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Slavi ed ebrei nel campo di concentramento di Manfredonia

Il silenzio sulle foibe, e sull’esodo forzato di dalmati e istriani dalle loro terre, è forse la pagina più oscura della nostra storia repubblicana. Ma ancora più oscure sono le pagine che l’Italia ha scritto tra il 1919 e il 1944 in Slovenia e Croazia – sulle quali continua ipocritamente il silenzio – a cui va fatta risalire la feroce reazione degli Slavi di cui si parla in questi giorni.

È singolare che a sollevare la questione (solo delle foibe e dell’esodo, ovviamente) siano, anche a Foggia e in Capitanata, proprio gli “eredi” di quel regime che fu il primo responsabile della sanguinosa e sanguinaria reazione slava.

A tutti coloro che vogliono saperne di più su questa storia “dimenticata” consigliamo la lettura di un libro (a cura) di Costantino di Sante: Italiani senza onore (edizioni Ombre Corte, pp. 270) che pubblica documentazione inedita sui crimini compiuti dall’esercito del Duce in Jugoslavia. Ci fornisce una dettagliata, illuminante cronistoria dell’antislavismo viscerale perseguito dal regime fascista nei Balcani, brutto retroscena della bruttissima storia delle foibe.

La politica di occupazione italiana si contraddistinse per una serie ripetuta di violenze, angherie e sopraffazioni che non furono il risultato di scelte isolate dei comandi militari, ma componente essenziale della strategia di dominio territoriale dell’Italia fascista il cui scopo era arrivare alla «distruzione totale e integrale dell’identità nazionale slovena e croata».

«Di fronte ad una razza inferiore e barbara come la slava – scriveva Benito Mussolini già dal 1920 – non si deve seguire la politica che dà lo zuccherino, ma quella del bastone. I confini dell’Italia devono essere il Brennero, il Nevoso e le Dinariche: io credo che si possano sacrificare 500.000 slavi barbari a 50.000 italiani».

In una lettera spedita in data 8 settembre 1942 (N. 08906) dal generale Roatta al Comando supremo, viene proposta, addirittura, la deportazione dell’ intera popolazione slovena.

Nella riunione di Fiume del 23-5-1942, lo stesso Roatta aveva riferito le direttive di Mussolini: «Il DUCE è assai seccato della situazione in Slovenia perchè Lubiana è provincia italiana. Ha detto di ricordarsi che la miglior situazione si fa quando il nemico è morto. Occorre quindi poter disporre di numerosi ostaggi e applicare la fucilazione tutte le volte che ciò sia necessario. /…/ Il Duce concorda nel concetto di internare molta gente – anche 20-30.000 persone. Si può quindi estendere il criterio di internamento a determinate categorie di persone. Ad esempio: studenti. L’azione però deve essere fatta bene cioè con forze che limitino le evasioni. /…/ Ricordarsi che tutti i provvedimenti di sgombero di gente, li dovremo fare di nostra iniziativa senza guardare in faccia nessuno».

Tutti conosciamo Auschwitz e Buchenwald, ma decenni di censure ci hanno impedito di sapere che noi, italiani, costruimmo e gestimmo i lager di Kraljevica, Lopud, Kupari, Korica, Brac, Hvar, Rab (isola di Arbe). Alla fine del Ventennio gli occupanti italiani costruirono nelle terre slave campi di concentramento che, seppur non scientificamente predisposti allo sterminio, furono la causa di migliaia di morti e di infinite sofferenze. Furono creati campi anche in Italia, per esempio a Gonars (Udine), a Monigo (Treviso), a Renicci di Anghiari (Arezzo) e a Padova. Secondo stime rapportate nel volume dell’A.N.P.P.I.A. “Pericolosi nelle contingenze belliche”, i fascisti internarono quasi 30.000 sloveni e croati, uomini, donne e bambini .

SLAVI INTERNATI A MANFREDONIA

Facendo riferimento a uno studio effettuato da Viviano Iazzetti (funzionario dell’archivio di Stato di Foggia), sul campo di concentramento pugliese di Manfredonia (che funzionò dal 1940 alla fine dell’estate del 1943) possiamo confermare che un gruppo consistente delle persone ivi internate proveniva dalla provincia di Fiume erano cittadini italiani “slavofili“ sospetti di attività antinazionale; ex jugoslavi sospetti di attività antitaliana. Per ex jugoslavi – precisa Iazzetti– si intendevano gli internati originari dei territori dell’Istria annessi all’Italia in seguito allo smembramento dell’impero austro-ungarico conseguente il primo conflitto bellico mondiale.

Nel campo di concentramento di Manfredonia la libertà degli internati era limitatissima. Essi potevano passeggiare liberamente soltanto per alcune ore della giornata ed esclusivamente nell’ambito della zona delimitata. Quando i reclusi si trovavano in quest’area venivano attivati sei posti fissi di guardia per la loro vigilanza e contemporaneamente degli agenti in bicicletta percorrevano la nazionale per Foggia, lungo il tratto antistante il campo, onde evitare contatti con estranei. Al rientro degli internati nelle camerate venivano chiuse finestre e porte applicando a queste ultime dei lucchetti dall’esterno. Durante la notte funzionava un servizio di ronda sia all’esterno che all’interno del campo.

Una immagine dell’ex campo di concentramento di Manfredonia

Per gli internati non era possibile intrattenere rapporti epistolari con i familiari senza la preventiva autorizzazione ministeriale e subordinatamente al vaglio della posta per motivi di censura. Gli internati avevano l’obbligo di presentarsi negli Uffici della Direzione, ogni qualvolta invitati, a capo scoperto, abbigliati compostamente e salutando romanamente.

Per poter leggere dei libri italiani occorreva l’autorizzazione della direzione, mentre, per i giornali ed i libri in lingua straniera, quella del ministero. Era vietato usare lingue straniere nelle conversazioni. Della traduzione della corrispondenza degli internati serbo-croati e Sloveni si occupava la signora Maria Nannut presso il campo di concentramento di Fabriano.

Il campo di Manfredonia fu una “cosa all’Italiana”, non furono uccisi internati come nei famigerati campi nazisti. Ma non dimentichiamo che il 1° luglio 1940 nel campo suddetto giunsero 31 ebrei tedeschi. Iazzetti, nel suo saggio, ne ha citato nomi e cognomi e paternità:

Pressburger Alfred di Leopold
Rector Arthur fu Simon
Scharf Iakob di Jonas
Winkler Ugo Israele di Iulius
Zeilinger Leopold fu Gustavo
Morgestern Hans di Mauritz
Moser Louis fu Heinric
Kollmann Carl di Sigfrid
Kerbes Lemel fu Wilhelm
Hutzler Ludwig fu Leopold
Gluecksmann Eugen fu Antonio
Heinz Paul di Leopold
Leer Oskar di Franz
Mandel David fu Leiser
Mausner Iakob fu Leiser
Josesfsberg Iakob fu Zaibel
Kollmann Hans di Sigfrid
Schwarz Iulius fu Samuel
Tsch Oskar fu Albert
Aussemberg Chaskel fu Kaim
Lueksmann Ferdinand fu Filippo
Zilberstein Markta fu Habraham
Sommerfeld Leo fu Max
Koldegg Erwin fu Max
Samek Arthur di Adolfo
Halperin Benjamin di Giuseppe
Lawetzky Franz di Adolfo
Nussbaum Ernest Ludwig di Josef
Roth Leon di Wolf
Schwarzwald Norbert di Isacco
Wollner Sieghard di Max

Il 18 settembre 1940 gran parte di essi furono trasferiti presso il campo di concentramento di Tossicia in provincia di Teramo. Restarono a Manfredonia Halperin, Lawetzky, Roth, Swarzwald e Wolner che a loro volta, ad eccezione dell’ultimo di cui si perdono le tracce, furono trasferiti nel campo di concentramento di Campagna (in provincia di Salerno) il 26 febbraio 1942.

Viviano Iazzetti si chiede quale sorte toccò a queste persone ( di cui comunicò i nominativi alla Comunità ebraica di Roma fin dal 1984-85), invitando gli studiosi ad effettuare questa ulteriore ricerca.

