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Belle donne, merletti e tramonti: il successo delle arance del Gargano

Le scelte che resero irresistibili le réclame delle ditte agrumarie

Anni fa il Parco Nazionale del Gargano, Italia Nostra e il Consorzio “Gargano Agrumi” ottennero il marchio IGP, oltre che per il limone “Femminello”, anche per “l’Arancia del Gargano” nelle varietà “bionda” e “duretta” tipiche dell’Oasi Agrumaria di Rodi, Vico e Ischitella.

A convincere la Commissione Agricoltura della Camera dei Deputati alla stesura del primo disciplinare IGP fu la visione di un dossier che aveva il suo punto di forza nell’album fotografico bilingue (in italiano-inglese): Rodi Garganico. Splendori di un passato, curato dal prof. Filippo Fiorentino e don Matteo Troiano. Illustrava le pubblicità delle Società Agrumarie operanti a Rodi Garganico nel primo Novecento.

Da una prima lettura dei manifesti, bigliettini, incarti, presenti nell’album suddetto, si evidenziano i filoni ricorrenti, le scelte iconografiche del prodotto pubblicizzato. I temi preferiti dai creativi delle Società Agrumarie rodiane spaziano a 360 gradi. I più frequenti fanno perno su immagini simboliche (The Fortune si incarna in una bellissima donna discinta, rincorsa dalla Morte e da un cavaliere che travolgono nella loro folle corsa chiunque si trovi sulla loro strada) e mitiche (Il Colosso di Rodi-Atlante regge il mondo; Nettuno-Sirene-Aquila reale sono abbinati a strumenti essenziali per la navigazione come la bussola, il timone e l’ancora).

    

        

Dall’analisi iconografica si desumono informazioni sul periodo storico di realizzazione dei manifesti: fine Ottocento, Belle Époque, Ventennio fascista. Le immagini fanno riferimento alla Regina Margherita; alla Lupa con Romolo e Remo; alle Repubbliche marinare (Pisa, Genova, Amalfi e Venezia); alle sfilate oceanico-coreografiche di Villa Borghese. Quelle interculturali mostrano nazioni solidali (Italia e America impersonate da due floride ragazze in costumi tipici che si stringono una mano, in segno di amicizia, tenendo in pugno saldamente, nell’altra mano, le rispettive bandiere) ed immagini esotiche (la diversità del Giappone con i paesi occidentali è marcata dall’abbigliamento femminile e dai modi dell’abitare).

I testimonial sono personaggi storici del Nuovo Mondo: Cristoforo Colombo, George Washington, le Indios del Far West.

Osservando i paesaggi, le figure umane ed i caratteri di scrittura utilizzati dai grafici pubblicitari, cui le ditte rodiane affidarono la creazione dei “logo”, si evincono altre particolarità.

Le locandine della Società Agrumaria De Felice differiscono dalle altre sia per le visioni paesaggistiche, sia per i caratteri grafici utilizzati. I temi pubblicitari sono riferibili ad un topos paesaggistico-romantico estremamente rarefatti, che supera la contingenza reale. I colori sfumati visualizzano elementi tendenti a creare suggestioni (i tramonti; la luna; la laguna; il porto; scenari di divertissement alto-borghesi con signore e signori elegantemente vestiti secondo la moda Belle Époque, che si divertono a tirare con l’arco, in un paesaggio stilizzato). Si avverte la finalità della Ditta De Felice di assumere una dimensione planetaria, internazionale; la sua tensione (sottesa alle scelte grafiche) di distaccarsi il più possibile dal contesto locale.

Le pubblicità della Società Agrumaria Vincenzo Russo focalizzano, al contrario, scorci di vita reale, tradizioni popolari sinonimo di genuinità. Esplicito il riferimento alle tipiche attività delle donne del Gargano. Merletti e carte pizzo testimoniano la consuetudine femminile dell’arte del merletto: la sensibilità muliebre si esprime nei ricami del corredo. Si nota la cura nella presentazione del prodotto agrumario, l’attenzione per il lavoro di confezionamento. Riguardo ai caratteri scrittori utilizzati nei testi, l’uso è variegato. Si va dalla scrittura in corsivo al gotico più ricercato, con presenza di elementi decorativi decisamente elaborati.

Nei manifesti della Società Agrumaria Ciampa & Sons ci sorridono prosperose figure femminili e una venditrice di arance e limoni in abiti d’epoca. Affianco si intravedono cassette di legno di faggio, su cui è impressa la stessa immagine pubblicitaria. I tipi di bellezza muliebre sono riferibili soprattutto alla tradizione garganica, napoletana e siciliana, ma anche a tutte le altre regioni dell’Italia (in un ampio ventaglio appaiono ragazze con i costumi tipici delle varie province). Emergono i canoni estetici del tempo, che esprimono il massimo nelle gote colorate e nei seni prorompenti. La simbologia della fecondità è ripresa dalla presenza di arance giganti poste vicino alle donne. Sullo sfondo di una carta-sipario, appare la collina verdeggiante di Rodi Garganico, con gli agrumeti ed frangivento; lungo la spiaggia si nota la presenza dei “baracconi”, gli stabilimenti di lavorazione e di confezionamento delle varie ditte (in primo piano quello con la dicitura Ciampa & Sons). Il porto è caratterizzato dalla presenza di numerosi barconi a vela e di “trabaccoli”.

In altre locandine campeggiano, con una frase-spot riferibile alla qualità/sicurezza organolettica delle arance rodiane, altre figure-simbolo: un tamburino batte a fatica il suo strumento (Drummerboy hard to beat – dura da battere!); in un manifesto della Società Agrumaria preparato per l’esposizione di Parigi del 1889 una bimba protegge le cassette di agrumi dall’assalto delle mosche, facendo scudo con il suo corpo (There are no flues on me – non ci sono mosche su di me!); un raccoglitore di agrumi in abito tipico (molto simile alla maschera napoletana di Pulcinella) mostra una bella arancia (Good all the year round – buona tutto l’anno!), evidenziando il suo punto di forza: la presenza del prodotto sul mercato mondiale per dodici mesi all’anno. mentre le arance provenienti dalla penisola sorrentina o dalla Sicilia maturano soltanto in determinati periodi.

Riguardo agli sfondi utilizzati nelle locandine, la Società Ciampa & Sons presenta il Golfo di Napoli con il Vesuvio lumeggiante sullo sfondo. I colori sono forti e appariscenti: rosso, ocra, verde, blu di Prussia, giallo; la Ditta De Felice utilizza colori evanescenti sul grigio azzurro, verde tenue, a simboleggiare una sorta di rarefazione del dato contingente, la mirata proiezione del prodotto agrumario sul mercato planetario. Gli agrumi sono assenti. La pubblicizzazione tende a staccarli dalla banalità utilitaristica del commercio. C’è la ricerca di un target di mercato diverso.

Gli slogan della Ditta Ciampa & Sons fanno perno su similitudini ovvie come frutta-salute, frutta-abbondanza, ma anche su abbinamenti inediti come frutta-felicità e frutta-pace.

È ampio l’uso del linguaggio figurato: le figure retoriche spaziano dall’allegoria al paradosso, alla metafora. Alcune richiamano il doppio senso: «The Triump of Neptune» (Il trionfo di Nettuno), indica il primato marittimo dei “trabaccoli” rodiani che trasportano il prodotto agli imbarchi mitteleuropei o alle stazioni ferroviarie dirette a Napoli per l’imbarco sui bastimenti americani; «The Pride of Rodi» (L’orgoglio di Rodi) fa leva sull’ambiguità della donna/arancia; il riferimento ad una delle Sette Meraviglie del mondo antico, il Colosso di Rodi, attesta la duratura potenza commerciale delle Società Agrumarie rodiane («Rodi For Ever». Rodi per sempre).

Parole chiave dell’economia rodiana, fatte proprie dalla Società Agrumaria Ricucci, sono commercio, navigazione, industria. Sopra il globo terrestre, sovrastato da un’aquila con gli agrumi tra gli artigli, campeggia il cartiglio con la scritta «L’union fait la force».

Slogan che potrebbero ispirare i grafici del Terzo millennio, con le tecniche della moderna comunicazione visiva, a produrre pubblicità efficaci per il rilancio degli agrumi del Gargano, nel solco della tradizione delle ditte rodiane che lanciarono il loro prodotto nelle fiere di Londra e Parigi….

©2007 Teresa Maria Rauzino. L’articolo è stato pubblicato sul quotidiano “L’Attacco” del 14 settembre 2007. Le immagini sono tratte dall’album fotografico Rodi Garganico. Splendori di un passato a cura di don Matteo Troiano, Edizioni Parrocchia San Nicola, Bologna 1999.

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Di torre in torre, alla scoperta dei monumenti sgarrupati del Gargano

Per contrastare i pirati e i corsari, l’imperatore Carlo V, a partire dal 1537, dette l’avvio alla costruzione di numerose torri lungo tutte le coste del vicereame di Napoli. Il sistema delle torri era funzionale all’avvistamento degli invasori che giungevano dal mare. Il principio difensivo di proteggersi mediante torri di avvistamento, adottato già dall’epoca romana, continuava ad essere ancora validissimo: alcune furono ricostruite negli stessi luoghi occupati un tempo da torri romane, bizantine, sveve o angioine. Il piano difensivo, ideato dal vicerè Pedro di Toledo, fu attuato da don Pedro Afan de Ribera. Per una difesa efficiente della costa della Capitanata ravvisò la necessità di costruire dieci torri sui litorali dal Fortore a Manfredonia. Accanto alle torri cilindriche ne comparvero di quadrate, specie nei punti nevralgici e maggiormente esposti della costa.

La distanza tra le torri variava in funzione della morfologia della costa: poteva raggiungere i 30 chilometri , nel caso di zone concave di spiaggia o di coste rocciose senza insenature; ridursi a circa 10 chilometri nel caso di costa frastagliata.

Per uniformare le tipologie e le modalità difensive, ogni opera fortificata doveva essere autorizzata dalla Regia Corte, mentre le torri già esistenti e ritenute idonee furono espropriate. L’ubicazione delle torri avveniva in modo tale che esse costituissero un cordone ininterrotto: ogni torre “guardava a vista” la precedente e la successiva. Salvo casi particolari, le torri furono costruite con grande parsimonia. Quelle costruite in precedenza dai privati oppure dalle varie Università (i Comuni), vennero incamerate dallo Stato, previo rimborso delle spese sostenute per la costruzione. Furono denominate torri “cavallare”, perché poste sotto la guardia di un uomo a cavallo, in grado di allertare rapidamente il più vicino presidio militare.

Le Università dovettero farsi carico del pagamento dei salari dei militi e dei cavallari in servizio presso le torri e, per le torri che ne erano dotate, della «feluca di guardia» (rematori con barca). I lavori di costruzione procedettero con grande lentezza. Nel dicembre 1594 Carlo Gambacorta, marchese di Celenza Valfortore, visitò le torri costiere della Capitanata e compilò delle minuziose schede su ognuna di esse, oggi conservate presso la Biblioteca Nazionale di Parigi. Ogni scheda, oltre ad una relazione sullo stato di ciascuna torre, ne contiene la pianta, la sezione e la veduta prospettica.

Le torri erano quasi tutte quadrangolari a tronco di piramide. Il coronamento presentava per ogni lato quattro o cinque caditoie, cioè delle botole aperte in successione lungo il cammino di ronda della costruzione difensiva, e da cui era possibile rovesciare sul nemico sottostante ogni tipo di proiettile o oggetto contundente. Per lo più ad un solo vano e con una sola porta, le torri avevano una cisterna per la raccolta delle acque piovane. L’accesso era consentito mediante una scala volante o fissa e un piccolo ponte levatoio collocati entrambi sulla parete a monte. La parete rivolta verso il mare era cieca (dal momento che era la più esposta al pericolo) e le due laterali erano munite di feritoie. Le informazioni venivano trasmesse da una torre all’altra. L’avvistamento di navi sospette veniva annunciato durante il giorno con colonne di fumo, durante la notte con l’accensione di fiaccole: il numero di fuochi era pari al numero delle imbarcazioni nemiche avvistate.

L’habitat del territorio di Montepucci e Peschici

Cessato il pericolo turco, le torri costiere furono mantenute in piedi dignitosamente finché ebbero una funzione specifica: fino al secolo scorso, in qualche caso fino a pochi decenni fa, servivano per avvistare i contrabbandieri. In seguito sono cadute in rovina. L’abbandono è stato totale sia che fossero proprietà di privati sia che appartenessero al Demanio. 

Alcune torri (Sfinale, Calalunga, Portonuovo, San Felice, Torre Petra, Monte Pucci) hanno perso il coronamento ed esso è stato sostituito con sovrastrutture più moderne. Altre, come le torri di Sfinale e Calarossa sono ridotte a ruderi. Altre torri, pur restaurate, sono sulla via del degrado: torri poste in una stupenda cornice paesaggistica sono escluse dalla pubblica fruizione in quanto non è stata prevista alcuna valorizzazione: la Torre San Felice (Vieste), soggetta a continui atti vandalici, è stata letteralmente murata; la torre di Montepucci è chiusa al pubblico. Un vero peccato, visto l’importanza che ebbero un tempo e che potrebbero tornare ad avere come “sentinelle” del mare. Ricordiamo che le torri sono dei monumenti nazionali sottoposti a vincolo come tutti gli edifici storici di un certo valore e di una certa vetustà e dovrebbero essere protette e valorizzate dagli Enti territoriali sotto la cui giurisdizione ricadono. Un compito puntualmente disatteso.

La Soprintendenza ai beni monumentali della Puglia, il Parco del Gargano, la Comunità montana del Gargano, la Provincia di Foggia, la Regione Puglia , e i vari comuni nel cui territorio le varie torri costiere sono ubicate, cosa intendono fare per non farle morire?

