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Salviamo le Torri di Varano – i tesori del Gargano che stanno crollando

Petizione diretta a Giorgia Meloni (Presidente del Consiglio), a Michele Emiliano (Presidente Regione Puglia), Rosa Barone (Assessore Welfare Regione Puglia); Giuseppe Nobiletti (Presidente Amministrazione Provinciale di Foggia); Raffaele Piemontese (Vicepresidente Regione Puglia); Alessandro Nobiletti (Sindaco Comune di Ischitella (FG); Pasquale Pazienza (Presidente Parco del Gargano); Ludovico Vaccaro (Procuratore Capo di Foggia); Arma dei Carabinieri – Nucleo CC Tutela Patrimonio Culturale di Bari; Anita Guarnieri (Soprintendente – Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e paesaggio per Foggia e BAT); Gennaro Sangiuliano (Ministro della Cultura)

La petizione è stata lanciata l’ 11 febbraio 2024 su change.org 

da Alessandro Rota.

Ecco il testo

“La Storia è la memoria di un popolo, e senza una memoria, l’uomo è ridotto al rango di animale inferiore” Malcom X

Esprimiamo la grande preoccupazione per il Patrimonio Storico e Culturale del Comune di Ischitella (FG), rappresentato dalle due Torri medievali di Varano (grande e piccola) che versano in uno stato di totale degrado e abbandono ormai da decenni. I recenti episodi di cedimento della Torre Grande sono l’ennesima manifestazione di tale situazione, e le enormi crepe e buchi presenti nella Torre Piccola presagiscono un imminente crollo.

                                                

Le due Torri di Varano, site nella frazione “Foce Varano”, costituiscono i monumenti più importanti e significativi del territorio del Comune di Ischitella (prov. Foggia). La loro costruzione è risalente al XIII secolo e nei secoli più recenti sono passate in mano ai proprietari dei “feudi” della zona del Lago di Varano. Sono gli esempi più antichi di Torri di epoca medievale presenti sulle coste del Gargano.

                                                  

Esse costituiscono non solo due edifici di rilevanza storica, ma sono un grande patrimonio della memoria, della cultura e delle tradizioni locali.

Arrivando alla storia più recente, fino agli anni 1960/1970 le due Torri vengono utilizzate quotidianamente e mantenute con cura dalla gente del posto, dopodiché lo spopolamento della zona e la conseguente incuria ne determinano il primo abbandono.

                                             

Pur essendo beni di rilevanza storica e culturale, non vi sono stati interventi per la messa in sicurezza fino al 1987, anno in cui la Torre Grande è crollata rovinosamente per metà, fortunatamente senza causare vittime.

                                                 

Dopo la messa in sicurezza della parte rimasta in piedi, da quel momento le due Torri, anziché essere tenute sotto controllo e periodicamente curate, vengono sempre più abbandonate.

Inoltre, negli anni ‘90 l’edificio storico posto di fianco alla Torre Piccola viene demolito per costruire una casa moderna che a tutt’oggi (2024) risulta incompleta e ovviamente disabitata.

A partire dal 2010 le due Torri vengono attenzionate da alcuni abitanti del luogo e da appassionati di storia e cultura locali. I segni del degrado si fanno sempre più evidenti:

– nella Torre Grande la scalinata risulta invasa dalle piante selvatiche e vi sono numerose crepe, oltre a crolli evidenti di porzioni di facciata

– nella Torre Piccola, in corrispondenza di quella che era una finestra, si apre un enorme buco e le evidenti crepe giungono fino alle merlature. Le piante selvatiche invadono il suo interno, già pieno di detriti (pietre e travi).

In entrambe le Torri, la situazione appare gravissima e minaccia crolli importanti che potrebbero creare anche incidenti e vittime in quanto la loro posizione è prospiciente la strada.

La proprietà delle due Torri risulta privata, ma ad oggi i diversi titolari non hanno effettuato la necessaria manutenzione per far sì che tali beni storici vengano preservati, con i risultati di ROVINA che purtroppo ci ritroviamo a constatare. Le Istituzioni locali e nazionali che dovrebbero vigilare su questi beni costituenti il patrimonio storico e culturale italiano, fino a Gennaio 2024 non sono intervenute in maniera efficace.

Negli anni, sono state fatte molte segnalazioni e numerose sono state le iniziative di sensibilizzazione promosse proprio da chi ha a cuore la situazione e che promuove tale iniziativa di sensibilizzazione a interventi che ormai sono divenuti urgenti. Purtroppo, il degrado ha continuato ad avanzare.

                                    

Successivamente al nuovo rovinoso crollo della scalinata della Torre Grande avvenuto il 13 Gennaio 2024 abbiamo mandato una segnalazione direttamente al Segretario Generale del Ministero della Cultura, Dott. Mario Turetta, che ha prontamente risposto inoltrando la segnalazione direttamente alla Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio BAT e Foggia.

Da quel momento, sono intercorsi i primi dialoghi tra la Soprintendenza e il Comune di Ischitella, seguiti da un sopralluogo della Soprintendente BAT e Foggia Anita Guarnieri il 5 Febbraio 2024.

L’obiettivo dei firmatari è rendere noto alla popolazione quanto accaduto fino ad oggi, e di quanto sta accadendo, con la finalità di attivare finalmente le azioni e gli interventi necessari ed estremamente urgenti per salvare le due Torri di Varano.

In conclusione, dopo tali considerazioni e dati di fatto, con tale lettera

                                                                       RICHIEDIAMO

– che il Ministero dei beni culturali attivi direttamente, per i due Beni Culturali in oggetto, le due Torri di Varano, la procedura di Esproprio per pubblica utilità a fini di tutela, fruizione pubblica e ricerca, corrispondendo un’indennità ai proprietari, secondo la normativa vigente:

• D.P.R. 8 giugno 2001, n. 327, “Testo Unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di pubblica utilità”, in particolare D.L.gs 27.12.2002, n. 302, e successive integrazioni e modificazioni;

• D.L.gs 22.01.04, n. 42, “Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio”, artt. 95-100.

CHIEDIAMO INOLTRE

– che venga URGENTEMENTE analizzata la situazione dagli organi competenti, attuando tutte le azioni possibili finalizzate alla tutela di questi due beni del patrimonio storico-culturale del territorio di Ischitella, condividendo con la cittadinanza un progetto di restauro urgente e valorizzazione.

Il fine di tale richiesta è che le due Torri di Varano possano tornare ad essere due significative attrattive storico-culturali e turistiche del territorio del Gargano, che potranno essere valorizzate, una volta restaurate, attraverso la costituzione di una rete di collaborazione tra Istituzioni e Associazioni locali che potranno gestire, anche tramite la richiesta di appositi fondi, la promozione e le visite nei siti.

LE TORRI DI VARANO NON DEVONO MORIRE: non c’è più tempo, salviamole insieme!

Alessandro Rota

presidente Associazione Culturale Officine Ianós ed ex-bambino che tutte le estati giocava alle due Torri di Varano, immaginando che fossero eterne e indistruttibili come i castelli delle fiabe

Teresa Maria Rauzino

presidente Sezione Gargano Nord della Società Storia Patria per la Puglia

Associazione “il Quadrato Magico”

Potete firmare la petizione “Salviamo le Torri di Varano – i tesori del Gargano che stanno crollando”

su change.org al seguente link: 

https://chng.it/hTY7ZBk8DF

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    Arthur Miller a Monte Sant’Angelo… alla ricerca delle sue radici ebraiche

    Per il drammaturgo americano, il viaggio a Monte Sant’Angelo diventa un pretesto per riscoprire la sua identità

    Monte Sant’Angelo in un quadro del pittore Luigi Schingo

    Molte suggestioni vengono ispirate dai viaggi, che per il narratore diventano pretesto di scrittura. Nel 1948, nel Mezzogiorno poverissimo di un’Italia appena uscita dalla seconda guerra mondiale, su una piccola Fiat rumorosa, viaggia un newyorkese di origine ebraica: Arthur Miller (1915-2000), uno degli intellettuali più impegnati del Novecento, che balzerà agli onori della cronaca dopo il matrimonio con  Marilyn Monroe.

    Il giovane scrittore è in compagnia dell’amico italo-americano Vincent Longhi e visita Monte Sant’Angelo, un “nido d’aquila turrito” denso di memorie medievali.  Quell’angolo di Puglia lascia un’impronta indelebile nell’animo di Miller, che l’anno dopo pubblicherà il capolavoro che gli valse il Premio Pulitzer: “Morte di un commesso viaggiatore (1949)”.

    Il racconto “garganico” appare nel 1951 sull’autorevole rivista “Harper’s Magazine”. Tradotto in italiano dalla Rizzoli nel 1970, è stato ripubblicato da Davide Grittani nell’antologia “Verso Sud” (ed. Grenzi).

    Monte Sant’Angelo diventa il luogo dove Miller va alla ricerca del tempo perduto, riscopre la propria identità. L’autore ritrova nella luce tersa del Sacro Monte tutta la sua essenza. L’ambiente e le persone destano in lui strane suggestioni, facendogli riconoscere, in alcuni gesti e situazioni, una componente etnica latente: l’ebraismo.

    Miller, che nella finzione del racconto è l’ebreo Bernstein, resta colpito dall’asprezza del paesaggio e del contesto; vorrebbe ritornare a casa. Ma Vinny Appello (Longhi), l’amico d’origini italiane, che prima a Lucera, poi a Monte Sant’Angelo sta ricercando le proprie radici presso una zia e nel santuario di San Michele, gli comunica il desiderio che guida il suo viaggio: “appartenere a una storia”.

    Quando scendono nella cripta del santuario, il pavimento di pietra è bagnato dallo stillicidio della grotta carsica. Lungo le pareti e ai lati dei tortuosi corridoi che si diramano da una sala centrale a volta, vi sono delle tombe antiche, con iscrizioni illeggibili. Il prete ricorda vagamente una nicchia degli Appello, ma non ha idea della sua ubicazione. Appello passa da una cripta all’altra, facendosi luce con una candela. Si curva, sembra un monaco, o un archeologo, scompare poco a poco nella lunga oscurità dei tempi, in cerca del suo nome su una pietra.

    Bernstein (Miller) ne è fortemente turbato. Ricorda i racconti di suo padre sul paese d’origine in Europa, la tinozza dove tutti attingevano l’acqua, lo scemo del villaggio, il barone del luogo. Nessun motivo di orgoglio in tutto questo, niente. E del resto, ora non è un americano a tutti gli effetti?

    Trovano un ristorante, sul precipizio al margine opposto della città; un grande, unico locale con quindici o venti tavoli; sulla parete di fondo una fila di finestre si affaccia sulla piana sottostante. Fa freddo. Il vento imperversa.

    Una ragazza, la figlia del padrone, arriva dalla cucina, e Appello le chiede cosa c’è da mangiare.

    La porta si apre ed entra un uomo. Guardandolo, Bernstein prova un’immediata impressione di familiarità, di cui non sa trovare la ragione. Si chiama Mauro di Benedetto, porta un cappello nero, insolito da quelle parti, dove tutti portano il berretto: «Vendo stoffe, qui, alla gente, e ai negozi, se così si possono chiamare» dice. Il suo sguardo non ha l’innocenza contadina degli uomini del paese. Dopo aver mangiato, beve un’ultima, lunga sorsata di vino, si alza e comincia a rivestirsi. Prende il suo fagotto posato su un tavolo e comincia a disfarlo.

    Bernstein lo osserva leggermente curvo sopra il fagotto. Vede le sue mani occupate a disfare il nodo. Ora l’uomo sta togliendo la carta che avvolge due pezze di stoffa, ne spiana con cura le grinze. La cameriera porta un’enorme pagnotta rotonda di almeno mezzo metro di diametro. Gliela offre, e lui la mette in cima alla pila di scampoli.

    A quel gesto, un’ombra di sorriso increspa le labbra di Bernstein (Miller). Ora l’uomo riavvolge con attenzione il fagotto, lo chiude con un laccio e lo riannoda. Bernstein ride, sollevato, dicendo ad Appello: « È esattamente il modo in cui faceva un fagotto mio padre… e mio nonno. Tutta la nostra storia è far fagotto e andar via. Solo un israelita sa legare un fagotto così!».

    Perché tanta fretta di arrivare a casa? L’uomo scrolla le spalle: «Non so. Per tutta la vita sono tornato a casa per l’ora di cena, il venerdì sera, e mi piace arrivare prima del tramonto. E mio padre il venerdì sera è sempre tornato a casa prima del tramonto».

    «Porta a casa il pane fresco per il Sabbath, che comincia al tramonto del venerdì – dice Bernstein all’amico – E’ un ebreo, ti dico. Domandaglielo, per piacere».

    Alla domanda di Appello, l’uomo scuote la testa, in segno di diniego. Quindi va via, ma Bernstein è felice lo stesso. Si sente finalmente a proprio agio. Ridiscende nella cripta e mentre l’amico continua a cercare la tomba dei monaci medievali suoi avi, egli non si muove, cercando dentro di sé il perché di quello che è accaduto. Vede quell’uomo cortese scendere giù per la montagna, camminare attraverso la piana, per strade segnate da generazioni di uomini, un viandante senza nome che porta a casa una pagnotta ancora calda il venerdì sera… e che si inginocchia in una chiesa la domenica.

