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Gli Eccitati viciensi

L’unica Accademia illuminista di Capitanata del XVIII secolo non è più l’araba fenice.

A metà Settecento, all’interno delle Accademie illuministe europee, notiamo una maggiore attenzione alla “felicità” dei popoli: il sapere viene finalizzato alla “pubblica utilità”, le conoscenze diventano spendibili nella realtà territoriale in cui si vive, affinché gli abitanti di quel territorio stiano meglio, migliorino la loro qualità di vita. Gli intellettuali sono quindi meno eruditi, meno enciclopedici, selezionano gli argomenti di studio. Il loro sapere non è più fine a se stesso. Essi vogliono indicare una strada, tendono a porsi come riformisti, legislatori della società, indicando soluzioni più razionali rispetto al passato. Vogliono soprattutto cambiare la mentalità degli uomini del loro tempo.

Questi intellettuali vissero non solo in Europa ed in Italia, ma anche in mezzo a noi.

Tra il 1730 ed il 1750, il mondo meridionale viene attraversato da idee originali, che non soffrono di gallomania, nel senso che l’elaborazione è autonoma rispetto alla cultura dei lumi francese. Anche Vico del Gargano, un centro minore del Regno borbonico, sa aprirsi a stimoli provenienti da Napoli e da più lontane realtà culturali. Qui gli illuministi si riuniscono nell’Accademia degli Eccitati viciensi, fondata il 3 maggio 1759 nella Chiesa extramoenia di S. Maria del Refugio (oggi detta del Purgatorio).

Vico del Gargano, la chiesa di S. Maria del Refugio (oggi del Purgatorio). Interno: navata principale

È l’unico sodalizio illuminista di Capitanata di cui oggi si abbiano fonti documentarie. Fonti custodite da Isabella Damiani (erede dell’archivio della famiglia Mattei-Della Bella) e pubblicate da Filippo Fiorentino nel volume L’Accademia degli eccitati viciensi (Edizioni del Rosone, Foggia, 2003. pp. 129). Manoscritti rincorsi e strenuamente ricercati dallo storico vichese per tutta una vita. Gli Eccitati furono il tema della prima “ricerca” assegnatagli alle scuole elementari dal suo maestro.

Di quei manoscritti, nei lunghi pomeriggi di conversazione, gli aveva parlato un altro studioso, Giuseppe d’Addetta, il quale si rammaricava di non averli mai potuto rintracciare. Queste carte erano “memoria smarrita”: l’unica traccia era contenuta in un breve transunto, citato nelle Memorie del notaio Vincenzo de Ambrosio.

Nel 2002, finalmente, Isabella Damiani mostrò i manoscritti originali a Fiorentino, facendogli «scoprire d’incanto la lunga traversata del linguaggio, radicato nella vita di esseri umani, che in quegli scritti testimoniavano di aver agito, sofferto, comunicato forti emozioni. L’unica Accademia di Capitanata del XVIII secolo non era più l’araba fenice!».

La pubblicazione di questo autentico “oro del Gargano” letterario doveva essere la pietra miliare per il rilancio delle istituzioni culturali del Gargano, nel «segno della più corale intellettualità agita a Vico». L’intento di Fiorentino era di riattualizzare le finalità degli Eccitati viciensi nella realtà del terzo millennio: un sogno interrotto dalla sua prematura scomparsa.

Vico del Gargano, la chiesa di S. Maria del Refugio (oggi del Purgatorio), Particolare

LE FINALITÀ DEL SODALIZIO

Il termine “Eccitati” richiama le diverse accademie omonime operanti sin dal ‘600 in Italia, porta nell’etimo il significato di eccitare, che vuol dire svegliare, stimolare, sollecitare i sensi e la mente ad uscire dal letargo dell’oscurantismo e del dogmatismo. I promotori sono «alcuni cittadini amanti dello studio letterario che vogliono accendere gli animi dei giovani all’amore per le scienze, per incoraggirli, ed aiutarli al proseguimento de’ Studi».

Per protettrice, gli Eccitati scelgono la Vergine dei Sette Dolori, ma il loro simbolo è Pallade Atena che scuote dal sonno un uomo, presentandogli un libro. Gli eccitati guardano la realtà con occhi nuovi, guidati dal lume della ragione.

«Il loro statuto – afferma Fiorentino – è uno specchio dell’io che non vuole essere colonizzato dalla rassegnazione e si propone di migliorare l’altro, uno sforzo che andrà ben oltre lo spazio temporale di vita dell’Accademia (…).Voler sagomare l’uomo nuovo nel tessuto della società garganica costituisce la proposta pedagogica più rilevante (…)».

Il settimanale appuntamento prende avvio il 3 maggio 1759. Gli Accademici escludono le “chimeriche fanfaluche” dal loro orizzonte culturale. Sono lontani dagli intenti ludici dell’Accademia arcadica degli Oziosi (1611), dove i soci erano obbligati a parlare sempre in versi e che trasgrediva pagava pegno, offrendo gelati e confetture. Incitano i giovani a camminare per il sentiero della virtù, le dissertazioni possono spaziare su varie materie (fisica, morale, giuridica, storica, politica).

Argomenti utili alla società come quelli dell’Accademia Palatina di Medina Coeli o quella degli Investiganti, attiva a Napoli fra la fine del Seicento e i primi decenni del Settecento. Non mancano richiami all’Accademia delle Scienze, fondata da Celestino Galiani, un garganico operante presso l’Università di Napoli. I soci del sodalizio di Vico non nascondono di sentirsi in contrasto con la propria età. Il loro obiettivo è quello di alimentare un vivaio per la rigenerazione della comunità, l’intento è di formare una classe dirigente in grado di affrontare i mutamenti in un’epoca di transizione.

Sabato primo dicembre 1759 le regole dell’Accademia, le cariche e la formula del diploma sono lette e approvate all’unanimità. Tra i 18 soci fondatori, la maggior parte appartiene al clero secolare, solo un piccolo gruppetto appartiene all’ordine “mezzano” dei professionisti (avvocati e dottori fisici). Non tutti sono di Vico. Vi sono due “lettori” cappuccini: Padre Amadeo proviene dal convento da Rodi e Padre Santi da quello di Monte Sant’Angelo; vi sono poi Giuseppe Giordano, studioso di Legge, di Lucera; Ignazio Ruggiero, avvocato di Rodi; il signor Ubaldo Andreatini, di Pesaro, Razionale della Casa Di Tarsia (cioè degli Spinelli, feudatari di Vico), e Domenico de Muti, dottore fisico docente presso la Regia Università di Napoli.

Ogni eccitato si fa chiamare con «un anagramma o purissimo, o puro, o almeno impuro del proprio nome e cognome»: ritroviamo Tirsi Pinifero (Pietro de Finis); Arcadio Clorimene (Domenico Arcaroli); Zenone Tunicco (Vincenzo del Conte); Amantio Schigi (Giacinto Mascis); Serpillo Amante (Pietro Masella); Artemio Palles (Pietro Masella); Lacedomio Gentilini (Michelantonio Cilenti; Laudatore Benandi (Ubaldo Andreatini), Alcide Lalimbelli (Michele della Bella), Nicomaco Errialdo (Angiolo Domenico Arcaroli), etc.

L’otium letterario degli Eccitati è praticabile soltanto dopo che l’aspirante socio abbia compiuto i 21 anni. I novizi, una volta riconosciuti abili, dopo il praticantato di un anno, possono ricopiare le composizioni da raccogliere in un volume. Spetta a loro comporre le liriche che chiudono le dissertazioni. All’Accademia potranno dare decoro anche i soci onorari, soggetti che elevano la caratura del sodalizio con il loro nome prestigioso.

Durante le dissertazioni sono ammessi gli uditori, oltre ai soci. Sarà il cerimoniere ad assegnare «ai più degni il luogo più degno». Agli altri, il posto sarà assegnato a seconda della loro professione, età, mestiere.

GLI ECCITAMENTI

Le dissertazioni dovranno essere chiare, utili ed amene, cioè piacevoli. L’avvertenza è che il discorso non superi la soglia dell’attenzione fissata al massimo in un’ora e che trovi “alati commenti in versi”. «Poesia necessaria contro l’essiccamento della mente – commenta Fiorentino – Ritagli di scrittura poetica aggrappati senza mediazione alle dissertazioni».

Interessanti appaiono certe intuizioni di tecniche di comunicazione mediatica. Per motivare il pubblico a ripresentarsi di sabato in sabato all’appuntamento settimanale, ogni relatore alla fine del suo discorso annuncia l’oggetto della prossima dissertazione. La conferenza diventa simile «a un moderno palinsesto mediatico che restituisce alla cittadinanza una fiammata sempre nuova e rischiarante per veicolare le idee».

