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Ruggero I d’Altavilla

I Normanni, popolazione nota nell’alto Medioevo con il nome di Vichinghi, erano agguerrite bande di avventurieri che dalla terra di Scandinavia si diffusero, con una diaspora impressionante, in tutta Europa. Uno di questi avventurieri, Rollone, si insediò in Normandia fin dall’896, e divenne, per meriti di guerra, vassallo del re di Francia, ottenendo, nel 911, il riconoscimento dei suoi possedimenti.

È da questo ducato che, ormai cristiani, latinizzati nella lingua e in parte nel costume, i normanni muovono per le più importanti imprese. È da qui che Guglielmo “il Bastardo”, conosciuto poi come “il Conquistatore”, approda in Inghilterra, mentre altri gruppi di mercenari – per lo più figli cadetti dell’aristocrazia feudale in cerca di fortuna – penetrarono nell’Italia meridionale all’inizio dell’XI secolo. Scesi come mercenari, i normanni, ben presto riuscirono ad inserirsi nelle contese che opponevano i pontefici romani, i duchi longobardi di Benevento e di Salerno, gli arabi di Sicilia, i bizantini di Puglia e di Calabria. Protagonisti delle più importanti imprese furono i Drengot, dei quali Rainulfo divenne conte di Aversa, ma soprattutto i membri della famiglia di Tancredi di Altavilla (Hauteville).  Sbarcati nel 1030, iniziarono al servizio di Rainulfo la loro straordinaria carriera, destinata a concludersi con la conquista di tutta l’Italia meridionale e della Sicilia e con la costituzione di un regno che divenne il più potente ed importante dell’epoca.

È bene ricordare i protagonisti più famosi dell’impresa: Guglielmo Braccio di Ferro, che divenne conte di Puglia, Roberto il Guiscardo, duca di Puglia e Calabria, Ruggero il Bosso, conte di Calabria e Sicilia, e Ruggero II, primo re di Sicilia. 

Ruggero “il Bosso”, ultimogenito di Tancredi giunto in Italia nel 1055, inizia la sua carriera in sordina, all’ombra del fratello Roberto. Insieme si lanciano alla conquista dei principati longobardi di Benevento, Capua e Salerno, dei ducati, nominalmente ancora bizantini, di Napoli, Sorrento, Amalfi e Gaeta, del Catapanato di Puglia e di Calabria e dell’emirato arabo di Sicilia. Le conquiste degli Altavilla turbano non poco il Papa ma la loro ascesa è incontenibile anche a causa dell’appoggio dei principi locali che, ciecamente, continuano a considerarli dei semplici soldati di ventura. 

I rapporti tra i pontefici romani e gli Altavilla non saranno mai tranquilli, ma in virtù della loro supremazia militare (il Guiscardo era persino riuscito a catturare papa Leone IX ed a tenerlo prigioniero per nove mesi, nel 1053) con l’accordo di Melfi (1059) gli Altavilla ottengono il “privilegio” di considerarsi vassalli del pontefice, guadagnandosi il riconoscimento dei diritti feudali sull’Italia meridionale e sulla Sicilia, ancora da conquistare.   

Roberto viene riconosciuto duca di Puglia e di Calabria e Ruggero, come suo vassallo, ottiene il castello di Mileto, in Calabria, dove stabilisce la sua residenza e si circonda di una corte del Gran Contado sul modello bizantino. Ruggero farà di Mileto la sua capitale ed è in questa corte che egli esplica un’attività di potenziamento della propria strategia militare e politica e tesse una fitta trama di rapporti internazionali con capi di stato e pontefici. 

Trifollaro (Ruggero I gran conte, coniata a Mileto)
Dritto
ROQ E RIVS COME +S; Ruggero a cavallo a sx.
Verso
MARIA MATER DNI; La Madonna con in braccio il Bambino.

A Mileto nel Natale del 1061, si celebrano le nozze con la normanna Giuditta d’Evreux, si celebreranno le seconde nozze con la longobarda Eremburga e, infine, nel 1089 le terze nozze con Adelasia del Vasto, della famiglia degli Alemarici, marchesi del Monferrato.