    Un’ironia indescrivibile: sotto l’insensato impulso della storia, un ebreo è segretamente sopravvissuto. Pur spogliato della sua coscienza, osserva il Sabbath in un paese cattolico. La sua stessa inconsapevolezza finisce per essere una muta prova di un passato ancora vivo.

    «Un passato anche per me» pensa Bernstein, attonito nel sentire quanta importanza abbia questa cosa per lui. Per lui che non ha mai avuto una religione, e nemmeno una storia.

    Finalmente Appello ritrova la tomba tanto cercata. Anche lui è felice di aver ritrovato l’identità perduta. Quando risalgono su, il paese è deserto. L’aria odora di carbone di legna e di olio d’oliva. Qualche pallida stella è apparsa nel cielo.

    Bernstein (Miller) pensa a Mauro di Benedetto che sta scendendo per la strada sassosa e serpeggiante, affrettandosi per arrivare a casa, prima del calar del sole…

    @Teresa Maria Rauzino

    sul Corriere del mezzogiorno agosto 2008

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    Rodiani e molfettesi emigrati a Hoboken festeggiano le sante patrone delle città di origine

    Rodiani e molfettesi hanno fatto di Hoboken, la città di Frank Sinatra, affacciata sul fiume di fronte a New York, un pezzo di Puglia.

    Manifesto contributo rodiani residenti in America (fra cui Andrea e Michele Guglielmelli) per la festa della Madonna della Libera.

    Nella popolosa Hoboken, la più metropolitana e cosmopolita città del New Jersey, sita sulla sponda destra del fiume Hudson che la separa dall’isola di Manhattan, il 12 dicembre di 87 anni fa nasceva Frank Sinatra, l’italoamericano dagli occhi azzurri che avrebbe incantato, con la sua voce suadente e vellutata, gli innamorati di tutto il mondo.

    Hoboken celebra ogni anno la sua nascita e gli ha dedicato un parco ed una viuzza, che s’affacciano sull’Hudson; meta di conoscenti e vicini di casa, che in ricordo del loro beniamino vi depongono i mazzi di fiori coltivati nei loro giardini. Ad Hoboken risiedono molte famiglie provenienti da tutte le regioni italiane ed anche i discendenti di molti immigrati pugliesi. 

    Anche Rodi Garganico pagò il suo tributo all’emigrazione verso le Americhe, concentrando le sue speranze di riscatto economico oltreoceano, proprio in questa area suburbana di New York.

    Molti rodiani abbandonarono le attività agrumarie che registravano in quegli anni una preoccupante involuzione dovuta alle frequenti gelate, e lasciarono l’Italia tra la fine dell’Ottocento e il primo decennio del secolo scorso. I primi arrivati si fecero raggiungere dai propri familiari, ma anche dagli amici e dai conoscenti. Hoboken diventò la seconda patria di questa gente di mare che si portava dentro il ricordo della Madonna della Libera, l’eco dei rintocchi serali della campana del santuario mariano.

    Lo ha documentato lo storico Filippo Fiorentino, che nell’articolo I rodiani di Hoboken (pubblicato nel 2001 su «Frontiere», bollettino semestrale del Centro di documentazione sulla Storia e la Letteratura dell’Emigrazione della Capitanata) scriveva: «Da Hoboken nel New Jersey, alcuni anni fa, i coniugi Guglielmelli fecero giungere al Santuario della Libera di Rodi Garganico un labaro finemente ricamato, vessillo della Società Madonna della Libera Ladies Auxiliary, che porta riprodotto nella parte centrale la tradizionale sacra effigie.

    Significativo il gesto di affidare alla chiesa, che è memoria lontana della fede mariana mantenuta viva anche sulle sponde del fiume Hudson, il simbolo della devozione delle donne rodiane emigrate con le loro famiglie negli Stati Uniti d’America. Il 2 luglio di ogni anno, le strade di quella industriosa cittadina nordamericana erano percorse da un’insopprimibile volontà di testimoniare una fede popolare e antica.

    E, quasi a richiamare la tradizione che vuole le donne di Rodi portatrici del Sacro Quadro nel tratto terminale della processione, le “ausiliatrici” di Hoboken portavano con altrettanta emozione quel vessillo di raso, che ricongiunge ora nel Santuario le generazioni di ieri a quelle del presente, gli affetti dolenti d’oltreoceano al bisogno di affidamento cristiano della vita nei luoghi nativi».  

    A sostenere lo spirito di solidarietà tra emigrati, era attiva a Hoboken già nel 1911 la Promontorio Garganico Società di Mutuo Soccorso. Dal libretto-statuto si evince che la Società mirava a promuovere «l’istruzione, la moralità ed il benessere collettivo». Il sodalizio si proponeva tra l’altro di creare una cooperativa di consumo tra i soci. Il mutuo soccorso si ispirava a logiche sociali di tutela della manodopera italiana e, in occasione di malattie o di inabilità al lavoro dei soci, si concretizzava in sussidi pecuniari.

    I «Molfettesi» di Hoboken

    Attualmente lo scopo delle associazioni presenti ad Hoboken come quella dei «Molfettesi» (nel 1929 Gaetano Salvemini parlò di una colonia di 3000 immigrati) è di mantenere i soci legati alle loro radici. Anno dopo anno, il loro impegno per mantenere viva la loro identità è facilitato dai nuovi mezzi di comunicazione sociale.

    Gli italoamericani infatti seguono continuamente i telegiornali e tanti altri programmi della radiotelevisione italiana, che incentivano i rapporti con la cultura legata all’Italia. Particolare l’attenzione verso i giovani. Nati e integrati in una nazione come gli Stati Uniti d’America, è infatti difficile mantenerli uniti e interessarli alle attività dei più anziani. Ma quasi tutti parlano l’italiano, oltre al dialetto d’origine delle loro famiglie.

    La processione della Madonna dei Martiri di Molfetta ad Hoboken.

     

    Nei club dei rodiani, dei molfettesi e delle altre comunità pugliesi tutto parla della Puglia: le stampe che riproducono le vie delle città d’origine delle varie comunità, le chiese, le foto storiche e quelle sugli eventi più significativi. È qui che oggi si svolgono gli incontri associativi, i ricevimenti, i banchetti e i picnic per le famiglie dei soci e dei paesani; ma è anche qui che ogni giorno, chi vuole bere un buon caffé italiano, va a trovarli, respirando aria di casa.

    Occasioni di aggregazione e di gioia comunitaria sono le feste dei santi patroni dei paesi d’origine. Ogni 25 e 26 luglio le varie comunità partecipano sempre più numerose alle feste di Sant’Anna e di San Giacomo e, in ottobre, al Dinnerfest, a cui sono invitati i membri dei club della Comunità montana del Vallo di Diano (SA) residenti nel New Jersey e a New York. Ma la festa più importante è senz’altro l’Hoboken Italian Festival, organizzato dal 9 al 12 Settembre di ogni anno dalla «Society Madonna dei Martiri» dell’omonima comunità originaria di Molfetta.

    DOCUMENTI
    I nomi dei rodiani che si rincorrono a Ellis Island
    .

    Scorrendo le liste degli emigranti sbarcati ad Ellis Island,  postate sul sito www.ellisisland.org, si leggono i nominativi di alcuni membri della famiglia Guglielmelli, partiti da Rodi Garganico per raggiungere Hoboken nel primo Novecento.

    L’11 Settembre 1906 il diciassettenne Michele Guglielmelli si imbarcò da Napoli sul «Manuel Calvo», un bastimento a vapore battente bandiera spagnola e impegnato per anni sulla rotta Barcellona-New York-Caraibi.

    La nave, costruita nel 1892 dalla ditta Armstrong, Mitchell & Company, a Newcastle, con il nome di «Lucania» per il Lloyd germanico aveva una stazza di 5.617 tonnellate; misurava 128 metri di lunghezza per 14 di larghezza e poteva raggiungere una velocità di servizio di 13,5 nodi. La sua capienza massima era di 1.116 passeggeri (84 posti di prima classe, 32 di seconda, 1.000 di terza classe).

    Lista d’imbarco dei Guglielmelli.


    Il 3 Settembre 1909, fu una ragazza, la diciassettenne Rosa Guglielmelli, ad imbarcarsi a Napoli sul «Calabria», un bastimento che sotto bandiera britannica fu impegnato per più di venti anni sulla linea Mediterraneo-New York e Glasgow-New York.

    Un altro membro della famiglia Guglielmelli, il diciassettenne Michele, diretto a Hoboken, risulta iscritto e cancellato nella lista dei passeggeri del bastimento «The Berlin», salpato il 19 Novembre 1913 da Napoli (che sbarcò ad Ellis Island i rodiani Zicolella Giuseppe di anni 17, Sangillo Michele di anni 18, Sangillo Angelina di anni 24 e Miucci Maria Vincenza di anni 24).

    Non risulta il motivo per cui il ragazzo preferì imbarcarsi oltre un mese dopo, esattamente il 26 dicembre 1913, insieme ad altri due rodiani (Di Lella Matteo di anni 17 e Carbone Vittoria di anni 48, diretti a Rochester) sul «Franconia», una nave molto più grande (18.150 tonnellate, 190 metri di lunghezza per 21 di larghezza; velocità di servizio di 17 nodi; 2.850 passeggeri (300 in prima classe, 350 in seconda, 2.200 in terza), di proprietà della compagnia britannica Cunard, una delle principali del mondo.

    ©2005 Teresa Maria Rauzino, articolo pubblicato su «Corriere della sera – Corriere del Mezzogiorno» del 14/04/2005. Le liste di imbarco dei Guglielmelli sono tratte dal sito www.ellisisland.org; la foto della processione dal sito http://www.hobokenitalianfestival.com/. Il manifesto dei contributi degli emigranti americani per la festa della Madonna della Libera di Rodi è tratto dall’album fotografico a cura di don Matteo Troiano, Rodi Garganico. Splendori di un passato, Edizioni Parrocchia San Nicola, Stampa Più Grafica Bologna, 1999.

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    1527. I lanzichenecchi a Roma

    Andrea Moneti, collaboratore del sito www.storiamedievale.net, vince il Premio Michelangelo 2005 con un romanzo edito nella collana “Eretica” di Stampa Alternativa.

    Il primo posto della X edizione del Premio letterario nazionale “Michelangelo” quest’anno è toccato ad  Andrea Moneti, autore del romanzo 1527. I Lanzichenecchi a Roma (Stampa Alternativa, Eretica, 2005, pp. 297). 

    La giuria, memore che il primo romanzo di Moneti, Eretica pravità, uscito per i tipi della Firenze Libri, e vincitore della passata edizione,  è stato premiato con ben 11 premi letterari (fra cui il Mario Soldati e, ultimo in ordine temporale, il Premio Italia Medievale 2005 per l’editoria) augura al «bravissimo scrittore» una splendida carriera e altrettanti meritati successi.

    Dalle motivazioni del Premio “Michelangelo” si rileva come 1527 sia «un romanzo storico, ottimamente scritto, di facile lettura pur nella complessità, narrazione molto aderente alla realtà dei fatti citati, con avvenimenti, località e date in perfetto ordine cronologico. Cattura l’attenzione del lettore, portandolo a rivivere le vicende del passato in un emozionante susseguirsi di immagini».

    Leggendo il libro di Moneti, in effetti, si resta colpiti dalla “levità” con cui l’Autore ha saputo tradurre una vicenda rigorosamente storica, il sacco di Roma, in un testo di ampio respiro narrativo. Ma se è la storia  a connotare la tipologia testuale prevalente,  1527  vede confluire in sé il ritmo del romanzo d’avventura, la suspance del thriller, i temi psicologici del romanzo di formazione. Un mixage di generi narrativi sapientemente dosati dall’Autore, che trascina il lettore in una lettura coinvolgente, nel segno dei migliori romanzi che sanno convincere ed avvincere dalla prima all’ultima pagina.

    L’intreccio della vicenda parte da una missiva del protagonista Heirich, che sarà la chiave di volta dell’intera vicenda. Il tema è di quelli “impegnati”: la violenza della guerra, peggiore delle sciagure. Cieca e disumana si abbatte come un maglio divino sulla città eterna dove la vita è un’imponente lotteria, dove soltanto i più fortunati o i più furbi vengono baciati dalla sorte, dove la lussuria e l’ipocrisia regnano sovrane nella corte papale.

    Il 6 maggio 1527, l’esercito di Carlo V tiene in scacco Roma, mettendola a ferro e fuoco per nove lunghi mesi. Fra i 30mila o forse 35mila soldati, vi sono 12mila mercenari che si battono contro la corruzione della Sacra Romana Chiesa in nome di una nuova fede: il luteranesimo.

    A nulla servono le parole di Clemente VII che sprona i suoi prodi a fermare gli invasori in nome di Dio. Ben presto il pontefice capirà, nel chiuso della prigione di Castel Sant’Angelo,  che Dio non segue alcuna bandiera, nessun esercito. Dio non guarda mai cosa succede sui campi di battaglia. Distoglie lo sguardo e lo volge altrove, lasciando gli uomini a scannarsi tra loro.  