I componimenti più riusciti trovano ispirazione nella devozione della Vergine Maria del Refugio: il giovedì santo, per ricordare i suoi “sette dolori” oppure il due luglio o il quindici agosto «per celebrarla piena di grazie, e ricolma di gloria in cielo». L’ispirazione “scorre intensa tra le rive della poesia” quando la ricorrenza mariana raccoglie più gente nella chiesa del Purgatorio e l’ampia navata diventa luogo dell’accademica adunanza, quando commosse vibrazioni di pensiero vengono esternate con lo sfondo del parato festivo, con le “frasche” in rame dorato sbalzato, carte-gloria e il paliotto dell’altare maggiore in lampasso di seta o in damasco rosa ricamato.

Le date del 27 marzo 1760 e del 2 luglio, rispettivamente Giovedì di passione e Madonna delle Grazie, ci restituiscono l’acutezza e il bagliore di intelligenze di questi uomini che hanno composto una corona di 16 sonetti “di una dolcezza disarmata”, dedicati alla Madonna dei sette dolori. Potremmo definirli un originalissimo “Planctus Mariae”. Una tradizione viva ancora oggi. Nei riti della settimana santa, le donne del Sud, eseguendo il planctus, sanno trovare le parole, i suoni e i gesti per svolgere il loro personale “lavoro del dolore”. Lamentano la perdita del Cristo che rappresenta simbolicamente le proprie perdite.

I testi superstiti delle altre “dissertazioni” degli Eccitati viciensi ormai hanno perso l’originaria sequenza, ma è possibile riordinarli, tenendo presente le date. In bilico tra il nuovo indirizzo storico-giurisdizionale di matrice giannoniana, l’illuminismo e le tradizioni letterarie dell’Arcadia, gli “eccitamenti” vanno dai pregi della lingua toscana, all’origine della moneta segnata e non segnata.

Ma vi sono anche dei temi che proiettano gli eccitati viciensi in ambito mondiale, in una società aperta, interculturale. Ad esempio, la dissertazione sul culto politico di Confucio, trattato da Serpillo Amante (Pietro de Finis, diacono e professore di teologia) testimonia l’interesse per la lingua e la scrittura cinese, che aveva portato Papa Clemente XII, nel 1732, ad istituire a Napoli il Collegio dei Cinesi, l’attuale Istituto Universitario Orientale. L’intento era quello di formare missionari che propagassero il cattolicesimo in Cina, ma anche di formare interpreti in grado di agevolare i rapporti commerciali con i paesi dell’estremo Oriente.

Innovazione, quella degli Eccitati, non disgiunta dalla tradizione, che si pone in continuità con il passato, il solo in grado di offrire una prospettiva, di imprimere una rotta e di orientare verso nuovi mondi possibili. Una visione che coinvolge sì la ragione, ma che non disdegna il contributo della fede, la sola in grado di superare la precarietà della vita.

CHI RACCOGLIERA’ IL TESTIMONE?

Attiva per breve tempo, c’è da chiedersi quale incidenza l’Accademia degli Eccitati abbia avuto a Vico. Volse in beneficio comune quei lumi che ciascun socio aveva acquisito nel suo studio privato? L’incidenza fu minima nell’immediato, non riuscì a penetrare la ruvida corteccia della gente comune raccolta nel fitto tessuto di case- botteghe, di sottani, radicata agli aromi di palmenti, di sotterranei trappeti e di centimoli.  

Ma a Vico, Domenico Arcaroli, che diventerà poi vescovo di Vieste, e gli Eccitati che lo coadiuvarono, interpretarono degnamente il riformismo illuminato di alti prelati pugliesi come Celestino Galiani, Domenico Forges Davanzati, Giuseppe Capecelatro e Luca de Samuele Cagnazzi. In un contesto in cui il popolino era più disposto ad ascoltare i rozzi santoni piuttosto che gli ecclesiastici colti, le loro dissertazioni sono infatti immuni dalla mentalità magico-sensitiva popolare, che a Vico del Gargano in quel tempo era vincente. Ricordiamo che, a quel tempo, il paese garganico vantava una rinomata cabala. Un prete di nome Giuseppe Roberti aveva fama di dare “convincenti risposte a quesiti di scienza, di storia e su futuro”. Risposte che, lette oggi, ci fanno davvero sorridere.

Bisogna riconoscere che non pochi eccitati viciensi sono scesi “ nella feccia di Romolo”, per usare l’espressione di Giambattista Vico. Giacinto Mascis si caricò della responsabilità di sindaco di Vico e don Pietro de Finis fece costruire il monumentale cimitero di San Pietro, costruito fuori le mura del paese nel 1792, per motivi igienici, molto tempo prima dell’editto napoleonico di Saint Cloud (1804). De Finis aveva trentasei anni nel 1759. Già nel 1751 aveva aperto a sue spese, per tre anni, una scuola per tutti.

Suo discepolo fu Michelangelo Manicone (che lo ricorderà come «il maestro mio di grammatica»). Manicone non sarà tra i soci fondatori dell’Accademia (aveva allora soltanto 14 anni) ma respirò l’aria illuministica diffusasi nel 1759-60 nel suo paese e la dilatò nelle sue opere. Autore de La Fisica Appula e de La Fisica Daunica , è una figura eclettica di naturalista, erudito, ricercatore, ecologista ante litteram, politico progressista. Nella “Dottrina Pacifica” del 1790 grida contro gli abusi dei tiranni, invoca la riforma della Chiesa.

Aspirazioni e ansie di strati illuminati della gente di Vico furono simboleggiati da un maestoso albero, l’albero della popolar libertà, piantato da Manicone a Largo Fuoriporta, proprio davanti alla chiesa che ospitava l’Accademia degli Eccitati. Quell’albero, divenuto Arbor Adae, albero dell’Inferno, segno di scandalo per il restaurato governo borbonico, verrà abbattuto, sostituito da una Croce e poi da un pubblico fanale dell’illuminazione. Un lampione che, secondo Giuseppe del Viscio, poteva al massimo rischiarare le tenebre della notte, non il buio del tempo (1886).

Rimasta immobile per oltre duecentoquarant’anni, la Repubblica letteraria di Vico si ripropone oggi per prolungare il suo cammino. Il tempo presente è altrettanto difficile ed avaro di sintonie immediate.

Chi raccoglierà il testimone?

FILIPPO FIORENTINO, L’Accademia degli eccitati viciensi, Edizioni del Rosone, Foggia 2003, pp. 129.

          

©2006 Teresa Maria Rauzino.

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Poma Santa Maria saccheggiata come la MSC Napoli

Nel 1607 una marsiliana si arenò nel lido di San Nicandro Garganico, tra Torre Mileto e Calarossa.

Uno dei cannoni della Poma Santa Maria esposti nel piazzale antistante Torre Mileto.

Tutti abbiamo assistito, in diretta TV, al saccheggio della porta-container MSC Napoli, naufragata nel Canale della Manica. Durante una fortissima mareggiata causata dall’uragano Kyrill, la Napoli si è incagliata nei pressi della costa del Devon vicino a Plymouth. Circa 200 dei 2.400 container trasportati sulla nave si sono arenati sulla costa. 

È accaduto il fatto singolare che migliaia di persone, invece di preoccuparsi dei danni ambientali provocati dal riversamento in mare del greggio trasportato dalla nave, si sono recate in spiaggia per raccogliere spasmodicamente tutto il materiale possibile. Nonostante la guardia costiera ammonisse a stare alla larga dai container portati a riva dalla corrente, la prospettiva di arraffare generi di vario tipo ha attirato tantissima gente proveniente da tutta la Gran Bretagna e persino dalla Francia. In fondo, una fortuna simile quando sarebbe capitata più?

Tanti ragazzi si sono precipitati nel Devon. Non sono andati lì per salvare i gabbiani con le piume incrostate di oro nero o per dare una mano a quanti stavano tentando di salvare l’ambiente. Anche loro come i grandi, si sono precipitati per “ripulire” il carico della nave-container colata a picco. È stato come partecipare ad una vera e propria caccia al tesoro. Si poteva aprire un container di pannolini e fare cilecca così come si poteva fare tombola aprendo un container con tante belle moto, le mitiche BMW da 22mila sterline cadauna.

Il “tesoro” della MSC Napoli comprendeva anche bottiglie di vino, prodotti di bellezza e profumi di marca, ricambi di auto, prodotti alimentari, barilotti, e tante altre cose, fra cui 200 tonnellate di greggio, fuoriuscito dai container che ha inquinato le acque e le spiagge. Ma più che la nafta, si è temuto il riversamento in mare di 150 cassoni di materiale altamente inquinante. Il cargo trasportava sostanze nocive come pesticidi e acido per batterie. Il timore era che la gente aprisse anche i container con sostanze chimiche pericolose per la salute pubblica.