Oggi finalmente questo ci è stato reso possibile dalla consultazione di una banca dati delle vittime della Shoa postata in Internet. Da una nostra personale ricerca sul sito www1.yadvashem.org, ben 16 su 31 ebrei tedeschi risultano periti nei famigerati campi di concentramento nazisti dove si consumò la Shoa. Sono Pressburger Alfred, Rector Arthur, Scharf Iakob, Winkler Ugo Israele, Zeilinger Leopold, Kollmann Carl, Kerbes Lemel, Gluecksmann Eugen, Mandel David, Mausner Iakob, Kollmann Hans Schwarz Iulius, Sommerfeld Leo, Halperin Benjamin, Nussbaum Ernest Ludwig, Roth Leon.

Nelle schede on line non sempre è riportata la paternità, oltre che la nazionalità, e talvolta ci sono omonimie: speriamo vivamente che il numero delle vittime sia stato inferiore al numero da noi rilevato.

Al Comune di Manfredonia chiediamo che sia posta almeno una targa a loro ricordo nel luogo (l’ex macello comunale, oggi dismesso) che li ospitò.

    
PER APPROFONDIRE:
Una memoria dimenticata. Il campo di concentramento di Manfredonia

©2005 Teresa Maria Rauzino. L’articolo è stato pubblicato sul mensile «Sudest» (n. 5, marzo 2005,  pp. 98-101). Le foto dell’ex macello comunale, sede del campo di concentramento di Manfredonia, sono state scattate dal fotografo del «Corriere del Golfo».

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Ralph de Palma. L’uomo più veloce del mondo che veniva da Foggia

Copertina del volume.

Dopo i Vademecum della Provincia di Foggia e Capitanlibri, Maurizio De Tullio si cimenta in un arduo lavoro di ricerca per ricostruire l’avvincente storia di Ralph de Palma, un campione automobilistico del primo Novecento.

Forte della sua esperienza giornalistica, l’Autore si avvale della grande Rete telematica per consultare le fonti sull’emigrazione, ricerca testi presenti in varie biblioteche nazionali ed estere, riscontra dati e documenti anagrafici in archivi pubblici e diocesani, dà una sua chiave di lettura all’interpretazione talvolta problematica degli stessi, delineando un quadro esaustivo della biografia del grande campione italo-americano che batté tutti i record.

Con questo volume, De Tullio riesce soprattutto nell’ardua impresa di restituire alla Capitanata l’immagine di un eroe, Ralph De Palma, da noi quasi ignorato, e che fece grande lo sport dell’automobilismo, divenendo, ai suoi tempi, l’icona vivente del “grande sogno americano”. Quel bambino, vissuto a Biccari fino all’età di dieci anni, non aveva mai visto il mare: solcherà per la prima volta l’Oceano Atlantico con la sua famiglia per raggiungere Lamerica, e precisamente la Grande Mela.

Oltreoceano, quel bambino, che non aveva mai giocato con le macchinine, riuscirà – come scrive De Tullio – a far sognare milioni di persone. Con auto vere. Le sue straordinarie gesta sportive (2557 vittorie su 2889 corse effettuate nel corso della sua lunghissima carriera) lo imposero all’attenzione planetaria: per milioni di emigrati italiani sparsi per il mondo egli divenne l’eroe internazionale di cui andare fieri. De Palma riuscì ad affermarsi in un’epoca in cui gli italiani erano considerati all’ultimo livello della scala sociale statunitense: erano i paria della società, un po’ come sono ritenuti oggi gli extracomunitari. Ecco perché, nelle prime biografie apparse sui giornali dell’epoca, alcuni dati, a partire dal nome americanizzato in Ralph, furono modificati per accreditare un’origine sociale più accettabile agli occhi dei fans. Sulla sua tomba, il campione farà apporre soltanto le date di nascita e di morte, senza accenno al luogo d’origine italiano.

Raffaele De Palma era nato il 19 dicembre 1882 a Biccari, un paesino del Subappennino dauno che di lì a un decennio sarebbe stato decimato dall’emigrazione transoceanica. I genitori erano originari di Troia. I De Palma partirono per gli Stati Uniti verso la fine dell’Ottocento, imbarcandosi , a varie riprese, su dei piroscafi che, dopo un mese di viaggio, li sbarcarono a Ellis Island, l’Isola delle lacrime, dove come tutti gli immigrati subiranno un’umiliante quarantena prima di essere accettati nel Paese della Libertà.

La famiglia De Palma, alla ricerca di quel riscatto sociale così difficile da realizzare in patria, a differenza di tante famiglie di emigranti, realizzerà il suo sogno.

L’emigrazione oltreoceano, tra il 1892 e il 1924, fu la scelta obbligata di circa 22 milioni di migranti, per la maggior parte italiani. Nel 1910 New York era considerata, per il suo alto numero di abitanti provenienti dal Belpaese, la quarta città italiana dopo Napoli, Roma e Milano.

I De Palma vivevano a Brooklyn, uno dei più poveri quartieri newyorkesi. Ralph cominciò ad aiutare il padre nella barberia di famiglia, poi lavorò come pony express di un negozio di frutta e verdura. La bicicletta diventò la sua prima grande passione e nel 1899 egli vinse la sua prima gara ciclistica. Nel 1902 esordì nel ciclismo professionistico; le gare si svolgevano allora al chiuso di un velodromo con piste in legno e curve molto inclinate.

De Palma esordì nella carriera automobilistica nel 1908, e la concluderà nel 1934. Il campione italo-americano guidò le auto delle migliori ditte dell’epoca: Fiat, Mercer, Simplex, ma legò il suo nome soprattutto alla Mercedes. Partecipò alle mitiche corse di Vanderbilt Cup, alle 500 miglia di Indianapolis, al Gran Premio di Francia. Indianapolis, a quasi un secolo di distanza, colpisce l’immaginario collettivo degli appassionati per alcune epiche gesta che l’hanno segnata fino a consacrarla definitivamente come il Tempio della velocità. Ralph de Palma abbinò il suo nome a questa corsa, lunga e massacrante, sin dalla seconda edizione, quella del 1912, vincendo l’edizione del 1915.

Ralph De Palma (a sinistra).

Le gare di Formula Uno di oggi, per quanto avvincenti, non sono paragonabili alle emozioni offerte agli spettatori che assiepavano le tribune e le piste dei circuiti e degli autodromi circa un secolo fa. Quel che era profondamente diverso era la corsa in sé che aveva la preminenza su ogni cosa e De Palma seppe comunicare agli spettatori proprio quello che essi si aspettavano da un pilota: emozioni, passione, grinta, coraggio. Una carriera longeva, la sua, nel segno dell’agonismo e della lealtà sportiva: Ralph dimostrò che le gare si potevano vincere usando l’intelligenza.

Quando gli Stati Uniti entrarono nel primo conflitto mondiale, tutte le attività sportive agonistiche vennero sospese. De Palma si arruolò nell’aviazione, dopo aver conseguito il brevetto di pilota a Daytona. Dopo la guerra, nel 1919, ritornò in questa città alla guida di una potentissima Packard 905 bianca, la mitica vettura con motore V12 su auto prodotte in serie. Sulla sabbia di Daytona Beach, toccò la fantastica velocità media di 149,87 miglia orarie (oltre 241 km all’ora). Divenne l’uomo più veloce del mondo!

Ralph De Palma riposa oggi all’Holy Cross Cementery di Culver City, nei pressi di Los Angeles, in California. Sulla lapide della sua tomba compaiono solo gli anni di nascita e di morte: 1882 e 1956. L’epigrafe ricorda “il campione automobilistico prediletto vincitore della corsa di Indianapolis del 1915 (Bloved automobile racing champion 1915 Indianapolis speedway winner)”.

Un eroe dello sport che, nel 50° anniversario dalla scomparsa, Maurizio De Tullio ha riproposto all’attenzione nazionale, partendo proprio dalla terra di origine di De Palma: Biccari.

@Teresa Maria Rauzino

MAURIZIO DE TULLIO, Ralph de Palma. Storia dell’uomo più veloce del mondo che veniva da Foggia,  Edizioni Agorà, Foggia 2006, euro 12,00.

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Roseto Valfortore nei documenti d’archivio

La copertina del volume.