    Roma subisce un’immensa profanazione: i paramenti sacri, gli ori, gli oggetti liturgici vengono rubati o gettati per strada, nel fango e nel letame. Le bolle papali, le lettere e i registri dei conventi e dei monasteri alimentano altissimi, mirati falò. Ovunque, in ogni rione, divampano gli incendi e risuonano le grida delle donne stuprate, il pianto dei bambini strappati alle madri, le urla dei soldati ebbri di furore. Molte fanciulle vengono uccise dai loro stessi parenti per sottrarle all’onta del disonore. Non c’è rispetto per nessuno.

    La mattina del 7 maggio 1527 la città eterna si presenta come una città morta. Non c’è luogo che non sia stato saccheggiato dagli spagnoli e dai lanzichenecchi. I luterani, insieme ai marrani e ai giudei che combattono con i tercieros spagnoli, non hanno risparmiato alcun luogo di culto.

    Oltre all’orrore per la guerra, emblematico degli orrori di tutte le guerre, Andrea Moneti fa vibrare nei suoi personaggi i sentimenti eterni dell’uomo. L’amicizia, la lealtà, l’amore rivivono nei protagonisti, avvicinandoli al lettore, che impara ad amarli e a seguirli fino allo scioglimento della vicenda,  al fatidico “The End”. Un finale che ha un lieto fine, quel lieto fine che spesso è negato nei romanzi contemporanei, e che invece Andrea Moneti riesce a sciogliere nel rispetto dell’evoluzione dei personaggi, e in particolare di Heinrich, protagonista della storia.

    L’io narrante è alterno: passa da quello interno del protagonista a quello del narratore. Un narratore discreto, che muove con abilità la storia, anticipandola o posticipandola con l’uso sapiente della prolessi e del flashback.

    Il punto di vista dell’autore Andrea Moneti, che condanna l’insensatezza di tutte le guerre, viene fuori dalla storia stessa, dai dialoghi e dal flusso libero di coscienza del protagonista Heinrich. Costante tema di fondo è l’inconciliabile contrasto, interno alla stessa Riforma protestante, tra i seguaci dell’ortodossia luterana ed i seguaci di Muntzer, trucidati dalle truppe armate dai principi per stroncare le rivolte contadine scoppiate in tutta la Germania.

    Per stroncare “l’eresia” della comunanza dei beni condannata da Lutero, non ci si ferma neppure davanti al sacro sentimento dell’amicizia. Si tradisce e si uccide, accampando giustificazioni superiori. La ragione della religione, che diventa ragione di stato, prevale sui sentimenti più puri. Heinrich per non tradire un amico d’infanzia che ha preferito Muntzer a Lutero, è costretto, suo malgrado,  a disubbidire ai suoi superiori.  La sua coscienza è lacerata dal dissidio interno della scelta. Considerato un traditore da amici che diventano i suoi occulti nemici, rischia di morire.

    Una brutta fine per le idee innovative della Riforma, che avevano provocato una vera rivoluzione culturale. La predicazione contro le indulgenze,  la sfida aperta al papa in nome della libertà di coscienza, avevano librato sulle ali del vento la fama di Lutero. Il monaco agostiniano non si era fermato qui. Aveva tradotto la Bibbia in tedesco. Aveva insegnato ai fedeli a leggersela da soli, ad essere unici interlocutori di Dio, a sentirsi liberi anche nei confronti dei potenti della terra…

    Il sensibile e problematico Heirich, capitano lanzichenecco sui generis, figlio di un nobile proprietario terriero, si era sentito libero. Aveva messo a frutto l’insegnamento di Lutero. Era andato oltre lo studio della Sacra Bibbia, aveva studiato all’università di Tubinga la lingua ufficiale della “nemica” Santa Romana Chiesa. Una decodifica del latino che aveva affinato il suo gusto, insegnandogli ad apprezzare la poesia di Ovidio e di Orazio.

    Heirich si era convinto, suo malgrado, a ripercorrere le orme del padre, dedicandosi alle sue terre, ma dopo la precoce perdita della giovane sposa (recisa dall’albero della vita da un dio beffardo), per sfuggire all’abisso della solitudine, aveva scelto di dare una svolta alla sua vita. Era diventato capitano di ventura. Una scelta che comincia a pesargli appena è costretto dalla dura legge marziale a stroncare, senza pietà, la prima vita umana.

    La vita avventurosa, i facili guadagni, i saccheggi, gli amori prezzolati cominciano a stargli stretti. La crisi, già latente, matura durante il sacco di Roma. Heirich, entrato in San Pietro, che l’abbaglia per la sua maestosità, quando posa lo sguardo sul pavimento macchiato di sangue, ha un istintivo moto di disgusto.

    Solo dopo una lunga serie di eventi tragici (riecheggia nel romanzo l’inconfessata preghiera Domine, libera nos a peste, fame et bello), il nostro eroe ritroverà finalmente se stesso. La sua lunga crisi interiore avrà un epilogo. A riconciliarlo con la vita, e forse con il suo Dio perduto, sarà Angelica, una  fanciulla che non ha avuto paura di lui, e lo ha accarezzato con un sorriso durante il suo febbricitante delirio. Per Heirich, l’alba e l’imbrunire ridiventeranno una cosa sola.

    Come la vita e la morte, l’odio e la speranza…

    L’AUTORE

    Andrea Moneti, un ingegnere innamorato della storia, nasce nel 1967 ad Arezzo, dove vive. È un ingegnere gestionale, e si occupa di organizzazione aziendale, logistica industriale, marketing di acquisti, approvvigionamenti, qualità, relazioni industriali, etc. etc.

    Che barba, direte! Non vi si può dar torto, ma è pur sempre meglio che lavorare in miniera – confida Andrea Moneti ai visitatori del sito www.storiamedievale.net – cui collabora con la rubrica sulle eresie medievali.

    Moneti risponde alle eventuali, possibili domande su come un ingegnere possa scrivere e parlare di Medioevo: «Forse l’unica spiegazione di questa bizzarra alchimia è che, essendo nato e vissuto da sempre in una città e in una regione dove il Medioevo lo si respira passo dopo passo – sasso dopo sasso – ne è proprio intriso: con una predilezione per i movimenti ereticali dei secoli XIII e XIV, catari e apostolici in testa».

    La sera, quando torna a casa, Andrea Moneti si sveste dai panni dell’ingegnere, tanto attillati per tutta la giornata. Vede in televisione il deserto, il pressappochismo e il politichese inutile, fastidioso, dei governanti nostrani (governo e opposizione, senza distinzioni). E pensa: «I secoli bui mi sembrano molto meno bui», concludendo come Cecco Angiolieri: «S’i’ fosse fuoco, arderei ‘l mondo… ma le zoppe e vecchie lasserei altrui».

      
               

    ©2005 Teresa Maria Rauzino. Articolo pubblicato il 6 settembre 2005 su www.capitanata.it.

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    Processo a Napoleone per l’eccidio di San Severo

    Il 25 febbraio 1799, 240 sanfedisti di San Severo, dopo aver divelto l’albero della libertà, furono massacrati dai francesi del generale Duhesme inviato da Bonaparte.

    Era legittimo mettere a ferro e fuoco la città di San Severo? Chi dispose l’eccidio del 25 febbraio 1799? Due interrogativi su una pagina oscura della storia di San Severo, che sono stati anche i due capi di imputazione a carico di Napoleone Bonaparte nel processo sui “fatti e misfatti” compiuti dalle truppe francesi inviate a San Severo per reprimere i moti filoborbonici che si è celebrato il 9 marzo 2006 presso l’Istituto tecnico “Minuziano” di San Severo.

    L’evento è stato organizzato dal «Centro di Ricerca e di documentazione per la Storia della Capitanata», con la collaborazione dell’associazione «Beatrice di Tenda» di Binasco (Mi) e vari patrocini istituzionali.

    La rievocazione storica, introdotta dal professor Giuseppe Clemente e da Luigi Minischetti (con letture di pagine di Fraccacreta, La Cecilia, Duhesme, D’Ambrosio e Irmici) è avvenuta grazie alla disponibilità di giudici e avvocati “veri”, in servizio in vari tribunali italiani (presidente del tribunale: Teodoro Rizzi; componenti del Collegio giudicante: Lucia Navazio e Ludovico Vaccaro; difesa: Guido De Rossi. La Parte Civile si è costituita nella persona del dr. Francesco Gatti, in rappresentanza delle persone danneggiate).

    L’interesse del pubblico, che è accorso in massa  per seguire l’evento, è stato enorme, grazie alla presenza di due magistrati di fama nazionale: il personaggio di Napoleone è stato infatti “interpretato” da Giuliano Turone; il pubblico ministero da Gherardo Colombo. Un PM  perfettamente nella parte che ha interrogato prima il teste, lo storico Matteo Fraccacreta, interpretato da Pasquale Corsi, e poi l’imputato, difeso dall’avv. De Rossi.

    Interessante l’intervento finale del prof. Clemente, che si è fatto portavoce del “pentimento” del generale Duhesme. Perché sono stati scomodati tanti giudici per un “processo” al grande condottiero corso? Per ricordare la cronaca di un eccidio ormai dimenticato.

    Un processo che non ha voluto mettere sotto accusa un periodo storico, ha precisato Colombo, ma un episodio specifico, che lascia questo interrogativo: gli ideali di libertà, uguaglianza e fraternità possono trasformarsi in pretesti per vere e proprie stragi? 

    La Corte ha emesso una sentenza con la quale ha dichiarato «Bonaparte Napoleone responsabile dei reati commessi in San Severo in data 25/02/1799 in concorso con il generale Duhesme e le truppe da questi comandate». 

    I giudici hanno ritenuto «di non poter irrogare una pena nei confronti dell’imputato ormai defunto», ma hanno auspicato, a titolo di risarcimento delle sofferenze patite dalla comunità di San Severo, che «resti imperituro il ricordo del sacrificio di tante vite umane e dei tanti abusi perpetrati» chiedendo, di conseguenza, che l’Amministrazione Comunale si faccia portatrice di opportune iniziative in tal senso. 

    Molto soddisfatto della riuscita dell’iniziativa il presidente del Centro di Ricerca, il prof. Giuseppe Clemente, che ha dichiarato: «Ci eravamo prefissati di riproporre la storia in modo originale ed accattivante, di rileggere i fatti di allora e di dare orizzonti più ampi ad un momento tra i più cruenti della nostra vicenda cittadina. Pensiamo di aver centrato pienamente gli obiettivi che ci eravamo dati, anche perché puntavamo a favorire la riflessione e l’approfondimento restando scevri da qualsivoglia forma di revisionismo».

    Nel corso della manifestazione lo stesso Clemente, nei panni del generale Duhesme, ha proposto che il Governo francese, interessato dalla Città di San Severo attraverso i canali diplomatici, voglia erigere nel centro cittadino un cippo commemorativo contro ogni tipo di violenza e a severo monito per tutti i popoli per continuare a vivere in pace e nel rispetto reciproco delle identità e delle differenze.

    Alcuni momenti del Processo a Napoleone svoltosi a San Severo con Collegio giudicante, Gherardo Colombo, Giuliano Turone, Giuseppe Clemente.

    FEBBRAIO 1799. CRONACA DI UNA STRAGE

    Le vicende di San Severo del febbraio 1799 costituiscono una delle pagine più tragiche della storia della città. Intorno a questi fatti molto è stato scritto, a cominciare dal resoconto dell’erudito Matteo Fraccacreta, che ne fu testimone e principale cronista. Il professor Giuseppe Clemente ha portato recentemente questo evento all’attenzione dell’opinione pubblica  nazionale, ripubblicando il saggio Febbraio 1799. Giacobini, sanfedisti e francesi a San Severo. Cronaca di una strage (Esseditrice, San Severo 2005). Il volume, basato sullo spoglio di fonti archivistiche come i registri dei morti delle parrocchie cittadine e gli atti notarili, si apre con una dettagliata descrizione degli eventi di quel periodo. La vicenda sanseverese viene snodata in tutte le sue connessioni e interferenze, senza trascurare le premesse più o meno lontane: dalla mancata modernizzazione del Regno di Napoli agli arruolamenti borbonici per la guerra contro i Francesi.

    Napoleone, impegnato fin dal 1796 nella prima campagna d’Italia, vince ovunque: esige versamenti in denaro e opere d’arte. Nel mese di gennaio 1799 è alle porte di Napoli, dove nasce la Repubblica Partenopea. Le notizie sulla Rivoluzione Francese avevano provocato in Italia contrastanti reazioni: da un lato la borghesia si attendeva il rinnovamento sociale a lungo auspicato, dall’altro l’esasperato anticlericalismo e il Terrore innescarono spiccati sentimenti antifrancesi.

    Anche in Puglia  si erano creati gruppi di patrioti filo-giacobini, contrastati dai lealisti borbonici.

    Possiamo inquadrare i fatti di San Severo intorno a tre date emblematiche:

    –  8 febbraio: i giacobini innalzarono in piazza della Trinità l’albero della libertà, emblema del nuovo governo repubblicano;

    – 10 febbraio: l’albero venne abbattuto dal popolo, che si scatenò in una sanguinosa repressione di coloro che erano sospettati o esplicitamente accusati di simpatie giacobine.

    – 25 febbraio: il cerchio si chiuse con l’arrivo delle truppe francesi agli ordini del generale Duhesme. La resistenza degli insorti venne piegata dopo violenti scontri nelle campagne, cui seguirono violenze e saccheggi in città, e condanne a morte per chi si era maggiormente compromesso, che inasprirono gli animi e generarono sentimenti di odio e propositi di vendetta nei superstiti e nei parenti delle vittime.