        

Di fronte a scene di vero e proprio saccheggio, definite eufemisticamente «recupero di merci alla deriva», la polizia si è arresa e ha lasciato fare. Una legge della marina mercantile britannica del 1995 prevede che, in questi casi, prelevare merci naufragate non significa commettere reato. Ma le merci raccolte, se i legittimi proprietari ne faranno espressa richiesta, dovranno essere restituite. Spetterà all’ufficiale giudiziario «curatore del relitto» risolvere la questione della proprietà degli oggetti ripescati. Ecco perché la polizia, pur consapevole che l’avvertimento non avrebbe sortito un grande effetto, ha raccomandato a tutti “i prelevatori” di compilare un modulo, indicando i beni presi dai container.

«Se fossimo ai piedi del Vesuvio – ha commentato Enrico Franceschini su Repubblica – nessuno si meraviglierebbe: ma siamo nella civile Inghilterra. La riprova che, quando c’è da arraffare, tutto il mondo è paese».

Questa frase ha provocato la reazione indignata di Valeria Valente, assessore al Turismo del Comune di Napoli, che lo ha accusato di voler tener vivo uno stereotipo anacronistico: «Il saccheggio sulla spiaggia richiama, nella mente del giornalista, scenari napoletani; forse, e gli posso dare ragione, nella Napoli occupata dagli Alleati, un carro armato poteva essere smontato e rivenduto in pochi minuti, e la cosa poteva essere in modo oleografico raccontata da penne grandi e impietose come quelle di Curzio Malaparte. Ma sono passati oltre cinquant’anni, siamo in un altro secolo e riproporre certe immagini è inutile e sbagliato».

Non condividiamo l’indignazione “meridionalista” della Valente; il commento del cronista di Repubblica ha immediatamente evocato in noi il ricordo di una vicenda analoga accaduta nel 1607 sulle coste del Gargano Nord, in seguito all’affondamento, nei pressi di torre Mileto, di una nave denominata Poma Santa Maria.

Le fonti documentarie, da cui si evince la storia del saccheggio avvenuto nel lido di Santo Nicandro, sono state pubblicate da Antonio Russo nel volume Poma Santa Maria un naufragio del 1607 a torre Mileto,  per i tipi del Rosone, con un’interessante introduzione di Filippo Fiorentino.

La Poma era una marsiliana, un veliero mercantile di modeste proporzioni, che percorreva le vie marine dell’Adriatico, allora denominato Golfo di Venezia, trasportando merci da Corfù alla Serenissima.

Fra le merci imbarcate e disperse dopo il naufragio sulla costa antistante torre Mileto e torre Calarossa, oltre a generi di prima necessità come l’olio d’oliva e la farina, c’erano anche articoli di lusso come un grosso quantitativo di 1400 di pelli di montone che non risultavano caricate sulla marsiliana. Non risultavano imbarcati 12 cannoni e un numero imprecisato di archibugi. Un vero e proprio arsenale di armi, merce scottante che non figurava nella lista perché di contrabbando.

A differenza delle autorità inglesi, che non si sono preoccupate di recuperare il contenuto dei container, le merci razziate a Torre Mileto vennero prontamente recuperate dal commissario al contrabbando don Rodrigo di Salazar. Ben 80 persone, che avevano fatto la parte del leone nel saccheggio delle merci arenate, vennero arrestate, e costrette a consegnare la merce.

L’obiettivo del recupero delle merci, prelevate dagli abitanti di San Nicandro, Rodi, Cagnano, Ischitella, Carpino e Peschici, e poi vendute per ricavare fondi da versare al Tesoro del Vicereame, fu tenacemente perseguito dalle autorità spagnole, in particolare dal suddetto don Rodrigo, che fece incarcerare tutti coloro che avevano sottratto parte del carico naufragato. Egli rischiò addirittura il conflitto di competenze con le autorità locali che invece volevano assicurare il diritto di prelazione agli abitanti dell’Università. Sostenne caparbiamente le ragioni del proprio ufficio in rapporto a questo carico di merci della Poma Santa Maria.

Per le popolazioni del Gargano, l’affondamento sottocosta di un bastimento carico di merci rappresentava un evento provvidenziale, visto che nessuno aveva avanzato diritti legittimi, nemmeno Simon Batacchio, il “patron” della barca che, conscio delle sanzioni cui sarebbe incorso a causa della merce scottante, imbarcata clandestinamente a Corfù, aveva raggiunto subito Venezia, abbandonando il relitto al suo destino. Di qui il riversarsi della popolazione di tutti i centri del Gargano sulla spiaggia di Torre Mileto, per recuperare il materiale spiaggiato ritenuto proprietà nullius, cioè di nessuno.

Il disagio vissuto dalle classi povere del Promontorio in quel periodo era molto forte. La dominazione spagnola, che si esercitava esosamente attraverso il potere dei Viceré, aveva generato malcontento a causa di ruberie e imposte che prelevavano gran parte del reddito. Al clima di forte indigenza si aggiunse il pericolo di attacchi continui dal mare.

Una sequenza di edifici fortificati supportava la difesa costiera contro le continue razzie di cui si rendevano protagonisti corsari e pirati che militavano sotto le bandiere dell’Islam, ma anche predatori illirici che avevano le loro basi logistiche sulle coste albanesi. Nel 1606 Durazzo fu messa a ferro e fuoco dalle galee e dalle truppe inviate del viceré Alonso Pimentel de Herrera, conte di Bonavente, ma ciò non servì a scongiurare il pericolo delle razzie turchesche che, fortissimo nel Seicento, perdurò anche nel secolo successivo.

L’interesse del prof. Antonio Russo per la Poma Santa Maria è nato dopo che un gruppo di sub dei carabinieri di Taranto nel 1975 riportò a riva tre grossi cannoni, avvistati nelle acque antistanti la torre di vedetta e segnalati alla Soprintendenza Archeologica della Puglia. Probabilmente un’ulteriore immersione potrebbe portare alla luce altri 8 cannoni e gli archibugi ancora sommersi nel fondo della marsiliana.

    

Ma cosa fu recuperato nel relitto della marsiliana dai sommozzatori giunti da Peschici nel 1607, e che pretesero di essere compensati con un terzo del materiale riportato in superficie? Una balla di 1400 pelli, riconciate dagli artigiani di Peschici e Rodi per essere rivendute; quaranta cardovane (?); un’ancora; una gomena, i documenti di trasporto; un tabarro (cioè una cappa) di panno; dodici staia di farina rotti; alcune schiavine pelose (mantelli a ruota di pelliccia); uno staio d’olio; due cannoni (di cui si sono perdute le tracce).

Oggi, dopo varie peripezie e traslochi tra Palazzo Zaccagnino, il piazzale antistante il deposito della nettezza urbana e Palazzo Fioritto, i tre cannoni del XVII secolo, parte del carico trasportato dalla Poma Santa Maria affondata nelle acque di Torre Mileto il 24 marzo 1607, e ripescati nel 1975, sono stati postati nel piazzale antistante Torre Mileto.

La Torre, restaurata due anni fa dal Parco del Gargano e dal Comune di san Nicandro, è ancora in attesa di un’adeguata valorizzazione. Le torri che, dalla fine del Cinquecento, difesero le coste di Capitanata, hanno subito la medesima sorte: alcune restaurate, altre sgarrupate (come Calarossa e Sfinale), sono tutte “regolarmente chiuse” alla pubblica fruizione.

©2007 Teresa Maria Rauzino. Il presente saggio è stato pubblicato sul quotidiano «L’Attacco» del 15 febbraio 2007.

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Slavi ed ebrei nel campo di concentramento di Manfredonia

Il silenzio sulle foibe, e sull’esodo forzato di dalmati e istriani dalle loro terre, è forse la pagina più oscura della nostra storia repubblicana. Ma ancora più oscure sono le pagine che l’Italia ha scritto tra il 1919 e il 1944 in Slovenia e Croazia – sulle quali continua ipocritamente il silenzio – a cui va fatta risalire la feroce reazione degli Slavi di cui si parla in questi giorni.

È singolare che a sollevare la questione (solo delle foibe e dell’esodo, ovviamente) siano, anche a Foggia e in Capitanata, proprio gli “eredi” di quel regime che fu il primo responsabile della sanguinosa e sanguinaria reazione slava.

A tutti coloro che vogliono saperne di più su questa storia “dimenticata” consigliamo la lettura di un libro (a cura) di Costantino di Sante: Italiani senza onore (edizioni Ombre Corte, pp. 270) che pubblica documentazione inedita sui crimini compiuti dall’esercito del Duce in Jugoslavia. Ci fornisce una dettagliata, illuminante cronistoria dell’antislavismo viscerale perseguito dal regime fascista nei Balcani, brutto retroscena della bruttissima storia delle foibe.

La politica di occupazione italiana si contraddistinse per una serie ripetuta di violenze, angherie e sopraffazioni che non furono il risultato di scelte isolate dei comandi militari, ma componente essenziale della strategia di dominio territoriale dell’Italia fascista il cui scopo era arrivare alla «distruzione totale e integrale dell’identità nazionale slovena e croata».