Interessante ed originale per la città di Roseto Valfortore il volume dal titolo Roseto Valfortore dal documento alla storia, Foggia 2007 (pp. 199, ill. b/n, Edizioni del Rosone, Foggia), scritto dal prof. Alfonso Rainone con la collaborazione degli alunni della classe III D della scuola secondaria di primo grado della sezione associata di Roseto Valfortore facente capo all’Istituto “Paolo Roseti” di Biccari, patrocinato dal Comune di Roseto Valfortore, dall’Istituto Bancario San Paolo Banco di Napoli, filiale di Roseto, dalla ditta Fortore e Sviluppo – Fortore energia, e dalla stessa scuola della quale sono allievi i ragazzi.

L’originalità della ricerca consiste nel fatto che il prof. Rainone ha, a pieno titolo, adottato il metodo storiografico dello studio e dell’apprendimento della storia attraverso la consultazione dei documenti d’archivio.

Introdurre la ricerca storico-documentaria nella scuola non è cosa da poco. Ma, sicuramente, non deve essere stata cosa semplice per il professore ed i suoi giovanissimi allievi alla prima esperienza, interpretare, trascrivere, studiare ed apprendere il contenuto dei documenti esaminati; carte, spesso nemmeno inventariate, che rimarrebbero sconosciute se non fossero riportate alla luce dagli studiosi con spirito di dedizione ed abnegazione.

Il lavoro che racchiude anche la riproduzione iconografica del Catasto Onciario di Roseto Valfortore risalente al 1741, documento tratto dalle fonti dell’Archivio di Stato di Napoli, verte anche sullo studio e l’analisi delle fonti alternative quali epigrafi, lettere olografe ecc., ma anche dall’analisi dei documenti custoditi presso altri archivi quali la sezione dell’Archivio di Stato di Lucera, l’Archivio Parrocchiale di Roseto e l’Archivio Diocesano di Bovino. Uno studio a carattere scientifico e sistematico che racchiude gran parte della storia del piccolo centro del Subappennino Dauno tra Settecento ed Ottocento.

La bravura dei ragazzi poi, è stata quella di essere riusciti ad apprendere la metodologia di studio e a superare le difficoltà incontrate, come ad esempio il linguaggio e le espressioni desuete, tipiche di un idioma tramontato nel quale è proiettato il piccolo centro urbano.

Frutto di un’esperienza nuova per la scolaresca, il volume riporta alla luce uno spaccato di vita che riemerge come d’incanto grazie all’impegno ed all’abile guida del docente di Lettere.

«Il progetto si è svolto in ore extracurriculari, andando tuttavia ad intrecciarsi in modo unitario per gli approfondimenti sia alle attività curricolari di italiano e storia, che di quelle opzionali facoltative di conosciamo il territorio, percorsi di lettura e latino […]», è quanto afferma il prof. Rainone nella sua Introduzione spiegando ai lettori la metodologia applicata.

Già da qualche tempo nella scuola è stato introdotto il laboratorio di didattica della storia che, in collaborazione con gli archivi pubblici e privati, si pone come obiettivo l’insegnamento della microstoria attraverso la consultazione delle fonti archivistiche, perché la storia si può conoscere soprattutto dai documenti. Ma, come diceva Marc Bloch, le fonti devono essere esaminate attraverso varie direttrici prestando attenzione ai falsi storici che alterano la verità travisando le notizie. Il compito dello “storico” è quello di saper selezionare, compulsando i documenti, la verità dalla “fantasia” che trasforma la storia in leggenda.

L’attenzione, pertanto, deve essere rivolta a tale selezione in primis, poi viene la narrazione delle vicende attraverso lo studio dei fatti e dei relativi personaggi.

Nel volume in questione, è stato fatto proprio questo lavoro: selezione delle fonti, analisi delle stesse, ed infine, narrazione delle vicende più importanti con la possibilità di avere i documenti sottomano senza che i lettori debbano recarsi negli archivi.

Tra i rosetani famosi emerge il personaggio di mons. Francesco Saverio Farace, del quale si traccia oltre al profilo biografico, anche i tratti salienti della sua vita attraverso lo studio di atti notarili, epigrafi ecc.

Il dovizioso apparato iconografico completa il testo che, per il piccolo centro rosetano, resta una pietra miliare nel corollario della bibliografia locale.

È senz’altro questo un libro che non deve mancare nelle case dei cultori e non solo, un libro utile a tutti coloro che vogliano cominciare a ricercare per scoprire le loro “radici culturali”, perché, come spesso si dice, non si può vivere il presente senza conoscere il passato.

©2008 Lucia Lopriore

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Il Catasto Onciario di Ascoli (1753)

Della prestigiosa e nuovissima collana “Platea Magna” fa parte il recente volume curato da Antonio Ventura dal titolo Onciario della città di Ascoli 1753, patrocinato dal Comune di Ascoli Satriano e dal Centro Culturale Polivalente, pubblicato dalla casa editrice foggiana Claudio Grenzi Editore (pp. 381, ill., Foggia 2006, € 39,00).

L’interessante lavoro, curato sin nei minimi particolari dall’Autore, evidenzia quale fosse il sistema fiscale settecentesco nella cittadina daunia in relazione al numero dei fuochi e dei possedimenti di ciascuna famiglia.

Impreziosito dai contributi dei proff. Stefano Capone, dell’Università degli Studi di Siena, che analizza le riforme del Settecento apportate in un’epoca in cui predominava l’oscurantismo, Marco Nicola Miletti, dell’Università degli Studi di Foggia, che affronta lo studio sui profili giuridici del Catasto Onciario borbonico, e Nevill Colclough, dell’Università del Kent, che esamina la dinamica delle relazioni di parentela e dell’organizzazione familiare nella Ascoli dell’ancen régime, il volume offre ai lettori un quadro chiaro della situazione demografica, fiscale e politica dell’epoca.

Il Catasto Onciario costituisce una sorta di innovazione fiscale voluta da re Carlo III di Borbone e fa parte di una lunga serie di riforme legislative che apportarono radicali cambiamenti nel Regno di Napoli, fino allora offuscato dal potere vicereale che, dopo due secoli di governo sull’onda della politica oscurantista, aveva creato sperequazioni nella distribuzione dei carichi fiscali. L’intelligente intervento del sovrano, affiancato dal marchese pisano Bernardo Tanucci, contribuì all’espansione del progresso politico ed economico che caratterizzò tutto il Settecento napoletano.

Tornando al documento studiato e trascritto dall’Autore, esso riporta non solo la situazione finanziaria inerente ciascun contribuente, attraverso la valutazione in once dei profitti espressi in ducati, ma traccia anche in modo dettagliato un quadro chiaro della demografia ascolana: nel testo è riportato anche il numero dei residenti, quello dei forestieri, delle vedove, ecc., diviso per classi sociali e per attività, quale indispensabile ed utilissima chiave di lettura di uno spaccato del vissuto quotidiano.

Per ogni fuoco, costituito da un nucleo familiare di circa 4 o 5 unità, è calcolata una rendita pro capite di 42 carlini, a ciò sono sommate le tasse comunali previste dagli stati discussi dell’Università, ossia dai bilanci del Comune.

Alcune rendite sono soggette ad aggiornamenti annuali attraverso regole precise fissate dalla Regia Camera della Sommaria, allo scopo di fornire il metodo per la formazione della tassa. Da qui, la possibilità di conoscere dettagliatamente le situazioni patrimoniali di ciascun “contribuente”.

Non mancano, come sempre, i diritti di esenzione dalle tasse riconosciuti ai personaggi più in vista del paese. È questo il caso del duca Don Sebastiano Marulli, feudatario di Ascoli, il quale con i diritti, privilegi, e quanto altro acquisiti sui beni feudali e burgensatici, costituisce l’esempio di quella casta dotata di propri organi di rappresentanza cui tutti gli abitanti devono ubbidienza e, conseguentemente, cui sono riconosciuti sia pure in parte i diritti di esenzione dal pagamento delle tasse.

L’Autore, inoltre, non trascura di evidenziare anche l’aspetto antropologico del centro daunio fornendo, attraverso un’ampia carrellata, notizie preziose sul paese e sugli abitanti.

Il testo è infine arricchito da illustrazioni quali documenti e piante topografiche del territorio, rinvenute presso l’Archivio di Stato di Foggia, oltre ad una ricca raccolta di tabelle, un esaustivo glossario ed alle note che concludono il volume.