Torre Montepucci

TORRE MONTEPUCCI (PESCHICI)

La Torre di Montepucci, in località Peschici, è ubicata su un tratto di costa affacciato direttamente verso nord, per cui è possibile in estate vedere sorgere e tramontare il sole sullo stesso mare. In lontananza, si scorgono le Tremiti e le lontane isole della Dalmazia. Verso Oriente è l’abitato di Peschici, affacciato sulla sua Rupe in una posizione straordinariamente suggestiva. Più vicino, su uno sperone roccioso, si trovano tre trabucchi da pesca. Guardando verso occidente si spazia lungo la costa che, in un susseguirsi di spiagge e falesie, porta a San Menaio, a Rodi Garganico, alla duna che separa il lago di Varano dal mare. Il rilievo di Monte d’Elio chiude l’orizzonte a ovest. Il Monte Pucci, che risale verso sud fino alla Foresta Umbra, è ricoperto da una fitta pineta di pino d’Aleppo, che in queste zone è autoctono; ad esso si accompagnano arbusti di lentisco, fillirea, cisto e varie specie di orchidee di cui il Gargano è particolarmente ricco. La pianta più caratteristica è la campanula garganica.

Intorno agli anni Sessanta, la Torre di Montepucci divenne, per qualche anno, la residenza dell’artista Manlio Guberti che vi aprì un ospitale Club della Tavolozza. Pittore, incisore e poeta, Guberti aveva studiato musica e giurisprudenza, laureandosi nel 1939 all’Università di Bologna. Si diplomò nel 1944 all’Accademia di Belle Arti di Roma. Partecipò alla Biennale di Venezia e ad oltre 50 esposizioni personali in Italia e nel mondo. La città di Yaroslav, a nord di Mosca, ha acquisito molti dipinti e incisioni all’artista per dedicargli una sezione della propria galleria. Guberti amava i luoghi incontaminati e selvaggi, i deserti. All’inizio degli anni Cinquanta trascorse un periodo negli Stati Uniti, nel Far West dove interpretò magistralmente la magia del deserto. Un uomo coltissimo, curioso di tutto, che amava molto la solitudine del selvaggio Gargano, e di Montepucci in particolare. Manlio era capace di contemplare un’onda, intuendo l’ordine nell’apparente disordine e leggendovi armonie “frattali”. Scrive nel suo epistolario dal Monte Orcius: «In questi giorni ho fatto diversi studi di onde, specialmente vedendole dall’alto capisco perché gli antichi aggiogarono al carro di Poséidon i cavalli, che sono forse gli animali più belli della terra…».

SCHEDA TORRE

Denominazione manufatto: Torre di Montepucci
Località: promontorio del Gargano; 
Comune: Peschici; 
Prov incia: Foggia.
Latitudine: 41° 56’ 49” 20;
Longitudine: 16° 1’ 0” 12
Significato del toponimo: prende il nome dal toponimo della zona, probabilmente Monte Orcius.
Sistema di comunicazione: consisteva in segnalazioni visive dall’una dall’altra torre tramite fumo o fuochi, con 
l’uso di campane o corni. Uomini a cavallo (cavallari) perlustravano tutto il territorio circostante.
Proprietà attuale: demanio dello Stato.
Utilizzazione originale: la torre serviva a controllare le incursioni saracene. La sua presenza ricorda periodi in 
cui il mare non era una presenza amica, ma un pericoloso varco aperto per pirati e corsari, che 
periodicamente razziavano schiavi e raccolti sulle coste del Gargano.
Utilizzazione attuale: nessuna utilizzazione. Da qualche anno è posta sotto sequestro, per evitare un’utilizzazione 
impropria da parte degli ultimi concessionari.
Epoca di edificazione: XVI secolo, 1569.
Autore: la torre venne edificata per volontà di Alfonso Salazar che visitò la nostra regione e appaltò la 
costruzione di 21 torri a Giovanni Maria della Monica.   
Tipologia planimetrica: la struttura è a tronco piramidale senza caditoie in controscarpa e senza cordolo. La
torre è completa nei due piani.
Qualità del mare: le acque del mare di Montepucci confluiscono in quelle della baia di Peschici, che hanno
ottenuto la bandiera blu della FEE. La mancanza di fabbriche industriali e di scarichi fognari ne garantisce
un’ottima balneabilità. Sono il paradiso dei sub.

©2008 Teresa Maria Rauzino (testo e foto). 

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Storie del perduto amore

Giuseppe D’Addetta, fin dagli anni Cinquanta, intuì che anche i centri più sperduti del Gargano avrebbero avuto qualcosa di importante da comunicare a chi avesse avuto la curiosità di conoscerli. Una tradizione folklorica ed etnografica intatta, e sorprendentemente attuale, era ancora da valorizzare. Essa attendeva di essere conosciuta da chi, mosso dal desiderio di conoscere ciò che un tempo, in un’altra vita, siamo stati, si fosse spinto per le balze più scoscese della Montagna del sole, alla ricerca di luoghi della memoria ormai dimenticati.

Novelle e leggende della Capitanata, una bella raccolta curata da Giovanni Saitto prende le mosse proprio dall’indimenticabile saggio del d’Addetta. E ne prosegue l’ideale viaggio, alla scoperta di antiche tradizioni etnografiche e narrative. Emergono ricordi altamente suggestivi e poco noti, ed il lettore vi si accosta con il desiderio di farli rivivere in piena luce. Desiderio che è anche di tutti gli studiosi che, lavorando in team, hanno messo a disposizione materiale raro, edito ed inedito. Il dato interessante è che, accanto alle leggende di Giuseppe d’Addetta, di Armando Petrucci, di Michelantonio Fini, troviamo le delicate illustrazioni di Primiana Nista ed i validi testi di alcuni giovani narratori che, partendo da uno spunto ambientale, da un aneddoto, o da una tradizione rigorosamente storica, si sono cimentati nell’invenzione artistica, creando dei nuovi racconti, che resteranno sicuramente impressi nell’immaginario del lettore.

Come Antonio Milonene Il Confessore senza ostie. Protagonisti il giovane imperatore Federico II di Svevia e Matteo, un umile manovale, addetto alla costruzione della fortezza di Apricena. Ambedue presi dallo stesso sogno, dallo stesso identico miraggio: “Angiola, bella come la seta la prima volta, bella come la luna quando si è felici, con quegli occhi di luce nera, con quella pelle che solo un Dio sa e può, quella pelle di petali di rose, di seta e latte, e raggi di sole”… Una notte insonne, parallela, accomuna i due adolescenti. Una notte che, per Federico, è come una malattia, è come “un confessore senza ostie che non può assolvere, né può condannare”. Una notte in cui egli diventa veramente un re…

Nel racconto di Giovambattista Gifuni, La danzatrice di Lucera, il biondo e inquieto Manfredi, e una misteriosa saracena, di nome Semrud, sono i protagonisti di una struggente storia di amore inappagato. Lo scenario è Lucera, e in particolare il castello sormontato da quindici torri, costruito secondo lo stile arabo: tremila colonnine orientali ne circondano il vasto cortile; le porte sono incrostate d’oro; un incantevole giardino di stelle cantanti, di fontane e di rose, circonda l’harem dalle inferriate d’oro. Qui Manfredi conduce Semrud, dopo averla acquistata, spinto dalla subitanea attrazione che ha provato vedendola danzare su una pista dorata. Ma invano ne cerca l’amore. Solo alla vigilia della battaglia di Benevento, che vedrà il tramonto della potenza sveva, Semrud, conscia del fatale destino che incombe sul suo re, gli sarà vicina come non mai…

Dalla raccolta viene, quindi, fuori un mondo di ieri, sorprendente per chi è abituato a vedere la Capitanata, ed il Gargano, con lo sguardo corto dell’oggi e della contemporaneità. La leggenda de Il ponte di cuoio, di Giuseppe d’Addetta, ci riporta al tempo lontano in cui la nostra provincia era terra di conquista di popoli diversi per cultura, consuetudini e tradizioni. Popoli come gli Arabi che, contrariamente ai pregiudizi di oggi, erano un popolo mite, rispettoso delle tradizioni locali e religiose delle genti conquistate. Il protagonista della leggenda, Moham, un valoroso condottiero saraceno, si innamora perdutamente della castellana, bella e bionda come il sole e dolce come la luna, che vive nella rocca dirimpetto, in località Castelpagano. Ma il suo sogno d’amore incontrerà seri ostacoli. Forti pregiudizi etnici, e soprattutto il timore che, sposando un seguace della religione maomettana, possano esserci ripercussioni negative per la propria anima e per i componenti della sua casata, inducono la bella principessa garganica ad avanzare una richiesta decisamente insolita…

Quando l’itinerario de La Montagna del sole tocca Vieste, la sperduta, il D’Addetta rievoca due suggestive leggende. Tragici scenari lo Spacco di Rosinella e il bianco faraglione di Pizzomunno. Qui le perfide sirene, invidiose e gelose dell’amore di due giovani, rapiscono la bellissima fanciulla e la tengono legata ad uno scoglio sommerso. Solo ogni cento anni le concederanno di riemergere, in un giorno di sole, per rivedere il suo fedele amante.

Altre leggende fioriscono sulle rive del Varano. Temi maliosi e mitici, che i pescatori narravano, durante le lunghe attese delle battute di caccia e di pesca. Come la storia di Nunziata, unica superstite all’ira divina che inabissa la città di Uria. Gli Dei le concedono il dono dell’immortalità, ma la sua è una vita segnata dal rimpianto per la perdita dell’innamorato, scomparso insieme a tutti gli abitanti della città. E la sua voce di pianto, ogni sera, è portata dal vento che spira sullo specchio del lago…

La storia di Maddalena, il cui testo è stato ritrovato dal prof. Michele Tortorella fra i registri parrocchiali della collegiata di Vico del Gargano, narra una vicenda seicentesca. Lo sfondo è il castello svevo; protagonisti due inconsapevoli fratelli, portati dai capricci della sorte a un destino infelice. Antagonista il principe Caracciolo, che desideroso di impadronirsi del feudo, sottrae ai marchesi Spinelli, con un sotterfugio, l’unico figlio appena nato. Due anni dopo, la nascita di Maddalena allieta il castello, consolando gli Spinelli della perdita dell’erede maschio… che un giorno, fatalmente, approda nella città natale. Conquista la simpatia dei feudatari, i quali lo invitano a diventare paggio alla loro corte. Maddalena è nel fiore degli anni, “è un bel bocciolo di rosa”, il giovane un giglio bianco e candido come la neve”. Uno sguardo innocente, un voltar di testa, una mossa innocente fatta a caso. “È certo che nel cor gentile l’amore si fa strada”. Maddalena è perduta amante, e lui più di lei. L’amore “proibito” si consuma in un giardino di agrumi di Canneto, dietro ad uno frangivento… ma il finale è degno delle migliori tragedie greche.

Bionde bellezze garganiche, retaggio degli antichi conquistatori normanni e svevi, o di migrazioni di altri popoli italici, sono le eroine degli altri racconti. Ad esse si affiancano le brune: come quelle che appaiono, sui marciapiedi stretti di San Giovanni Rotondo, all’immaginario turista incuriosito di D’Addetta. Donne dalle linee zingaresche con lunghi orecchini d’oro, che dignitose abbozzano un sorriso in segno di saluto, mentre due perfette file di bianchi denti rilucono fra il carminio naturale delle labbra.

Donne brune, come è bruna la bellezza slava di Sinella, protagonista de La pazza, di Michelantonio Fini. La voce argentina e affabulante della ragazza, intenta nella raccolta delle olive nella piana assolata di Càlena ammalia Elia: egli si innamora perdutamente della sua fresca bocca di fragola matura, del profumo delle sue trecce di ebano, dell’ardore dei suoi profondi occhi di fuoco. Ma la bella Sinella non può corrispondere a questo ardente sentimento: da un anno i suoi l’hanno promessa a un altro, emigrato in America, impegnando così il suo onore e la sua fedeltà. L’innamorato, respinto e umiliato, schiavo, suo malgrado, della mentalità del tempo, si sente obbligato a lavare l’offesa agli occhi dell’intero paese…

L’epilogo è ancora più drammatico. Un giorno, dall’alto di un precipizio, sulla grotta dell’acqua calda, dalla Rupe gigantesca, Sinella che, in seguito a varie vicissitudini, ha perso la ragione, credé di poterlo trovare, di poterlo afferrare, il suo sogno, e stringerlo a sé fortemente, per sempre.

Un mese dopo, allo stesso vertice pietroso, fu visto ergersi un uomo che veniva dalla selva, veniva dalla solitudine, veniva dalla disperazione. I marinai raccontano di aver visto quel fantasma camminare sull’orlo dell’abisso, sfidando la morte… Così i due infelici amanti, forse, trovarono la pace in fondo a quel precipizio, in quel mare tenebroso e immenso come l’animo umano, come l’amore, come il destino, come la morte, come il mistero…

©2004 Teresa Maria Rauzino. Illustrazioni di Primiana Nista tratte da Novelle e leggende della Capitanata, a cura di Giovanni Saitto, Edizioni del Poggio, pp. 234.

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Domanda di Medioevo medievalismo e comunicazione storica

Tavola rotonda svolta il 15 giugno 2022 durante il II convegno SISMED della Medievistica Italiana (Matera, 13 – 16 giugno 2022). Presiede: Francesco Panarelli (presidente della SISMED, storico del Medioevo – Università della Basilicata). Coordina: Umberto Longo (storico del Medioevo – Università La Sapienza di Roma). Partecipano: Alessandro Barbero (storico del Medioevo – Università del Piemonte Orientale); Marco Brando (giornalista, coordinatore di Mondimedievali.it); Giuseppe Giannotti (vicedirettore Rai Cultura – Rai Storia); Alessandro Vanoli (storico e scrittore).