«Di fronte ad una razza inferiore e barbara come la slava – scriveva Benito Mussolini già dal 1920 – non si deve seguire la politica che dà lo zuccherino, ma quella del bastone. I confini dell’Italia devono essere il Brennero, il Nevoso e le Dinariche: io credo che si possano sacrificare 500.000 slavi barbari a 50.000 italiani».

In una lettera spedita in data 8 settembre 1942 (N. 08906) dal generale Roatta al Comando supremo, viene proposta, addirittura, la deportazione dell’ intera popolazione slovena.

Nella riunione di Fiume del 23-5-1942, lo stesso Roatta aveva riferito le direttive di Mussolini: «Il DUCE è assai seccato della situazione in Slovenia perchè Lubiana è provincia italiana. Ha detto di ricordarsi che la miglior situazione si fa quando il nemico è morto. Occorre quindi poter disporre di numerosi ostaggi e applicare la fucilazione tutte le volte che ciò sia necessario. /…/ Il Duce concorda nel concetto di internare molta gente – anche 20-30.000 persone. Si può quindi estendere il criterio di internamento a determinate categorie di persone. Ad esempio: studenti. L’azione però deve essere fatta bene cioè con forze che limitino le evasioni. /…/ Ricordarsi che tutti i provvedimenti di sgombero di gente, li dovremo fare di nostra iniziativa senza guardare in faccia nessuno».

Tutti conosciamo Auschwitz e Buchenwald, ma decenni di censure ci hanno impedito di sapere che noi, italiani, costruimmo e gestimmo i lager di Kraljevica, Lopud, Kupari, Korica, Brac, Hvar, Rab (isola di Arbe). Alla fine del Ventennio gli occupanti italiani costruirono nelle terre slave campi di concentramento che, seppur non scientificamente predisposti allo sterminio, furono la causa di migliaia di morti e di infinite sofferenze. Furono creati campi anche in Italia, per esempio a Gonars (Udine), a Monigo (Treviso), a Renicci di Anghiari (Arezzo) e a Padova. Secondo stime rapportate nel volume dell’A.N.P.P.I.A. “Pericolosi nelle contingenze belliche”, i fascisti internarono quasi 30.000 sloveni e croati, uomini, donne e bambini .

SLAVI INTERNATI A MANFREDONIA

Facendo riferimento a uno studio effettuato da Viviano Iazzetti (funzionario dell’archivio di Stato di Foggia), sul campo di concentramento pugliese di Manfredonia (che funzionò dal 1940 alla fine dell’estate del 1943) possiamo confermare che un gruppo consistente delle persone ivi internate proveniva dalla provincia di Fiume erano cittadini italiani “slavofili“ sospetti di attività antinazionale; ex jugoslavi sospetti di attività antitaliana. Per ex jugoslavi – precisa Iazzetti– si intendevano gli internati originari dei territori dell’Istria annessi all’Italia in seguito allo smembramento dell’impero austro-ungarico conseguente il primo conflitto bellico mondiale.

Nel campo di concentramento di Manfredonia la libertà degli internati era limitatissima. Essi potevano passeggiare liberamente soltanto per alcune ore della giornata ed esclusivamente nell’ambito della zona delimitata. Quando i reclusi si trovavano in quest’area venivano attivati sei posti fissi di guardia per la loro vigilanza e contemporaneamente degli agenti in bicicletta percorrevano la nazionale per Foggia, lungo il tratto antistante il campo, onde evitare contatti con estranei. Al rientro degli internati nelle camerate venivano chiuse finestre e porte applicando a queste ultime dei lucchetti dall’esterno. Durante la notte funzionava un servizio di ronda sia all’esterno che all’interno del campo.

Una immagine dell’ex campo di concentramento di Manfredonia

Per gli internati non era possibile intrattenere rapporti epistolari con i familiari senza la preventiva autorizzazione ministeriale e subordinatamente al vaglio della posta per motivi di censura. Gli internati avevano l’obbligo di presentarsi negli Uffici della Direzione, ogni qualvolta invitati, a capo scoperto, abbigliati compostamente e salutando romanamente.

Per poter leggere dei libri italiani occorreva l’autorizzazione della direzione, mentre, per i giornali ed i libri in lingua straniera, quella del ministero. Era vietato usare lingue straniere nelle conversazioni. Della traduzione della corrispondenza degli internati serbo-croati e Sloveni si occupava la signora Maria Nannut presso il campo di concentramento di Fabriano.

Il campo di Manfredonia fu una “cosa all’Italiana”, non furono uccisi internati come nei famigerati campi nazisti. Ma non dimentichiamo che il 1° luglio 1940 nel campo suddetto giunsero 31 ebrei tedeschi. Iazzetti, nel suo saggio, ne ha citato nomi e cognomi e paternità:

Pressburger Alfred di Leopold
Rector Arthur fu Simon
Scharf Iakob di Jonas
Winkler Ugo Israele di Iulius
Zeilinger Leopold fu Gustavo
Morgestern Hans di Mauritz
Moser Louis fu Heinric
Kollmann Carl di Sigfrid
Kerbes Lemel fu Wilhelm
Hutzler Ludwig fu Leopold
Gluecksmann Eugen fu Antonio
Heinz Paul di Leopold
Leer Oskar di Franz
Mandel David fu Leiser
Mausner Iakob fu Leiser
Josesfsberg Iakob fu Zaibel
Kollmann Hans di Sigfrid
Schwarz Iulius fu Samuel
Tsch Oskar fu Albert
Aussemberg Chaskel fu Kaim
Lueksmann Ferdinand fu Filippo
Zilberstein Markta fu Habraham
Sommerfeld Leo fu Max
Koldegg Erwin fu Max
Samek Arthur di Adolfo
Halperin Benjamin di Giuseppe
Lawetzky Franz di Adolfo
Nussbaum Ernest Ludwig di Josef
Roth Leon di Wolf
Schwarzwald Norbert di Isacco
Wollner Sieghard di Max

Il 18 settembre 1940 gran parte di essi furono trasferiti presso il campo di concentramento di Tossicia in provincia di Teramo. Restarono a Manfredonia Halperin, Lawetzky, Roth, Swarzwald e Wolner che a loro volta, ad eccezione dell’ultimo di cui si perdono le tracce, furono trasferiti nel campo di concentramento di Campagna (in provincia di Salerno) il 26 febbraio 1942.

Viviano Iazzetti si chiede quale sorte toccò a queste persone ( di cui comunicò i nominativi alla Comunità ebraica di Roma fin dal 1984-85), invitando gli studiosi ad effettuare questa ulteriore ricerca.

Oggi finalmente questo ci è stato reso possibile dalla consultazione di una banca dati delle vittime della Shoa postata in Internet. Da una nostra personale ricerca sul sito www1.yadvashem.org, ben 16 su 31 ebrei tedeschi risultano periti nei famigerati campi di concentramento nazisti dove si consumò la Shoa. Sono Pressburger Alfred, Rector Arthur, Scharf Iakob, Winkler Ugo Israele, Zeilinger Leopold, Kollmann Carl, Kerbes Lemel, Gluecksmann Eugen, Mandel David, Mausner Iakob, Kollmann Hans Schwarz Iulius, Sommerfeld Leo, Halperin Benjamin, Nussbaum Ernest Ludwig, Roth Leon.

Nelle schede on line non sempre è riportata la paternità, oltre che la nazionalità, e talvolta ci sono omonimie: speriamo vivamente che il numero delle vittime sia stato inferiore al numero da noi rilevato.

Al Comune di Manfredonia chiediamo che sia posta almeno una targa a loro ricordo nel luogo (l’ex macello comunale, oggi dismesso) che li ospitò.

    
PER APPROFONDIRE:
Una memoria dimenticata. Il campo di concentramento di Manfredonia

©2005 Teresa Maria Rauzino. L’articolo è stato pubblicato sul mensile «Sudest» (n. 5, marzo 2005,  pp. 98-101). Le foto dell’ex macello comunale, sede del campo di concentramento di Manfredonia, sono state scattate dal fotografo del «Corriere del Golfo».

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Microstorie

Ralph de Palma. L’uomo più veloce del mondo che veniva da Foggia

Copertina del volume.

Dopo i Vademecum della Provincia di Foggia e Capitanlibri, Maurizio De Tullio si cimenta in un arduo lavoro di ricerca per ricostruire l’avvincente storia di Ralph de Palma, un campione automobilistico del primo Novecento.

Forte della sua esperienza giornalistica, l’Autore si avvale della grande Rete telematica per consultare le fonti sull’emigrazione, ricerca testi presenti in varie biblioteche nazionali ed estere, riscontra dati e documenti anagrafici in archivi pubblici e diocesani, dà una sua chiave di lettura all’interpretazione talvolta problematica degli stessi, delineando un quadro esaustivo della biografia del grande campione italo-americano che batté tutti i record.