In definitiva è questo un libro preziosissimo che costituisce un valore aggiunto al patrimonio culturale della nostra storia.

 

©2006 Lucia Lopriore

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La Garganica, che passione …

La copertina del volume.

Sulla scia del libro pubblicato nel 2004 da Marcello Ariano che parlava della tranvia di Torremaggire raccontando, in piena era futuristica, le vicende legate alla nascita ed allo sviluppo della rete tranviaria della cittadina dauna, in un volume fresco di stampa, viene oggi riproposto il tema dei trasporti ferroviari da due specialisti del settore: il geologo Salvo Bordonaro e l’architetto Bruno Pizzolante.

I due tecnici, amanti della ricerca storica con particolare riguardo al settore tecnico-scientifico, con questa ultima fatica dal titolo La Ferrovia garganica, edita per i tipi di Claudio Grenzi Editore (pp. 151, Appendice, ill. b/n e colori, Foggia 2006, s.i.p.), realizzata per celebrare il 75° anno dalla fondazione della Ferrovia garganica, frutto di anni di ricerca, hanno ripercorso una tappa indicativa di un progresso che, per molti versi, ha apportato cambiamenti importanti al sistema dei trasporti garganici.

Da quando è stata costruita la ferrovia del Gargano il treno è stato il mezzo di locomozione più usato da turisti e residenti per gli spostamenti lungo le coste. La ferrovia garganica ha segnato un’epoca di nuovi contatti sociali, culturali ed economici rendendosi interprete delle nuove esigenze di mobilità della popolazione della zona, e non solo. Essa ha rappresentato il punto di contatto con le realtà degli altri centri urbani agevolando le relazioni sociali così com’è evidenziato in quarta di copertina che recita:

«[…] Dagli ordinati vigneti del Tavoliere alla lussureggiante baia di Calenella, passando per le balze erte del Gargano occidentale, per le scenografiche trincee e gallerie scavate a fatica nella roccia, per gli interminabili rettilinei immersi negli uliveti della piana di Carpino, immergendosi infine nel fresco della pineta Marzini, non senza aver più volte salutato le assolate spiagge dell’Adriatico e i bianchi paesi arroccati sulle alture.

Poco meno di ottanta chilometri di spettacolo ferroviario per la prima concessa in Italia nata in pieno Ventennio già con trazione elettrica, che da tre quarti di secolo effettua il suo servizio forse un po’ in sordina, attendendo oggi una valorizzazione che le deriverà da alcune iniziative di modernizzazione della linea, degli impianti e del materiale rotabile. […]».

Documenti riguardanti la posa della prima pietra.

La ricerca, svolta sulla base di documenti d’archivio e di notizie tratte dalle stampe d’epoca, dimostra la capacità degli Autori di saper affrontare argomenti di sicuro interesse storiografico.

Non mancano notizie su personaggi di spicco che hanno giocato un ruolo determinante nel territorio di Capitanata per la loro competenza professionale, o figure di rilievo del vissuto quotidiano; nomi ricorrenti che hanno fatto la storia della ferrovia garganica e che resteranno per sempre legati ad essa entrando a far parte del corollario di presenze umane o di “Risorse”, come si direbbe oggi, che, con il frutto del lavoro quotidiano, hanno contribuito all’incremento della rete ferroviaria che oggi serve un bacino di utenza stimabile in circa 135.000 persone. Quota che tende a raddoppiare durante il periodo estivo per l’elevata affluenza di turisti.

Tale tratta è identificabile geograficamente con la fascia settentrionale del promontorio del Gargano, estesa da San Severo a Vieste e, grazie ad un servizio di autolinee interconnesso con la ferrovia consente un’organizzazione impeccabile.

Dalle pagine interne del volume.

Più volte, per un rilancio del servizio, è stato incrementato il parco dei rotabili, primo passo per aumentare le corse ferroviarie puntando ad offrire maggiore sicurezza e più comfort. Così dal lontano 1869, anno a cui risale il primo progetto ferroviario a firma di Antonio Maria Lombardi, ad oggi, molte cose sono cambiate e, con le Ferrovie dello Stato sempre più in crisi, la ferrovia garganica punta ad una maggiore stabilità aziendale in vista anche dell’incremento del flusso migratorio e turistico che, oggi più di ieri, punta ai massimi livelli qualitativi; è questa un’azienda sempre più in espansione, con certezze che la rendono competitiva sul mercato dei trasporti interregionali.

Nel volume non mancano racconti ed aneddoti di un vissuto quotidiano che coinvolge emotivamente il lettore facendo scorgere, attraverso lo scorrere lento delle pagine, quella vena di ironia propria delle popolazioni garganiche, abituate a vivere tout-court le tradizioni e le memorie di un passato remoto o di un futuro prossimo che ancora oggi coinvolge. Si scorge così, il lento trascorrere del tempo che non lascia spazio ad altro che ai ricordi… ricordi che a volte sfuggono impalpabili ma che si ritrovano nelle immagini d’epoca, che con le planimetrie e i documenti di vario genere rendono il testo unico nel suo genere.

  

©2007 Lucia Lopriore

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Foggia in particolare

Un album fotografico di Paolo e Claudio Grenzi

La copertina di Foggia in particolare

«Cosa c’è dietro l’angolo?». Con questa domanda rivolta agli ospiti, un noto presentatore e giornalista televisivo concludeva l’intervista in una trasmissione, in onda su RaiUno, negli anni ’70 del secolo appena trascorso.

Ebbene, la stessa domanda proiettata nella nostra città trova un’immediata risposta. Ci hanno pensato, infatti, Claudio Grenzi e suo figlio Paolo ad evidenziare gli angoli più suggestivi di Foggia, attraverso una recente e bella pubblicazione fotografica dal titolo Foggia in particolare (pp. 108, ill. b/n e colori, Foggia 2006).

Attraverso la caccia al dettaglio, ritroviamo Claudio Grenzi, noto editore foggiano, in veste di autore e di fotografo. In una passeggiata per le strade della nostra bella città, Claudio e suo figlio Paolo mettono in luce gli angoli e le vie più suggestive, ed i particolari che spesso sfuggono all’attenzione del passante o anche del cittadino residente che corre e, troppo spesso, non nota ciò che lo circonda e guarda le cose “senza osservare”.

Questo volume rappresenta un momento di pausa e di riflessione sulle bellezze architettoniche di Foggia e non solo.

Così, un soggetto ritenuto apparentemente “insignificante” assume in un contesto artistico una sua configurazione. Le peculiarità di taluni elementi architettonici non prescindono dal contesto contemporaneo nel quale sono collocate.

Architravi, roste, candelabri, gru, insegne di fabbriche e di esercizi commerciali, e, persino particolari di epigrafi e di lapidi funerarie, sono posti in luce attraverso lo “scatto” artistico dagli Autori nelle loro istantanee.

Già noto per le sue altissime qualità professionali, che esprime attraverso il lavoro quotidiano di grafico ed editore, Claudio Grenzi ha voluto, con l’ausilio di un altrettanto promettente figliuolo, regalare alla città un altro tassello di cultura. Quella cultura spesso bistrattata dalla vita frenetica e dagli interessi che il consumismo sfacciato pone alla base della vita moderna. Quella cultura che oggi viene seguita solo in apparenza per “darsi contegno”… ma che poi tutti calpestano…

“La caccia al particolare”, che gli Autori evidenziano nel loro volume, mette in luce lo stato di bellezza/degrado del nostro patrimonio artistico. Un degrado inesorabile e, per molti aspetti, anche voluto.

Voluto dalle sconsiderate demolizioni urbanistiche che troppo spesso sono giustificate dalle vetustà costruttive impossibili da recuperare… allora? È meglio abbattere! Già! Meglio abbattere se non si può recuperare…

Così il declino inesorabile della memoria storica prende il sopravvento sulla “Cultura” ed agli autori siano essi fotografi, storici o semplici cultori, non resta altro che “salvare il salvabile” soprattutto attraverso le testimonianze “cartacee”.

Bene hanno fatto gli Autori di questo prezioso libro di memorie a “salvare” quello che resta ancora da recuperare… mettere “nero su bianco” è pur sempre un tentativo di sensibilizzazione dell’opinione pubblica.