Roberto il Guiscardo e Ruggero I

Affermata la loro supremazia nel meridione d’Italia, i fratelli Altavilla sbarcano in Sicilia chiamati dall’emiro di Catania, impegnato in una sanguinosa guerra con il califfo di Girgenti. L’aiuto all’emiro di Catania è solo un pretesto per iniziare la conquista della Sicilia ed essere nel contempo, considerati i “liberatori” delle residue popolazioni cristiane ancora presenti nell’isola dopo due secoli e mezzo di dominio musulmano. Nel febbraio del 1061 Ruggero organizza uno sbarco a Messina con poco più di un migliaio di soldati. Messina cade senza opporre resistenza per cui i Normanni arrivano facilmente fino a Castrogiovanni e Girgenti. Questo è solo l’inizio, perché la spedizione vera e propria viene organizzata nella primavera del 1062, quando Ruggero, con truppe fresche torna in Sicilia con l’intento di occupare l’intera isola. Gli anni della conquista sono duri. Un feroce scontro avviene a Cerami, a ovest di Troina. 

Il Malaterra riporta che le forze normanne erano esigue. Né il papato, né Pisa, né Genova, che tanto vantaggio trarranno dalle conquiste normanne, forniscono aiuti.  Ma Ruggero riesce egualmente a mettere in fuga i nemici. I normanni controllano ormai una vasta zona, da Messina a Troina, dove Ruggero pone la sua capitale isolana (1062). Con una serie di faticose battaglie che vedono cadere una ad una le più importanti città, nonostante i rinforzi arabi arrivati dall’Africa, nell’agosto del 1071 giunge alle porte di Palermo.

L’assedio dura fino al gennaio del 1072, quando Ruggero con l’aiuto del Guiscardo riesce a penetrare nella città fortificata e la capitale cade. Una messa solenne viene celebrata nell’antico Duomo, che per 240 anni era stato una moschea. A poco a poco cadono anche Castrogiovanni, Butera ed infine, nel 1091, Noto. Occorreranno trenta anni a Ruggero per conquistare l’intera Sicilia e le isole di Malta e Pantelleria, il cui possesso renderà sicuri i traffici nel canale di Sicilia e consentirà di avviare scambi commerciali con i paesi che si affacciano sul Mediterraneo. 

La consegna di Palermo da parte dei musulmani è un dipinto a fresco di Giuseppe Patania, datato 1830. Si trova nella volta della Sala Gialla del Palazzo dei Normanni (o Palazzo Reale) di Palermo.

Ruggero, inoltre, approfittando della lotta per le investiture tra il papato e l’impero germanico concede alcuni favori al papato, appoggiando papa Urbano II contro l’impero, ma pur mostrandosi generoso con le diocesi che egli stesso fondò e fece aderire a Roma non restituirà mai l’ingente patrimonio siciliano confiscato da Bisanzio.  Urbano II scende personalmente in Sicilia, a Troina, per ratificare il suo operato, ma quando, più tardi,  si permetterà di nominare il vescovo di Troina suo legato, Ruggero, imprigionerà il vescovo, farà annullare al papa la sua nomina ed infine, nel 1098, con la scusa di aver liberato dall’Islam la Sicilia, otterrà il titolo di Gran Conte di Sicilia e di Calabria e  la prerogativa di “legato apostolico” (l’apostolica legatia), che riconosce al Gran Conte e a tutti i suoi successori  giurisdizione su tutte le faccende ecclesiastiche purché non si infranga il dogma di fede o la salute dell’anima e per la quale tutti i vescovi siciliani (tranne quello di Lipari, la cui diocesi è successiva) erano direttamente nominati dal Re di Sicilia. Per la gestione di tale privilegio viene creato un apposito istituto giuridico, il tribunale della monarchia, dove con il termine “monarchia” si intende unità di comando amministrativo ed ecclesiastico. 