Con questo volume, De Tullio riesce soprattutto nell’ardua impresa di restituire alla Capitanata l’immagine di un eroe, Ralph De Palma, da noi quasi ignorato, e che fece grande lo sport dell’automobilismo, divenendo, ai suoi tempi, l’icona vivente del “grande sogno americano”. Quel bambino, vissuto a Biccari fino all’età di dieci anni, non aveva mai visto il mare: solcherà per la prima volta l’Oceano Atlantico con la sua famiglia per raggiungere Lamerica, e precisamente la Grande Mela.

Oltreoceano, quel bambino, che non aveva mai giocato con le macchinine, riuscirà – come scrive De Tullio – a far sognare milioni di persone. Con auto vere. Le sue straordinarie gesta sportive (2557 vittorie su 2889 corse effettuate nel corso della sua lunghissima carriera) lo imposero all’attenzione planetaria: per milioni di emigrati italiani sparsi per il mondo egli divenne l’eroe internazionale di cui andare fieri. De Palma riuscì ad affermarsi in un’epoca in cui gli italiani erano considerati all’ultimo livello della scala sociale statunitense: erano i paria della società, un po’ come sono ritenuti oggi gli extracomunitari. Ecco perché, nelle prime biografie apparse sui giornali dell’epoca, alcuni dati, a partire dal nome americanizzato in Ralph, furono modificati per accreditare un’origine sociale più accettabile agli occhi dei fans. Sulla sua tomba, il campione farà apporre soltanto le date di nascita e di morte, senza accenno al luogo d’origine italiano.

Raffaele De Palma era nato il 19 dicembre 1882 a Biccari, un paesino del Subappennino dauno che di lì a un decennio sarebbe stato decimato dall’emigrazione transoceanica. I genitori erano originari di Troia. I De Palma partirono per gli Stati Uniti verso la fine dell’Ottocento, imbarcandosi , a varie riprese, su dei piroscafi che, dopo un mese di viaggio, li sbarcarono a Ellis Island, l’Isola delle lacrime, dove come tutti gli immigrati subiranno un’umiliante quarantena prima di essere accettati nel Paese della Libertà.

La famiglia De Palma, alla ricerca di quel riscatto sociale così difficile da realizzare in patria, a differenza di tante famiglie di emigranti, realizzerà il suo sogno.

L’emigrazione oltreoceano, tra il 1892 e il 1924, fu la scelta obbligata di circa 22 milioni di migranti, per la maggior parte italiani. Nel 1910 New York era considerata, per il suo alto numero di abitanti provenienti dal Belpaese, la quarta città italiana dopo Napoli, Roma e Milano.

I De Palma vivevano a Brooklyn, uno dei più poveri quartieri newyorkesi. Ralph cominciò ad aiutare il padre nella barberia di famiglia, poi lavorò come pony express di un negozio di frutta e verdura. La bicicletta diventò la sua prima grande passione e nel 1899 egli vinse la sua prima gara ciclistica. Nel 1902 esordì nel ciclismo professionistico; le gare si svolgevano allora al chiuso di un velodromo con piste in legno e curve molto inclinate.

De Palma esordì nella carriera automobilistica nel 1908, e la concluderà nel 1934. Il campione italo-americano guidò le auto delle migliori ditte dell’epoca: Fiat, Mercer, Simplex, ma legò il suo nome soprattutto alla Mercedes. Partecipò alle mitiche corse di Vanderbilt Cup, alle 500 miglia di Indianapolis, al Gran Premio di Francia. Indianapolis, a quasi un secolo di distanza, colpisce l’immaginario collettivo degli appassionati per alcune epiche gesta che l’hanno segnata fino a consacrarla definitivamente come il Tempio della velocità. Ralph de Palma abbinò il suo nome a questa corsa, lunga e massacrante, sin dalla seconda edizione, quella del 1912, vincendo l’edizione del 1915.

Ralph De Palma (a sinistra).

Le gare di Formula Uno di oggi, per quanto avvincenti, non sono paragonabili alle emozioni offerte agli spettatori che assiepavano le tribune e le piste dei circuiti e degli autodromi circa un secolo fa. Quel che era profondamente diverso era la corsa in sé che aveva la preminenza su ogni cosa e De Palma seppe comunicare agli spettatori proprio quello che essi si aspettavano da un pilota: emozioni, passione, grinta, coraggio. Una carriera longeva, la sua, nel segno dell’agonismo e della lealtà sportiva: Ralph dimostrò che le gare si potevano vincere usando l’intelligenza.

Quando gli Stati Uniti entrarono nel primo conflitto mondiale, tutte le attività sportive agonistiche vennero sospese. De Palma si arruolò nell’aviazione, dopo aver conseguito il brevetto di pilota a Daytona. Dopo la guerra, nel 1919, ritornò in questa città alla guida di una potentissima Packard 905 bianca, la mitica vettura con motore V12 su auto prodotte in serie. Sulla sabbia di Daytona Beach, toccò la fantastica velocità media di 149,87 miglia orarie (oltre 241 km all’ora). Divenne l’uomo più veloce del mondo!

Ralph De Palma riposa oggi all’Holy Cross Cementery di Culver City, nei pressi di Los Angeles, in California. Sulla lapide della sua tomba compaiono solo gli anni di nascita e di morte: 1882 e 1956. L’epigrafe ricorda “il campione automobilistico prediletto vincitore della corsa di Indianapolis del 1915 (Bloved automobile racing champion 1915 Indianapolis speedway winner)”.

Un eroe dello sport che, nel 50° anniversario dalla scomparsa, Maurizio De Tullio ha riproposto all’attenzione nazionale, partendo proprio dalla terra di origine di De Palma: Biccari.

@Teresa Maria Rauzino

MAURIZIO DE TULLIO, Ralph de Palma. Storia dell’uomo più veloce del mondo che veniva da Foggia,  Edizioni Agorà, Foggia 2006, euro 12,00.

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Microstorie

Roseto Valfortore nei documenti d’archivio

La copertina del volume.

Interessante ed originale per la città di Roseto Valfortore il volume dal titolo Roseto Valfortore dal documento alla storia, Foggia 2007 (pp. 199, ill. b/n, Edizioni del Rosone, Foggia), scritto dal prof. Alfonso Rainone con la collaborazione degli alunni della classe III D della scuola secondaria di primo grado della sezione associata di Roseto Valfortore facente capo all’Istituto “Paolo Roseti” di Biccari, patrocinato dal Comune di Roseto Valfortore, dall’Istituto Bancario San Paolo Banco di Napoli, filiale di Roseto, dalla ditta Fortore e Sviluppo – Fortore energia, e dalla stessa scuola della quale sono allievi i ragazzi.

L’originalità della ricerca consiste nel fatto che il prof. Rainone ha, a pieno titolo, adottato il metodo storiografico dello studio e dell’apprendimento della storia attraverso la consultazione dei documenti d’archivio.

Introdurre la ricerca storico-documentaria nella scuola non è cosa da poco. Ma, sicuramente, non deve essere stata cosa semplice per il professore ed i suoi giovanissimi allievi alla prima esperienza, interpretare, trascrivere, studiare ed apprendere il contenuto dei documenti esaminati; carte, spesso nemmeno inventariate, che rimarrebbero sconosciute se non fossero riportate alla luce dagli studiosi con spirito di dedizione ed abnegazione.

Il lavoro che racchiude anche la riproduzione iconografica del Catasto Onciario di Roseto Valfortore risalente al 1741, documento tratto dalle fonti dell’Archivio di Stato di Napoli, verte anche sullo studio e l’analisi delle fonti alternative quali epigrafi, lettere olografe ecc., ma anche dall’analisi dei documenti custoditi presso altri archivi quali la sezione dell’Archivio di Stato di Lucera, l’Archivio Parrocchiale di Roseto e l’Archivio Diocesano di Bovino. Uno studio a carattere scientifico e sistematico che racchiude gran parte della storia del piccolo centro del Subappennino Dauno tra Settecento ed Ottocento.

La bravura dei ragazzi poi, è stata quella di essere riusciti ad apprendere la metodologia di studio e a superare le difficoltà incontrate, come ad esempio il linguaggio e le espressioni desuete, tipiche di un idioma tramontato nel quale è proiettato il piccolo centro urbano.

Frutto di un’esperienza nuova per la scolaresca, il volume riporta alla luce uno spaccato di vita che riemerge come d’incanto grazie all’impegno ed all’abile guida del docente di Lettere.

«Il progetto si è svolto in ore extracurriculari, andando tuttavia ad intrecciarsi in modo unitario per gli approfondimenti sia alle attività curricolari di italiano e storia, che di quelle opzionali facoltative di conosciamo il territorio, percorsi di lettura e latino […]», è quanto afferma il prof. Rainone nella sua Introduzione spiegando ai lettori la metodologia applicata.