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Adelasia del Vasto

Adelasia del Vasto, contessa di Sicilia e regina di Gerusalemme
di Fara Misuraca

 
Di Adelasia del Vasto, figlia di Manfredi Aleramo, marchese del Monferrato, contessa di Sicilia, la leggendaria contessa Adelasia dei palermitani, e regina di Gerusalemme non ci è rimasta nessuna immagine. Ma anche se di honestae faciei, come riporta Goffredo Malaterra, si dice che fosse donna volitiva e di grande fascino.
Fu la terza moglie di Ruggero I d’Altavilla, gran conte di Sicilia e Calabria e madre di Ruggero II, che fu nonno e precursore di Federico II.
Ebbe un’infanzia difficile. Infatti, in seguito alla morte di Manfredi, avvenuta nel 1079 durante una battaglia, e del successore, il fratello Anselmo, morto precocemente e senza figli, il marchesato finì nelle mani dell’avido e senza scrupoli Bonifazio che, incestuosamente, sposò la vedova del fratello Anselmo, riunendo nelle sue mani tutti i possedimenti degli Alerami. Nel marchesato non c’era più spazio per gli orfani di Manfredi, gli unici che potessero insidiare il potere di Bonifazio.
Adelasia e i suoi fratelli furono costretti a lasciare le terre natie per raggiungere luoghi più ospitali. In quegli anni molti settentrionali erano attratti dalla Sicilia, terra ricca ed ospitale, e anche la famiglia del Vasto pensò di approfittare dell’occasione per tentare di ricostruire le glorie e le fortune del defunto marchese, usurpate dal fratello Bonifazio.
I Normanni in quel periodo favorivano una politica d’immigrazione della loro gente, francese o dell’Italia settentrionale, allo scopo di rafforzare il ceppo latino che in Sicilia e Calabria era fortemente minoritario rispetto a greci, ebrei e saraceni.
Nel caso di Adelasia l’occasione di stabilirsi al sud si realizzò con la richiesta di matrimonio da parte del gran conte Ruggero, rimasto vedovo per la seconda volta.
Le nozze furono celebrate nella rocca di Mileto nel 1089. Ruggero aveva allora circa 60 anni e il matrimonio con la giovanissima Adelasia fu certamente un instrumentum regni, un calcolo politico teso a legare le sorti della gente lombarda a quelle del principe. Ruggero aveva, infatti, già 10 figli tra cui tre maschi, Goffredo, Maugero ed uno illegittimo, ma amatissimo, Giordano.
Adelasia, nonostante non fosse bellissima, era sicuramente una donna intelligente, ricca di fascino, energica e ambiziosa, ed esercitò su Ruggero una forte ascendenza.
 

Ruggero I d’Altavilla

Ebbe con lui due figli. Il primogenito Simone, nato nel 1092 debole e malaticcio che morì giovanissimo nel 1105, e Ruggero, forte, bruno e vigoroso, destinato a diventare il futuro re del regno di Sicilia, nato a Mileto il 22 dicembre 1095.
L’abile ed accorta Adelasia sfruttò abilmente il suo ascendente e seppe circondarsi di una fidata parentela, convincendo Ruggero a fidanzare i suoi due figli Goffredo e Giordano con due delle sue sorelle, mentre una figlia del Gran Conte, Flandina, andò sposa ad un fratello di Adelasia, Enrico, il quale trasferitosi in Sicilia ebbe in dote il ducato di Butera e di Paternò che lo rese il più potente barone della contea. L’abilità di Adelasia era stata veramente grande: infatti, mai prima d’allora Ruggero aveva elargito ad altri feudatari concessioni così vaste!
Il destino fu generoso con Adelasia, ben presto i figli maschi delle precedenti mogli morirono, così che dopo la morte di Ruggero, nel 1101, ella rimase reggente di Simone prima, e del futuro Ruggero II poi. Adelasia si ritrovò a capo dello stato più ricco e potente del meridione. La sua era una responsabilità immensa e molti pensarono che non potesse essere sopportata da una donna. Ma ella seppe difendere con coraggio e fermezza il trono dei suoi figli circondandosi, per prima cosa, di funzionari fedeli al marito tra i quali l’ammiraglio Cristodulo, nominato “protonobilissimo”, un calabrese di origini bizantine o, secondo altre fonti, arabe, mentre, quando fu necessario, seppe essere spietata, riuscendo a sedare con feroci rappresaglie le rivolte dei baroni ribelli. Attenta all’amministrazione della giustizia, intervenne con autorità per dirimere numerose controversie sorte tra gli abati di diverse abbazie. Protesse la chiesa greca e manifestò tutto il suo appoggio a Luca di Melicuccà e a Bartolomeo da Simeri, l’abate del Patirion di Rossano, concedendo vaste donazioni.
Non legata sentimentalmente come il marito alla Calabria, Adelasia trasferì la sua corte prima a Messina che era servita da base ai Normanni per  estendere il proprio dominio alla Sicilia, e poi a Palermo, città ricca e fiorente che a quel tempo contava circa 250.000 abitanti.
Adelasia aveva appreso dal marito non solo le arti del governare e della diplomazia, ma anche quella della mediazione, dote a lei congeniale che le consentì sempre di risolvere i conflitti che facilmente esplodevano in una realtà composita come quella siciliana, rispettando costumi e culture diverse integrate in un contesto nazionale multietnico, seguendo in questo la politica messa in atto da Ruggero. Latini, franchi, greci, arabi non dovevano sentirsi stranieri o percepire prevaricazioni dall’una o dall’altra etnia, bensì, secondo il progetto di Ruggero, che Adelasia seppe ben realizzare, dovevano sentirsi popoli di una stessa patria. Assolse a questo compito con grinta, coraggio e grande abilità fino al 1112, quando passò la mano al figlio Ruggero che in quell’anno compiva il suo diciassettesimo anno d’età.
Adelasia aveva concluso la sua opera, ma il suo carattere non era tale da consentirle di ritirarsi a vita privata e pur evitando accortamente di interferire con la politica e le decisioni del figlio, non si fermò e cominciò a cercare altre opportunità per riavere potere e signoria, e soprattutto per aiutare il figlio a diventare re. Ancora una volta la sorte aiutò Adelasia e, a seguito di alterne vicende, si rese disponibile ad un nuovo matrimonio e nello stesso 1112, un’ambasceria di Baldovino I di Fiandra, re di Gerusalemme, giunse a Messina per richiedere in moglie la quarantenne, ma ancora affascinante, Adelasia.
Fu certamente un matrimonio dettato da calcoli politici ed economici, che il torbido e avido Baldovino, che aveva da poco ripudiato la licenziosa moglie Adra dalla quale non aveva avuto figli, voleva concludere per contare su un’alleanza con i Normanni e soprattutto per mettere mano sulle notevoli ricchezze di Adelasia. Quest’ultima, però, fece introdurre nel contratto matrimoniale una clausola successoria con la quale, alla morte di Baldovino e in assenza di altri successori, erede del regno di Gerusalemme veniva designato Ruggero II.
Nell’estate del 1113 Adelasia lasciò Palermo, capitale di quella terra che aveva governato fermamente e saggiamente per circa 10 anni. Una moltitudine di sudditi si accalcò al porto per rendere omaggio e salutare la contessa in partenza per Gerusalemme. La squadra navale che la accompagnava era imponente, composta da 11 navi da guerra e mercantili cariche di soldati, tra i quali 500 arcieri saraceni, il cui valore era famoso in tutto l’occidente, viveri e mercanzie, oltre al tesoro personale della contessa.
Nel nuovo regno, Adelasia fu accolta con tutti gli onori e le nozze furono celebrate in una cornice di fasto orientale. Con questo matrimonio Baldovino risolveva i suoi problemi economici e militari, mentre Adelasia realizzava il proprio sogno di potenza e garantiva al figlio la tanto sospirata corona. Ma la buona sorte questa volta voltò le spalle alla regina. Ben presto le lagnanze del clero locale e dei potenti del regno che ritenevano nulle le nozze arrivarono alle orecchie del Papa Pasquale II. A queste si aggiunsero sicuramente le rimostranze dell’imperatore bizantino specie quando divenne di pubblico dominio il patto di nozze che riservava al conte di Sicilia la successione al trono di Gerusalemme. L’avido e privo di scrupoli Baldovino, che si era già impadronito del tesoro di Adelasia per pagare i suoi debiti, si lasciò facilmente convincere ad annullare le nozze quattro anni dopo, il 25 aprile 1117. Adelasia, addolorata per il raggiro, ma impotente, si imbarcò alla volta di Palermo. Ruggero rimase sconvolto e rabbioso per il trattamento subito dalla madre, ma doveva ancora pensare a consolidare la posizione delle contee di Sicilia e Calabria, prima di potersi permettere di intraprendere imprese di vendetta contro Baldovino. Forse fu questa una delle ragioni che determinò la sua avversione per le crociate.
Per alleviare le sofferenze della madre, Ruggero organizzò grandi festeggiamenti per il suo ritorno ma Adelasia, sensibile ed orgogliosa, preferì non restare a corte e si ritirò dapprima nel monastero di San Bartolomeo a Palermo e poi in un monastero lontano dalla capitale, a Patti, dove morì il 16 aprile 1118. Il suo corpo fu deposto in un sarcofago nella Cattedrale di Patti.

Il sarcofago di Adelaide del Vasto – cattedrale di Patti. La tomba, originariamente fatta costruire nel 1122 è stata sostituita con un sarcofago rinascimentale nel 1557.


Adelasia, che aveva circa cinquant’anni al momento della morte non era riuscita a veder realizzato il suo sogno: il proprio figlio Ruggero incoronato re di Sicilia. Solo nel 1130 Ruggero riuscì a realizzare quel sogno: sicuramente nel momento dell’incoronazione avrà avuto un pensiero per sua madre, la gran contessa Adelasia.
Bibliografia
• Goffredo Malaterra DE REBUS GESTIS ROGERII CALABRIE ET SICILIAE COMITIS.
• Pasquale Hamel ,  Adelaide del Vasto regina di Gerusalemme, Sellerio.
• AA VV  Storia della Sicilia.
• Santi Correnti Storia della Sicilia, Periodici locali Newton.
Copyright  © Fara Misuraca -Alberto Gentile

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Fiorentino

Il sito archeologico di Fiorentino (Foggia).
 
La città di Fiorentino (nel medioevo Florentinum) conosciuta anche come Castelfiorentino o Castel Fiorentino, nota ai più per essere stato il luogo ove il 13 dicembre 1250 si è spento l’Imperatore Federico II, in questi ultimi anni è stata al centro dell’attenzione di archeologi e storici.

La cosiddetta Torre di Fiorentino, foto di Alberto Gentile.


Gli scavi archeologici (1982-1992), condotti dall’Università di Bari e dall’Ecole française di Roma, diretti dai francesi Françoise Piponnier e Patrice Beck e coordinati dalla professoressa Maria Stella Calò Mariani, hanno evidenziato elementi che fanno pensare a Fiorentino come una sede importante, una vera e propria cittadella con una cattedrale, una zona urbana e, nella parte ovest, il “Palatium” dell’Imperatore.
 

Collocazione di Fiorentino all’interno della Capitanata.
Veduta satellitare di Fiorentino – Google Maps

Ubicazione
I resti dell’antico abitato di Fiorentino si trovano in agro di Torremaggiore (FG), a 9 km a sud di questa Città, sull’estremo versante ovest di una collina detta dello Sterparone: uno sperone interfluviale delimitato a nord dal Canale della Bùfola (o Bufala o Bùffala) e a sud da un piccolo corso d’acqua detto il Canaletto. (Raggiungibile da San Severo percorrendo la strada che porta a Castelnuovo della Daunia).

“Città di Frontiera”
Fiorentino vanta un’origine in comune con altre “città di frontiera” volute dai Bizantini: infatti, agli albori dell’XI secolo gli imperatori bizantini tentarono di consolidare i loro possedimenti in Italia meridionale continuamente minacciati dai Longobardi a nord e dagli arabi a sud. Per attuare tale piano, i Catapani inviati da Bisanzio si lanciano alla conquista della Daunia, al fine di spostare i malsicuri confini del Thema di Longobardia (suddivisione amministrativa dell’epoca), segnati dal fiume Ofanto, verso quelli meglio difendibili delimitati dal corso del Fortore. Nascono così, tra il 1018 ed il 1040, grazie alla febbrile attività edificatoria dei Catapani Basilio Bojohannes e dell’omonimo suo figlio, numerose città-piazzeforti con il compito di munire la nuova frontiera di efficaci baluardi contro incursioni e razzie, ripopolando il Tavoliere, allora semideserto.
Questi centri neoformati, quali Fiorentino, Troia, Dragonara, Civitate, Montecorvino, Tertiveri e Devia, furono da sùbito elevati a sedi vescovili, ad eccezione di Devia.
Le città fondate dai due Catapani con lo scopo di difendere la nuova frontiera dalle sortite longobarde, in realtà avrebbero poi dovuto servire a fronteggiare razziatori d’altra provenienza: i Normanni, assoldati dai Longobardi. Nel tardo Medioevo questi siti sono stati abbandonati (tranne Troia), andando a costituire così un interessante patrimonio archeologico.
 
Cronologia
Fiorentino fu baluardo dei Bizantini nell’XI secolo, contea Normanna nell’XII, nel XIII secolo, con gli Svevi, entrò a far parte del demanio, mentre gli Angioini la diedero in feudo.
 
L’abitato
I ruderi di Fiorentino erano leggibili e misurabili ancora nel secolo scorso, quando il Fraccacreta li studiò. Le case dovevano affollarsi le une accanto alle altre, fino a schiacciarsi contro le mura di cinta, ma avevano dimensioni maggiori di quelle finora supposte, come hanno acclarato gli scavi archeologici recentemente eseguiti.
Costruzioni artisticamente di rilievo e di dimensioni imponenti erano la cattedrale ed il palazzo di Federico II.
La strada principale era detta “magna platea” ad essa doveva corrispondere almeno un’altra strada di minore larghezza, forse parallela, come la “platea vicinalis”. Le rimanenti vie erano strettissime e dovevano formare un dedalo e si riversavano nella strada principale.
In epoca normanna la città conobbe un’apprezzabile espansione urbanistica con la nascita di un sobborgo, il “Carunculum”, situato ad est dell’abitato, che in definitiva era l’unico versante in cui si poteva edificare. In questo periodo tutti gli spazi liberi (i casalina) vengono invasi dalle abitazioni che non risparmiano nemmeno il vallo che circondava il castello.
Solo la luce che proveniva dalle strade illuminava i vari ambienti delle case, non essendovi cortili né giardini interni.