    Eppure il generale Championnet, inviato da Napoleone nel regno di Napoli, nelle “Istruzioni ai patrioti” aveva caldamente raccomandato «di rendere la rivoluzione amabile, per farla amare e renderla utile al popolo», sopprimendo titoli nobiliari, fedecommessi, e maggioraschi, primo passo verso l’abolizione della feudalità. Ordinando di piantare in ogni comune l’albero della libertà, e di munirsi di coccarde di tre colori della bandiera cisalpina (giallo-rosso-turchino), aveva raccomandato che i membri delle nuove municipalità fossero scelti tra «cittadini onesti e virtuosi».

    Come sempre accade nei cruciali momenti di “svolta” politica, anche a San Severo ci furono repentini cambiamenti di fronte: i fedeli sudditi borbonici si trasformarono in ferventi giacobini, pronti a ritornare sotto le bianche bandiere gigliate appena la situazione lo avesse richiesto. Trionfò il cameolontismo. Ecco perché la massa popolare lottò contro il nuovo governo filofrancese, con l’aggravante di essere strumentalizzata dai maggiorenti rimasti fuori dai giochi di potere.

    Questi diffusero tra il popolo già in fermento la voce che la successiva domenica, durante il terzo giorno dei festeggiamenti repubblicani, sotto l’albero della libertà ci sarebbero state «danze sfrenate, abbracciamenti e nozze» e che «a’ repubblicani connubi auspice sarebbe stata la statua della Santa Vergine».

    Domenica 10 febbraio 1799, perciò, quando i repubblicani prelevarono il simulacro della Madonna del Soccorso, patrona di San Severo, per portarla accanto al «gran cipresso coronato di alloro, con sulla cima il pileo rosso», la popolana Antonia de Nisi, detta la «scazzosa»,  insieme ad altri sanfedisti, gridò: «Perché, perché la Vergine co’ giacobini sotto l’albero? All’armi, all’armi!». Si scatenò una sanguinosa rivolta contro i giacobini. Questi furono decapitati con le stesse accette con cui fu tagliato l’albero della libertà, e le loro teste seppellite nel fosso del divelto albero, dopo essere state coperte di sputi.  

    Il vescovo Giovanni Gaetano del Muscio, che aveva ordinato ai parroci di predicare la pace nelle piazze, promettendo indulgenze ai penitenti, corse il rischio di essere linciato dalla folla insieme al frate francescano Michelangelo Manicone (illuminista di Vico del Gargano, autore de La Fisica Appula), che in quei giorni stava visitando San Severo ed aveva partecipato alla piantumazione dell’albero della libertà.

    La rivolta antifrancese si diffuse in molti paesi della Capitanata, da dove partirono gruppi di filoborbonici per dar man forte ai sanseveresi. Su San Severo, che non volle patteggiare la resa, si abbattè il 25 febbraio 1799 la tremenda vendetta dei francesi. La città fu messa a sacco. Ci fu una vera e propria strage d’inermi, di donne, di fanciulli.

    Il generale Duhesme il 7 marzo scrisse il seguente rapporto al suo superiore Mac Donald: «Dopo le manovre valorosamente eseguite dalle nostre truppe è stata chiusa la ritirata ai ribelli. Il resto della giornata non è stata che un massacro. (…) Avevo giurato di far incendiare San Severo, ma fui commosso dalla sorte lacrimevole di una popolazione di ventimila anime. Feci cessare il sacco e perdonai».

    Il Colletta parlò di tremila morti. La verifica effettuata dal professor Clemente sui registri delle varie parrocchie della città ha ridimensionato questo numero. In realtà, i morti registrati furono 240 fra i residenti a San Severo, 100 dei paesi vicini e 100 soldati francesi. In totale si contarono quindi 450 vittime. La maggior parte aveva meno di quarant’anni.

    Furono complessivamente 11 le donne vittime della strage, alcune mentre aiutavano i loro uomini impegnati negli scontri, altre massacrate in fuga o mentre cercavano scampo nelle chiese. Angela Giuliani fu uccisa insieme alla figlioletta Antonia Moscatelli, di appena un anno, mentre la stava allattando. Il 17 marzo venne fucilata Antonia de Nisi. Prima della pubblica esecuzione fu trascinata, con un laccio al collo legato alla coda di un cavallo, per le strade di San Severo. 

    L’arciprete Masciocchi, nell’annotare il nome della De Nisi sul registro dei morti della Cattedrale, scrisse: «Sacra poenitentia munita, a Gallis, praecedente  decreto condemnationis, pluribus ictibus ignearum balistarum vulnerata, mortem obiit, prope ianuam majorem Monasterium Patrum Coelestinorum, praecedente, dico, decreto condemnationis, ob crimen sibi imputatum et probatum, commovisse populum ad tumultum ob arborem libertatis in publica platea infixam» («Munita di conforti religiosi, per un precedente decreto di condanna, ferita dai Francesi con numerosi colpi di fucile, trovò la morte vicino alla porta d’ingresso del monastero dei Padri Celestini, per un precedente, ripeto, decreto di condanna, a causa di un crimine a lei imputato e provato: aver spinto al tumulto il popolo, dopo aver divelto l’albero della libertà piantato in pubblica piazza»).

    Ferdinando IV inviò il cardinale Ruffo alla riconquista del suo ex regno. La vittoriosa spedizione dei sanfedisti trovò il sostegno popolare e l’appoggio della flotta inglese di Nelson. Seguì dal giugno 1799 una spietata ritorsione del re contro chi aveva sostenuto la repubblica partenopea. A San Severo vi fu chi, pur avendo sostenuto i giacobini, per evitare ritorsioni, fece attestare da numerosi testimoni di aver tenuto un comportamento “lealista”. Quasi tutti i notai furono impegnati nella redazione di questi documenti “giurati”. Le mogli delle vittime della strage del 1799 chiesero e ottennero un risarcimento per sé e dei maritaggi per le piccole orfane.

    E ogni 25 febbraio fino al 1860, le campane della Croce Santa ricordarono ai sanseveresi, con i loro lenti rintocchi, quel giorno di ordinaria follia.

    PER NAPOLEONE UN PRECEDENTE: IL PROCESSO A BINASCO  
    Il processo a Napoleone svoltosi a San Severo nasce su ispirazione dell’associazione “Beatrice di Tenda”, che nel 2002 ha istruito un processo vero e proprio contro Napoleone e contro i responsabili dell’eccidio di Binasco, importante e ricco centro agricolo fra Milano e Pavia che nel 1796 venne messa a ferro e fuoco dalle truppe di Napoleone, in seguito ad un colpo di fucile partito contro un soldato francese: oltre cento civili furono uccisi, il paese fu distrutto. Questa terribile storia – all’epoca exemplum e monito verso chi poteva resistere alla determinazione napoleonica – era stata letteralmente rimossa dalla memoria locale. Una sola famiglia ricordava vagamente la perdita di un parente in quella data: l’intero episodio, una vera scena madre di distruzione, era stato dimenticato, come un vero shock collettivo, almeno sino al lavoro storiografico, datato circa una decina di anni fa. Anche il processo di Binasco è stato celebrato da protagonisti di primo piano (Virginio Rognoni in veste di presidente, Gherardo Colombo pubblico ministero, Salvatore Marceca nelle vesti di difensore) che hanno offerto numerose occasioni di riflessione: i conti col passato si fanno anche così, e straordinariamente attuali appaiono i termini con cui è stata posta la questione dei portatori di libertà, dei diritti dei civili, del diritto di guerra.     

    ©2006 Teresa Maria Rauzino.

    Foto del processo a Napoleone: @ Teresa Maria Rauzino


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    Microstorie

    L’agonia feudale e la scalata dei galantuomini

    Una ricerca storiografica di Leonarda Crisetti Grimaldi

    Dopo la lettura del libro di Leonarda Crisetti Grimaldi L’agonia feudale e la scalata dei galantuomini, cosa va posto all’attenzione del lettore? Quali i punti di forza della ricerca? Il compito è piuttosto arduo, vista la complessità della tematica. L’impianto temporale è di lunga durata: partendo dal 1750, la Crisetti si sofferma sull’Ottocento e giunge fino al 1914,  con qualche rapida incursione nei secoli passati e in quello attuale per ricostruire gli antefatti e le conseguenze della questione demaniale a Cagnano Varano.

    Uno spaccato storiografico che ci disvela status e modi di vivere delle vecchie classi egemoni, oltre ai meccanismi che connotano la scalata sociale di quelle classi che erano state, fino a quel momento, subalterne. Colpisce l’estrema varietà e ricchezza delle fonti utilizzate per ricostruire il contesto socio-economico: oltre alle Delibere comunali, la Crisetti analizza le Rivele, il Catasto Onciario, il Catasto Murattiano. Anche se redatti a distanza di sei decenni, i due catasti riflettono logiche, strutture e metodi differenti. Le consentono comunque di delineare un profilo attendibile della realtà tendenzialmente dinamica del regime possessorio della terra, oltre agli aspetti socio-economico-demografico-culturali della popolazione.

    L’Autrice non disdegna, per l’analisi delle vicende del Novecento, l’utilizzo delle fonti orali, raccordando la microstoria di Cagnano Varano con gli eventi coevi, con l’intento di dare risposta ad una domanda-chiave: «Chi furono  i  protagonisti della scalata sociale nel primo decennio dell’Ottocento?». Ecco perché scandisce tutti i passaggi che permisero a poche famiglie di appropriarsi illegittimamente dei terreni sottratti ai feudatari o al Comune, “affrancando” gli usi civici per regolarizzare le occupazioni e diventare proprietari. I cosiddetti “emergenti”, nel corso di oltre un secolo si servirono, a questo scopo, della politica e della “nuova” gestione della cosa pubblica.

    Nel 1750, al tempo dell’Onciario, la popolazione di Cagnano, di circa 1850 persone, è concentrata nei quartieri denominati “Entro la Terra”, “Casale” e “Nuovo Casale”. Le famiglie “gentilizie”, quelle che abiteranno nell’Ottocento i palazzi con portali e stemmi ben visibili, sono poco in vista. Non godono di redditi significativi: sono semplici “bracciali” e massari.

    La terra è nelle mani di tre grandi proprietari, esponenti della nobiltà e del clero: il principe-duca Brancaccio, titolare della Terra di Cagnano; il duca Zagaroli, proprietario della Difesa della Regia razza delle Giumente; i Canonici Regolari Lateranensi di Santa Maria di Tremiti, che posseggono San Nicola Imbuti, sul lago di Varano.

    Nel 1741, nella piccola cittadina garganica, c’è quindi un unico possessore di “sangue blu”: Luigi Paolo Brancaccio. Nelle rivele dell’Onciario è denominato “l’Illustre Possessore”. Il duca, di antica nobiltà napoletana, ha 46 anni. Ha rimpinguato il suo blasone sposando la duchessa di Carpino Felicia Vargas, sua coetanea, che gli ha dato sei figli: un maschio e cinque femmine.

    Nel Palazzo baronale di Cagnano, la famiglia dimora con la sua piccola corte, proveniente da località dove i principi Brancaccio gestiscono altri feudi: il segretario è palermitano, i camerieri sono napoletani, il “repostiero” è calabrese; non è specificata la provenienza della nutrice, del maestro di casa, dei due servitori, del cuoco e del sottocuoco, del calessiere e del “volante”, che  probabilmente sono stati assunti sul posto. Il duca Brancaccio esercita di diritto di pesca nei “tre puzzacchi” sul lago; possiede il grande bosco demaniale in località Bagno, una vigna con torre, pozzo d’acqua sorgiva e uliveti a San Rocco; mezzane d’uliveti, olivastri, orni, un orto di fichi, seminativi, diverse “piscine”, la Taverna, tre “trappeti per macinar olive”; animali vari.

    Luigi Paolo Brancaccio ha ceduto all’Università e affittato la portolania e la mastrodattia;  è altresì comproprietario di un “bosco sassoso e macchioso” di querce, cerri e faggi: il Compromesso; possiede la “defensa”  di Santa Marena, dove le università di Cagnano e di Carpino fanno pascolare le loro mandrie di buoi per tutto l’anno, riservando l’erbaggio anche alla Regia Dogana di Foggia per tre mesi all’anno. I pascoli sono sufficienti ad alimentare, oltre alle greggi e alle mandrie locali, circa ventimila pecore che giungono dall’Abruzzo.

    All’epoca dell’Onciario, poche unità, rappresentate da nobiltà e clero, producono il 56% del reddito del paese, mentre i produttori, ossia il 92% della popolazione, il restante 44%. Questi ultimi sono vessati da tasse e prestazioni da corrispondere all’Università, ai nobili e al clero.

    Durante il Decennio francese, i feudatari sono privati della giurisdizione e di alcune prerogative fiscali, ma non di tutti i beni: una parte viene loro assegnata come proprietà privata, un’altra parte è data al Comune, con l’obbligo di ripartirla tra i cittadini che hanno perso gli usi civici. 