Con Ruggero, mentre la maggior parte dell’Europa è ancora feudale, si gettano, nel meridione d’Italia le basi di uno stato moderno. Il re non governa più tramite i suoi potenti feudatari, ma tramite i suoi funzionari (burocrati dello stato e non potenti signorotti). Diversamente dal resto d’Europa che diventa sempre più intollerante, egli è tollerante con i costumi e le tradizioni greche, latine ed arabe che in questo periodo coesistono nel meridione, lasciando le proprietà e la libertà di culto.

Non di bontà d’animo si tratta: quel rozzo guerriero ha capito che è più conveniente sfruttare i collaudati sistemi bizantini e musulmani piuttosto che imporre un sistema feudale di tipo europeo e per questo ha bisogno di funzionari che certamente non può trovare tra le sue truppe. Egli riesce a fondere i rapporti aristocratici feudali con il concetto orientale secondo il quale un capo non è “primo tra eguali”, ma è sovrano, quasi “divino”. 

Per non indebolire il suo potere tiene per sé la maggior parte dei territori e quando concede terre ad altri si riserva l’uso delle miniere, delle saline e delle foreste, revocando le terre in mancanza di eredi e in caso di infedeltà. Se da un lato rispetta le lingue e le religioni dei greci e degli arabi, di cui si serve per l’organizzazione dello stato, dall’altro si dedica alla ricristianizzazione e rilatinizzazione delle diocesi della Calabria, della Puglia, della Basilicata, già soggette al patriarcato di Costantinopoli, e della Sicilia, che per oltre 200 anni è stata musulmana, attraverso l’istituzione di numerosi monasteri latini, primo tra tutti la Santissima Trinità di Mileto. Fa costruire cattedrali come quella di Troina, prima capitale Normanna, e di Catania, istituisce nuove diocesi (grazie al legato apostolico di cui gode), e favorisce l’immigrazione di francesi, inglesi e lombardi, per ripopolare le sue terre in seguito alle guerre, alle carestie e all’espatrio dei musulmani. Con Ruggero d’Altavilla la Sicilia ritorna a far parte del mondo occidentale ma contemporaneamente non taglia i legami con l’oriente, mantenendo il Gran Conte armate musulmane e rapporti di amicizia e di commercio con tutto il bacino del mediterraneo. A tal proposito secondo un’ipotesi suggerita dallo storico musulmano Ibn al-Athìr (XII-XIII secolo) la conquista della Palestina è dovuta essenzialmente a una questione di equilibri geopolitici e di interessi economici tra sovrani e feudatari franco-normanni e potentati arabi. Essa sarebbe suggerita proprio dal Gran Conte Ruggero ai Franchi per distoglierli dalla conquista dell’Africa mediterranea, che interromperebbe o renderebbe più difficili i suoi traffici con le regioni musulmane dell’Africa. Narra infatti Ibn al-Athìr che giunse a Ruggero un’ambasciata da parte dei Franchi che chiedevano un’alleanza militare e un appoggio logistico in Sicilia per la conquista dell’Africa. Ruggero radunati i suoi consiglieri, favorevoli al disegno, manifesterebbe, invece, in maniera plateale e … rumorosa la sua disapprovazione, scoreggiando sonoramente (“levata una gamba fece una gran pernacchia dicendo: “Affé mia, questa vale più di codesto vostro discorso””), spiegando che egli non guadagnerà nulla dall’impresa, qualunque sia l’esito: “se conquistano il paese quello sarà loro e l’approvvigionamento dovranno averlo dalla Sicilia, venendo io a perderci il denaro che frutta qui ogni anno il prezzo del raccolto; e se invece non riescono, faranno ritorno qui al mio paese e mi daranno degli imbarazzi, e Tamim [l’emiro di Tunisi] dirà che l’ho tradito e ho violato il patto con lui, e si interromperanno i rapporti e le comunicazioni fra noi”. Per cui Ruggero risponde no all’alleanza, ma suggerisce un’alternativa: “Se avete deciso di far la guerra ai Musulmani, la cosa migliore è di conquistare Gerusalemme, che libererete dalle loro mani e di cui avrete il vanto”.