Resti della Domus di Fiorentino – foto di Alberto Gentile.

I Normanni eressero, sull’estremità più alta della collina, un piccolo castello, che successivamente Federico II fece trasformare nel suo “Palatium”. Esso divenne uno dei “loca Sollaciorum” (luoghi di svago), dove trascorrere il tempo dedicato alla caccia e al riposo. La domus (collocata nel lato ovest della collina) con l’ingresso principale che volge a sud, presenta una forma di rettangolo imperfetto della lunghezza di 29 metri e della larghezza di 17 metri, diviso in due grandi ambienti, con muri rivestiti da belle pietre squadrate ed un pavimento in “opus spicatum” (spina di pesce) di terracotta, con due camini. Inoltre, sono stati trovati all’interno frammenti vitrei policromi, frammenti di capitelli e colonnine forse appartenute a finestre, monete di epoca federiciana.
Probabilmente il palazzo aveva uno o due piani superiori, ciò è ipotizzabile dal grosso spessore delle pareti. Il palazzo era delimitato da un largo fossato.  
 
Nelle abitazioni di Fiorentino sono state trovate, oltre a ceramiche, vetri e colonne, molte fosse granarie o cisterne.
 

 
Rovine della Cattedrale di Fiorentino (Disegno di Victor Baltard del 1844).
 

A sud della strada principale nella zona urbana si trova la Cattedrale, una chiesa ad una sola navata e monoabsidale, intitolata al santo patrono del popolo longobardo, l’Arcangelo Michele; infatti, la popolazione di Fiorentino e delle altre città piazzeforti era composta prevalentemente da famiglie di origine longobarda, le uniche reclutabili in zona dai Bizantini per popolarle. In Fiorentino vi erano ben dodici chiese.
Nella parte orientale del sito, nella zona al confine tra la città ed il sobborgo “Carunculum”, è collocata la Torre ancora parzialmente conservata in altezza, che poggia su uno zoccolo tronco piramidale.

Torre – foto di Alberto Gentile.

Le mura della torre sono ora composte da mattoncini disposti in filari regolari (in origine, il basamento murario era costituito da una cortina lapidea a conci squadrati), l’interno mostra una copertura a crociera costolonata.
Il degrado di Fiorentino iniziò già nel XIII secolo: nel 1255 le truppe del Papa Alessandro IV attaccarono Fiorentino, rimasta fedele agli Svevi, distruggendola; poi gli Angioini, dopo averla parzialmente ricostruita, la usarono solo per scopi militari. Nel 1300, iniziò la spoliazione del sito fino alla totale rovina. Tra gli elementi asportati vi è la gran lastra di marmo, usata come piano dell’altare maggiore nella Cattedrale di Lucera, che si dice fosse la mensa di Federico.
 

Particolare ravvicinato della Torre – foto di Alberto Gentile.
Sito archeologico di Fiorentino – cartello con informazioni 
Sito archeologico di Fiorentino – cartello con informazioni relativo agli scavi – descrizione dei reperti archeologici trovati.
 Castel Fiorentino: sulla destra si vedono bene la torre e la stele ottagonale. Sulla sinistra i resti della domus.
Cippo marmoreo posto sulla collina di Fiorentino (foto di Michele Solimando). 
«Cecidit sol mundi qui lucebat in gentibus» (è caduto il sole del mondo, che riluceva in mezzo alle genti). Con questa frase Manfredi comunica al fratellastro Corrado la scomparsa del padre Federico II.

 

Bibliografia:


  • Fraccacreta M., Teatro topografico-storico-poetico della Capitanata, Forni Editore, Napoli 1828.
Autori Vari, Fiorentino, Campagne di scavo 1984 – 1985. Galatina (Lecce) 1987.

  • Roberto Matteo Pasquandrea, Fiorentino: una città bizantina di frontiera (XI-XIV sec.) in Profili della Daunia antica, a cura del Centro FG/31 (CRSEC Foggia), Foggia, 1986.
  • 
G. de Troia, Foggia e la Capitanata nel Quaternus Excadenciarium di Federico II di Svevia, Foggia, 1994.

  • Martin J. M., Cuozzo Errico, Federico II Le tre capitali del regno Palermo – Foggia – Napoli, Napoli, 1995.

  • Martin J. M., L’apporto della documentazione scritta medievale, in: Fiorentino, Cogendo Editore, Galatina 1984.

  • Autori Vari, Fiorentino, Campagne di scavo 1984 – 1985. Galatina (Lecce) 1987.

  • P. Beck, M. S. Calò Mariani, C. Laganara Fabiano, J. M. Martin, F. Piponnier, Cinq ans de recherches archélogiques à Fiorentino, in Mélanges de l’Ecole Française. Moyen Age, 1989.
  • CASTELFIORENTINO Francesco Paolo Maolucci Vivolo – Bastoni 2008

©2022 Alberto Gentile

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Castello di Dragonara

Veduta d'insieme del castello di Dragonara visto dalla via di accesso principale.
Veduta d’insieme del castello di Dragonara.
Antico disegno del castello di Dragonara (autore sconosciuto).

Epoca: XI secolo.

Conservazione: attualmente il castello è adibito ad uso agricolo.

Come arrivarci: pur essendo a pochi chilometri da Torremaggiore, si trova in agro di Castelnuovo della Daunia, vi ci si arriva uscendo dall’autostrada A14 Bologna-Taranto, al casello di San Severo, proseguire per Torremaggiore. Giunti a Torremaggiore imboccare la Strada Provinciale 11 Torremaggiore per Casalnuovo Monterotaro, proseguire in direzione Casalnuovo per 12,5 Km, per poi svoltare a destra su una strada di campagna sterrata per 1,5 km circa.

Immagine tratta dalla mappa di Google.
Collocazione di Dragonara in una antica mappa.

Cenni storici.

“Città di Frontiera”
Dragonara ha un’origine in comune con altre “città di frontiera” volute, agli albori dell’XI secolo, dagli imperatori bizantini: questi cercarono di consolidare i loro possedimenti in Italia meridionale minacciati dai Longobardi a nord e dai saraceni a sud. Per attuare tale piano, i Catapani inviati da Bisanzio s’impegnano in un nuovo “incastellamento” della Daunia, al fine di spostare i malsicuri confini del Thema di Longobardia (suddivisione amministrativa dell’epoca), segnati dal fiume Ofanto, verso quelli meglio difendibili delimitati dal corso del Fortore. Nascono così, tra il 1018 ed il 1040, grazie alla attività edificatoria dei Catapani Basilio Bojohannes e dell’omonimo suo figlio, numerose città-piazzeforti con il compito di munire la nuova frontiera di efficaci baluardi contro incursioni e razzie, ripopolando il Tavoliere.
Tra questi centri neoformati, oltre a Dragonara ricordiamo Fiorentino, Civitate, Troia, Montecorvino, Tertiveri e Devia.
Tutte le città fondate dai due Catapani, nel tardo Medioevo sono state abbandonate, ad eccezione di Troia.
Per la sua importanza strategica alla iniziale fabbrica bizantina, che comprendeva anche due cinte concentriche di terra battuta, si aggiunsero le opere costruite successivamente dai Normanni e dagli Svevi e dagli Aragonesi.
Alcuni documenti attestano che Dragonara fu anche sede episcopale; i suoi vescovi svolsero compiti importanti e la sua diocesi venne ereditata dalla Diocesi di San Severo nel 1580. Dai suoi vescovi dipendevano molti centri; tra questi ricordiamo anche l’abbazia di Santa Maria di Tremiti. Dragonara nel 1255 subì la stessa sorte di Fiorentino rimanendo rasa al suolo ad opera delle truppe di papa Alessandro IV.

Alle spalle del castello di Dragonara c’è una piana e subito dopo un bosco. Nella zona pianeggiante era situato il centro urbano della città fortificata di Dragonara. Al di là del bosco scorre il fiume Fortore e oltre il Fortore c’è il confine con la regione Molise.


Cronologia
Dragonara fu baluardo dei Bizantini nell’XI secolo, successivamente nell’XII è passata ai Normanni, nel XIII secolo, agli Svevi, successivamente agli Angioini e agli Aragonesi, in seguito alla famiglia di Sangro.

Il Castello
Dell’antica città di Dragonara rimane solo il castello, in pietre squadrate ed abbozzate, che si erge sulle prime pendici del sub-appennino dauno. Attualmente il castello, dopo gli innumerevoli rimaneggiamenti, si presenta di forma rettangolare, con un cortile interno, 3 torri cilindriche ed una quadrata; un’altra torre cilindrica, isolata, è posta ad una certa distanza dal medesimo. Questa torre, vuota all’interno, sembra che non avesse nessuna porta di entrata, salvo quella praticata in epoca recente per adibirla a stalla. Forse per accedere al suo interno si usavano scale mobili oppure, secondo alcuni, un passaggio sotterraneo di collegamento tra il castello e la torre.

Una torre cilindrica.
Altra veduta d’insieme del castello.
Lateralmente al castello è visibile una torre di forma cilindrica isolata dal fabbricato del maniero.
La torre cilindrica esterna e vicina alla torre quadrata che inizialmente doveva essere cilindrica e che fu modificata dalla famiglia di Sangro.
Sulla facciata anteriore della torre quadrata sono posti, nella zona centrale, lo stemma della famiglia di Sangro e una lapide.
Stemma della famiglia di Sangro.
Questa lapide testimonia che nel 1769 il castello è stato ristrutturato dalla famiglia di Sangro e che in particolare una delle quattro torri è stata modificata da cilindrica a quadrata.
Veduta d’insieme del castello, foto scattata in estate.



Bibliografia:
R. M. Pasquandrea: Fiorentino: una città bizantina di frontiera (XI-XIV sec.), in Profili della Daunia antica, a cura del Centro FG/31 (CRSEC Foggia), Foggia 1986.
L. Sansone Vagni, Raimondo di Sangro Principe di San Severo, Editrice Bastogi, 1992.
M. S. Calò Mariani – A. Ventura – A. Muscio – A. Altobella – J. M. Martin – P. Corsi – L. Pellegrini – U. Kindermann – E. Ciancio – A. Pepe – G. Onofrio – E. Catello – C. Laganara Fabiano, Capitanata Medievale, Claudio Grenzi Editore, Foggia 1998.


©2022 Alberto Gentile (testo e foto)

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Microstorie

Le “raggioni” di Kalena secondo Mainardi

Agli inizi del 1500, numerosi naviganti di popolazioni vicine, lontane e straniere “facevano vela” per le Isole Diomedee e per il porto di Peschici. Vi si fermavano, oltre che per motivi di commercio e di momentanea sosta, anche spinti dalla devozione.

Prima di proseguire il viaggio via mare, oppure via terra per il Santuario dell’Arcangelo del Monte Gargano, si fermavano nel monastero di San Nicola di Tremiti ed in quello di Santa Maria delle Grazie di Kàlena, nella piana di Peschici.

Nei due monasteri, ricostruiti dai Canonici Regolari di Sant’Agostino, adoravano la Beatissima Vergine e la Gloriosa Madre di Dio.

Uomini famosi ed illustri “matrone” avevano offerto alle due prestigiose abbazie, nel corso dei secoli, consistenti “beni solidi”: oltre a numerose chiese con le loro rendite e i relativi diritti, il possesso perpetuo di castelli, terre, pascoli, boschi. Avevano donato, per il vantaggio e il divertimento della pesca, addirittura un lago, i diritti sui fiumi comprensivi dell’impianto dei mulini, e persino delle imbarcazioni per la pesca, il commercio e gli spostamenti in mare aperto.

Erano stati indotti a ciò dalla speranza di redimere, grazie alle preghiere quotidiane dei monaci, i loro peccati, ma molti lo avevano fatto per i più terreni motivi di stretta convenienza “politica”, per salvare le loro proprietà nei momenti delicati di passaggio tra vecchi e nuovi dominanti. Per salvare il salvabile.

I beni venivano “donati”, ma l’usufrutto vita natural durante era a favore degli ex proprietari e della loro discendenza. I documenti di ratifica, redatti da scrivani e notai pubblici, erano le cosiddette “tavole antiche”. 

Sottoscritte da nobili, principi e re, vennero conservate con quanta più cura possibile negli archivi di Kàlena e di Tremiti. È qui che prima il Cochorella e poi il Mainardi le consultarono, il primo per stilare, nel 1508, la Tremitanae olim Diomedae Insulae accuratissima descriptio [1]; il secondo, nel 1592, per  compilare un accurato Regesto in cui si rivendicavano le proprietà delle abbazie di Tremiti e di Peschici usurpate nel corso dei secoli [2].

Per la comprensione di quella che fu la storia dell’abbazia di Kàlena nel corso del Cinquecento e dell’azione dei Canonici Lateranensi che in quel periodo la governarono, analizzeremo proprio questi due fondamentali documenti, integrandoli con le notazioni desunte dal Codice Diplomatico di Armando Petrucci [3].

Benedicto Cochorella e Timoteo Mainardi appartenevano all’ordine dei Canonici Regolari di Sant’Agostino, detti Lateranensi del Salvatore. Questi monacierano subentrati ai Cistercensi alla guida del monastero di Tremiti fin dal 1412.

Papa Eugenio IV incorporò l’Abbazia di Peschici alla venerabile Chiesa di Santa Maria di Tremiti nel 1445. In quell’anno, la rinunzia del Cardinale Pietro Balbo (il futuro papa Paolo II) e la cessione dell’abate Corrado di Capece, monaco di Sorrento (erano gli ultimi abati cui l’abbazia di Peschici era stata affidata in commenda), vennero formalizzate e l’abbazia ritornò sotto l’ala protettiva di quella che un tempo era stata la sua casa madre.