Sempre che ci si accorga dello scempio compiuto e si rifletta sul da farsi e ci si rimbocchi le maniche e non si continui a dire “tanto ci devono pensare le istituzioni…”.

È l’opinione del cittadino che va sensibilizzata… così, per fare un esempio, se solo ci fosse stata una campagna di sensibilizzazione pubblica, il seicentesco palazzo Poppa-Caponegro con l’arco di San Michele, ubicato nei pressi del Municipio di Foggia, esempio mirabile di architettura barocca, demolito negli ultimi anni per far spazio ad un’anonima ed orrenda costruzione moderna, edificata secondo quel principio di discutibile progettazione volta allo pseudo-recupero dei centri storici, avrebbe subito una sorte diversa. Come ancora è da definire la situazione del restauro di palazzo Trifiletti-Giovene in Corso Garibaldi, in procinto di subire lo stesso inesorabile destino.

«Non basta fotografare!», direbbe qualcuno, ma anche questo serve! Soprattutto se il messaggio parte da molto lontano… in questo caso poi, è un messaggio lanciato da persone che la cultura la vivono quotidianamente attraverso il proprio lavoro. Quel lavoro che esporta il “sapere” in tutto il mondo. Così, le pubblicazioni spedite in varie parti dell’universo della conoscenza e non solo, fanno sì che la storia del nostro territorio sia portata fuori dai confini, non arginata o ridotta ad un semplice fenomeno di carattere endemico.

Volendo riassumere in una formula matematica il concetto di “cultura” lanciato dagli Autori, possiamo affermare che se la conoscenza è sinonimo di progresso, l’ignoranza, in quanto mancanza di consapevolezza, è baluardo di distruzione della memoria.

Ma non sempre l’ignoranza può giustificare taluni sconsiderati comportamenti! Comportamenti che scaturiscono da disagi sociali e mentali… Il fatto, ad esempio, che alcuni “soggetti” deturpino, con i loro graffiti in prevalenza volti ad allusioni falliche, i monumenti delle città, è sintomo di disagio sociale oltre che mentale…

Il problema allora è da ricercare alla base di una società che non garantisce più potere… che non difende… che non tutela…  

Ai cultori della storia allora, non resta altro da fare se non denunciare questo disagio attraverso testimonianze, siano esse scritte o fotografate, proprio come hanno fatto gli Autori del volume.

Mai l’invito di un nostro amato concittadino, Renzo Arbore, vanto della cultura del capoluogo dauno, grazie al quale la storia delle nostre radici è stata esportata in tutto il mondo attraverso la musica, e che da qualche anno recita nelle pubblicità di rinomati prodotti commerciali – «Meditate gente!… Meditate…!» – fu tanto appropriato come in questo caso.

©2007 Lucia Lopriore

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Microstorie

Romolo Caggese sui Comuni rurali italiani

La copertina del saggio.

Non si può parlare di Ascoli Satriano, ridente cittadina della Capitanata, senza pensare alla figura dello storico ascolano più conosciuto nell’universo del sapere: Romolo Caggese.

Questi non ha certamente bisogno di presentazioni, tanto vasta è stata la sua produzione bibliografica; tralasciando volutamente la sua biografia già nota al pubblico di lettori, ci sembra sia necessario soffermarsi sul suo impegno costante che lo rese protagonista di tante collaborazioni con le più prestigiose case editrici e riviste scientifiche, tra queste si ricordano in special modo: la «Cambridge Medieval History», l’Enciclopedia Treccani e la «Rivista Italiana di Sociologia».

Allievo durante gli anni del liceo di Francesco Carabellese, noto studioso medievista, egli trasse vantaggio dai suoi insegnamenti per poi far confluire i suoi interessi negli studi storico-giuridici.

L’influenza dei suoi maestri tra i quali figurano Alberto Del Vecchio, docente di Diritto medievale presso la Scuola di Paleografia e Diplomatica di Firenze, Gioacchino Volpe e Gaetano Salvemini oltre a Pasquale Villari, relatore della sua tesi di laurea, influirono notevolmente sulle sue future scelte professionali.

A tale riguardo significativa nel 1905 fu la pubblicazione del saggio riguardante le origini dei Comuni rurali in Italia, sulla «Rivista Italiana di Sociologia».

Tale saggio è stato recentemente ripubblicato in una monografia, dal Centro Culturale Polivalente di Ascoli Satriano,  on lo stesso titolo: Intorno alla Origine dei Comuni Rurali in Italia (pp. 64, ill. b/n, Foggia 2005, s.i.p.), con prefazione del prof. Raffaele Licinio, ordinario di Storia Medievale presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Bari (e supplente in quella di Foggia).

Il lavoro, di sicuro interesse storiografico, scaturisce da un precedente studio svolto in occasione della preparazione della tesi di laurea avente per titolo: Un Comune libero alle porte di Firenze nel secolo XIII. Studi e Ricerche, riguardante il Comune di Prato ed il suo contado e pubblicata nel 1905. In questo saggio l’Autore afferma che parlare delle origini dei Comuni rurali in Italia non è cosa facile se si pensa che sono state sostenute le tesi più disparate: secondo alcuni studiosi i Comuni potevano aver avuto origine in continuazione dei municipi romani, ma Caggese contesta questa tesi adducendo una serie di ragioni plausibili che fanno scartare tale possibilità.

Secondo altri storici i Comuni erano sorti grazie ai diplomi ottoniani che avrebbero favorito le condizioni ambientali tali da renderne possibile la loro nascita; qualcun altro accennava alla presenza e al ruolo decisivo della signoria vescovile, tesi questa ritenuta la più attendibile da Caggese.

Premesso che il periodo che ricopre l’arco temporale che va dal VII al X secolo non dispone di molte fonti documentarie, ciò che è noto agli storici è che il sistema legislativo e giurisdizionale di allora era piuttosto precario. È facile perciò saltare a conclusioni aleatorie e poco dimostrabili, ma è anche vero che l’analisi di Caggese chiarisce molti punti rimasti fino ad allora oscuri; spiegando il funzionamento del sistema legislativo durante la signoria vescovile, l’Autore giunge alla conclusione che essendo il Comune un organismo economico, ma soprattutto un fenomeno sociale tra i più fecondi della storia italiana prima delle origini del capitalismo moderno, a suo avviso è importante stabilire l’analisi degli atteggiamenti dei gruppi sociali delle loro ragioni di vita connesse alle entità dei loro interessi.

Il Comune rappresenta la prima forma di Stato in Italia, ed è importante esaminare i caratteri, la struttura costituzionale, i suoi organi, le sue funzioni; inoltre, essendo anche un fenomeno politico, bisogna ricercare che cosa rappresenti in relazione alla politica imperiale ed ecclesiastica di quella fase del Medioevo. Tenendo conto anche della politica estera oltre all’economia rurale ed urbana, l’Autore sostiene che, fino a quando non saranno esaminate a fondo tali tematiche, la ricerca scientifica sulle origini dei Comuni rurali non troverà mai una risposta esaustiva.

Dalla lettura di questa monografia, ci sembra che Caggese, più che dare delle risposte in merito all’argomento, favorisca spunti per ulteriori domande, riteniamo che con questo intento abbia voluto sensibilizzare gli animi degli storici e stimolarli allo svolgimento di ulteriori e proficue indagini.

©2007 Lucia Lopriore

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Microstorie

La memoria delle parole

Copertina del volume.
Sommario del volume.

«L’Italia è una miniera di dialetti e tradizioni che affondano le loro radici nella cultura prelatina e variano da regione a regione, da città a città, da paese a paese, perché diverse erano le popolazioni che vi abitavano, dai Celti agli Apuli, dai Venetici agli Osci ai Siculi […]».

Così esordisce Francesco Granatiero nella Prefazione del suo volume scritto per conoscere le origini dei vari dialetti pugliesi, con particolare riguardo a quelli della Capitanata e della Terra di Bari dal titolo La memoria delle parole. Apulia. Storia, lingua e poesia, edito per i tipi delle Edizioni Claudio Grenzi di Foggia, racchiuso nella collana editoriale “Il Dialetto a Scuola – 1” (pp. 140, ill., Foggia 2004).