    Nel 1806 cessa il sistema della Regia Dogana e nel 1807  gli ordini religiosi sono sciolti. I loro beni, incamerati nel Demanio dello Stato, vengono venduti ai privati. Una Commissione feudale, che opera fino al 1810, ha l’incarico di dirimere le questioni nate prima del 2 agosto 1806 tra Baroni e Università, mentre la quotizzazione è affidata ai commissari ripartitori, che nel 1811 definiscono i confini delle acque del Varano.

    Il Catasto Murattiano del 1813 dà un nuovo profilo delle classi sociali emergenti che producono il 77% dell’imponibile: l’ipotesi del miglioramento delle condizioni di vita dei cittadini di Cagnano è validata dall’aumento dei benestanti i cui nuclei familiari, elencati nel Catasto Onciario del 1750, versavano in condizioni modeste. Sono in mobilità ex massari, allevatori, coltivatori e commercianti. Produttori sono anche medici, avvocati, notai, speziali, funzionari, parenti del clero.

    La proprietà si consolida tramite accorte politiche matrimoniali. Il nuovo ceto, sostituendosi alla vecchia classe dirigente, ne  assume comportamenti e titoli onorifici, non si pone come forza antagonista; decide di mandare i figli a studiare a Napoli, per elevare il loro livello culturale e preparare la loro scalata sociale.

    Cambia la dimensione abitativa di Cagnano. La popolazione arriva a 3820 persone; il totale dei vani è di 1538, di cui 619 siti nella Terravecchia e 919 fuori le mura. Il Comune beneficia delle leggi eversive della feudalità, ampliando il suo patrimonio, entrando in possesso di Parchi e Mezzane, di una parte del Compromesso, delle Terre liquide, della Riseca e del Parco delle Giumente. Ma in queste terre si verificano ben presto occupazioni, dissodamenti e messa a coltura abusivi.

    I demani usurpati, la ricchezza mal distribuita, l’attentato agli usi civici, la fame di terra dei coloni, la precarietà dell’esistenza minacciata dalla malaria e dal colera, sono alla base delle agitazioni di massa dell’ultimo ventennio dell’Ottocento, che mettono in crisi varie amministrazioni comunali, costrette a dimettersi per la loro incapacità a fronteggiare gli eventi.

    È attiva sul Gargano una sezione dell’Internazionale socialista. Qualcosa si muove anche a Cagnano, che nel 1879 conta 18 affiliati al movimento anarchico, il cui leader è Carmelo Palladino, che proprio in quell’anno è arrestato con l’accusa di “cospirazione diretta a distruggere i poteri dello Stato”. La  reclusione dura pochi mesi.  Le autorità di polizia vigilano costantemente su di lui. L’8 maggio 1881 arriva un pacco, intestato a Palladino, contenente un giornale scritto in francese e manifesti incitanti alla rivolta.  

    Palladino, che era stato segretario pro-tempore dell’associazione napoletana internazionale dei lavoratori, continua a collaborare con la stampa anarchica e, alla vigilia del Congresso dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori, che avrà luogo in Svizzera nel 1887, elabora le sue risposte ai 17 quesiti congressuali. Progetta di scrivere un libro. E’ amico di Bakunin, Engels e Marx, con cui corrisponde. La sua fine è tragica: viene assassinato lungo corso Roma davanti alla sua casa, colpito alle spalle. E’ il 19 gennaio del 1896.

    «Il motore della storia – osserva la Crisetti con una punta di amarezza – non è stato la cultura, non è stato la giustizia sociale, non è stato il progresso scientifico. Il cammino verso il riconoscimento dell’uguaglianza dei diritti, della dignità umana in particolare, la riscoperta del valore della cultura e della partecipazione, nel Mezzogiorno era ed è ancora lungo».

    I beneficiari del decennio francese furono pochi. Non ci fu la mobilità sociale auspicata dai legislatori. Il connubio terra-istruzione-potere politico costituì il trampolino di lancio che permise soltanto a poche famiglie di passare dallo status di massaro, “bracciale”, pastore o piccolo proprietario a quello di notaio, avvocato, farmacista, agrimensore, medico, giudice.

    Fu così che a Cagnano nacque e si affermò, nell’arco temporale di un paio di generazioni, la moderna borghesia fondiaria. I nuovi padroni entrarono in possesso delle tenute migliori del demanio comunale e le difesero con tutti i mezzi, avvantaggiati dal fatto di occupare i posti chiave del potere. Quasi tutti i possidenti si alternarono nelle varie amministrazioni comunali, mentre ai contadini preferirono cercare altrove una vita migliore, prendendo la via dell’emigrazione.

    Ma il  paesaggio agrario, descritto dalla Crisetti nel suo libro, è tuttora vivo. Le Difensole, la Riseca, i Parchi, le Mezzane, puntellati da torri, casini, casoni e  mànere, citati dalle fonti come strutture e infrastrutture costruite dai coloni nei i luoghi più impervi del paese prima posseduti dal principe e poco valorizzati, non sono un retaggio storico scomparso nel nulla: esistono ancora in agro di Cagnano.

    L’Autrice, dopo averne trattato le complesse vicende, ce ne offre un suggestivo percorso per immagini. Un percorso inedito, anche per chi vive soltanto a pochi chilometri di distanza. Scopriamo oltre a luoghi intatti, dei bei manufatti ridotti a ruderi dopo l’abbandono da parte di chi li ha abitati.

    Molti agricoltori, pastori, ex emigranti, continuano ancora a praticare l’attività agro-pastorale.

    Nella ricognizione dei luoghi, la Crisetti si è fatta guidare proprio da questi coloni ed allevatori che hanno raccontato il loro disagio di vivere in località così impervie, difficili da raggiungere. Allevatori e agricoltori costretti a svolgere le loro attività agro-silvopastorali come duecento anni fa, nella speranza, finora delusa, che gli Enti preposti forniscano loro almeno i servizi di acqua e luce.

    Una ricognizione cui è sottesa la finalità di fermare l’esodo in atto: con la dipartita degli ultimi anziani che ancora coltivano questi terreni o praticano l’allevamento brado, questa fetta del territorio sarà condannata all’abbandono.  

    Se l’economia della zona resterà  al palo – ci avverte l’Autrice, facendo parlare i diretti protagonisti – questi luoghi del Gargano si spopoleranno sempre più: urgono misure per incentivare i giovani a restare, a non abbandonare questi ultimi presidi che conservano ancora intatti i saperi, i sapori, gli odori, connotanti l’identità di questo sperduto pezzo del Sud Italia. Su questo accorato grido d’allarme non possiamo che concordare. L’esodo è un’amara realtà.

    @Teresa Maria Rauzino

    LEONARDA CRISETTI GRIMALDI, L’agonia feudale e la scalata dei galantuomini. Cagnano Varano: l’Onciario, il Murattiano, le Questioni demaniali (1741-1915), 2 tomi, Edizioni del Rosone, Foggia 2007.

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    Un artista a tutto campo: Corrado Terracciano

    La copertina del volume.

    Bello ed interessante il pregevole volume curato da Gaetano Cristino, noto critico d’arte, dal titolo Corrado Terracciano: la scultura come sfida e come destino (pp. 143, ill. b/n e colori, Foggia 2008), edito da Claudio Grenzi Editore.

    Il libro si avvale dei contributi di personaggi appartenenti al mondo dell’arte e della cultura, viventi e non, come Marziano Bernardi, Mario Corfiati, Dario Damato, Giulia de Leo Catalano, Franco Fano, Pasquale Guaragnella, Luciano Luisi, Leon Marino, Émile Marzé, Lia Masi, oltre al curatore dell’opera, tutti in qualche modo legati alla vita del Maestro sia nel capo artistico che nel vissuto quotidiano.

    Ognuno di loro racconta in modo personale la propria esperienza con il Maestro facendo emergere le varie sfaccettature dell’artista e dell’uomo, come si evince dalle sue opere.

    «Caro Corraado, questa monografia sarebbe monca senza la tua voce […]», così introduce il suo saggio intitolato Intervista il critico d’arte Mario Corfiati, in cui sono contenuti interessanti quesiti rivolti al Maestro, del quale è amico, raccontando la sua spiritualità proiettata nell’arte.

    Circa il tratto umano del Maestro Terracciano, possiamo di certo affermare che il volume pone in luce, proprio grazie ai contributi degli amici chiamati in causa, varie situazioni in cui il Maestro si distingue per la sua simpatia e la sua gioia di vivere.

    Tra i tanti ci piace riportare quanto affermato dal prof. Pasquale Guaragnella, docente universitario ed amico del Maestro, il quale racconta che spesso, durante le sue frequentazioni, il Maestro lo coinvolgeva narrando gli episodi di cui era stato protagonista che a volte avevano dell’incredibile. Così una volta gli raccontò un episodio di cui era stato “attore”, davvero singolare al punto da suscitare l’incredulità di chi lo ascoltava. Una scena che avrebbe potuto ispirare uno dei registi degli anni della Dolce vita o del più recente periodo in cui fu girato il film Amici miei.

    Un giorno in autostrada Corrado Terracciano stava guidando la sua auto; ad un certo punto sulla strada incontrò un camionista che non gli aveva voluto dare spazio. Appena superato il camion, il Maestro lo salutò con l’inequivocabile gesto usato dagli automobilisti inalberati: un bel paio di corna.

    Poi, proseguendo il suo viaggio e dimenticandosi dell’accaduto, fece sosta poco dopo presso un autogrill e lì dopo aver parcheggiato la sua auto si diresse al bar per sorbire un caffè. Subito però, proprio in quello stesso autogrill, parcheggiò il suo mezzo anche il camionista insultato che, riconosciuta l’automobile, entrò nel bar e con sguardo minaccioso, a voce alta, chiese a chi appartenesse l’auto in sosta specificandone il tipo e la targa.

    Ovviamente nessuno, e men che meno il Maestro, si fece avanti vantandone il possesso. Il camionista allora si recò vicino all’autovettura aspettando minaccioso l’arrivo dell’automobilista. Il Maestro, notata la cosa, gli si avvicinò e, spacciandosi per un ufficiale dei carabinieri, lo convinse ad entrare nel bar perché avrebbe atteso lui il proprietario dell’auto in modo tale da elevargli una bella multa.

    Il camionista, convinto, si allontanò seguendo il consiglio del sedicente carabiniere. A questo punto il nostro protagonista salì sulla sua autovettura e, anziché andarsene silenziosamente, come avrebbe fatto chiunque al suo posto, avviò l’automezzo e lo posizionò proprio davanti all’ingresso del bar; subito dopo, con un colpo insistente di clacson, richiamò l’attenzione del camionista che stava sorbendo la sua consumazione, attese che uscisse dal bar e, con naturalezza, gli ripetè il saluto con le corna sgommando immediatamente tra le proteste dello sventurato autista.

    Questo racconto evidenzia lo spirito goliardico del Maestro che, come tutti gli artisti, affronta la vita con eccentrica ironia.

    Circa la vita professionale, Gaetano Cristino nel saggio La scultura come sfida e come destino, che dà anche il titolo al volume, evidenzia nell’ampia carrellata di opere, commentate con la chiarezza di chi è abituato a comunicare con un linguaggio ecumenico e coinvolgente tale da incuriosire anche il più profano dei lettori, l’arte di Corrado Terracciano che si fonde con la sua personalità e la spiritualità.

    Emergenti in sculture come: Deposizione. Non fu solo Giuda a tradirloCallipigia. Fanciulla prostrata in preghieraL’eterno soffio di Dio. La vita oltre la vitaUn dono di Dio. Estasi, solo per citarne alcune.

    Nell’opera Pilato non è morto, inoltre, traluce la plasticità della sofferenza umana che suscita a primo acchito disgusto e pietà: il bambino del Biafra, magro, monco, sofferente, con lo sguardo implorante ma dignitoso sembra domandarsi il perché di tanta sofferenza. Ma c’è un discorso molto più profondo che l’artista evidenzia in quell’opera, un discorso che va oltre le semplici esigenze di vita, un discorso che induce il pubblico a domandarsi il perché della sofferenza umana.

    Così come ne L’eterno soffio di Dio. La vita oltre la vita, l’artista immortala l’effige della bella moglie Laura, sua compagna e sostenitrice, che spirata torna serena alla casa del Padre mentre, tramite il lungo collo, sottilissimo, si libra in volo con la certezza della resurrezione. Il volto esprime la serenità di chi ha avuto una vita felice e tranquilla.

    Nell’opera Callipigia. Fanciulla prostrata in preghiara, l’artista pone in essere il ciclo della vita che se è in continua evoluzione da un lato – secondo Gaetano Cristino – con l’evocazione di Venere rappresentata con il corpo sinuoso in cui sono messi in evidenza i glutei, dall’altro lato la ragazza della scultura è prostrata in disperata preghiera, mentre l’assenza della testa può significare che la mente ed il corpo sono un unico insieme.

    Tuttavia non è solo la spiritualità il tema affrontato dal maestro. Anche il mondo sociale ed istituzionale viene “preso in esame”.

    A nostro avviso, più di tutte, l’opera maggiormente significativa in tal senso è senz’altro Uomini di potere. Molti ma non tutti. In questa scultura, infatti, che rappresenta una sequenza armoniosa di falli in erezione con relativi attributi, – secondo Cristino – il Maestro pone in evidenza il suo concetto del “potere”, specificando che molti uomini di potere sono pieni di presunzione e di superbia, ne sono talmente pieni da essere paragonati ai falli in erezione altrettanto pieni di niente se non di arroganza, tracotanza e quanto altro.

