CENNI STORICI
Tra fine IV e inizi V secolo l’Impero romano potenziò la difesa alpina mediante un sistema di “chiuse”, ovvero di fortificazioni a sbarramento delle valli nei punti di passaggio obbligati delle principali vie di comunicazione verso i valichi. Esse furono poi utilizzate anche da Goti e Bizantini e divennero oggetto di ripetuti interventi di restauro da parte dei re Longobardi, ancora interessati a mantenere in funzione le fortificazioni e a controllare i transiti lungo le aree di frontiera. Tra le opere difensive dell’arco alpino, le clausurae della Val di Susa ebbero una notevole importanza in età altomedievale: nel 773 d.C. infatti furono teatro del celebre scontro fra Desiderio, re dei Longobardi, e le truppe di Carlo Magno. Dopo la conquista franca mutarono le funzioni della chiusa, ma le strutture materiali delle fortificazioni furono ancora usate per alcuni secoli a difesa della strettoia della valle. La cronaca dell’abbazia di Novalesa, redatta intorno alla metà dell’XI secolo, ne ricordava ancora le vestigia ben visibili e localizzate tra il monte Pirchiriano e Caprie, dove cita anche un Palatium dei Longobardi. è proprio in questa zona, tra Caprie e Chiusa San Michele, che bisogna perciò immaginare la localizzazione dell’antico sistema difensivo, laddove la valle si fa più stretta a causa della presenza dei due speroni naturali dei monti Pirchiriano e Caprasio. Dell’antica fortificazione non restano oggi sicure tracce materiali ma è probabile che sia stata realizzata attraverso un sistema di cortine murarie con funzione di sbarramento della valle, più che da un’unica possente struttura, descritta nella cronaca di Novalesa come un muro a calce esteso “da monte a monte”. La tradizione storica locale identifica i resti delle clusae langobardorum in una poderosa struttura muraria che fiancheggia il rio Pracchio, nel territorio comunale di Chiusa S. Michele, ma ad oggi l’attribuzione di questa muratura alla celebre fortificazione resta ancora fortemente dubbia e non ha mai trovato riscontri archeologici».«Le clusae (cioè le chiuse, termine che indica in questo caso una struttura difensiva approntata sfruttando la naturale conformazione delle vallate alpine) della Valle di Susa hanno alimentato una longeva varietà di miti storiografici che i recenti studi hanno contribuito a sfatare. Anzitutto, le chiuse della Val Susa non erano un caso unico, anzi: le chiuse erano distribuite lungo tutto l’arco alpino ed erano preesistenti all’arrivo dei Longobardi, che però furono sempre attenti a curarne la manutenzione. Un altro punto su cui è stato necessario apportare delle correzioni rispetto alla tradizione erudita è la realtà materiale delle chiuse. Difficilmente presero la forma di muraglioni invalicabili, di complicata costruzione e spesso superflui, data la conformazione del terreno alpino. Inoltre, le chiuse non erano centrali nello schema delle fortificazioni difensive, tant’è vero che la loro efficacia si rivelò spesso molto limitata. Un’ulteriore tradizione da sfatare è quella legata ai resti della chiusa che vengono indicati in alcuni punti della Val Susa. È assai improbabile che questi resti murari, visibili per esempio presso il paese di Chiusa di San Michele, costituiscano realmente le vestigia dell’antica chiusa. Dopo la caduta del regno longobardo, la chiusa rimase un punto di riferimento geografico e liminale, per perdere infine anche questa funzione nel corso del XII secolo. La grande notorietà delle chiuse si deve al fatto di essere state teatro dello scontro tra Longobardi e Franchi nel 773 e a due diverse ricostruzioni dell’evento, elaborate a secoli di distanza. La prima è la versione dell’anonimo autore della Cronaca di Novalesa, che scrive nell’avanzato XI secolo e fornisce un racconto arricchito di molti particolari suggestivi, rispetto ai resoconti piuttosto asciutti delle fonti più vicine ai fatti, introducendo l’elemento del giullare traditore per spiegare la facilità con cui i Franchi di Carlo Magno superarono l’ostacolo delle chiuse. Questa versione è rifiutata da Alessandro Manzoni, che nell’Adelchi – tragedia pubblicata nel 1822 – introduce la figura del diacono Martino (atto II, scena III). Queste due opere, molto diverse tra loro, hanno contribuito a fare delle chiuse un punto di grande interesse e una fonte di leggende erudite radicate nell’immaginario comune, soprattutto a livello locale
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