Già da qualche tempo nella scuola è stato introdotto il laboratorio di didattica della storia che, in collaborazione con gli archivi pubblici e privati, si pone come obiettivo l’insegnamento della microstoria attraverso la consultazione delle fonti archivistiche, perché la storia si può conoscere soprattutto dai documenti. Ma, come diceva Marc Bloch, le fonti devono essere esaminate attraverso varie direttrici prestando attenzione ai falsi storici che alterano la verità travisando le notizie. Il compito dello “storico” è quello di saper selezionare, compulsando i documenti, la verità dalla “fantasia” che trasforma la storia in leggenda.

L’attenzione, pertanto, deve essere rivolta a tale selezione in primis, poi viene la narrazione delle vicende attraverso lo studio dei fatti e dei relativi personaggi.

Nel volume in questione, è stato fatto proprio questo lavoro: selezione delle fonti, analisi delle stesse, ed infine, narrazione delle vicende più importanti con la possibilità di avere i documenti sottomano senza che i lettori debbano recarsi negli archivi.

Tra i rosetani famosi emerge il personaggio di mons. Francesco Saverio Farace, del quale si traccia oltre al profilo biografico, anche i tratti salienti della sua vita attraverso lo studio di atti notarili, epigrafi ecc.

Il dovizioso apparato iconografico completa il testo che, per il piccolo centro rosetano, resta una pietra miliare nel corollario della bibliografia locale.

È senz’altro questo un libro che non deve mancare nelle case dei cultori e non solo, un libro utile a tutti coloro che vogliano cominciare a ricercare per scoprire le loro “radici culturali”, perché, come spesso si dice, non si può vivere il presente senza conoscere il passato.

©2008 Lucia Lopriore

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Microstorie

Il Catasto Onciario di Ascoli (1753)

Della prestigiosa e nuovissima collana “Platea Magna” fa parte il recente volume curato da Antonio Ventura dal titolo Onciario della città di Ascoli 1753, patrocinato dal Comune di Ascoli Satriano e dal Centro Culturale Polivalente, pubblicato dalla casa editrice foggiana Claudio Grenzi Editore (pp. 381, ill., Foggia 2006, € 39,00).

L’interessante lavoro, curato sin nei minimi particolari dall’Autore, evidenzia quale fosse il sistema fiscale settecentesco nella cittadina daunia in relazione al numero dei fuochi e dei possedimenti di ciascuna famiglia.

Impreziosito dai contributi dei proff. Stefano Capone, dell’Università degli Studi di Siena, che analizza le riforme del Settecento apportate in un’epoca in cui predominava l’oscurantismo, Marco Nicola Miletti, dell’Università degli Studi di Foggia, che affronta lo studio sui profili giuridici del Catasto Onciario borbonico, e Nevill Colclough, dell’Università del Kent, che esamina la dinamica delle relazioni di parentela e dell’organizzazione familiare nella Ascoli dell’ancen régime, il volume offre ai lettori un quadro chiaro della situazione demografica, fiscale e politica dell’epoca.

Il Catasto Onciario costituisce una sorta di innovazione fiscale voluta da re Carlo III di Borbone e fa parte di una lunga serie di riforme legislative che apportarono radicali cambiamenti nel Regno di Napoli, fino allora offuscato dal potere vicereale che, dopo due secoli di governo sull’onda della politica oscurantista, aveva creato sperequazioni nella distribuzione dei carichi fiscali. L’intelligente intervento del sovrano, affiancato dal marchese pisano Bernardo Tanucci, contribuì all’espansione del progresso politico ed economico che caratterizzò tutto il Settecento napoletano.

Tornando al documento studiato e trascritto dall’Autore, esso riporta non solo la situazione finanziaria inerente ciascun contribuente, attraverso la valutazione in once dei profitti espressi in ducati, ma traccia anche in modo dettagliato un quadro chiaro della demografia ascolana: nel testo è riportato anche il numero dei residenti, quello dei forestieri, delle vedove, ecc., diviso per classi sociali e per attività, quale indispensabile ed utilissima chiave di lettura di uno spaccato del vissuto quotidiano.

Per ogni fuoco, costituito da un nucleo familiare di circa 4 o 5 unità, è calcolata una rendita pro capite di 42 carlini, a ciò sono sommate le tasse comunali previste dagli stati discussi dell’Università, ossia dai bilanci del Comune.

Alcune rendite sono soggette ad aggiornamenti annuali attraverso regole precise fissate dalla Regia Camera della Sommaria, allo scopo di fornire il metodo per la formazione della tassa. Da qui, la possibilità di conoscere dettagliatamente le situazioni patrimoniali di ciascun “contribuente”.

Non mancano, come sempre, i diritti di esenzione dalle tasse riconosciuti ai personaggi più in vista del paese. È questo il caso del duca Don Sebastiano Marulli, feudatario di Ascoli, il quale con i diritti, privilegi, e quanto altro acquisiti sui beni feudali e burgensatici, costituisce l’esempio di quella casta dotata di propri organi di rappresentanza cui tutti gli abitanti devono ubbidienza e, conseguentemente, cui sono riconosciuti sia pure in parte i diritti di esenzione dal pagamento delle tasse.

L’Autore, inoltre, non trascura di evidenziare anche l’aspetto antropologico del centro daunio fornendo, attraverso un’ampia carrellata, notizie preziose sul paese e sugli abitanti.

Il testo è infine arricchito da illustrazioni quali documenti e piante topografiche del territorio, rinvenute presso l’Archivio di Stato di Foggia, oltre ad una ricca raccolta di tabelle, un esaustivo glossario ed alle note che concludono il volume.

In definitiva è questo un libro preziosissimo che costituisce un valore aggiunto al patrimonio culturale della nostra storia.

 

©2006 Lucia Lopriore

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Microstorie

La Garganica, che passione …

La copertina del volume.

Sulla scia del libro pubblicato nel 2004 da Marcello Ariano che parlava della tranvia di Torremaggire raccontando, in piena era futuristica, le vicende legate alla nascita ed allo sviluppo della rete tranviaria della cittadina dauna, in un volume fresco di stampa, viene oggi riproposto il tema dei trasporti ferroviari da due specialisti del settore: il geologo Salvo Bordonaro e l’architetto Bruno Pizzolante.

I due tecnici, amanti della ricerca storica con particolare riguardo al settore tecnico-scientifico, con questa ultima fatica dal titolo La Ferrovia garganica, edita per i tipi di Claudio Grenzi Editore (pp. 151, Appendice, ill. b/n e colori, Foggia 2006, s.i.p.), realizzata per celebrare il 75° anno dalla fondazione della Ferrovia garganica, frutto di anni di ricerca, hanno ripercorso una tappa indicativa di un progresso che, per molti versi, ha apportato cambiamenti importanti al sistema dei trasporti garganici.

Da quando è stata costruita la ferrovia del Gargano il treno è stato il mezzo di locomozione più usato da turisti e residenti per gli spostamenti lungo le coste. La ferrovia garganica ha segnato un’epoca di nuovi contatti sociali, culturali ed economici rendendosi interprete delle nuove esigenze di mobilità della popolazione della zona, e non solo. Essa ha rappresentato il punto di contatto con le realtà degli altri centri urbani agevolando le relazioni sociali così com’è evidenziato in quarta di copertina che recita:

«[…] Dagli ordinati vigneti del Tavoliere alla lussureggiante baia di Calenella, passando per le balze erte del Gargano occidentale, per le scenografiche trincee e gallerie scavate a fatica nella roccia, per gli interminabili rettilinei immersi negli uliveti della piana di Carpino, immergendosi infine nel fresco della pineta Marzini, non senza aver più volte salutato le assolate spiagge dell’Adriatico e i bianchi paesi arroccati sulle alture.

Poco meno di ottanta chilometri di spettacolo ferroviario per la prima concessa in Italia nata in pieno Ventennio già con trazione elettrica, che da tre quarti di secolo effettua il suo servizio forse un po’ in sordina, attendendo oggi una valorizzazione che le deriverà da alcune iniziative di modernizzazione della linea, degli impianti e del materiale rotabile. […]».

Documenti riguardanti la posa della prima pietra.

La ricerca, svolta sulla base di documenti d’archivio e di notizie tratte dalle stampe d’epoca, dimostra la capacità degli Autori di saper affrontare argomenti di sicuro interesse storiografico.

Non mancano notizie su personaggi di spicco che hanno giocato un ruolo determinante nel territorio di Capitanata per la loro competenza professionale, o figure di rilievo del vissuto quotidiano; nomi ricorrenti che hanno fatto la storia della ferrovia garganica e che resteranno per sempre legati ad essa entrando a far parte del corollario di presenze umane o di “Risorse”, come si direbbe oggi, che, con il frutto del lavoro quotidiano, hanno contribuito all’incremento della rete ferroviaria che oggi serve un bacino di utenza stimabile in circa 135.000 persone. Quota che tende a raddoppiare durante il periodo estivo per l’elevata affluenza di turisti.