    Ci sentiamo di condividere in pieno questa interpretazione, ma in più, possiamo aggiungere che questa opera sarà sempre attuale, in quanto il potere, come si sa, è sorretto da uomini quasi mai umili. Da uomini piccoli nell’intelletto come nei modi, uomini, appunto, senza testa, pieni di niente, proprio come dei falli. Ma non tutti sono così. Tra i tanti, pochi si distinguono per l’umiltà e l’onestà. In realtà vi sono dei valori nella vita che nessun titolo e nessuna condizione sociale possono dare se non sono già esistenti nell’animo umano.

    In buona sostanza Gaetano Cristino in questo volume ha saputo evidenziare le peculiarità dell’Artista e dell’uomo nella sua poliedrica genialità.

    Un’ampia carrellata sulle opere di Corrado Terraciano e le schede sulle sue principali mostre, infine, completano il volume che resta sicuramente un libro divertente ed utile per la quantità di notizie fornite che lo rendono indispensabile per chiunque voglia conoscere questo eccentrico e simpatico artista.

          

    ©2008 Lucia Lopriore

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    Sensazionale scoperta nel Lapidario del Museo Civico di Foggia…


    L’epigrafe de’ Sangro.

    La riapertura delle sezioni del Museo Civico di Foggia, arricchite di nuovi reperti, offre ai visitatori l’opportunità di conoscere aspetti interessanti sulla storia della Daunia dalla Preistoria fino ai nostri giorni.

    La novità assoluta per il Museo è rappresentata dall’apertura del Lapidario che arricchisce la cultura della città di nuove testimonianze indispensabili per la conoscenza dei percorsi storici.

    Un’inedita e quanto mai utile esposizione, curata egregiamente fin nei particolari dal dott. Francesco Picca storico dell’Arte dello stesso Museo, invita gli studiosi locali ed i cultori della storia ad individuare tali reperti, ed a collocarli nei relativi periodi storici restituendo loro una propria identità che diversamente non avrebbero.

    È questo il caso di due splendidi esemplari.

    Il primo è rappresentato da un’epigrafe esposta in una delle sale di questa nuova sezione del Museo, rinvenuta sul verso di un pluteo risalente al VI secolo d. C. quest’ultimo quale elemento architettonico parte di una basilica paleocristiana. L’epigrafe commemora l’edificazione e la relativa dotazione della chiesa della SS. Annunziata di Foggia che, sorta come cappella dell’omonima Confraternita nel XV secolo, nel 1665 fu concessa alle Clarisse che vivevano nell’attiguo monastero. Fu poi demolita e fatta ricostruire nel 1690 per merito di mons. Antonio de’Sangro, vescovo di Troia.

    Tale elemento marmoreo, studiato da Giuliana Massimo durante la catalogazione dei reperti custoditi nei depositi del Museo, rappresenta una sorta di unicum per la storia della città, non solo per il recto ma anche per il verso dello stesso, in quest’ultimo caso quale testimonianza della presenza dell’aristocrazia napoletana in Capitanata e recita:

    D[EO] O[PTIMO] M[AXIMO]
    TEMLU[M] HOC MONIALIU[M] S[ANCTAE]  CLARAE D[ive o  ivinae(?)] ANNUNCIAT[AE] DICATUM ANT[ONIUS] CL[ERICUS] REG[ULARIS] EP[ISCOP] US TROIANUS EX C[omitibus (?)] MARSOR[UM] MARCHION[IB]US S[ANCTI] LUCIDI D[OMI]NI D[e] SANGRO, ET ALVINAE EX DIIS PENATI[BUS]… [Frangi]PANORU[M] FAMILIA DE TOLF[a] D[OMINI] [L]UTII FILIUS PROPRIIS SU[M]PTIB[US] A FU[N]DAME[N]TIS EREX[it] [or]NAVIT DOTAVIT AN[N]O SUI PRESULATUS XV IN[DITION]IS

    Il secondo reperto è rappresentato dal blasone adottato da mons. de’Sangro nei primi anni del suo ministero. Si tratta di un rarissimo esemplare in pietra, probabilmente proveniente dalla chiesa Collegiata e collocato, forse, su una delle pareti della stessa chiesa in occasione di alcuni interventi di restauro fatti eseguire dal vescovo, ma se ne ignora l’anno preciso.

    Tale esemplare, miracolosamente recuperato, era depositato nel Museo tra i reperti da catalogare. Anche dopo la sua catalogazione e relativa  sistemazione nel Lapidario era rimasto privo di attribuzione fino quando è stato riconosciuto da chi scrive in occasione di una recente visita presso la sezione lapidea.

    Lo stemma di Antonio de’ Sangro.

    Questo pezzo unico, uno scudo partito, riporta a destra i colori di casa di Sangro: di oro a tre bande di azzurro ed a sinistra quelli della famiglia Frangipane della Tolfa: di azzurro alla torre d’argento.

    La rarità di questo reperto è dovuta al fatto che il vescovo lo utilizzò quasi certamente  per un periodo limitato del suo ministero.

    Resta, pertanto, un blasone ignoto ai più, in quanto sia nella letteratura specialistica (Cronotassi ecc.), sia nelle testimonianze riscontrabili attraverso i manufatti nei vari interventi di restauro fatti eseguire dal vescovo, specie nell’ultimo periodo del suo ministero, presso la chiesa Collegiata di Foggia e la Cattedrale di Troia.

    Appare sempre la seconda arme utilizzata da mons. de’Sangro, composta di uno scudo a tutto campo con i soli colori di casa de’Sangro, così come si può notare nei bassorilievi a stucco scolpiti sulle lesene ai lati del Paliotto di tre dei cinque altari minori presenti nella stessa chiesa dell’Annunziata, nonché dal portale della Cattedrale di Troia.

    L’attuale difficoltà di poter accedere agli archivi diocesano e capitolare di Troia non ci ha dato la possibilità di riscontrare con prove tangibili  quanto da noi fin qui asserito. Ci riserviamo, pertanto, di essere più precisi dopo aver avuto l’opportunità di accesso agli archivi.

    A questo punto ci sembra utile tratteggiare, brevemente, la figura di questo personaggio protagonista della scoperta. Monsignor de’Sangro discendeva da un’illustre casata di stirpe longobarda cui furono assegnati possedimenti nei territori di Roccasecca, Rocca Tre Monti, Rocca Cinquemiglia, Alfedena, Barrea e Castel di Sangro. Per tale ragione i membri della famiglia furono decorati del titolo di conti dei Marsi.

    Antonio, appartenuto alla linea dei baroni di Casignano e dei marchesi di San Lucido, era il settimo figlio di Luzio, marchese di San Lucido, ed Alivina Frangipane della Tolfa dei conti di Serino.

    Nacque a Napoli nel 1629; seguendo le regole imposte dal Maggiorasco intraprese la carriera ecclesiastica entrando nell’Ordine del Chierici Regolari Teatini; divenne professore di Teologia Sacra e per le sue virtù fu ordinato vescovo di Troia il 16 dicembre 1675 e fu consacrato il 26 gennaio 1676. Il 19 luglio 1682 tenne un Sinodo per regolare i costumi del clero e del popolo.

    Nel 1693 partecipò al Sinodo Beneventano celebrato dall’arcivescovo mons. Orsini con il quale collaborò per fissare le norme di disciplina ecclesiastiche.

    Morì a Foggia il 24 gennaio 1694 ed ivi fu sepolto nella chiesa Collegiata.

    Tale scoperta è senz’altro un motivo in più per essere stimolati a visitare il Museo Civico di Foggia, da sempre culla della cultura e della storia delle nostre radici.

      

    ©2006 Lucia Lopriore

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    Aristocratici napoletani in Capitanata: i Pignatelli

    L’arma

    Le famiglie nobili del Regno di Napoli [1], formate quasi tutte nel Medioevo, si sono affermate nella capitale distinguendosi nelle alte cariche amministrative loro conferite durante la costituzione dei Seggi.

    Questi ultimi, sin da tempi remoti, rappresentavano delle vere e proprie istituzioni politiche; il far parte dei Seggi era importante, in quanto la carica di Cavaliere di Seggio era la denominazione usuale del patriziato che risuonava accompagnata da ammirazione e riverenza.  

    A Napoli i Seggi maggiori furono inizialmente due: quello del Nido e quello di Capuana, dove fioriva maggiormente l’elemento cavalleresco. Passati successivamente a sei, nei quali erano incorporati ventitré minori, i seggi presero il nome dal luogo delle loro sedi distinguendosi in: Capuana, Nido o Nilo, Forcella, Montagna, Porto e Portanova. Più tardi, durante il regno degli Angioini, i seggi minori furono soppressi e quello di Forcella fu incorporato in quello di Montagna; questo perché a Napoli, ormai capitale, un sistema amministrativo così decentrato, attraverso i seggi e sottoseggi, era incompatibile con l’assolutismo regio.  

    Ai cinque seggi dei nobili vi si aggiunse alla fine del Quattrocento, quello del Popolo che, soppresso da Alfonso d’Aragona, fu ripristinato da Carlo VIII.  

    Gli eletti dei sedili nel proprio seno, uno per ogni seggio e due per quello di Montagna, formavano insieme a quello del Popolo la Magistratura del Tribunale di Santa Chiara che provvedeva all’amministrazione cittadina attraverso le deputazioni paragonabili ad assessorati ante litteram.  

    I ben noti avvenimenti politici che qui si tralasciano volutamente, fecero sì che i sovrani succeduti nei secoli apportassero cambiamenti radicali nel Regno e, quando fu la volta di Ferdinando IV, questi fu indotto a sopprimere i Sedili nel 1800 a causa del dilagare delle idee giacobine che videro annoverati tra i cospiratori contro lo Stato alcuni nobili che fino ad allora avevano goduto della piena fiducia del sovrano.  

    Così la nobiltà fu privata della propria identità culturale: i seggi furono incorporati al demanio, e ridotti in case e botteghe.

    Ai nobili rimasti fedeli furono riconosciuti i loro diritti e furono iscritti nel libro d’Oro della Nobiltà Napoletana. Tra questi nobili, se pure con qualche riserva per alcuni membri condannati a morte durante la repubblica partenopea, figurano anche i Pignatelli dei quali, per ragioni commerciali, una linea si stabilì in Capitanata acquisendo il titolo di baroni di Cerignola e duchi di Bisaccia.

    Secondo alcuni storici la famiglia ha origini longobarde e deriva dai duchi di Benevento; essa trova il suo capostipite in Landolfo che, combattendo in Oriente per Re Ruggiero, uscì dall’assalto del palazzo imperiale di Costantinopoli con tre vasi d’argento anneriti dal fumo infilzati nella picca.

    Altri fanno risalire le origini della casata a Gisulfo, comandante di alcune navi del re normanno, il quale avrebbe riportato una vittoria contro i Greci presso Negroponte, lasciando sui nemici del materiale incandescente racchiuso in pignatte, e da qui l’origine del cognome.  

    Con certezza si può affermare che nel 1102 un Lucio Pignatelli fu Contestabile della Repubblica Napoletana, e che le diramazioni della famiglia Pignatelli sono molto articolate, tuttavia nella loro complessità si individua un Riccardo, vivente nel 1250 dal quale discese Tommaso, Governatore di Atri nel 1431, il quale ebbe tra i tanti, tre figli che si distinsero per le loro gesta: Stefano, Carlo e Palamede [2].

    Da Stefano nascerà Cesare e da questi Alessandro, che generò i Signori di Orta, nei pressi di Aversa e Turrito, nonché i marchesi di Casalnuovo ed i Principi di Monteroduni, i duchi di San Marco, i conti di Melissa, i duchi di Tolve e di Alliste.

    Dal fratello di Alessandro, Giovanni Battista, discesero i principi di Strongoli e dal fratello Annibale i duchi di Montecalvo.

    Da Carlo, figlio di Tommaso, nacque Ettore, che originò i duchi di Monteleone, e i conti di Borrello il cui ramo si estinse nel 1664 con Geronima, che sposò il cugino Fabrizio Pignatelli, marchese di Cerchiara e principe di Noja, trasmettendo a quest’ultimo i suoi titoli.

    Il titolo di duca di Monteleone fu riconosciuto nel 1851 ai maschi più prossimi cioè ai marchesi di Casalnuovo.

    Da Palamede, quartogenito di Tommaso, discese la linea dei principi Pignatelli Aragona Cortés, duchi di Terranova principi di Noja, quella dei principi di Strongoli, quella dei Pignatelli – Fuentes e quella dei principi di Cerchiara, fu inoltre progenitore dei marchesi di Spinazzola, principi di Minervino, principi di Moliterno e di Marsiconovo, duchi di Bisaccia e baroni di Cerignola, marchesi di Lauro, conti di San Valentino, conti di Montagano.

    I Pignatelli furono Signori di Caserta dal 1269, e godettero di nobiltà in Sicilia e a Napoli dove furono ascritti ai Seggi del Nilo e di Capuana, nonché ad Aversa, Benevento, Bari, Venezia, Roma ed in altre città.

    Nel 1420 vestirono l’abito di Malta ed ottennero il Grandato di Spagna, l’Ordine del Toson d’Oro ed il titolo del S.R.I.