I Canonici Regolari presero effettivo possesso di Kàlena  giusto un anno dopo, nel 1446.

Di origine lombardo-veneta, questi monaci esibirono un livello culturale notevolmente alto.  I Canonici si adoperarono a ricostruire tutti gli edifici sacri e civili distrutti dagli an­ni, sia per poterli abitare loro stessi in modo sicuro, sia perché potessero accogliere i pellegrini.

Timoteo Mainardi, conscio della grave crisi economica che travagliava Tremiti e le sue  pertinenze in terraferma, espose un suo piano di riforme, un progetto per risanarne le collassate finanze.

Egli consigliò di eliminare, nei territori sotto la giurisdizione tremitense, l’importazione di grano, di carne, di animali, aumentando progressivamente le colture ad orzo e frumento e promuovendo l’allevamento intensivo del bestiame.

L’isola di San Nicola di Tremiti, che a quell’epoca era l’unico porto sicuro dell’Adriatico, d’estate diveniva scalo obbligato di tutte le navi che facevano rotta da Venezia in Puglia e dalla Dalmazia a Manfredonia.

Le galee della flotta veneziana, mentre erano impegnate nella loro campagna di perlustrazione delle coste adriatiche, usavano rifornirsi a Tremiti di biscotto (gallette) e di pane fresco, confezionati con il grano che affluiva al monastero dalle pertinenze in terraferma, che erano soprattutto le terre cerealicole appartenenti a Santa Maria di Kàlena.

TREMITANAE OLIM DIOMEDAE INSULAE ACCURATISSIMA DESCRIPTIO

Il Canonico Regolare Benedetto Cochorella, originario della città di Vercelli, morì nelle isole Tremiti nell’anno 1540.  Il “libretto” descrittivo delle Diomedee e soprattutto delle opre dei canonici, da lui scritto nel 1508, fu pubblicato postumo, «per grazia dell’Abate Matteo», suo mecenate e conterraneo, con l’imprimatur di Basilio Sereno, canonico di Santa Maria della Passione a Milano.

In esso il Cochorella  aveva descritto con dovizia di particolari, fra i possessi di Tremiti, l’abbazia di Kàlena e tutte le sue pertinenze.

Nel corso del tempo, molti dei favori e dei benefici ecclesiastici erano venuti a mancare all’amministrazione e alla contribuzione tremitense. Ma all’inizio del Cinquecento, epoca in cui Cochorella scrive il suo manoscritto, Tremiti «conservava ancora tranquillamente sotto la sua autorità parecchie chiese apprezzabili istituite in diversi territori e molti altri beni».

Di tutte queste chiese, la prima per valore era l’Abbazia di Kàlena [4]. Cochorella fornì anche le coordinate geografiche per localizzarla: ubicata nella diocesi di Siponto, distava circa 22.000 passi dal monte Gargano e 4 stadi dal mare Adriatico. Era senza dubbio la più antica, «da gran tempo assai famosa per il nome e le ricchezze». Tenuta, fin dalla sua fondazione, in grandissimo onore da molti re famosi e parecchi imperatori, dotata di innumerevoli privilegi, essa era stata oggetto di “incredibile devozione”. A questa Abbazia, un tempo, erano sottoposte molte popolazioni, ville, villaggi, città e una grandissima quantità di boschi, selve, campi e beni immobili.

All’inizio del Cinquecento, Kàlena conservava ancora le vestigia di questo glorioso passato: possedeva diversi terreni, ampi boschi, vari campi, molte vigne e oliveti qua e là: «Sul monte Sant’Angelo (che gli antichi chiamavano Gargano), si trovava un’estensione così lunga e ampia di terre soggette alla sua amministrazione che superava i  40.000 passi sia in larghezza che in lunghezza» [5].

 Il Cochorella era rimasto colpito dai secolari uliveti appartenenti all’abbazia di Peschici:  «famosissimi per una tale abbondanza di olive e, così cresciuti negli anni, che al­cuni di essi suscitano in chi guarda ammirazione e stupore, perché non pos­sono essere cinti neanche da quattro uomini uniti per le braccia» [6]. 

Un dato che ci lascia perplessi, ma che testimonia la presenza di eccezionali uliveti nelle campagne di Peschici. Gli alberi erano dei veri e propri “patriarchi verdi”, stupivano i Canonici Lateranensi che come il Mainardi provenivano dalle  regioni del Nord Italia dove, per ragioni climatiche, l’ulivo non cresceva bene come nel Gargano.

Nel 1508, il tempio di Kàlena, «consacrato alla Gloriosa madre di Dio», è ancora degno di venerazione e «straordinario per l’antichità e per la sua bellezza». Gli altri edifici del Convento sono quasi crollati per l’eccessiva vetustà, tranne quelli che i Canonici hanno avuto cura, con grandissima sensibilità e “dispendio”, di restau­rare o di ricostruire ab imis, cioè dalle fondamenta [7].

LE PERTINENZE DI TREMITI NEL GARGANO NORD

Il Cochorella fa una minuziosa ricognizione delle chiese (allora si denominavano con il termine cappelle), che l’abbazia di Kàlena aveva sotto la sua autorità. Un tempo erano tantissime, tuttavia col passare del tempo o per l’avidità di certi principi o per colpa dei predecessori, la maggior parte di esse era stata usurpata oppure era caduta in rovina.

Quelle possedute all’inizio del Cinquecento  non erano poche. Erano tutte “prosperamente” passate ai Canonici regolari di Santa Maria di Kàlena (i monaci continuavano a denominarsi col titolo di quella Abbazia).

Due chiese ad essa soggette erano «dedicate al santo sacerdote Nicola». Una di queste, situata ai confini del Monte Negro (Montenero), distava 16 stadi dal villaggio di Vico [8]. Minacciata di rovina a causa della sua vetustà, da pa­recchi anni (presumibilmente dalla seconda metà del Quattrocento), era stata rinnovata ed ornata dentro e fuori con bellissimi stucchi. Era altresì stata sopraelevata “a volta” con un’elegante impalcatura, «sicché – commenta il Cochorella – uno potrebbe dire che sia stata integralmente ricostruita più che restaurata».

L’abbazia di Montenero era diventata davvero una chiesa “notevole”: aveva edifici eleganti, un doppio chiostro, splendidi giardini e quasi ogni genere di mele e altri frutti. Soprattutto arance, ma anche cedri e limoni molto succosi. Le sorgenti d’acque zampillanti e la dolcezza dell’aria salubre rendevano fruttuose le varie coltivazioni. Possedeva anche parecchie vigne «eccellenti per la qualità del vino prodotto», un mulino col frantoio e parecchi alveari di api.

L’altra chiesa, titolata a San Nicola, era ubicata sulle rive del lago Varano vicino ad un «villaggio distrutto» chiamato Imbuti, non lontano dai castelli di Cagnano e di Carpino [9]. Dominava un’ampia e larga zona pianeggiante, «circondata da monti fitti e ben protetti da grandi boschi e gole», tra i quali spiccava il monte Devio”.

Intorno, un paesaggio caratterizzato dalla presenza di molte selve ed oliveti. Per la natura del luogo, si poteva trarre profitto «dall’uccellagione e dalla caccia alla selvaggina».

Per il piacere ed il vantaggio della pesca, lo stesso grandissimo lago di Varano era alla portata di tutti, e «produceva ottimi pesci» [10]. Alle sue foci, mentre tentavano di passare dall’acqua salata del mare a quella dolce del lago, si catturavano moltissime anguille e, tra le loro varietà, alcune più grosse che chiamano “capitoni”. Di tutto ciò, per antico diritto, era pagata una decima alla chiesa di Imbuti.

Il Cochorella ci fornisce una notizia interessante sulla lavorazione in loco del pescato: «Per salare questi pesci vi sono nelle vicinanze anche parecchi vivai, cioè dei luoghi vicino al mare in un lago stagnante, dove i pesci vengono catturati e subito dopo salati». Viene fuori uno spaccato inedito dell’economia del Varano  all’inizio del Cinquecento.  

Oltre a notizie sull’ecosistema. Anche allora il lago era il luogo ideale di “svernamento” per molte specie di volatili migratori e stanziali: “D’inverno questo lago nutre varie specie di uccelli, per esempio parecchie anatre selvatiche, uccelli noti del resto a tutti e molto saporiti da mangiare». 

Il Cochorella cita, a questo proposito, una frase di Marziale che esalta le peculiarità gastronomiche di alcuni “parti” particolarmente pregiate per i  palati sopraffini: «Si porti pure tutta l’intera anatra, ma gustane soltanto il petto e il collo, il resto restituiscilo al cuoco!» [11].

Il Cochorella registra anche la presenza dei cigni, con la seguente notazione: nessun uccello (come si racconta) è più candido di questi; è più grande di un’oca, con una voce acuta e quando sta per morire emette un flebile canto. E cita il noto verso di Ovidio: «Dolci melodie modula con debole voce/il cigno che canta la propria morte» [12].  

Il Varano nutre innumerevoli folaghe, uccelli acquatici neri poco più grandi di una colomba e quanto mai gradevoli da mangiare.

In un punto delle terre prospicienti il Varano, vi è una pianura molto estesa sia in lunghez­za che in larghezza, graditissima alle pecore per i pascoli più abbondanti; la chiamano “Insula Imbuti”E’ simile ad un’isola in quanto domina il lago Varano dalla parte più alta, il mare Adriatico da quella più bassa; qui le mandrie di bestiame e le greggi del Monastero tremitano «svernano pascolando» [13].

UN SOLO CORPO, UNA SOLA REGOLA, UNA SOLA CONGREGAZIONE

Il Cochorella, parlando del suo ordine monastico, attesta le preferenze che i papi del tempo avevano ad esso riservato. Eugenio IV aveva concesso e affidato ai Canonici la chiesa del Salvatore in Laterano, di Roma, affinché la restaurassero. Fu questo Papa che decise di chiamarli «Canonici Regolari del Salvatore Lateranense». Li rese famosi, fregiandoli di numerosi straordinari privilegi e favori, confermati dai papi Nicola V e Sisto IV.

Quali insegnamenti di vita, quali le regole etiche erano seguite da  questi monaci? Secondo il Cochorella, “il sapientissimo, santissimo padre e dottore Agostino» nella regola dei Canonici non aveva inserito nulla che non potesse essere osservato facilmente da tutti.

Chiunque, il povero e il ricco, il vecchio e il giovane di qualsiasi condizione, «ignobile o nobile» e di qualsiasi altro stato economico, avrebbe potuto impegnarsi senza difficoltà nell’apprendimento della regola; «compiere tutto non in modo difficile ma con letizia e in maniera egregia». Secondo il proprio voto [14].

Tutti i Canonici Regolari del Salvatore Late­ranense avevano adottato questo nobile tenore di vita, sebbene li dividesse la diversità dei luoghi, la lontananza delle strade, la separazione delle terre. Essi avevano un solo corpo, una stessa regola, una sola congregazione.

Dal Collegio dell’Ordine provenivano anche tutti i monaci che reggevano con grande prudenza, saggezza e virtù la canonica di Tremiti. «Con incredibile impegno e attenzione, essi avevano reso noto a tutti, per mare e per terra, questo santissimo luogoIl suo nome era noto fino alle parti più remote del mondo e ai popoli barbari». 

Tutti avevano sentito parlare della bellezza e della magnificenza degli edi­fici e delle costruzioni straordinarie di Tremiti e delle sue abbazie. Secondo il Cochorella ciò era avvenuto per la “grazia divina” ricevuta dai Canonici: «A loro accordò ininterrottamente il favore eterno la Vergine Madre del Salvatore, Maria Beatissima, eccezionale custode e parti­colarissima protettrice di quel santissimo luogo» [15].

Cochorella esalta, quasi ai limiti dell’agiografia, l’“incredibile umanità” dei Canonici. Contraddicendo i suoi intenti: aveva premesso che in stile, succintoda gustare (come si dice)con la punta delle lab­bra, avrebbe scritto poco, piuttosto che ta­cere del tutto: le lodevoli imprese dei monaci non potevano “passare sotto silenzio”. I Canonici, infatti, erano abituati a produrre spesso, più che vane parole, esempi di vivere virtuoso [16].

I monaci si danno tanto da fare, oltre che per innata santità, anche per evitare il giudizio malevolo dell’opinione pubblica, solitamente ipercritica nei confronti di chi manovra cotanta ricchezza. Ce lo testimonia il Cochorella, il quale afferma: «Dal momento che la situazione del Convento migliora ogni giorno, i monaci per non dare all’esterno l’impressione di desiderare e interessarsi solo delle ricchezze, si danno anima e corpo a celebrare con più ardore non soltanto i riti divini, ma si impegnano anche a restaurare le rovine del Convento e del tempio e ad abbellirlo» [17]. 

Emblematica è un’altra sua frase: «I Canonici non smettono di escogitare ogni anno qualcosa di nuovo per costruire edifici a ornamento e decoro di tutta l’isola; e spendono molto denaro come facilmente salta agli occhi di chi guarda» [18].

Esempi virtuosi quasi obbligati, quindi, quasi forzati? No, perché le realizzazioni concrete erano visibili anche agli occhi del visitatore più distratto. I Canonici del Salvatore ricostruirono gli edifici distrutti dagli anni, sia per poterli abitare in modo sicuro, sia perché le foresterie potessero accogliere comodamente i pellegrini.

Anche a Kàlena, prima della loro venuta, le rovine erano talmente evidenti che non era più riconoscibile nessuna forma dell’antico Convento e del tempio. Furono i monaci a  fortificare l’abbazia, con mura alte e solide, per difenderla dai pericoli esterni e dai nemici.

LE “RAGGIONI” DI SANTA MARIA DI KÀLENA

Nel corso del tempo, molti dei favori e dei benefici ecclesiastici erano venuti a mancare, per l’avidità di certi principi o per colpa dei monaci predecessori dei Canonici, che non avevano adeguatamente vigilato affinché le proprietà di Tremiti e di Kàlena non venissero usurpate oppure non cadessero in rovina.