L’intento dell’Autore nel realizzare questo complesso lavoro è stato quello di promuovere lo studio linguistico in vernacolo nelle scuole di ogni ordine e grado nell’era della globalizzazione che porta ad un appiattimento linguistico e culturale con il “presentismo dell’utopia tecno-informatica” che rappresenta una seria minaccia per la memoria delle parole.

Il testo si pone come studio agile e ricco di curiosità culturali che suscitano l’interesse del lettore in quanto offre molti spunti di riflessione in campo linguistico dialettologico, etnografico e letterario.

Lo stimolo giunge direttamente dalla scuola, quale veicolo di formazione della futura “intellighenzia”, che non può essere privata degli utili strumenti che introducano allo studio della lingua dialettale senza pregiudizi, aprendo una seria riflessione su una materia troppo a lungo ritenuta argomento di scherno e di ignoranza.

È senz’altro utile ricordare l’importanza della dialettalità, ossia dell’immissione di termini dal vivaio dialettale, nella lingua della nostra letteratura come si evince dagli scritti del Verga, di Cesare Pavese o di Andrea Camilleri. Le forme di italiano che risentono del dialetto rappresentano una testimonianza viva della lingua, prima che deviazioni dalla norma o veri e propri errori.

Oggigiorno non stupisce la doviziosa presenza di poeti dialettali accanto ai grandi autori della lingua italiana. La poesia dialettale, infatti, non è più ritenuta un’amena curiosità né un semplice documento, sebbene restituisca alle parole tutta la dignità culturale del tempo o non tempo che scandaglia.

È importante che nella didattica dell’educazione linguistica il dialetto non sia utilizzato episodicamente con inevitabili diffidenze o ilarità, e con il rischio che sia considerato solo “oggetto da museo” ma, come dice Carla Marcato, «progettando attività e riflessioni che promuovano la consapevolezza linguistica, la considerazione della diversità, dalle varietà come arricchimento in un contesto di fatti linguistici, sociali, sociali, culturali (letterali, etnografici ecc.)».

Le numerose tabelle di apporti linguistici di cui il volume è corredato (prelatini, greci, latini, albanesi, bizantini, longobardi ecc.), la sezione grammaticale dei vari dialetti con le carte linguistiche, una interessante iconografia, nonché l’antologia dei poeti pugliesi ormai storicizzati tra i quali spiccano: Abbrescia, Lopez, Nitti, Strizzi, Gatti, Borazio, Angiuli e lo stesso Granatiero, commentati e corredati da un’esaustiva biografia associata ad un utile glossario, completano il simpatico ma rigoroso testo che vede associate preziosità, curiosità, storia ed etnografia.

L’AUTORE
Francesco Granatiero è nato a Mattinata (FG). Medico ospedaliero, vive e lavora a Rivoli (TO). Dopo alcune plaquettes di poesia in lingua, ha rivolto l’attenzione al dialetto del suo paese di origine: All’acchjiette (1976), U iréne (1983), La préte de Bbacucche (1986), Énece (1994), L’endice la grava (1997), Scúerzele (2002), Bbommine (2006). È presente nelle più importanti antologie e storie letterarie di poesia dialettale (Dell’Arco, Chiesa-Tesio, Brevini, Spagnoletti-Vivaldi, Serrao, Bonaffini-Serrao-Vitiello, Haller, Malato).  Dall’86 al ’92 si è occupato del coordinamento editoriale della collana “Incontri” diretta da Giovanni Tesio per Boetti & C. Editori, in cui hanno visto la luce volumetti dei maggiori poeti dialettali del secondo Novecento. Ha pubblicato una Grammatica (1987) e un Dizionario (1993) del dialetto di Mattinata e Monte Sant’Angelo e due dizionari di proverbi, uno limitato a Mattinata e l’altro esteso a tutto il promontorio del Gargano. Dopo la memoria delle parole (2004), ha scritto un’antologia di 109 versioni in dialetto apulo garganico di 60 poeti (da Omero a Montale e Seamus Heaney), pubblicata nella stessa collana con il titolo Giargianese – Poesia in altre lingue (2006) e impreziosita da un cd (75 minuti, con musiche originali di Antonino Di Paola) comprendente tra l’altro, nella impeccabile interpretazione e nella calda vocalità di Granatiero, oltre a 56 versioni di testi altrui, 20 tra le più belle poesie tratte dalle sue raccolte.     

FRANCESCO GRANATIEROLa memoria delle parole. Apulia. Storia, lingua e poesia, Edizioni Claudio Grenzi, Foggia 2004, pp. 140, ill.

©2006 Lucia Lopriore

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L’altra faccia della storia: La religiosità popolare di Foggia

Fresco di stampa il volume di Rita Borgia, attenta cultrice della storia delle tradizioni popolari, dal titolo: La religiosità popolare di Foggia, le edicole devozionali (pp. 120, ill. b/n e colori, Foggia 2004).

Il volume inaugura la collana Tradizioni e Culti in Capitanata curata della nuova casa editrice foggiana Parnaso. 

Unico nel suo genere, il libro racconta spaccati di vita e di tradizioni che vanno dalla storia delle origini del capoluogo daunio alla fondazione degli ordini religiosi presenti nella città, alla presenza del culto religioso come espressione devozionale attraverso le edicole votive. Una guida utile e di facile consultazione, accessibile a persone di ogni età con la quale conoscere la storia e le proprie radici.

Per troppo tempo, i simboli devozionali sono stati ignorati, trascurati, depredati e distrutti. Le edicole, infatti, fino a qualche tempo fa, apparivano agli occhi del visitatore solo come delle semplici nicchie nelle quali erano contenuti i Santi protettori della strada, o del palazzo, o della casa presso cui erano ubicate.

È abbastanza semplice, a volte, rilevare come le vicende storiche dell’agglomerato urbano di Foggia coprano un arco cronologico relativamente lungo. Le origini della città tradizionalmente si fanno risalire all’anno Mille circa con il rinvenimento del Sacro Tavolo della Madonna Iconavetere affiorata dalla acque di un pantano.

Secondo il prof. Giovanni De Vita, docente di Storia delle Tradizioni Popolari presso l’Università degli Studi di Cassino, è opportuno sostenere che gli aspetti costitutivi e fondanti delle vicende storiche, senza puntare su rigide indicazioni temporali, siano da ricercarsi nelle questioni della transumanza appulo-abruzzese, tradotta in istituto giuridico dagli aragonesi [1].

Ma perché sorgono le edicole devozionali? Quando si hanno le prime tracce della loro esistenza? Non c’è, in effetti, una risposta a questi quesiti, esse sono presenti nella città in numero sempre maggiore, e solo di alcune si hanno notizie certe.

Secondo gli storici delle tradizioni esse sono sorte quasi spontaneamente probabilmente per illuminare le strade durante le ore notturne e per evitare assalti da parte delle frange di briganti verso i passanti. Altri cultori sostengono, invece, che non essendoci una datazione precisa della loro origine, esse sono sorte nel tempo per ragioni personali o legate a momenti particolarmente significativi per la famiglia che le commissiona. Certamente c’è un nesso fra sviluppo urbanistico e realizzazione delle edicole.

Il prof. Giovanni De Vita, a proposito delle edicole votive, sostiene che i segni di fede schedati e ubicati all’interno delle aree urbane delle città, spesso in alcuni casi non sono riconducibili alla tipologia dell’edicola o perché monumenti di devozione pubblica e municipale o perché cartelli indicatori [2].

Nel suo volume Rita Borgia, affiancata nel lavoro dalla restauratrice foggiana Maria Cirillo, non si limita solo a schedare le edicole per tipologie architettoniche con relativa datazione, ma le colloca in un contesto storico preciso e ne fa un’analisi storiografica puntuale, attraverso la descrizione anche della vita religiosa della città. Non sono tralasciate, infatti, la storia, la provenienza dei Santi venerati, le origini del culto con relative date di fondazione delle chiese, che l’Autrice pone in evidenza attraverso il dovizioso apparato iconografico nel quale non manca la documentazione d’archivio. Sono contemplate le riproduzioni degli atlanti antichi come quello del Michele o del Capecelatro, nonché le planimetrie dei palazzi, rinvenuti presso l’Archivio di Stato di Foggia, che impreziosiscono il testo.