Tale tratta è identificabile geograficamente con la fascia settentrionale del promontorio del Gargano, estesa da San Severo a Vieste e, grazie ad un servizio di autolinee interconnesso con la ferrovia consente un’organizzazione impeccabile.

Dalle pagine interne del volume.

Più volte, per un rilancio del servizio, è stato incrementato il parco dei rotabili, primo passo per aumentare le corse ferroviarie puntando ad offrire maggiore sicurezza e più comfort. Così dal lontano 1869, anno a cui risale il primo progetto ferroviario a firma di Antonio Maria Lombardi, ad oggi, molte cose sono cambiate e, con le Ferrovie dello Stato sempre più in crisi, la ferrovia garganica punta ad una maggiore stabilità aziendale in vista anche dell’incremento del flusso migratorio e turistico che, oggi più di ieri, punta ai massimi livelli qualitativi; è questa un’azienda sempre più in espansione, con certezze che la rendono competitiva sul mercato dei trasporti interregionali.

Nel volume non mancano racconti ed aneddoti di un vissuto quotidiano che coinvolge emotivamente il lettore facendo scorgere, attraverso lo scorrere lento delle pagine, quella vena di ironia propria delle popolazioni garganiche, abituate a vivere tout-court le tradizioni e le memorie di un passato remoto o di un futuro prossimo che ancora oggi coinvolge. Si scorge così, il lento trascorrere del tempo che non lascia spazio ad altro che ai ricordi… ricordi che a volte sfuggono impalpabili ma che si ritrovano nelle immagini d’epoca, che con le planimetrie e i documenti di vario genere rendono il testo unico nel suo genere.

  

©2007 Lucia Lopriore

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Microstorie

Foggia in particolare

Un album fotografico di Paolo e Claudio Grenzi

La copertina di Foggia in particolare

«Cosa c’è dietro l’angolo?». Con questa domanda rivolta agli ospiti, un noto presentatore e giornalista televisivo concludeva l’intervista in una trasmissione, in onda su RaiUno, negli anni ’70 del secolo appena trascorso.

Ebbene, la stessa domanda proiettata nella nostra città trova un’immediata risposta. Ci hanno pensato, infatti, Claudio Grenzi e suo figlio Paolo ad evidenziare gli angoli più suggestivi di Foggia, attraverso una recente e bella pubblicazione fotografica dal titolo Foggia in particolare (pp. 108, ill. b/n e colori, Foggia 2006).

Attraverso la caccia al dettaglio, ritroviamo Claudio Grenzi, noto editore foggiano, in veste di autore e di fotografo. In una passeggiata per le strade della nostra bella città, Claudio e suo figlio Paolo mettono in luce gli angoli e le vie più suggestive, ed i particolari che spesso sfuggono all’attenzione del passante o anche del cittadino residente che corre e, troppo spesso, non nota ciò che lo circonda e guarda le cose “senza osservare”.

Questo volume rappresenta un momento di pausa e di riflessione sulle bellezze architettoniche di Foggia e non solo.

Così, un soggetto ritenuto apparentemente “insignificante” assume in un contesto artistico una sua configurazione. Le peculiarità di taluni elementi architettonici non prescindono dal contesto contemporaneo nel quale sono collocate.

Architravi, roste, candelabri, gru, insegne di fabbriche e di esercizi commerciali, e, persino particolari di epigrafi e di lapidi funerarie, sono posti in luce attraverso lo “scatto” artistico dagli Autori nelle loro istantanee.

Già noto per le sue altissime qualità professionali, che esprime attraverso il lavoro quotidiano di grafico ed editore, Claudio Grenzi ha voluto, con l’ausilio di un altrettanto promettente figliuolo, regalare alla città un altro tassello di cultura. Quella cultura spesso bistrattata dalla vita frenetica e dagli interessi che il consumismo sfacciato pone alla base della vita moderna. Quella cultura che oggi viene seguita solo in apparenza per “darsi contegno”… ma che poi tutti calpestano…

“La caccia al particolare”, che gli Autori evidenziano nel loro volume, mette in luce lo stato di bellezza/degrado del nostro patrimonio artistico. Un degrado inesorabile e, per molti aspetti, anche voluto.

Voluto dalle sconsiderate demolizioni urbanistiche che troppo spesso sono giustificate dalle vetustà costruttive impossibili da recuperare… allora? È meglio abbattere! Già! Meglio abbattere se non si può recuperare…

Così il declino inesorabile della memoria storica prende il sopravvento sulla “Cultura” ed agli autori siano essi fotografi, storici o semplici cultori, non resta altro che “salvare il salvabile” soprattutto attraverso le testimonianze “cartacee”.

Bene hanno fatto gli Autori di questo prezioso libro di memorie a “salvare” quello che resta ancora da recuperare… mettere “nero su bianco” è pur sempre un tentativo di sensibilizzazione dell’opinione pubblica.

Sempre che ci si accorga dello scempio compiuto e si rifletta sul da farsi e ci si rimbocchi le maniche e non si continui a dire “tanto ci devono pensare le istituzioni…”.

È l’opinione del cittadino che va sensibilizzata… così, per fare un esempio, se solo ci fosse stata una campagna di sensibilizzazione pubblica, il seicentesco palazzo Poppa-Caponegro con l’arco di San Michele, ubicato nei pressi del Municipio di Foggia, esempio mirabile di architettura barocca, demolito negli ultimi anni per far spazio ad un’anonima ed orrenda costruzione moderna, edificata secondo quel principio di discutibile progettazione volta allo pseudo-recupero dei centri storici, avrebbe subito una sorte diversa. Come ancora è da definire la situazione del restauro di palazzo Trifiletti-Giovene in Corso Garibaldi, in procinto di subire lo stesso inesorabile destino.

«Non basta fotografare!», direbbe qualcuno, ma anche questo serve! Soprattutto se il messaggio parte da molto lontano… in questo caso poi, è un messaggio lanciato da persone che la cultura la vivono quotidianamente attraverso il proprio lavoro. Quel lavoro che esporta il “sapere” in tutto il mondo. Così, le pubblicazioni spedite in varie parti dell’universo della conoscenza e non solo, fanno sì che la storia del nostro territorio sia portata fuori dai confini, non arginata o ridotta ad un semplice fenomeno di carattere endemico.

Volendo riassumere in una formula matematica il concetto di “cultura” lanciato dagli Autori, possiamo affermare che se la conoscenza è sinonimo di progresso, l’ignoranza, in quanto mancanza di consapevolezza, è baluardo di distruzione della memoria.

Ma non sempre l’ignoranza può giustificare taluni sconsiderati comportamenti! Comportamenti che scaturiscono da disagi sociali e mentali… Il fatto, ad esempio, che alcuni “soggetti” deturpino, con i loro graffiti in prevalenza volti ad allusioni falliche, i monumenti delle città, è sintomo di disagio sociale oltre che mentale…

Il problema allora è da ricercare alla base di una società che non garantisce più potere… che non difende… che non tutela…  

Ai cultori della storia allora, non resta altro da fare se non denunciare questo disagio attraverso testimonianze, siano esse scritte o fotografate, proprio come hanno fatto gli Autori del volume.

Mai l’invito di un nostro amato concittadino, Renzo Arbore, vanto della cultura del capoluogo dauno, grazie al quale la storia delle nostre radici è stata esportata in tutto il mondo attraverso la musica, e che da qualche anno recita nelle pubblicità di rinomati prodotti commerciali – «Meditate gente!… Meditate…!» – fu tanto appropriato come in questo caso.

©2007 Lucia Lopriore

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Microstorie

Romolo Caggese sui Comuni rurali italiani

La copertina del saggio.

Non si può parlare di Ascoli Satriano, ridente cittadina della Capitanata, senza pensare alla figura dello storico ascolano più conosciuto nell’universo del sapere: Romolo Caggese.

Questi non ha certamente bisogno di presentazioni, tanto vasta è stata la sua produzione bibliografica; tralasciando volutamente la sua biografia già nota al pubblico di lettori, ci sembra sia necessario soffermarsi sul suo impegno costante che lo rese protagonista di tante collaborazioni con le più prestigiose case editrici e riviste scientifiche, tra queste si ricordano in special modo: la «Cambridge Medieval History», l’Enciclopedia Treccani e la «Rivista Italiana di Sociologia».

Allievo durante gli anni del liceo di Francesco Carabellese, noto studioso medievista, egli trasse vantaggio dai suoi insegnamenti per poi far confluire i suoi interessi negli studi storico-giuridici.