Fu il canonico Timoteo Mainardi, bibliotecario dell’abbazia di Tremiti ad assolvere l’arduo compito di effettuare il minuzioso riordino dell’archivio  dell’abbazia, e di procedere ad un’attenta ricognizione degli antichi diritti goduti un tempo in terraferma dai Benedettini e dai Cistercensi.

Rispolverò vecchi documenti per dimostrare «le raggioni» della Madonna di Kàlena e le ricostruì confine per confine, chiedendo la reintegra dei termini lapidei, che molto spesso erano stati deliberatamente “spiantati” dagli usurpatori, con metodi violenti e minacce contro chi tentava di impedire queste loro azioni.

Tutti questi documenti furono rimessi in circolo dal Mainardi, per dimostrare le «raggioni», cioè i diritti usurpati, affinché i Canonici li rivendicassero, per riacquistare le terre perdute di Tremiti e di Kàlena [19]. A sostenerlo nelle sue tesi c’era un quadro normativo favorevole, mai applicato: i papi Eugenio IV e Nicolò V avevano emanato, su sollecitazione dei Canonici, due specifiche “bolle” contro gli usurpatori e occupatori, detrattori, malfattori dei beni spettanti ed appartenenti alle chiese abbaziali di Santa Maria di Tremiti e di Càlena.

Papa Giulio II, nell’anno 1504, aveva emanato un’altra bolla contro coloro che si erano impossessati “ingiustamente” dei beni di Tremiti. 

Oltre a non rispettare  le bolle papali,gli usurpatori di Kàlena contravvenivano agli indulti, agli ordini ed ai privilegi dei re Ruggiero e Guglielmo e di altri sovrani, i quali avevano confermato ed ampliato le donazioni dell’arcivescovo Leone.

Costui aveva donato all’Abbazia di Peschici i territori, i Casali, le terre, i Castelli limitrofi, con boschi e selve tagliati e non tagliati, liberi da ogni gravame, affinché, libera, ne godesse in perpetuo. Perché gli usurpatori avevano continuato, nel frattempo, ad appropriarsi dei beni dell’abbazia?

La risposta del Mainardi è la seguente: «Perché hanno visto che nessuno le cerca tali ragioni, nessuno muove loro lite»Ad esempio, non era consentito, se non su espressa licenza degli Agenti del monastero, andare a caccia di animali «selvadeghi» nei territori di Càlena, nei suoi boschi e nelle sue selve.  

Invece accadeva il contrario: i baroni si erano prepotentemente arrogati questo diritto spettante solo al monastero. Erano giunti al punto che non solo li usurpavano per sé, ma addirittura pretendevano che i cacciatori pagassero la ricognizione della quarta parte della caccia direttamente a loro, «se no li mettono in prigione  e li fanno pagare quello che vogliono». Essi non si usurpavano soltanto le predette cose, «ma anche la decima delle pescagioni delle sarde ed altri pesci».

Il Mainardi denuncia un altro fatto gravissimo: «I fattori di Kàlena non possono reclamare alla Regia Udienza, perché con scuppette sarebbero ammazzati”. Ecco perché tacciono: ne va della loro vita.

Che fare allora? Conviene che gli “Abbati” di Tremiti e per loro i Procuratori generali che stanno addetti a risolvere le controversie a Napoli e a Roma la denuncia la facciano loro. In alto loco. Essi possono, con una forte azione legale, «farli scomunicare» dal Pontefice, se non restituiranno ogni ragione e giurisdizione della Madonna nel territorio di Peschici.

Dopo aver affermato che tutte le «raggioni» di Tremiti e di Kàlena in questi luoghi e altri sono state smarrite, perse e usurpate, il Mainardi rimprovera duramente la persistente inerzia e la  grande incuria di chi era tenuto a vigilare affinché ciò non accadesse: «Voglio dire quattro parole per tale misfatto e ignoranza o negligenza degli agenti e anche degli abati, i quali dovrebbero molto vigilare e cercare di ben considerare e vedere le ragioni e o i confini dei territori della Madonna di Tremiti e Kàlena e dove i trovano i confini o luoghi usurpati, cercare di reintegrarle con la ragione, e rinnovare dappertutto i termini a poco a poco, acciò non siano fatti maggiori usurpazioni. Le “raggioni” della Madonna di Tremiti e di Kàlena sono state affidate alla cura della Congregazione lateranense, non ai signori baroni».

Chi sono gli usurpatori? Il Mainardi li elenca uno ad uno: «Sono i signori Marchesi di Vico e di Ischitella,  che godono e usurpano o personalmente, o attraverso l’Università che fa loro capo, tutti i territori. Essi sono soltanto degli usurpatori, vogliono godersi tali beni della Madonna  senza alcun scrupolo di coscienza. Gli attuali baroni usurpano i diritti della Madonna peggio dei loro predecessori.

I baroni attuali che ora godono (i baroni Turbolo)  pretendono di godere giustamente perché hanno comprato dalla Corte la Baronia di Peschici e d’Ischitella, i quali diritti pretendono che “fossero” del signor Don Ferrante di Sanguine (de Sangro), e lui don Ferrante de Sangro dal suo avo, che fu Giovanni de Sangro e costui ancora dal suo avo, padre di sua madre, che fu il Signor Giovanni Dentice. Furono costoro che cominciarono ad usurpare tali ragioni».

Il Mainardi lancia un forte j’accuse contro questi feudatari garganici che calpestano i diritti delle due abbazie: «Usurpano tutti i territori della Madonna di Tremiti e Kàlena e ne ricavano frutto ed entrata come se fosse loro. Se non sono fittavoli della Madonna né livellari, né censuari, né renditori di cosa alcuna, com’è possibile che sia permesso loro di perseverare in tale ingiustissimo misfatto e possesso? Non è questa una balordaggine troppo grande, non è questa una grandissima sciocchezza degli agenti e dei prelati che lasciano scorrere tale danno senza ricercare i debiti rimedi? E reiteramenti delle ragioni della Madonna, così come sono state lasciate dall’arcivescovo Leone, e dai serenissimi re di Napoli Ruggero, Guglielmo e Vincalmutalljo?».

Nella sua ricognizione archivistica, il Mainardi elenca le numerose vertenze che avevano contraddistinto il conflittuale rapporto dell’abbazia di Tremiti e di Càlena con i baroni. 

Nel 1518 c’era stato un accordo tra il monastero di Tremiti, il Magnifico Galeazzo Caracciolo, il magnifico Giovanni di Sangro e madama Adriana Dentice, baroni di Peschici ed Ischitella, per la lite che aveva loro mosso il detto monastero di Tremiti, a causa della decima della pesca ed emolumenti del lago di Varano che per molti anni non avevano pagato all’abbazia di Kàlena [20]. 

Si giunse alla seguente convenzione: ogni anno i feudatari avrebbero dovuto sborsare:

·  una decima di 100 scudi d’oro ovvero 115 ducati;
·  50 capitoni freschi;
·  4 sacchette di anguille;
·  20 paia di avi (polli e galline);
·  un numero imprecisato di uova.

Il Mainardi contesta l’entità del risarcimento che, secondo il suo parere, è molto basso: tale rendita arriva appena al pagamento di 200 ducati, mentre la decima dovrebbe fruttare sino a 600 ducati all’anno. I proventi del lago raggiungevano infatti la considerevole cifra di 5.000 ducati.

Un altro reddito fruito al minimo derivava dai numerosi pascoli di proprietà di Tremiti e di Kàlena. Fu ribadito che gli “estranei” che li utilizzavano, dovevano pagare una certa somma.

Anche la Regia Dogana era tenuta a pagare a Tremiti somme variabili a seconda che si trattasse di capo grosso, cioè buoi, vacche, giumente, cavalli, muli e simili o capo piccolo, cioè pecore e capre.

Le somme stabilite, in verità, non venivano rispettate, in quanto Tremiti e Kàlena ne ricevevano soltanto una minima parte. C’era però, da parte della Regia Dogana, il riconoscimento della “proprietà” dei pascoli. Cosa che non facevano i signori baroni, che volevano fruire dei pascoli senza pagare alcunché.

Con quali ragioni? – si chiede il Mainardi – Essi non ne hanno alcuna. Si assiste all’assurdo. Mentre sua Maestà il re Filippo ammette il pagamento della fida alla Madonna, i signori baroni vogliono loro farsi padroni assoluti dei luoghi, boschi e pascoli della Madonna”.

Una copia di una lettera antica, ritrovata l’anno 1584 a Tremiti attestava che i pascoli e gli erbaggi dei territori della Madonna di Tremiti e di Kàlena erano stati usurpati ingiustamente dai Turbolo, baroni di Peschici ed Ischitella nelle seguenti  località:

1.    Isola dell’Imbuti, sul lago di Varano. Roberto, conte di Lesina, l’aveva venduta al reverendo abate Roberto di Càlena  con il castello distrutto e tutte le sue pertinenze. Qui i confini furono posti “in gran danno” della chiesa perché “furono ristretti assai” quando il signor Francesco Maistrillo, commissario deputato del Sacro Regio Consiglio, aveva fatto piantare arbitrariamente i termini lapidei.

2.    Lago Pantano e fiume di Varano. I baroni Turbolo dovrebbero pagare l’integral decima, perché l’abate Roberto, abate di Kàlena l’aveva pagati 150 scudi  di oro schiffato. Questi due territori li aveva acquistati con tutte le loro pertinenze di terre, selve, boschi, olivi, lago Pantano sino al mare con un corso dell’acqua del lago sino al mare dall’uno e dall’altro lato.

3.    Manatec, Montecalena, Circaprete ed altri luoghi della Madonna. Si dovrebbero far pagare agli usurpatori: gli usufrutti, gli alberi tagliati  e far loro notificare un Ordine regio di divieto per l’avvenire.

4.    Valle, colline del Gravalone e Monte Kàlena, nel luogo detto il Cacciatore. In questi luoghi erano stati usurpati più di quattro e sei carra di territorio in semenze. Lo avevano testimoniato sei  periti eletti dal Magnifico e Reverendissimo signor Commissario. Questi uomini “dabbene ed esperti” dichiararono che questi tre luoghi erano tutti di Tremiti e di Càlena, ma i baroni continuavano impunemente a possederli.

Cosa propone Timoteo Mainardi? Che i baroni “devono” restituire tutti i territori usurpati alla Madonna di Tremiti e di Kàlena, Liberamente, senza scandalo, né danno alcuno, ma sotto la pena di scomunica e della perdita dei propri beni. Gli abati presenti e futuri non devono mai più «subire e tenere tali sfrisi in faccia», umiliazioni così cocenti.

Lo sfriso in faccia più eclatante è che, nei luoghi boscosi di Peschici, i signori baroni Turbolo fecero tagliare, e continuano ancora a farlo, tanti legnami da opera che «coglie uno stupore»… Con l’aggravante che anche i “fattori” di Kàlena «fanno anche loro tagliare tanti legnami da opera e ne fanno vendita in modo di mercanzie».  

Per Mainardi è un fatto inaccettabile: «È uno scandalo, un vituperio grandissimo che per tre o quattro carlini danno tale legname che a  volerlo utilizzare nei luoghi bisognosi di Tremiti e Càlena varrebbero di più di tre o quattro scudi d’oro». E questo accade mentre «la casa di Kàlena sta scoperta e senza solaro, con travi vecchi nudi».

La cosa è talmente eclatante che «i contadini che lavorano nei sopraddetti tre luoghi, e anche tutti gli altri che pagano il terratico a detti signori baroni, si meravigliano e si stupiscono del modo in cui Tremiti e Kàlena sopportino tale ignominia e danno, e che non ne facciano risentimento in Napoli alla giustizia, sicché in ogni modo si provveda a imporre il rispetto delle ragioni, eliminando disordini e danni».

Ad usurpare le «raggioni» di Kàlena non erano soltanto i feudatari, ma anche il Clero di Peschici [21]. La Chiesa di Sant’Elia era officiata da preti “morlacchi”, cioè appartenenti alla comunità slava che all’inizio del Cinquecento aveva rifondato il paese dopo l’assalto dei Turchi.

Questi preti avevano usurpato trecento tomoli di terra, aggiungendoli agli altri trecento tomoli che gli abati di Kàlena avevano loro regolarmente concessi nella località denominata “Coppe Gentili”.

Ne fa fede un documento del Regesto del 1588. Si riferisce di una pietra piana con l’impronta del marchio di Tremiti (che limitava la proprietà) spezzata e spiantata. Gli agenti del monastero di Tremiti e Càlena, con licenza del commissario della  Regia Sommaria (esaminatore dei testimoni per parte di Tremiti nella causa di Sfilzi contro i Morlacchi di Peschici), si recarono sul posto per rimettere al posto la pietra predetta, ritrovata vicino alla fondazione di una «fabbrica in piano», vicino circa venti passi dalla Grotta del Fico.

Ma, ad un tratto, per impedire che simile “piantumazione” venisse effettuata si presentò l’arciprete di Peschici con tutta la Corte, armata di tutto punto. Con cotte e campanelle, com’era usanza a quel tempo, l’arciprete slavo gettò una scomunica e minacciò di scomunicare chiunque avesse osato rimettere al suo posto originario il termine lapideo con il marchio di Tremiti e Kàlena.

Lo fece a nome, anzi, come disse, “per ordine” dell’arcivescovo di Manfredonia, il quale, però, interpellato successivamente dagli agenti di Kàlena, smentì categoricamente tale circostanza. Il termine di confine intanto fu portato via e non fu “piantumato”. Il  luogo restò sfornito della demarcazione che ne denotava la proprietà, con grave danno per Kàlena.

