soldati (in essa il forte di Exilles è riportato nella raffigurazione del 1546 e mancano la cittadella di Susa e il forte di Santa Maria). L’altra è della fine del '500 ed è attribuita a Gabrio Busca (la carta è conosciuta come Gran Carta della Val Susa o Carta delle Valli Valdesi dal Monginevro a Susa e raffigura la battaglia dell’Ambournet tra gli eserciti di Carlo Emanuele I e del duca francese Lesdiguières). In entrambi i disegni è chiaramente riconoscibile il Castello Superiore di Giaglione, rappresentato in alto a sinistra rispetto alla chiesa parrocchiale, e perciò correttamente posizionato. La caratteristica interessante di queste due raffigurazioni consiste nella rappresentazione pressoché identica del castello. Sebbene si tratti di disegni alquanto sommari, il castello è mostrato in entrambi i casi come composto da quattro torri in angolo. Nella raffigurazione attribuita a Giacomo Soldati si vedono bene tre torri su quattro, torri che lasciano comunque intuire l’esistenza della quarta nascosta dalla prospettiva, più il mastio al centro. Nella raffigurazione attribuita a Gabrio Busca sono visibili le quattro torri, e s’intuisce perciò la presenza di abitazioni all’interno delle mura.

Il 7 febbraio 1447 una commissione composta da Giacomo, conte di Valperga e vice castellano del mandamento di Susa, da alcuni «magistri oprarum» del conte di Savoia, esperti in fortificazioni, e da Bono di Scalenghe, dei conti di Piossasco, si presenta alle porte del castello. La commissione visita i castello all’interno e all’esterno e si reca al passo del torrente Clarea presso le barricate. Al ritorno essa ordina ai consignori di eseguire alcuni lavori di riparazione e fortificazione, pena la confisca dei beni.

Nel 1560 Lorenzo Aschieri, figlio di Gaspardo, dà inizio ad alcuni lavori al fine di scavare delle gallerie di fuga al di sotto delle mura del castello. Lorenzo giustifica questi lavori con la necessità di sfuggire ad attacchi al castello, ma durante la successiva vertenza si fa largo nella comunità l’idea che egli voglia minarne le fondamenta per farlo ricostruire a spese della comunità stessa. Nel 1562-63 viene aperto un varco sotto l’ingresso, e continuando nello scavo in direzione ovest viene ricavata una cantina lunga 13,65 metri, larga 4,5, alta 2,60. La cantina così ottenuta viene quindi prolungata fuori del castello di altri 10,5 metri, con una larghezza di 2,10 ed un’altezza di 2,27, senza uscire all’aperto. Nonostante i pareri dei maestri muratori ed il cedimento di alcuni ambienti del castello al di sopra della galleria, Lorenzo Aschieri dà inizio a nuovi scavi successivi. Partendo da un ambiente del ricetto, un tempo adibito a stalla dei cavalli, ordina di scavare sotto il cortile in direzione del mastio; da quel punto un cunicolo viene ricavato in direzione est, verso la sottostante borgata di Sant’Andrea, mentre un altro budello prosegue in direzione nord. Tutti questi scavi si risolvono in una serie di smottamenti e fenditure nelle mura del castello e prosciugano le risorse economiche di Lorenzo.

Alla sua morte, il figlio Emanuele Filiberto, ancora minorenne, trascorre alcuni anni nel castello di Collegno, dove risiede il suo curatore e padrino, Federico di Savoia. Torna a soggiornare a Giaglione, forse sporadicamente, a partire dal 1584, quando riceve investitura del feudo assieme al titolo di conte, ma non risiede nel castello superiore se non durante la peste del 1588 e nell’anno seguente. Scomparso il pericolo del contagio, il conte sceglie come abitazione la torre o palazzo nella frazione San Giuseppe, lasciando ancora decadere il castello.

Con la morte di Emanuele Filiberto Aschieri (gennaio 1620) si estingue il ramo de Jalliono, della famiglia Aschieri. Dopo la sua morte, il castello, ormai in completa rovina, subisce le ingiurie del tempo e verosimilmente anche quelle degli uomini, dopo che intere generazioni avevano visto in esso lo strumento ed il centro del locale potere feudale.

Le vicende del castello si chiudono con due brevi notizie, ricavate dal parcellario dei sindaci nel 1672.

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XIII sec.

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