Ritratto di Ruggero I, collocato nella Cattedrale di Troina

Muore a Mileto il 22 giugno del 1101, all’età di settanta anni. Fu un capo ricco e potente ma al suo stato mancava ancora il senso della stabilità; egli era un nomade, come i suoi antenati vichinghi (e, purtroppo, come i suoi successori) e passò la sua vita viaggiando con la sua corte, la sua amministrazione ed il suo tesoro.  Rimase reggente la sua terza moglie, la gran contessa Adelasia, dalla quale aveva avuto due figli: Simone e Ruggero. Simone, il primogenito morì fanciullo, lasciando erede il piccolo Ruggero che a 10 anni divenne Gran Conte di Sicilia e che sarebbe divenuto il primo re di Sicilia. La figura e la personalità di Ruggero I, che insieme al fratello Roberto il Guiscardo aveva realizzato la conquista normanna nel Mezzogiorno d’Italia, rimane un punto di riferimento essenziale nella storia del medioevo europeo. Il rude guerriero protagonista di aspre e dure battaglie si era rivelato un saggio uomo di stato tanto da essere considerato il monarca più autorevole dell’Italia continentale.  

Bibliografia

  • Amari, Storia dei musulmani di Sicilia, Firenze 1854
  • Di Blasi, Storia di Sicilia, Palermo, 1864
  • D. Mack Smith Storia della Sicilia medievale e moderna, Laterza, Bari
  • L.  Natoli, Storia di Sicilia, Flaccovio Editore Palermo, 1979
  • J. J. Norwich, I normanni del Sud, Milano 1972
  • Peri, La Sicilia Normanna, Vicenza, 1962
  • G. Quatriglio, Mille anni in Sicilia, Marsilio, 1996
  • S. Tramontana, I normanni in Italia, Messina, 1970
  • Normanni tra nord e sud. Hubert Huben, Di Rienzo Editore
I 
  • Normanni del Sud 1016-1030. John Julius Norwich; Sellerio Editore


©2024 Alberto Gentile e Fara Misuraca

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Roberto il Guiscardo

Roberto il Guiscardo nacque molto verosimilmente nel 1015 ad Hauteville-la-Guichard, non è possibile parale di Roberto d’Altavilla senza un preambolo che spieghi l’arrivo dei normanni nel Sud dell’Italia.
 
I primi Normanni comparvero per la prima volta in Italia nel 1015, come soldati al servizio di Melo da Bari, duca di Puglia. Sembra che Melo li avesse incontrati presso il santuario dell’Arcangelo Michele sul Gargano. Melo era un nobile longobardo che veniva da Bari, costretto all’esilio avendo capeggiato un’insurrezione poi fallita contro i Bizantini che dominavano l’Italia meridionale (vedi nota). Il nobile longobardo li incoraggiò per combattere le truppe dell’impero bizantino promettendo ricchi compensi.
Nel 1016, un gruppo di pellegrini in viaggio per la Terrasanta, fece tappa a Salerno ed il principe Guaimario chiese loro aiuto contro i Saraceni che affliggevano la città. Erano solo in 40 e il principe di Salerno Guaimario III li avrebbe salutati vittoriosi: “Miles quadraginta … salve!”. Questi fatti sono stati ampiamente descritti anche dal monaco Amato di Montecassino.
Trovandosi il sud dell’Italia al centro di interessi di tre grandi aree geopolitiche, quella latino-occidentale, quella bizantina e quella arabo-islamica diventava per i guerrieri normanni una zona di grande interesse strategico militare. Inoltre va ricordato che alla fine del primo millennio la Sicilia era passata in gran parte sotto il dominio dei mussulmani.
Ai normanni, in cerca di avventure e ricchezze, quest’area intorno al mediterraneo offriva molte possibilità di crescita. Il meridione d’Italia era una terra ricca e fertile, con un clima mite, prospere città e monasteri. Inoltre era una zona in cui mancava un forte potere politico centrale.
Dalla Normandia giunsero nel sud Italia gli eredi della piccola e media nobiltà che in Francia non trovavano buone prospettive per il loro futuro.
Inizialmente i normanni furono dei veri e propri mercenari al servizio di vari potentati del sud.
Ma nel 1030 ci fu un consistente arrivo di Normanni in Campania capeggiati da Rainulfo Drengot e si stabilirono ad Aversa. Furono chiamati dal Duca di Napoli Sergio IV, nell’intento di contenere le mire del longobardo Pandolfo IV di Capua.
Rainulfo di Drengot, in cambio dell’aiuto dato, ebbe in premio Aversa, e sposò poi la sorella del duca Sergio. Nel 1038 la sua investitura fu riconosciuta ufficialmente dall’imperatore Corrado II, grazie anche all’intercessione del principe di Salerno Guaimario IV. Da qui comincia una dinastia di normanni “campani”: la contea di Aversa, più le conquiste successive, furono divise in sette feudi tra quelli che furono i successori di Rainulfo. In questo modo Rainulfo si trasformò da mercenario in signore, era ormai un conte titolare di un territorio con annesse giurisdizioni.
I sei fratelli Drengot venivano dal villaggio francese di Quarrel; il maggiore, Giselberto, era ricercato, per ordine di Rolf, conte di Normandia, per omicidio.