Per di più, i Morlacchi, istigati da qualche malo spirito e forse come sospetta il Mainardi, proprio dalla Corte di Peschici, continuarono a  “levare anche i termini lapidei fatti piantare per ordine di Bahordo Carafa, viceré della Puglia al tempo della controversia tra il venerabile monastero di Tremiti e Kàlena e Giovanni Dentice, barone di Peschici”, quando anche costui aveva usurpato le «raggioni» e i territori di detti monasteri.

Il Mainardi chiude la sua filippica contro chi è inadempiente o usurpatore con un lapidario verrà un giorno: certamente tutti costoro dovranno rendere ragione nell’aldilà di questo loro comportamento così lassista e negligente nei confronti delle sacre proprietà.  

A chi? Alla «maestà del Signore Iddio ed alla Madonna».

Per avallare la tesi del divino redde rationem il Mainardi cita un episodio penitenziale, ricordato in una lettera antica del 20 maggio 1471 firmata da Gabriele da Vercelli, abate di Tremiti e di Kàlena [22] . 

Vi si racconta di due periti che, insieme ad altri quattro esperti, avevano giurato il falso a danno “evidentissimo” della Chiesa di Tremiti e di Kàlena. Si erano venduti per 10 vili ducati, attestando diritti inesistenti a favore Giovanni Dentice, signore di Peschici e di Ischitella.   

I due spergiuri, pur essendo sinceramente pentiti di questa loro dissacrante azione, non vennero assolti dal padre predicatore Don Giovanni da Cremona se “primieramente” non avessero chiesto perdono e misericordia ai padri di Tremiti.

I due fedrifaghi, prima di essere perdonati, dovettero sottostare ad una sorta di Canossa garganica. Il priore Gabriele da Vercelli, che si trovava allora Sant’Agata, racconta così la scena del pentimento: «Vennero a noi due uomini di Vico, Pietro di Giorgio e Bartolomeo di Giacomo di Calandra, i quali subito arrivati a noi, inginocchiatosi in terra con una corda al collo pendente a ciascuno di loro, con le lacrime agli occhi, salutandoci, dimandarono con gran pianto, misericordia e perdonanza del loro errore commesso e fatto». Soltanto così furono finalmente assolti.

Ma la vicenda non si concluse senza danno per chi aveva ispirato la nefanda azione dei due periti a sfavore dell’abbazia calenense. Il feudatario Giovanni Dentice ricevette ben presto nel suo castello di Peschici  la visita di una delegazione composta dall’abate di Tremiti e da maggiorenti di Rodi Garganico e di Vasto.

Costoro «andarono a parlargli sopra tal fatto, dolendosi assai di un tale inganno che avrebbero posto alla Regia Corte del serenissimo re Ferdinando (d’Aragona), affinché fosse revocata tale sentenza e testimonianza fatta nei beni della Madonna di Tremiti e di Càlena». Giovanni Dentice tentò di giustificarsi, arrampicandosi sugli specchi. Aveva dato sì 60 ducati al suo servitore, ma non sapeva della corruzione da questo operata sui sei periti… e a suo favore.

Non gli cedettero più di tanto se fu comunque costretto a sottoscrivere che «se tutto fosse stato vero,  egli si sarebbe ritirato dal possesso dei beni di Kàlena, disposto a farne nuovo istrumento». Come accadde.

Le usurpazioni continuarono, come abbiamo visto, anche con i nuovi feudatari. Col passare degli anni le condizioni di vita sulle isole ed in terraferma divennero sempre più difficili.

I Canonici di Roma, impegnati più a curare gli altri monasteri che ad occuparsi delle lontane isole diomedee, si disinteressarono della sorte delle loro abbazie e della fortezza di Tremiti, che caddero in pessimo stato.

Nel 1763 il comandante del presidio tremitense Tenente Colonnello Carlo Brogli chiese, in una particolareggiata relazione, che si provvedesse ai necessari restauri. Visto che continuarono a non essere effettuati, essi furono decisi d’imperio.

Furono effettuati nel marzo dell’anno seguente, a spese dell’Erario, che si rivalse economicamente sui Canonici che avevano mostrato un palese disinteresse alla sorte di quella loro antica casa. Nel 1782 l’abbazia di Tremiti fu soppressa. I suoi beni, che comprendevano anche quelli dell’abbazia di Kàlena, furono incamerati dal Regio Demanio. Li amministrò un funzionario di nomina regia [23].

Nel corso dell’Ottocento molti demani, un tempo facenti parte delle pertinenze di Càlena, furono usurpati dalle famiglie più in vista di Peschici. Così come avvenne anche in altri luoghi del Gargano. Posta così potrebbe sembrare un’altra storia.

In realtà non è così. Le denunce cinquecentesche del Mainardi rappresentano solo il punto di partenza di incuria da una parte e sopraffazione dall’altra di Tremiti e di Kàlena, quest’ultima oggetto di attenzione oggi. Le sue condizioni testimoniano che lo sfruttamento e l’abbandono durano da cinque secoli. Un po’ troppi in verità.


NOTE

1 B. COCHORELLA, Descrizione accuratissima delle Isole Tremiti, un tempo Isole Diomedee, a cura di G. Radicchio, edito da Palomar, Bari 1998.

2 A.S.V. (Archivio di Stato di Venezia): T. MAINARDI, Raggioni del monastero di S. Maria di Tremiti cavate da diversi Istromenti, donazioni et altre, 1592, manoscritto inedito.

3 A. PETRUCCI, Codice diplomatico del monastero benedettino di S. Maria di Tremiti (1005-1237), Roma 1960.

4 Segnaliamo che, nel testo curato da Radicchio, l’espressione «Abbatia Calen(en)sis» del Cochorella viene tradotta erroneamente in «Abbazia di Calvi» anziché «Abbazia di Càlena».

5 COCHORELLA, Descrizione cit., p.157.

6 Ibidem.

7 Ibidem.

8 Ivi, p. 159.

9 Ivi, pp. 159-160.

10 Ivi, pp. 161-163.

11 Ivi, p. 161.

12 Ivi, p. 163.

13 Ibidem.

14  Ivi, p. 191.

15 Ivi, p. 215.

16 Ivi, p. 185.

17 Ivi, p. 177.

18  Ivi, p. 179.

19 MAINARDI, Raggioni cit.

20 Ivi, Carte 76-77.

21 Ivi, Carte 111-112.

22 Ivi, Carte 109-110.

23 A. PETRUCCI, Codice diplomatico cit.

    

©2004 Teresa Maria Rauzino. 

Saggio tratto dagli Atti del Convegno del Centro Studi Martella: Salviamo Kàlena. Un’agonia di pietra, a cura di Liana Bertoldi Lenoci, Edizioni del Parco, Claudio Grenzi editore, Foggia  2003, pp. 67-81, dal quale sono tratte le due immagini pubblicate in questa pagina.

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La dimensione quotidiana del sacro

Dalle testimonianze raccolte da Angela Campanile in Peschici nei ricordi traspare una forte attestazione di religiosità popolare. Una fede che dava conforto e speranza di una vita migliore alle classi subalterne

In Peschici nei ricordi, una scena ci visualizza le donne dei pescatori mentre, dalla Rupe del Castello, lanciano i santini dei santi protettori nei flutti del mare in tempesta. È emblematica della dimensione che il sacro assumeva nella vita quotidiana del primo Novecento. Anche i piccoli legni, simili a gusci di noce, in balia delle onde, presenti nelle tavolette votive donate alla Madonna di Loreto, simboleggiano l’uomo che stenta a trovare la sua strada nelle temperie della vita.

Il rapporto con i santi e con Gesù era diretto, confidenziale.

I fedeli, e come vedremo, i protagonisti dei “cunti”, si rivolgevano ad essi come se fossero loro conoscenti. Il tono era decisamente familiare. I pellegrini dell’Incoronata salutavano la Vergine con un «Statti bene Madonna mia / ci vediamo l’anno prossimo / e se non vi vedremo più, / in Paradiso ci porti tu!».

L’intervento miracoloso era invocato contro la natura, che spesso assumeva le sembianze di un terribile nemico senza volto. Quando scendeva il buio sulla rocca di Peschici, nelle piccole caverne rupestri o nelle casette di venticinque metri quadri, imbiancate di calce viva, prima di addormentarsi, si recitavano alacremente le preghiere della notte.

La paura di non svegliarsi il mattino dopo era una delle costanti della vita. L’incognita dell’aldilà costituiva un forte incentivo ad arrivarci preparati, imparando tutte le preghiere salvifiche, che diventavano un pass-partout ideale per l’eternità:

Verbe sacce/ e verbe dèiche/ verbe fu nostro Signàure/ che jè misse impassiàune,/ sàupe na cràuce jerte e belle,/ nu vracce nciàile /e n avite nterre./ Alla valle di Giasaffatte,/ allà iàrrimme/ e truàrrimme,/ truàrrimme a San Giuanne/ chi nu libre d’àure mane,/ che liggiàive e che scrivàive/ e che diciàive:/ piccatàure e piccatrìce/ chi sape u verbe di Dei / che ciù dicesse,/ chi no sape/ che ciù mparasse,/ sinnò, quanne jè morte,/ zàuca nfosse,/ spèine granate/ e mazze di ferre jnte a cape!” «Le parole che so le dico, le parole che parlano di nostro Signore che si è messo “in passione” su di una croce alta e bella, un braccio rivolto il Cielo, ed uno in Terra. Alla Valle di Giosafatte andremo, e troveremo San Giovanni, con un libro d’oro in mano. Egli leggerà, scriverà e dirà: “peccatori e peccatrici, chi sa pregare lo faccia, chi non lo sa fare lo impari, altrimenti, quando morirà, sarà punito”. Con corda bagnata, legno spinoso (spèine granate) e mazza di ferro in testa!».

L’invocazione della protezione divina si materializza nella visione di Dio, nella sua accezione trinitaria, e di tutti i santi più rappresentativi della cristianità.

Il dormiente, oltre ad avere nel cuore Gesù Cristo piccolino, con i riccioli che sono tanti fili d’oro, e la Madonna, vede intorno a sé un eccezionale schieramento di spiriti celesti.

A delimitare il sacro spazio di un sonno tranquillo, ci sono ben tredici angeli, sul letto ce ne sono altri tredici, Gesù adulto è a capo del letto, San Giuseppe è il suo avvocato difensore. «A capo del letto mio – recitava il fervente peschiciano – ci sta l’eterno Dio, sui due lati c’è lo Spirito Santo. Vicino a me c’è l’angelo che gioca, se Maria protegge la casa le disgrazie escono fuori, le cose belle restano dentro».

La protezione diventa planetaria quando, dai quattro angoli (cantoni) della casa, entrano altri super-protettori: san Luca, san Marco, san Matteo, e sant’Angelo Gabriele. Il quale non c’entra nulla con gli Evangelisti, ma è determinante per marcare la prima chiusa.

La preghiera continua ancora, con l’invocazione a «Maria Bambinella, tutta pura e tutta bella». Dovrà fare in modo che finiscano tutti i guai della casa protetta, dovrà farlo per l’amore che porta a Gesù. L’ultimo desiderio è di avere Maria per madre, san Giuseppe per padre, e soprattutto di fare una grossa “cumpagnie”, con Gesù, Giuseppe, sant’Anna, Maria, insieme a tutti gli altri santi del Paradiso.

Nella precarietà dell’esistenza, la morte era un evento da preparare per tempo. Passati i quarant’anni, la donna cuciva il corredo “specifico” per sé e per il proprio compagno, poiché non si poteva mai sapere… «nu cunte, na càuse», meglio evitare di farsi trovare impreparati ed esporsi ai pettegolezzi della gente! Ogni anno, l’insolito corredo veniva lavato durante la “luscìa”: doveva essere sempre bianco e profumato di serpillo. «Nun putesse mai sirvì!»: era questo l’augurio che passava di bocca in bocca, mentre i vari capi di lino e di cotone, impreziositi da orli a giorno e da ricami, venivano lavati ed asciugati.

Ma la morte, ultima avventura della vita, arrivava spesso anzitempo. Sorretti da una gran fede, i parenti dell’infermo speravano in un miracolo: fino all’ultimo momento si accendeva la “lampe” davanti ai santi sottocampana, un “altare” consueto sul comò. Si pregava senza sosta, ma quando si sentiva il canto notturno della “mèruila marèine” era proprio la fine! Il detto era: «quando canta il merlo marino, fortunata la casa dove si posa, sfortunata quella che mira!». 

Il Paradiso ad ogni costo

Nella “Settena dei Morti”, che si recitava dal giorno di Tutti i Santi fino al giorno 7 novembre, si fa riferimento ad “alme purganti”, che innalzano mesti lamenti “nel mare del duol”. Esse, sono collocate nel Purgatorio, un carcere, un’oscura prigione, un mare di fuoco, dove l’arsura le brucia. Soffrono le pene dell’Inferno. Ma i morti temono soprattutto l’oblio e la dimenticanza. Le preghiere ed i suffragi da parte dei vivi servono affinché «le anime benedette del Purgatorio si possano rinfrescare (ci putèssine addifriscà)». Il Paradiso è “una bella cosa”. Chi ha la fortuna di arrivarci, dopo una vita di stenti e di duro lavoro, va a riposarsi: «U paravèise / jè na bella càuse / Chi  va / ci va a ripàuse».

Nei racconti di Gesù Cristo, viene descritto come un luogo inaccessibile. È delimitato da una porta, a guardia della quale c’è un san Pietro poco disponibile ad aprirla. Non solo a chicchessia, ma anche a chi ha avuto modo di ospitarlo, insieme a Gesù, durante la vita terrena.

Nei “cunti” di Peschici, però, i protagonisti, con la loro arguzia e con la loro intelligenza, riescono a varcare sempre la porta d’oro del Paradiso.

Come Quagghiarelle, che quando muore, va a bussare al Paradiso. A san Pietro, che chiede chi sia, risponde senza timore, dandogli del tu: «Sono Quagghiarelle, mi fai entrare?».