    Nelle chiese napoletane restano tracce dell’edilizia funebre della famiglia: in S. Domenico Maggiore, nel Duomo, nella chiesa della Trinità dei Pellegrini, dei SS. Apostoli, come in chiese di Roma, Palermo, Bari.

    Tra i feudi quello di Castelvetere, Falciano, Ferrandino, Maddaloni, Macchia, Santangelo, Monteroduni, Noja, Strongoli con i titoli di principi, duchi, marchesi e conti.

    Fu imparentata con famiglie illustri quali gli Acquaviva, gli Aragona, i d’Avalos, i Doria, i Filangieri, i Filomarino, i di Sangro, i di Somma, gli Spinelli, i della Leonessa.

    La casata vanta personaggi di rilievo quali il citato Lucio (1102); Rodolfo, consigliere di Guglielmo il Normanno; Gualtiero, finanziatore di parte della crociata di Guglielmo il Buono; Giovanni, maestro dei Cavalieri Templari; Bartolomeo, prima militante per l’imperatore Corrado e dedicatosi poi alla Chiesa, arcivescovo di Cosenza. Inviato del Papa in Francia quale Ambasciatore a Carlo d’Angiò, egli stesso lo accompagnò a Napoli, dove un altro Pignatelli, Pietro, ne offrì le chiavi e prestò, in rappresentanza della città, il giuramento di fedeltà al nuovo sovrano.

    Molti dei Pignatrelli si distinsero in campo militare, come Angelo che fu Capitano di Carlo III di Durazzo, che fatto prigioniero nella battaglia di Benevento si guadagnò la stima del d’Angiò per la sua fedeltà alla causa.

    Marino fu familiare di Re Ladislao, governatore in Basilicata e Maestro Razionale della Gran Corte della Vicaria. Antonio, nel 1450, restaurò la chiesa di S. Maria de’ Pignatelli, dove ebbe sede il Seggio del Nilo.

    Giacomo fu Capitano, Giustiziere di Basilicata e Ambasciatore in Turchia per Federico d’Aragona. Fu inoltre tra i rappresentanti della città nel giuramento di obbedienza a Ferdinando il Cattolico.

    Ettore Pignatelli comprò la terra di Monteleone sulla quale ottenne dal re Ferdinando il Cattolico, per i suoi servigi, il titolo di conte; combattendo valorosamente contro i francesi che avevano occupato il Regno di Napoli, fu catturato dal visconte di Lautrec che lo inviò prigioniero in Francia. Si narra che a Parigi avesse ricevuto la visita di San Francesco di Paola, che si trovava lì per assistere il Re Luigi XII che era infermo. Il Santo si adoperò per farlo liberare e gli predisse quanto poi avvenne, cioè che una volta tornato a Napoli, l’imperatore Carlo V l’avrebbe nominato viceré dal 1516 al 1535 e capitano generale in Sicilia conferendogli il titolo di duca di Monteleone.

    Ettore fu anche Ambasciatore in Spagna nelle trattative per il matrimonio tra il primogenito di Federico d’Aragona e la figlia di Ferdinando il Cattolico.

    Riportata la calma nella Sicilia agitata dai tumulti, Ettore fondò a Palermo due conventi, uno di monache ed uno di frati dell’Ordine di S. Francesco di Paola.

    Istituì inoltre una compagnia di Cavalieri per l’assistenza degli infermi dell’Ospedale di S. Bartolomeo ed un convento di domenicani in Rosarno, nonché in Monteleone un monastero di francescani, cui donò dodici statue di alabastro raffiguranti i dodici apostoli e due campane in bronzo prese a Rodi. Oltre al ducato di Monteleone, ebbe il titolo di Grande di Spagna, di Cavaliere del Toson d’Oro.

    Fabrizio, morto nel 1577, Priore di Sant’Eufemia dell’Ordine gerosolimitano, luogotenente e vice reggente di tutti i Priorati del Regno, combatté contro i francesi nel 1528 e liberò dai Turchi la Calabria.

    Nel 1562 fu inviato dal viceré duca d’Alcalà contro le scorrerie dei briganti, dei quali in breve tempo sgominò la ramificata organizzazione. A Napoli fondò un ospedale per i Pellegrini di passaggio nella città, con relativa chiesa, nel luogo “dove era sita una sua casa di delizie con un giardino” il luogo era chiamato Biancomangiare e si estendeva fino al largo Mercatello, tra la piazza del Gesù e quella della Pignasecca.

    Il nipote Camillo, duca di Monteleone, ingrandì l’Ospedale e l’affidò alle cure di una congrega detta dei Pellegrini.

    Ancora un Ettore, duca di Monteleone (1572-1622), Gran Contestabile e Grande Ammiraglio del Regno di Sicilia, Grande di Spagna e Cavaliere del Toson d’Oro, Viceré di Barcellona, contribuì a cacciare i Mori da Valenza (1609). Per le sue pregiate opere fu definito “l’Occulto Accademico” e fu chiamato consanguineo di Filippo III di Spagna. Fu inoltre, aio della figlia del Re, Anna d’Austria, che accompagnò sposa in Francia a Luigi XIII.

    Giulio Pignatelli, si dedicò ad opere caritatevoli ed assistenziali e fondò a Terranova un convento di Frati di S. Francesco ed a Cerchiara un Albergo di Pellegrini.

    Fabrizio, quinto duca di Monteleone, marito di Geronima, fu Grande di Spagna, fu insignito di molti altri titoli, e fu inoltre chiamato consanguineo da Filippo IV. Nella rivolta di Masaniello fu tra quelli che protrassero la Corona armando a proprie spese i suoi soldati. Nel 1654 fu nominato da Filippo IV Viceré e Capitano generale di Aragona.

    Ettore, sesto duca di Monteleone e principe del S.R.I. sposò Giovanna, erede della famiglia Tagliavia Aragona Cortés, nei Capitoli Matrimoniali è stabilita la trasmissione dei cognomi materni ai figli. Titolare dei propri e di tutti i feudi della famiglia Tagliavia, Ettore fu uno dei Signori d’Italia più potenti del tempo.

    Ascanio figlio di Scipione e Isabella Caracciolo, fu il 1° duca di Bisaccia, il titolo gli fu concesso da Re Filippo II di Spagna per i meriti ed i servigi resi dal defunto padre.

    Suo figlio Francesco fu il 2° duca di Bisaccia e conte di Montagano, acquistò dal duca di Monteleone la terra di Cerignola pagandola 200.000 ducati.

    Antonio (1615-1700), figlio di Francesco e di Porzia Carafa, divenne Papa con il nome di Innocenzo XII (1691). La sua Bolla contro il nepotismo fu rivolta a migliorare le condizioni del popolo. Per evitare l’accattonaggio per le vie di Roma, egli creò per i poveri della città dei posti di lavoro in Vaticano.

    Michele fu vescovo di Lecce, vi istituì un Seminario e fondò, nel 1694, la Congregazione dei Chierici Regolari.

    Ferdinando (1689-1767), del ramo Aragona Cortés, Cavaliere del Toson d’Oro, combatté con Eugenio di Savoia contro i Turchi nelle guerre di successione in Ungheria.

    Francesco, duca della Rocca, fu nominato Grande di Spagna da Carlo VI; un altro Francesco fu Arcivescovo di Taranto, Cardinale ed Arcivescovo di Napoli e morì in odore di santità nel 1734. 

    Figura tra i membri della famiglia San Giuseppe Pignatelli, nato a Saragozza, gesuita (1737-1811), sepolto a Roma nella chiesa del Gesù, fu santificato nel 1954 da Pio XII.

    Muzio, citato dal Tasso in diverse opere, fu insigne astrologo, teologo, matematico, architetto e poeta.

    Ancora un Francesco, principe di Strongoli (1734-1812), aiutante di campo e vicario di Ferdinando IV a Napoli durante le vicende della Repubblica Partenopea, fu Viceré Generale del Regno e Presidente della Suprema Giunta di guerra fino alla venuta dei francesi, per seguire poi il Re in Sicilia.

    Diversamente da lui i suoi quattro nipoti furono a fianco dei repubblicani nella rivoluzione del ’99: Mario (1773-1799) e Ferdinando (1769-1799), già simpatizzanti dell’idea giacobina e costretti alla fuga per la scoperta di una congiura, tornati con le truppe francesi affiancarono i rivoluzionari, pagando entrambi con la vita.

    Francesco (1775-1853) riuscì a fuggire prima della resa della Repubblica; combatté con Gioacchino Murat contro gli inglesi, partecipò ai moti del 1820-21 e scrisse, tra l’altro, una pregevole opera dal titolo: Memoria del Regno di Napoli dal 1790 al 1815.

    Vincenzo (1777-1837) fu anch’egli esule al ritorno dei Borbone a Napoli, ed anch’egli partecipò ai moti del 1820-21.

    Girolamo, principe di Moliterno, armò due reggimenti di Cavalleria contro i francesi, suscitando l’ammirazione dello stesso Bonaparte.

    Antonio, principe di Belmonte, Capitano delle guardie del corpo di Carlo di Borbone e poi Tenente Generale di Ferdinando IV, Presidente della Regia Accademia delle Scienze e Consigliere di Stato, inviato a Parigi nel 1796 per concludere il trattato di pace tra la Francia ed il Regno di Napoli, seguì la corte in Sicilia nel 1799, e fu insignito dell’Ordine di S. Ferdinando e del Merito.

    Come narra la storia, i Pignatelli si divisero nella vicenda della Repubblica Napoletana tra le due parti avverse: Diego, eletto della città nel 1799, si affiancò ai liberali e solo per l’intercessione del Papa non subì la condanna a morte.

    Nel 1806 tornò a Napoli e fu inviato quale ambasciatore a Napoleone da parte di Giuseppe Bonaparte.

    Giuseppe, marchese di Castelnuovo, fu Gentiluomo di Camera con esercizio di Ferdinando II, sindaco di Napoli e Soprintendente ai reali Educandati.

    Tracce che la famiglia ha lasciato sono riscontrabili non solo attraverso le bellissime opere funerarie, ma anche attraverso le costruzioni: tra le più importanti si ricordano la chiesa di S. Maria Assunta de’ Pignatelli, situata nel largo della Piazzetta del Nilo, fu fatta edificare nel ‘400 da Cesare Pignatelli, Signore di Orta e Turitto su progetto dell’architetto Andrea Ciccione e fu completata da Giovanni Merliano da Nola, autore anche del bellissimo sepolcro di Carlo Pignatelli, posto a destra dell’altare maggiore; la chiesa fu restaurata nel 1736 ed arricchita di stucchi ed altari barocchi [3]. Oggi si presenta in condizioni molto fatiscenti ed è chiusa al culto.

    Carogioiello e Biancomangiare erano i nomi di due ampi giardini della Napoli antica, il primo era rinomato nel seicento perché prima di ogni altro giardino, dava grossi e saporiti fichi. Oggi lo spazio residuo di questo giardino si estende alle spalle della chiesa di Monteoliveto.

    Biancomangiare, nella parte centrale si estendeva dove ora c’è piazza Sette Settembre, un tempo detta largo dello Spirito Santo, dove si affacciava la basilica che vide incoronato re Gioacchino Murat nel 1808.

    Questo Giardino delle delizie apparteneva ai Colonna ai quali fu espropriato per far spazio alla costruzione di via Toledo voluta dal Viceré don Pedro Alvaréz del Toledo (1532-1553), il quale disponendo l’ampliamento delle mura cittadine, fece rientrare nel perimetro della città il giardino. 

    La parte del giardino più prossima al palazzo Pignatelli di Monteleone fu anch’essa spianata per far spazio alla strada Rivera, l’attuale via Sant’Anna dei Lombardi con la via del Monteoliveto, così chiamata per volere del viceré Perafàn del Ribera (1558-71) duca d’Alcalà.

    Come già accennato, una piazzetta ed un vico del rione Pignasecca sono dedicati a Fabrizio Pignatelli che nel secolo XVI, proprio sull’area del giardino Biancomangiare fondò lo Spedale dei Pellegrini con annessa la chiesa intitolata a Santa Maria Mater Domini, dove oggi si trova il suo busto eseguito dallo scultore Michelangelo Naccherino.

    Nella strada della Trinità Maggiore, accanto all’ottocentesco Palazzo Sanfelice di Monforte, vi è quello che appartenne ai Pignatelli di Monteleone, il cui nome è ricordato nel Vico Monteleone che lo fiancheggia, la vicenda della costruzione di questo palazzo è legata al capriccio di una dama.

    Nel Seicento, in questa zona compresa tra Monteoliveto, il Gesù e lo Spirito Santo, vi era il grande palazzo del Marchese d’Avalos, il cui rigoglioso orto era chiamato Carogioiello, divenuto in seguito, Palazzo Carafa di Maddaloni.

    Questo edificio affacciava su quattro lati, come oggi, dei quali quello migliore, guardava verso il mare, ed era a sud-ovest. Il marchese del Vasto, preferì allestire il suo appartamento privato di fronte al lato ovest, dove aveva la veduta sul giardino chiamato Paradiso, appartenente a donna Girolama Colonna, duchessa di Monteleone perché vedova di Camillo Pignatelli.

    Tutto ciò fece insorgere nella dama un acceso risentimento, ella non poteva tollerare che occhi indiscreti la osservassero. Così, per gelosia o per ripicca, fece costruire il palazzo che è situato sul lato destro di via Sant’Anna dei Lombardi.