Non mancano immagini di edicole ubicate in altre parti d’Italia o nei siti archeologici.

La panoramica che l’Autrice traccia della storia cittadina vista da altre angolazioni diventa nella parte centrale del volume, un insieme di immagini e colori che fanno riaffiorare alla memoria dei più anziani antichi ricordi.

Per il passante era consuetudine pregare davanti all’edicola devozionale, com’era consuetudine provvedere al riempimento delle lampade, che dovevano rimanere perennemente accese, con l’olio.

Dallo scorrere delle pagine del testo si evincono la fatica ed il duro lavoro costate all’Autrice per reperire le antiche e preziose immagini di Foggia, qualcuna gentilmente concessa da altri studiosi e cultori della storia cittadina tra cui emergono i nomi di Gennaro Arbore, Gaetano Spirito, Maria Teresa Masullo Fuiano, autrice di una delle presentazioni.

Sono riportate, inoltre, molte curiosità tra le quali: la trascrizione della canzone in vernacolo dedicata alla Madonna Iconavetere, scritta da Silvia Marangelli e Roberto Carreca, e della poesia di R. Lepore dedicata all’arco di San Michele.

A conclusione del bellissimo lavoro, segue una carrellata di edicole scomparse o riutilizzate per altri scopi, o dimenticate, o atipiche. Ogni edicola con peculiarità diverse l’una dall’altra.

Grazie all’impegno di Rita Borgia, questo contributo offre alla città uno strumento cognitivo attraverso il quale esaminare la parte inedita della nostra storia.


NOTE

1 R. AVELLO (a cura di), Segni di fede a Orta Nova, CRSEC, Cerignola, Foggia 2000,  pp. 9 e ss.

2 Ibidem.

©2005 Lucia Lopriore

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Il magistrato che fece tremare il Duce

Le Memorie e la Cronistoria del processo Matteotti  di Mauro Del Giudice in un volume curato da Teresa Maria Rauzino

Fresco di stampa il nuovo libro curato da Teresa Maria Rauzino dal titolo: “Il magistrato che fece tremare il Duce. Mauro Del Giudice – Memoria e Cronistoria del processo Matteotti”, con prefazione  e coordinamento editoriale di Silverio Silvestri e postfazione di Michele Eugenio Di Carlo (Ediz. Amazon Italia Logistica S.r.l., Torrazza Piemonte (TO), pp. 286, prezzo € 18,72).

In questo ultimo lavoro che ha richiesto anni di impegno, peraltro basato su fonti inedite, per la prima volta L’Autrice, attraverso il rinvenimento delle Memorie inedite del magistrato, ripercorre le fasi salienti della Sua vita professionale e personale.

Di grande rilievo è poi il periodo, molto sofferto e turbolento, trascorso durante l’istruttoria del processo per l’assassinio dell’onorevole Matteotti nel quale il principale responsabile fu il Regime Fascista.

Del Giudice consapevole di questo, da uomo integerrimo, cercò di far emergere una verità scomoda, una verità che doveva essere celata a tutti i costi. L’Autrice nell’ introduzione scrive:

«Questo manoscritto inedito, donato da Del Giudice al Comune di Rodi Garganico, lo abbiamo fortunosamente ritrovato nella locale biblioteca, dove sono collocati, in ordine sparso, i libri del magistrato, alcune sue opere pubblicate a stampa e le sue “carte inedite”. Un’ulteriore ricerca in varie biblioteche italiane ci ha permesso di recuperare in fotocopia i volumi mancanti. Soltanto così, già in un precedente nostro saggio, pubblicato da Giuseppe Cassieri nella collana “Gli ori del Gargano”, abbiamo potuto avviare una prima analisi del pensiero giuridico-letterario del magistrato rodiano».

Nel Proemio delle Memorie inedite, datato Trani 26-XII-1928, Del Giudice sottolinea le motivazioni che lo hanno spinto a raccontarsi, ad affermare le sue verità. Giunto alla fine di una lunga, travagliata e spesso dolorosa carriera, reputando di aver assolto il compito da Dio assegnatogli in questo mondo, vuole mettere a profitto i pochi giorni che gli restano da vivere, “per buttare, così alla buona, sulla carta, le memorie della vita trascorsa. Scrivo per dire il vero sul mio conto e non già per odio di altrui o per disprezzo”, tende a precisare. Il magistrato rodiano è amaramente persuaso che il mondo volti le spalle agli uomini virtuosi, facendo loro scontare questo pregio, mentre celebra il successo raggiunto “per la via più rea” dagli uomini mediocri. Spetta ai posteri l’ardua sentenza: “La posterità è un giudice severo, ma giusto, imparziale e illuminato. La verità è insopprimibile, viene sempre alla luce”».

«Il mezzo migliore perché la verità risplenda – sottolinea Del Giudice – è raccontare i fatti salienti della propria vita, offrendo al pubblico un’ampia copia di dati e documenti, atti a frustrare le nefaste azioni dei detrattori e di chi ha interesse a nascondere la verità». Ma questo lavoro anche se riuscirà a terminarlo, difficilmente vedrà la luce negli anni della dittatura fascista, e comunque prima della sua morte: forse rimarrà per sempre inedito se, chi lo amò e gli sopravvivrà, non avrà cura di pubblicarlo, per rivendicare la sua memoria che, forse, il dente della calunnia cercherà di lacerare (ovvero offuscare del tutto)».

«Un compito – scrive la Rauzino – che ci accingiamo ad assolvere noi, dopo novantaquattro anni dall’inizio della stesura delle “Memorie” – perché la figura di Mauro Del Giudice merita di essere portata a conoscenza di tutti come fulgido esempio di onestà intellettuale. Le “Memorie”, attraverso la filigrana della sua vita, testimoniano esemplarmente la sua irruente forza morale. Del Giudice spera che la sua esperienza sia di aiuto agli uomini probi, onesti ed amanti del vero. Sarà un documento utile per far loro capire quanto sia dura la strada da percorrere …  specie per chi, come lui, ha avuto la disgrazia “di nascere sotto gravoso e pesante cielo, in terreno servo e soggetto e ferace di pungenti spine e d’inestricabili pruni e triboli”. Il magistrato cita letture, frasi di poeti e scrittori classici, passi danteschi, non per sfoggiare la sua erudizione, ma per validare le sue azioni. Il corpus di testi e autori spazia in diverse aree: filosofia, teologia, storia dei popoli, diritto civile, letteratura, mitologia, cronaca dell’età contemporanea, raccolte di studi storico-giuridici sul pensiero illuminista. Le recensioni ai suoi libri sono la prova della circolazione delle sue idee e del suo nome».

Dopo travagliate vicende di vita vissuta in diverse regioni d’Italia, verso il calare della tarda età, Mauro Del Giudice si ritirò a Vieste dove completò i Suoi scritti narrando gli avvenimenti della propria vita, specie quelli che lo avevano coinvolto nell’istruttoria dell’assassinio di Giacomo Matteotti.

A tale riguardo la narrazione si fa esplicita ed interessante. La Rauzino analizza con rigore scientifico le cronache dell’epoca ad iniziare da quelle locali. Ella, tra le tante, riporta alcuni brani del giornale “Il Foglietto” di Lucera e scrive:

Il «Foglietto», giornale della Daunia, il 22 giugno 1924, nell’articolo “La commossa indignazione della Capitanata per l’orrendo assassinio dell’on. Matteotti“, commenta così il delitto politico più eclatante del Ventennio, che farà vacillare seriamente il governo fascista:

«Un crimine truce e fosco senza precedenti nella storia politica del nostro paese – la barbara uccisione dell’onorevole Matteotti – ha intensamente commosso la nazione tutta. Anche perché dall’istruttoria vengono giorno per giorno fuori gravi e tremende responsabilità, dirette e indirette, di personaggi del partito dominante che occupavano posti eminenti nelle gerarchie del Partito e nella Politica. All’indignazione dell’Italia e del mondo civile si è associata la nostra Capitanata che con virile compostezza segue ora ansiosa le vicende delle indagini e gli eventi politici, nella fiduciosa speranza che l’opera della giustizia voglia rintracciare e colpire gli assassini e che – ristabilito sovrano l’imperio della legge per tutti – il sangue dell’onorevole Matteotti voglia fecondare l’auspicata normalizzazione che sola potrà assicurare alla nazione un periodo di tregua, di pace e di lavoro. La Nazione sovratutto».