L’influenza dei suoi maestri tra i quali figurano Alberto Del Vecchio, docente di Diritto medievale presso la Scuola di Paleografia e Diplomatica di Firenze, Gioacchino Volpe e Gaetano Salvemini oltre a Pasquale Villari, relatore della sua tesi di laurea, influirono notevolmente sulle sue future scelte professionali.

A tale riguardo significativa nel 1905 fu la pubblicazione del saggio riguardante le origini dei Comuni rurali in Italia, sulla «Rivista Italiana di Sociologia».

Tale saggio è stato recentemente ripubblicato in una monografia, dal Centro Culturale Polivalente di Ascoli Satriano,  on lo stesso titolo: Intorno alla Origine dei Comuni Rurali in Italia (pp. 64, ill. b/n, Foggia 2005, s.i.p.), con prefazione del prof. Raffaele Licinio, ordinario di Storia Medievale presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Bari (e supplente in quella di Foggia).

Il lavoro, di sicuro interesse storiografico, scaturisce da un precedente studio svolto in occasione della preparazione della tesi di laurea avente per titolo: Un Comune libero alle porte di Firenze nel secolo XIII. Studi e Ricerche, riguardante il Comune di Prato ed il suo contado e pubblicata nel 1905. In questo saggio l’Autore afferma che parlare delle origini dei Comuni rurali in Italia non è cosa facile se si pensa che sono state sostenute le tesi più disparate: secondo alcuni studiosi i Comuni potevano aver avuto origine in continuazione dei municipi romani, ma Caggese contesta questa tesi adducendo una serie di ragioni plausibili che fanno scartare tale possibilità.

Secondo altri storici i Comuni erano sorti grazie ai diplomi ottoniani che avrebbero favorito le condizioni ambientali tali da renderne possibile la loro nascita; qualcun altro accennava alla presenza e al ruolo decisivo della signoria vescovile, tesi questa ritenuta la più attendibile da Caggese.

Premesso che il periodo che ricopre l’arco temporale che va dal VII al X secolo non dispone di molte fonti documentarie, ciò che è noto agli storici è che il sistema legislativo e giurisdizionale di allora era piuttosto precario. È facile perciò saltare a conclusioni aleatorie e poco dimostrabili, ma è anche vero che l’analisi di Caggese chiarisce molti punti rimasti fino ad allora oscuri; spiegando il funzionamento del sistema legislativo durante la signoria vescovile, l’Autore giunge alla conclusione che essendo il Comune un organismo economico, ma soprattutto un fenomeno sociale tra i più fecondi della storia italiana prima delle origini del capitalismo moderno, a suo avviso è importante stabilire l’analisi degli atteggiamenti dei gruppi sociali delle loro ragioni di vita connesse alle entità dei loro interessi.

Il Comune rappresenta la prima forma di Stato in Italia, ed è importante esaminare i caratteri, la struttura costituzionale, i suoi organi, le sue funzioni; inoltre, essendo anche un fenomeno politico, bisogna ricercare che cosa rappresenti in relazione alla politica imperiale ed ecclesiastica di quella fase del Medioevo. Tenendo conto anche della politica estera oltre all’economia rurale ed urbana, l’Autore sostiene che, fino a quando non saranno esaminate a fondo tali tematiche, la ricerca scientifica sulle origini dei Comuni rurali non troverà mai una risposta esaustiva.

Dalla lettura di questa monografia, ci sembra che Caggese, più che dare delle risposte in merito all’argomento, favorisca spunti per ulteriori domande, riteniamo che con questo intento abbia voluto sensibilizzare gli animi degli storici e stimolarli allo svolgimento di ulteriori e proficue indagini.

©2007 Lucia Lopriore

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Microstorie

La memoria delle parole

Copertina del volume.
Sommario del volume.

«L’Italia è una miniera di dialetti e tradizioni che affondano le loro radici nella cultura prelatina e variano da regione a regione, da città a città, da paese a paese, perché diverse erano le popolazioni che vi abitavano, dai Celti agli Apuli, dai Venetici agli Osci ai Siculi […]».

Così esordisce Francesco Granatiero nella Prefazione del suo volume scritto per conoscere le origini dei vari dialetti pugliesi, con particolare riguardo a quelli della Capitanata e della Terra di Bari dal titolo La memoria delle parole. Apulia. Storia, lingua e poesia, edito per i tipi delle Edizioni Claudio Grenzi di Foggia, racchiuso nella collana editoriale “Il Dialetto a Scuola – 1” (pp. 140, ill., Foggia 2004).

L’intento dell’Autore nel realizzare questo complesso lavoro è stato quello di promuovere lo studio linguistico in vernacolo nelle scuole di ogni ordine e grado nell’era della globalizzazione che porta ad un appiattimento linguistico e culturale con il “presentismo dell’utopia tecno-informatica” che rappresenta una seria minaccia per la memoria delle parole.

Il testo si pone come studio agile e ricco di curiosità culturali che suscitano l’interesse del lettore in quanto offre molti spunti di riflessione in campo linguistico dialettologico, etnografico e letterario.

Lo stimolo giunge direttamente dalla scuola, quale veicolo di formazione della futura “intellighenzia”, che non può essere privata degli utili strumenti che introducano allo studio della lingua dialettale senza pregiudizi, aprendo una seria riflessione su una materia troppo a lungo ritenuta argomento di scherno e di ignoranza.

È senz’altro utile ricordare l’importanza della dialettalità, ossia dell’immissione di termini dal vivaio dialettale, nella lingua della nostra letteratura come si evince dagli scritti del Verga, di Cesare Pavese o di Andrea Camilleri. Le forme di italiano che risentono del dialetto rappresentano una testimonianza viva della lingua, prima che deviazioni dalla norma o veri e propri errori.

Oggigiorno non stupisce la doviziosa presenza di poeti dialettali accanto ai grandi autori della lingua italiana. La poesia dialettale, infatti, non è più ritenuta un’amena curiosità né un semplice documento, sebbene restituisca alle parole tutta la dignità culturale del tempo o non tempo che scandaglia.

È importante che nella didattica dell’educazione linguistica il dialetto non sia utilizzato episodicamente con inevitabili diffidenze o ilarità, e con il rischio che sia considerato solo “oggetto da museo” ma, come dice Carla Marcato, «progettando attività e riflessioni che promuovano la consapevolezza linguistica, la considerazione della diversità, dalle varietà come arricchimento in un contesto di fatti linguistici, sociali, sociali, culturali (letterali, etnografici ecc.)».

Le numerose tabelle di apporti linguistici di cui il volume è corredato (prelatini, greci, latini, albanesi, bizantini, longobardi ecc.), la sezione grammaticale dei vari dialetti con le carte linguistiche, una interessante iconografia, nonché l’antologia dei poeti pugliesi ormai storicizzati tra i quali spiccano: Abbrescia, Lopez, Nitti, Strizzi, Gatti, Borazio, Angiuli e lo stesso Granatiero, commentati e corredati da un’esaustiva biografia associata ad un utile glossario, completano il simpatico ma rigoroso testo che vede associate preziosità, curiosità, storia ed etnografia.

L’AUTORE
Francesco Granatiero è nato a Mattinata (FG). Medico ospedaliero, vive e lavora a Rivoli (TO). Dopo alcune plaquettes di poesia in lingua, ha rivolto l’attenzione al dialetto del suo paese di origine: All’acchjiette (1976), U iréne (1983), La préte de Bbacucche (1986), Énece (1994), L’endice la grava (1997), Scúerzele (2002), Bbommine (2006). È presente nelle più importanti antologie e storie letterarie di poesia dialettale (Dell’Arco, Chiesa-Tesio, Brevini, Spagnoletti-Vivaldi, Serrao, Bonaffini-Serrao-Vitiello, Haller, Malato).  Dall’86 al ’92 si è occupato del coordinamento editoriale della collana “Incontri” diretta da Giovanni Tesio per Boetti & C. Editori, in cui hanno visto la luce volumetti dei maggiori poeti dialettali del secondo Novecento. Ha pubblicato una Grammatica (1987) e un Dizionario (1993) del dialetto di Mattinata e Monte Sant’Angelo e due dizionari di proverbi, uno limitato a Mattinata e l’altro esteso a tutto il promontorio del Gargano. Dopo la memoria delle parole (2004), ha scritto un’antologia di 109 versioni in dialetto apulo garganico di 60 poeti (da Omero a Montale e Seamus Heaney), pubblicata nella stessa collana con il titolo Giargianese – Poesia in altre lingue (2006) e impreziosita da un cd (75 minuti, con musiche originali di Antonino Di Paola) comprendente tra l’altro, nella impeccabile interpretazione e nella calda vocalità di Granatiero, oltre a 56 versioni di testi altrui, 20 tra le più belle poesie tratte dalle sue raccolte.     

FRANCESCO GRANATIEROLa memoria delle parole. Apulia. Storia, lingua e poesia, Edizioni Claudio Grenzi, Foggia 2004, pp. 140, ill.

©2006 Lucia Lopriore