    Molti anni più tardi le case sorte sul giardino Paradiso, furono inglobate in una costruzione a pianta irregolare voluta dal duca Nicola Pignatelli nel 1718, e progettata dall’architetto Ferdinando Sanfelice.

    Il palazzo presenta un magnifico portale in piperno e travertino, i cui capitelli sono formati con mascheroni di marmo bianco che con le orecchie di satiro formano le volute.

    Al primo piano della Galleria, distrutta in seguito da un incendio, il duca fece dipingere da Paolo De Matteis, le scene più importanti dell’Eneide di Virgilio e della Gerusalemme Liberata del Tasso.

    Nel 1760 il palazzo ospitò il celebre avventuriero veneziano Giacomo Casanova, presentato a Don Fabrizio Pignatelli di Monteleone dal suo amico Carlo Carafa.

    Tra il 1823 ed il 1832 il palazzo passò dal Pignatelli di Monteleone al francese Renato Ilario Degas, fuggito dalla Francia rivoluzionaria e rifugiatosi a Napoli come agente di cambio, qui accrebbe le sue fortune divenendo banchiere ed imparentandosi con le grandi famiglie del Regno.

    Tuttavia il maggiore ricordo della famiglia Pignatelli è senza dubbio la villa neoclassica della Riviera di Chiaia, ora museo statale.

    Fu costruita alla fine del Settecento, da un nipote del ministro Acton, sui giardini del vicino palazzo dei Carafa di Belvedere su progetto dell’architetto luganese Pietro Bianchi.

    I lavori avanzarono con lentezza fino a quando l’architetto toscano Guglielmo Bechi non portò a compimento l’opera. Attualmente il portico ed i due corpi avanzati sulla strada gli conferiscono una peculiarità che la distingue dalle altre costruzioni.

    Pochi anni dopo, la villa fu acquistata dal ricco barone Adolfo Rothschild di Francoforte.

    Il grande finanziere ebbe qui casa ed ufficio, dominando il mercato degli olii; ma verso la metà dell’Ottocento il barone dovette subire la concorrenza dei Pavoncelli e insidiato anche nell’alta finanza dai banchieri Arlotta e Minasi preferì lasciare Napoli.

    Alla fine dell’Ottocento la villa fu acquistata dai Pignatelli di Monteleone e, donna Rosa Fici (1869-1955), moglie di Diego Pignatelli Aragone Cortés, le diede nuovo splendore, curando anche l’Archivio di Casa Pignatelli [4], importante perché interessa anche le Americhe per la discendenza con Ernand Cortés.

    Rimasta vedova, donna Rosa, con testamento pubblico del 10 dicembre 1952, legò alla Stato la sua quota di proprietà e sua figlia Anna Maria, che abitava a Roma, rinunciò anch’ella dopo pochi mesi alla sua quota ereditaria in favore dello Stato a cui donò anche alcune statue di marmo ed importanti pezzi di argenteria. La donazione ha vincolato la villa alla destinazione d’uso museale.

    Oggi, il ramo di Monteroduni, derivante da Stefano (sec. XIV) aggiunge al proprio cognome della Leonessa, importante famiglia di origine gotica ascritta al Seggio di Capuana, e trova il suo discendente nel principe Giovanni Pignatelli della Leonessa nato nel 1920.

    Del ramo Aragona Cortés dei duchi di Terranova, discendente di Palamede, (sec. XIV) è vivente Don Salvatore Pignatelli Aragona Cortés, nato nel 1945, avvocato, figlio di Don Giuseppe Principe del S.R.I. [5].

    Sempre della linea dei duchi di Terranova esistono altri due rami: il primo rappresentato dal Principe Nicola Tagliavia Aragona Pignatelli Cortés, nato nel 1923, ed il secondo ramo, siciliano, è rappresentato dal Principe Mario Pignatelli Aragona Cortés, nato nel 1943.

    La linea di Montecalvo è rappresentata dal duca Paolo Pignatelli nato a Washington nel 1949.

    La linea primogenita di Strongoli prosegue nella famiglia Ferrara Pignatelli, il cui primogenito è Vincenzo nato nel 1913.

    La linea dei Fuentes è estinta e quella di Cerchiara ha oggi quale rappresentante il principe Andrea Pignatelli di Cerchiara nato a Roma nel 1918 [6].

     La linea genealogica dei Pignatelli baroni di Cerignola e duchi di Bisaccia

      L’arma

    L’arma è di oro con tre pignatte nere disposte due sopra ed una sotto. Motto: Feliciorem. Lo scudo è coperto da mantello e corona di principe.  


    NOTE

    1 Queste pagine sono tratte dal saggio dell’autrice dal titolo: I Pignatelli in Capitanata, in «La Capitanata», n. 14/2003, pp. 163 e ss.2 N. DELLA MONICA, Le grandi famiglie di Napoli, Roma 1998, p. 285.

    3 L. CATALANI – F. S. DI CANGIANO, Palazzi, chiese e castelli di Napoli, Napoli 1995, p. 114.

    4 Attualmente custodito presso l’Archivio di Stato di Napoli, nel fondo: Archivi Privati.

    5 A.M. SIENA CHIANESE, La Nobiltà Napoletana Oggi, Incontri, Napoli 1995, pp. 291 e ss.6 N. DELLA MONICA, Le grandi… op. cit., pp. 290 e 291.


    FONTI DOCUMENTARIE

        ARCHIVIO DI STATO DI NAPOLI:

        Sezione Diplomatica – Archivi Privati:

    – Archivio Pignatelli Museo, (Aragona Cortés).

    – Archivio Serra di Gerace.

    – Archivio della Commissione Araldica Napoletana.

    – Platea delle famiglie nuovamente ascritte al Libro d’Oro.

    – Libro d’Oro ed altri registri di nobiltà ed Ordini Cavallereschi.

    – Platea delle Famiglie Patrizie Napolitane.

       BIBLIOTECA NAZIONALE DI NAPOLI:

       Sezione Manoscritti e Rari:

    – Manoscritto n. XVIII.46.

    BIBLIOGRAFIA

    CANDIDA GONZAGA B., Memorie delle Famiglie nobili delle Province Meridionali d’Italia, Bologna 1985, rist. anast. dell’edizione del 1875.

    «La Capitanata», rivista della Biblioteca Provinciale di Foggia, n. 14, Foggia 2003.

    CATALANI L., I palazzi di Napoli, Napoli 1999, rist. anast. dell’edizione del 1845.

    CATALANI L. – CANGIANO F. S., Palazzi, chiese e castelli di Napoli, Napoli 1995.

    DE LELLIS C., Discorsi della Famiglie del Regno di Napoli, Bologna 1969, rist. anast. dell’edizione del 1654-71.

    DELLA MONICA N, Le grandi famiglie di Napoli, Roma 1998.

    SIENA CHIANASE A. M., La Nobiltà Napolitana, oggi, Napoli 1995.

    SPRETI V., Enciclopedia Storico Nobiliare Italiana, Milano 1928-36.

    www.sardimpex.com

    ©2005 Lucia LoprioreDal saggio dell’autrice dal titolo I Pignatelli in Capitanata, in «La Capitanata», n. 14/2003, pp. 163 e ss.

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    Microstorie

    Salvatore Postiglione scultore

    La copertina del volume di Gaetano Cristino su Salvatore Postiglione.

    Nella raffinata e splendida veste editoriale magistralmente curata dalla foggiana casa editrice Claudio Grenzi Editore, si presenta l’ultimo lavoro di Gaetano Cristino, critico d’arte di chiara fama, sulla vita e le opere di Salvatore Postiglione, dal titolo Salvatore Postiglione scultore, la vita e l’Arte (pp. 135, ill. b/n e colori, Foggia 2006).

    Il volume nasce per volontà della famiglia, allo scopo di rendere omaggio ad un artista della nostra terra del quale ricorre quest’anno il centenario della nascita ed il decennale della dipartita.

    Salvatore Postiglione, sanseverese di origini napoletane, è stato uno dei maggiori esponenti dell’arte scultorea, della ritrattistica e della statuaria onoraria e monumentale del Novecento italiano.

    Con musicalità poetica tradotta in prosa, l’autore descrive nel volume il cammino dell’artista che inizia in età adolescenziale nella bottega paterna, dove impara le tecniche dell’intaglio proprio dal padre, artigiano “marmoraro” napoletano trapiantato a San Severo.

    La formazione di studi svolti prima presso l’Istituto d’Arte e poi presso l’Accademia di Belle Arti di Napoli, perfezionerà le sue naturali inclinazioni che lo indirizzeranno definitivamente verso la scultura.

    Le sue opere, in massima parte incentrate nella ritrattistica, spaziando da soggetti di ispirazione quotidiana a quelli religiosi o storico-monumentali, riescono a trasfondere plasticità espressiva, trasparenza ed umanità tanto da essere paragonate a quelle del Canova.

    Diventato insegnante negli istituti medi inferiori e superiori, Salvatore Postiglione trasmette agli allievi lo stesso amore e la stessa passione che lo accompagnano nel cammino artistico. Alcuni suoi studenti diventeranno artisti, altri seguiranno strade parallele al mondo dell’arte, così come è accaduto all’autore del volume.

    Gaetano Cristino lascia trasparire la propria emozione quando descrive, nella parte iniziale del testo, gli stati d’animo del “Professore” che racconta agli allievi l’esperienza in guerra e il tempo trascorso in prigione in Germania. Ricordi fondamentali che incideranno anche nella vita artistica attraverso le sensazioni che tralucono dalle sue opere. L’uomo e l’artista si fondono divenendo un tutt’uno.

    Gaetano Cristino tratteggia l’espressività plasmata nelle opere, siano esse realizzate in gesso, o in marmo, o in pietra locale, o in bronzo, dicendo: «[…] eseguite con la capacità d intaglio […] unita alle notevoli doti di modellatore e di disegnatore […] che gli consentono di lasciare trasparire lo stato d’animo dei personaggi ritratti […]». “Testa muliebre”eseguita nel 1928, “Testa di Bimbo” del 1930, “Renato” del 1928, “Enzo” ed “Il mio Enzo”, solo per citarne alcune, ne sono l’esempio eclatante. 

    L’artista amava la perfezione, emulava le proprie capacità attraverso l’uso di materiali sempre più difficili da plasmare come la pietra di Apricena, utilizzata nell’esecuzione di opere quali “Torso Muliebre” del 1937, e “Ragazza” del 1949. Durante la loro realizzazione, ricorda Vittorio, uno dei suoi figli, lavorando con l’ausilio di stuzzicadenti foderati di carta abrasiva, arrivava al punto da «farsi sanguinare le mani».    

    La sua poliedricità artistica si rifletteva anche nel vissuto quotidiano: la testimonianza di Enzo e Vittorio nel contributo Due ragazzi di bottega riassume in pochi esempi il tratto umano: poiché era solito portarsi il lavoro anche a casa, soffocava le proteste della moglie recitando la massima “Per nobilitare la creta o l’argilla, ogni sito ed ogni momento per uno scultore devono essere buoni”; con questo detto, tacitamente, i figli maschi erano invitati a collaborare. In particolare era affidato loro il compito di “bagnare la creta”attraverso un procedimento particolare che richiedeva molta attenzione. I due figlioli, prestati all’arte, senza averne voglia eseguivano in tutta fretta il compito affidato dal genitore e, ultimato il lavoro, riprendevano le loro attività di svago interrotte loro malgrado.

    Queste ed altre sono le notizie inedite che emergono dall’attenta lettura del testo, raccolte dall’autore attingendo all’archivio privato messo a disposizione dalla famiglia.

    Oltre all’indimenticabile ricordo di chi lo ha personalmente conosciuto, di Salvatore Postiglione restano i tanti modelli conservati nella gipsoteca-studio che si auspica possa essere, nell’immediato futuro, resa fruibile a studenti e studiosi desiderosi di conoscere l’artista.      

    Il volume è inoltre impreziosito da un dovizioso corredo iconografico basato su due momenti fondamentali della vita di Salvatore Postiglione.

    Il primo riguarda la carrellata di documenti tratti dall’archivio privato di famiglia, che vedono l’artista ritratto in diversi significativi momenti della propria vita lavorativa o durante la campagna in Grecia, o in compagnia di amici e familiari; non mancano anche i documenti come il diploma di scultore o la tessera di riconoscimento dell’Istituto di Belle Arti di Napoli, o uno stralcio della relazione redatta l’8 settembre 1943, quando era ufficiale addetto al comando delle truppe italiane durante una spedizione nell’Egeo.

    Il secondo ritrae, attraverso la mano esperta di Mimmo Attademo, le maggiori opere.

    A conclusione del testo è posta un’ampia carrellata che comprende una breve antologia critica, l’elenco delle principali esposizioni, la bibliografia cronologica sull’autore e, dulcis in fundo, le schede sulle principali opere scultoree e disegni.

    È questo uno splendido “libro d’Arte” nato con l’intento e la consapevolezza di ricordare un uomo ed un artista protagonista del suo tempo, che con la competenza di Gaetano Cristino, che da sempre dell’arte fa “una ragione di vita”, contribuisce all’arricchimento del patrimonio letterario specialistico.

      

    ©2006 Lucia Lopriore