Al rifiuto deciso di san Pietro, egli non demorde. Chiede di poter sbirciare attraverso la porta, vuole vedere almeno com’è fatto il Paradiso. Poi butta la coppola dentro e, con la scusa di  riprendersela, entra. E comincia a suonare il suo micidiale fischietto, coinvolgendo, in una sorta di ballo frenetico, molto simile ad una “taranta”, tutti i santi del Paradiso.

Quando Gesù Cristo sente tutto quel rumore, chiama a rapporto san Pietro e lo rimprovera: «Ma che vi siete impazziti oggi?»; «Cos’è tutto questo fracasso (stu ribelle) che fate in Paradiso?».

Risponde san Pietro, sconsolato: «Che vuol essere? È arrivato Quagghiarelle, e vuole stare per forza in Paradiso!». E Gesù: «Pietro, Quagghiarelle a noi ci ha ospitato, e noi “l’amma fa stà o Paravèise!”».

In un altro racconto, il tema del Paradiso “conquistato” si ripete, con delle significative, insolite varianti. 

Ntiniucce, il protagonista, in vita ha ospitato Gesù e san Pietro, sorpresi da un temporale presso la sua casella di campagna. Il Maestro, per ringraziarlo, gli concede tre grazie, tra cui quella di poter vincere sempre al gioco delle carte.

Quando l’uomo bussa alla porta del Paradiso, san Pietro non lo fa entrare: «Potevi pure chiedere la grazia del Paradiso! Hai chiesto le “mupie”? Ora vattene all’Inferno!». 

Qui egli sfida Lucifero ad una partita a carte: la posta in gioco è il trasferimento al Paradiso. Ntiniucce vince, una ad una, tutte le anime dell’Inferno! Se le mette in un sacco, e ritorna a bussare insistente alla porta d’oro.

San Pietro, per levarselo di torno, accetta di giocare una partita a carte: la posta in gioco è il permesso d’entrare.  E fatalmente perde. Quando vede uscire dal sacco tutte quelle anime di peccatori, resta come un fesso! (nu fesse). 

E Ntiniucce, senza scomporsi: «Se tu mi avessi fatto entrare prima, ero solo io. Adesso arrangiati!».

 

©2004 Teresa Maria Rauzino.

Recensione del testo di ANGELA CAMPANILE, Peschici nei ricordi, 2° volume “I luoghi della memoria” Centro Studi Martella, Claudio Grenzi editore, Foggia 2000, Euro 16,52.

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Microstorie

27 gennaio. Oltre la memoria

Un ex docente del “Lanza” di Foggia, diventato preside al “Manzoni” di Milano, epurò 65 studenti ebrei


Giuseppe Pochettino, preside del Liceo classico Manzoni di Milano, nell’anno scolastico 1938-39 procedette all’epurazione di 65 alunni ebrei. Applicò le leggi «per la difesa della razza nella scuola fascista», promulgate  dall’omonimo Regio Decreto del 5 settembre 1938. Il 15 settembre 1938, il preside comunica al Collegio Docenti che «nessun insegnante dell’istituto sarà colpito dal provvedimento che esclude i docenti di razza ebraica», mentre «dovranno essere eliminati (sic) circa 50 alunni, di cui una quindicina di stranieri»; nel verbale del 17 ottobre si fa menzione di libri di testo sostituiti perché di autori ebrei.

Infine, nel verbale del collegio plenario del 3 dicembre, Pochettino informa che «nonostante l’eliminazione degli alunni ebrei»il numero degli iscritti è aumentato. Invita tutti gli insegnanti a voler curare l’aggiornamento dello stato di famiglia, che per molti è in arretrato e incompleto. Tutti dovranno aggiungervi, in particolare, una dichiarazione riguardante la razza.

Dall’interesse suscitato dalla lettura di questi verbali, è nato il dossier Oltre la memoria. La ricerca, effettuata da due docenti e da un gruppo di nove studenti del Liceo-ginnasio Manzoni, ha verificato l’applicazione delle leggi razziali del 1938. In realtà furono circa 65 gli studenti del «Manzoni» cacciati a seguito delle leggi razziste volute dal regime fascista.

La possibilità di accedere all’archivio storico della scuola e di consultare direttamente le fonti dell’epoca, è stata la condizione di base che ha consentito di verificare i dati.

In seguito, attraverso il Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea di Milano, gli studenti hanno contattato due ex -manzoniane “epurate” ancora superstiti: Anna Marcella Falco, che nel 1937/38 aveva frequentato la V Ginnasio C, ed Emma Pontremoli, alunna nello stesso anno della V D.

La loro  testimonianza, corredata di documentazione fotografica di quegli anni, ha consentito di ricostruire molti aspetti della vita del “Manzoni” durante il Ventennio,  quando la scuola è fortemente “fascistizzata”.

Anna Marcella Falco ed Emma Pontremoli (rispettivamente la seconda e la quarta da sinistra)

Le ex allieve hanno raccontato la  loro esperienza di studentesse “emarginate” dai compagni quando, insieme a tanti loro coetanei, furono cacciate dalla scuola pubblica. Interessante è la storia della scuola ebraica di via Eupili, che le accolse, retta dal preside Yoseph Colombo.

La ricerca Oltre la memoria, è stata effettuata tra il gennaio 2001 e il giugno 2002. I materiali sono stati raccolti in un fascicolo cartaceo e rielaborati in forma multimediale.

L’ipertesto è postato sul sito web del liceo Manzoni all’indirizzo: www.liceomanzoni.it. Il lavoro è dedicato a Regina Gani, una delle studentesse del Liceo eliminate dal preside Pochettino, morta nel 1945 ad Auschwitz.

IL PROF. POCHETTINO INSEGNÒ AL LANZA DI FOGGIA

Ma chi era il preside che, così cinicamente, annunciò l’espulsione degli studenti ebrei dalla propria scuola?

Il suo nome non ci è nuovo. Lo incontriamo scorrendo gli elenchi dei  libri di testo del «Lanza» di Foggia degli anni Trenta.

Ben due libri di storia di questo autore risultano adottati dal liceo classico foggiano; era suo anche il manuale di Elementi diColtura fascista, edito dalla SEI.

Giuseppe Pochettino, nato nel 1880 a Castellazzo Bormida (Alessandria), laureato in Lettere e Filosofia, nel 1908/1909 aveva insegnato anche a  Foggia.

Dalla documentazione raccolta dagli studenti del Manzoni, risulta che aveva ottenuto, per concorso, una cattedra di lettere nel Ginnasio inferiore del Lanza.

Trasferitosi in seguito al liceo di Avellino, durante la prima guerra mondiale prestò servizio come capitano di fanteria in zona di operazioni belliche.

Nel 1923 iniziò la carriera di Preside. Fu nominato al «Manzoni» nell’anno scolastico 1932/33, e manterrà la carica sino al collocamento a riposo per motivi di salute nell’aprile 1943.

Varie onorificenze gli furono conferite per l’attività svolta nella scuola e a favore delle iniziative del PNF in ambito scolastico: fu nominato Cavaliere e poi (1940) Commendatore della Corona d’Italia; ricevette la medaglia di bronzo e il diploma di benemerenza della G.I.L.

Scrivono gli studenti del Liceo Manzoni: «All’immagine di Pochettino quale convinto interprete della politica del regime, che emerge dai dati biografici sopra citati o dal ricordo di alcuni ex-allievi, che ne rievocano i discorsi celebrativi in varie cerimonie di regime, tenuti con molta enfasi dal balcone dell’Aula Magna davanti agli studenti schierati nel cortile, si contrappone la testimonianza di altri ex-manzoniani, che lo dipingono come uomo “insignificante”, o comunque mite».

LA «DIFESA DELLA RAZZA» AL PALAZZO DEGLI STUDI

Il Regio Decreto Legge 5 settembre 1938, n. 1390, pubblicato sulla «Gazzetta Ufficiale» n. 209 del 13 dello stesso mese, e convertito senza modifiche nella legge 5 gennaio 1939, n. 99 (GU n. 31, 7 febbraio 1939), riguardante le disposizioni «per la difesa della razza nella scuola fascista», imponeva che: gli alunni «di razza ebraica» non potessero essere iscritti in nessuna scuola statale, parastatale o legalmente riconosciuta di qualsiasi ordine e grado.

Tutti gli insegnanti «di razza ebraica» appartenenti ai vari ruoli dovevano essere sospesi dal servizio, compresi presidi, direttori didattici, personale di vigilanza; gli stessi provvedimenti di sospensione si estendessero al personale docente universitario di ogni grado, a quello delle Accademie, degli Istituti e delle Associazioni di scienze, lettere e arti.

Nell’elenco dei 171 insegnanti di ruolo «di razza ebraica”’ colpiti da tali provvedimenti in tutta Italia abbiamo ritrovato, pubblicato dal Ministero nel 1938, c’è il nominativo di una professoressa che insegnava al Regio Istituto Magistrale «Poerio» di Foggia: si chiamava Maddalena Pacifico.

Nella relazione finale al ministero il preside Flaviano Pilla ignora il fatto. Che fine fece questa docente? Ci sono ex alunni e persone che l’hanno conosciuta e possono aiutarci a ricostruirne la storia?

Nessun altro professore delle altre scuole di Foggia risulta nell’elenco ministeriale. Per il Liceo Lanza abbiamo verificato che nessun docente venne sospeso e dispensato dal servizio per le leggi razziali.

Per quanto riguarda gli studenti espulsi, non è stato possibile rilevare il dato. Mancano, nell’archivio storico della scuola, i verbali del Collegio Docenti o del Consiglio di disciplina del 1938, documentazione che potrebbe illuminarci in proposito.

Bisognerebbe selezionare, come hanno fatto gli studenti del Liceo Manzoni per la loro ricerca Oltre la memoria,  i cognomi (paterni e materni), compresi nell’elenco di 9.800 famiglie ebraiche, in appendice ai Protocolli dei Savi Anziani di Sion, 1938, curata da Giovanni Preziosi, e destinata a istituzioni pubbliche e al PNF.

Bisognerebbe esaminare anche i registri delle iscrizioni, scrutini ed esami di tutte le classi del ginnasio e del liceo per gli anni 1937/38 e 1938/39, prendendo nota dei nomi e dei dati – paternità, cognome materno, possibile esonero dall’insegnamento della religione cattolica – degli studenti che hanno frequentato nel 1937/38 e che, indipendentemente dall’esito finale, non compaiono nei registri dell’anno successivo e non risultano trasferiti ad altre scuole. 

Ma il nuovo clima “razziale” si respira anche al Lanza di Foggia. Scorrendo i testi acquistati per l’anno scolastico 1938-39 dal preside Guerrieri, vediamo che per la biblioteca dei professori fu comprato, fra gli altri, un libro legato all’attualità del momento storico: Gli ebrei in Italia di Schaert Samuele. 

Fra le riviste acquistate per la sala professori spicca La Difesa della Razza. Al Liceo Lanza ci furono alcuni abbonamenti “privati” a questa  rivista, sollecitati dal Preside.

Copertina di un numero della rivista «La Difesa della Razza»

Il primo numero del quindicinale, diretto da Telesio Interlandi e voluto dallo stesso Mussolini come strumento di divulgazione e propaganda delle idee razziste, era uscito il 5 agosto 1938.

La tiratura dei primi numeri fu altissima per quei tempi: circa centocinquantamila copie. Il materiale iconografico insiste su illustrazioni di vari “tipi” di ebrei, di cui era messa in rilievo la sgradevolezza fisica e morale.

Il  “logo” della rivista riproduce l’immagine di una spada che separava l’ariano dall’ebreo e dal nero. Nel numero del 20 settembre 1938, un’impronta digitale con la stella di Davide deturpa il volto “ariano” di una statua classica.

L’idea che si voleva suggerire era che le “razze” ebraica e nera fossero portatrici di corruzione fisica oltre che morale. Le pubblicazioni procederanno fino al 1943, con minore tiratura.

Nel 1939-40 la scuola foggiana, come tutte le scuole italiane, era ormai pericolosamente avviata verso la «difesa della razza ariana», come testimoniano due pubblicazioni acquisite l’anno successivo per la biblioteca del Liceo Lanza; qui furono acquisiti Inchiesta sulla Razza di Paolo Orano; Razza e razzismo di Gino Sottochiesa.

Il preside Guerrieri comunica allo Spettabile Ministero dell’Educazione Nazionale che sono stati acquistati dagli alunni – tramite il suo Ufficio di Presidenza – 69 copie del Primo Libro del Fascista e 200 copie del Libro del Fascista, in aggiunta alle 300 già acquistate l’anno precedente.

I “libri del  fascista”, hanno struttura catechistica, a domanda e risposta e trattano soprattutto il tema della razza. Pubblicati da Mondadori, ad opera del PNF, Il Primo libro del fascistaIl Secondo libro del fascista ed Il Libro del fascista (che li riassume in un volume unico), trattano «la “programmazione” dell’uomo nuovo e dell’italiano di Mussolini».

Sono destinati «alla cultura dei semplici e dei giovani»: «Ogni Italiano deve vivere consapevolmente nel tempo fascista, e l’ignoranza di tali basi della nostra esistenza di Nazione è inammissibile; perciò si è voluto offrire ai Fascisti e ai giovani della G.I.L. questa semplice guida, necessaria per la cultura dello spirito come per i quotidiani rapporti dell’esistenza».

Nella prefazione leggiamo ancora: «Il Libro del Fascista è un manuale a tutti accessibile che contiene quanto è indispensabile conoscere circa la Rivoluzione, il Partito, il Regime, lo Stato mussoliniano». 

Vi sono, difatti, riassunti in brevi capitoli, sotto forma di domande e risposte formulate «con tutta praticità e chiarezza», gli aspetti morali, politici, sociali, organizzativi del Fascismo e vi è data notizia dei princìpi, istituti e ordinamenti su cui è basata l’Italia, «nella sua nuova grandezza». 

La lettura di queste pagine può “illuminarci”, più di tante parole, sulle nozioni di “pulizia etnica” inculcate dal regime agli studenti dell’epoca. Oltre la memoria…

©2004 Teresa Maria Rauzino