L’editorialista del foglio lucerino informa i lettori che la grave e delicata istruttoria del processo è stata avocata dalla Sezione di accusa di Roma, presieduta da un magistrato di «altissimo valore morale e giuridico»: Mauro Del Giudice. L’insigne magistrato, autore di numerose, apprezzate pubblicazioni, è un comprovinciale, nativo della «forte» terra garganica, pubblicista del settimanale: «È titolo d’orgoglio di questo giornale essere stato onorato della collaborazione e della simpatia del commendator Del Giudice. Alla sua opera illuminata e alla sua coscienza adamantina son rivolti, in vigile e fiduciosa attesa, l’interesse e la dignità della Nazione. L’illustre figlio della Capitanata renderà ancora un gran servizio alla giustizia e alla civiltà».

Il 10 giugno 1924, quando per Roma si sparse la voce che una banda di criminali fascisti aveva rapito il deputato socialista Giacomo Matteotti, Mauro Del Giudice ebbe l’immediata premonizione che «una tegola stesse per cadere sulla sua povera testa». L’indagine, avviata dalla Procura generale, aveva dato scarsi risultati. Come era accaduto in precedenza per i delitti politici di eccezionale gravità, il procuratore Crisafulli presentò l’istanza per l’avocazione dell’istruttoria alla Sezione di accusa, della quale Del Giudice era presidente. Quella mattina, questi trovò il documento sul suo tavolo. Il suo amico Donato Faggella, primo presidente della Sezione di accusa, con aria apparentemente indifferente, gli domandò: «Che intendi fare?». Del Giudice non era abituato a tirarsi indietro. Non lo fece neppure quella volta. Sebbene avesse sessantotto anni, non delegò ad altri la responsabilità di un’istruttoria scottante che coinvolgeva il Direttivo del Partito nazionale fascista e il Capo del Governo. Faggella aveva ricevuto fortissime pressioni per esercitare tutta la sua influenza su Del Giudice, per indurlo a rinunciare all’incarico. Stimava troppo il magistrato rodiano per insistere, ma lo mise in guardia sull’alta posta in gioco, la credibilità della Giustizia: «Del processo che tu istruisci non rimarranno che le sole carte, però da esso deve uscire intatto l’onore della Magistratura di Roma». Del Giudice era ancora più pessimista: di quell’istruttoria, molto probabilmente, non sarebbero rimaste neppure le carte, il Regime le avrebbe fatte sparire dopo aver operato il salvataggio degli assassini, dei loro complici e mandanti. Rassicurò Faggella: avrebbe reso onore alla Corte d’appello di Roma. Il suo nome sarebbe uscito illibato. Si augurava che anche i suoi colleghi facessero altrettanto.

Mauro del Giudice alla Quartarella alla ricerca del cadavere di Matteotti

Il 19 giugno 1924 iniziò l’istruttoria. Il procuratore Crisafulli, che riceveva direttive dal ministro Oviglio, gli affiancò il sostituto Umberto Guglielmo Tancredi. Del Giudice temeva interferenze, ma i suoi dubbi sparirono quando vide che quest’ultimo era disponibile ad accertare le responsabilità degli esecutori materiali del delitto e anche degli alti mandanti, compreso Mussolini.

La sera stessa, Del Giudice e Tancredi si recarono al carcere di Regina Coeli. Interrogarono Amerigo Dumini, il quale, appena li vide, con spavalderia disse: «Ma loro cosa sono venuti a fare? Il Presidente (Mussolini) è informato di quanto loro stanno facendo?». Del Giudice lo fissò severamente. L’inquisito capì che, se avesse mancato di rispetto ai magistrati, per lui era pronta la cella di rigore; mise da parte i suoi modi arroganti, ma negò ogni responsabilità. Quando, due mesi dopo, la giacca di Matteotti fu trovata sotto un ponte della Flaminia, Del Giudice tornò a interrogarlo ponendogli sotto gli occhi l’indumento macchiato di sangue, ma anche questa volta Dumini non mostrò alcun cedimento.

Mauro del Giudice alla Quartarella alla ricerca della giacca di Matteotti

La vicenda Matteotti suscitò un forte interesse pubblico e mediatico. Quando l’Agenzia Stefani annunciò che Del Giudice aveva emesso i mandati di cattura contro Cesare Rossi (direttore dell’ufficio stampa, eminenza grigia del Duce) e contro Giovanni Marinelli (segretario amministrativo del Partito fascista), si registrò immenso stupore e vivissima soddisfazione non solo a Roma, ma in tutta Italia. Si capì che l’autorità giudiziaria sarebbe andata fino in fondo.”

Furono tante le testimonianze raccolte sul caso, ma alla fine:

“Mussolini, tramite il segretario del Partito fascista Roberto Farinacci, avvocato di Amerigo Dumini, ottenne che il processo fosse trasferito a Chieti «per ragioni di ordine pubblico». Con sentenza del 24 marzo 1926, la Corte d’Assise teatina, addomesticata dal Regime fascista, mise fine alla vicenda processuale dell’assassinio Matteotti: assolse Malacria e Viola, e condannò a poco più di 5 anni di reclusione Dumini, Volpi e Poveromo. Non potendo smontare il corposo impianto accusatorio raccolto nei quarantaquattro fascicoli dell’istruttoria, si operò la separazione tra responsabilità del rapimento e responsabilità dell’omicidio, orientando così la sentenza verso il meno grave reato preterintenzionale.

Pene di fatto scontate per pochi mesi dai condannati, grazie al provvido decreto emanato il 31 luglio 1925 – quindi dopo il deposito dell’istruttoria e prima dell’inizio del processo – che dichiarava non punibile l’omicidio preterintenzionale e i reati ad esso connessi. La tragedia del delitto Matteotti finì in una farsa”.

Come poteva il processo avere un finale diverso? Il Regime doveva “Imperare” e i colpevoli, nonostante le prove schiaccianti, non potevano essere condannati con pene gravi. Così tutto fu messo a tacere e la questione si risolse senza che la giustizia trionfasse. 

A questo punto viene da chiedersi, rapportandoci ai giorni nostri, cosa sia cambiato da allora. La Rauzino nel testo pone in evidenza gli aspetti più reconditi di una vicenda che se fosse stata trattata in un periodo diverso forse avrebbe avuto altri risvolti. Ma forse anche no.

Questi ed altri sono gli avvenimenti che emergono dalle Memorie del personaggio oggetto dello studio. A tale riguardo a noi piace evidenziare che c’è differenza fra un libro di Storia ed un romanzo storico. Il romanzo storico utilizza personaggi realmente vissuti ma le storie sono frutto della pura fantasia dell’autore, così menzioniamo il famoso romanzo de: “I promessi Sposi”, dove suor Virginia de Leyva (nata Marianna) (Gertrude), Bernardino Visconti (l’Innominato), Gian Paolo Osio (Egidio), solo per citare alcuni personaggi, restano un punto fermo nel romanzo, ma le vicende sono frutto dell’immaginazione di Alessandro Manzoni che, su suggerimento dell’amico Walter Scott, ritiratosi nella villa di Brusuglio dopo i moti del marzo 1821,  decise di utilizzare i personaggi descritti dall’abate Giuseppe Ripamonti nella sua Historiae Patriaae, (Libri X,Milano 1641), creando quello che poi sarebbe diventato un capolavoro della letteratura italiana, studiato ancora oggi.

Diversamente, il libro di storia ripercorre fasi di ricerca documentale basate su fatti accaduti ma senza aggiunte.  Facendo parlare i documenti. Quello dell’Autrice riteniamo che appartenga di certo alla tipologia del libro di Storia. Un libro avvincente e coinvolgente, una preziosa testimonianza che si aggiunge alla doviziosa produzione dell’Autrice sulla Storia del Gargano e non solo. Una ricca Appendice con documenti ed immagini inedite, infine, completa ed impreziosisce il volume. A Teresa Maria Rauzino va il nostro augurio di un meritato successo.

@Lucia Lopriore

su bonculture.it 17 0ttobre 2022

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