Effige di Rainulfo sulle mura normanne di Aversa.

Verso il 1030 erano scesi in Italia dalla penisola del Cotentin anche i cinque figli di Tancredi di Hauteville: Guglielmo Braccio di Ferro, Drogone e Umfredo (avuti dalla prima moglie, la normanna Muriella), e Roberto e Ruggero figli della seconda moglie, la nobildonna Fresinda.
Guglielmo divenne signore di alcune zone del Cilento (a quei tempi i confini tra Calabria, Basilicata e Campania non erano quelli odierni, e forse neppure ben definiti, per cui alcuni testi riportano, in luogo del Cilento, la Calabria o Basilicata occidentale). Drogone era a capo dei Normanni di Puglia ed aveva sposato una figlia del principe di Salerno Guaimario IV (per qualcuno V), morì il 10 agosto del 1051 a seguito di un attentato. Meno di un anno dopo, a seguito di una congiura, muore anche il suocero Guaimario e con lui finiva lo splendido periodo del principato di Salerno. Umfredo, che aveva preso il posto di Drogone, accorse a Salerno per scacciare, con l’intervento di Guido di Conza, l’usurpatore al trono di Salerno, Pandolfo, e per permettere al figlio di Guaimario, Gisulfo II, di succedere al padre.
Roberto si era attestato in Sila con un gruppo uomini a lui fedeli. Era lì che Drogone lo aveva mandato, forse anche per non averlo troppo vicino. Roberto sapeva che per poter aspirare a qualche possedimento doveva dar prova di forza, valore e decisione, in pratica doveva dimostrarsi degno della ormai leggendaria ferocia normanna. E Roberto se ne dimostrò subito all’altezza. In Calabria, assieme probabilmente a gruppi di autoctoni, compiva scorrerie, ruberie, stragi. Con uno stratagemma riuscì a sequestrare un nobile di Cosenza e a farsi corrispondere un notevole riscatto. Pare che proprio questo episodio gli abbia fatto guadagnare il soprannome di Guiscardo, cioè l’astuto. Gerardo di Buonalbergo, nobile di origine francese, fornì a Roberto 200 soldati per conquistare la Calabria e, per meglio stringere i rapporti con l’ambizioso giovane normanno, gli diede in moglie una sua zia: Alberada di Buonalbergo da cui nacque Marco Boemondo, il primo figlio maschio del Guiscardo.
Tra i Normanni vi erano discordie e attriti, ma sapevano riconciliarsi facevano fronte comune contro minacce esterne. E così fecero quando Papa Leone IX, originario dell’Alsazia, con l’aiuto del catapano Argiro e dell’imperatore Enrico III, organizzò, nel giugno 1053, una reazione all’invadenza normanna.
A Roberto toccò il compito di affrontare i mercenari svevi inviati dall’Imperatore. I cavalieri tedeschi erano convinti avrebbero avuto la meglio sui Normanni e i loro alleati (uomini del posto, soldati latini, slavi, lucani e saraceni) invece Roberto ebbe la meglio sui i tedeschi.

papa Leone IX


La battaglia di Civitate si concluse con la prigionia del papa Leone IX, che fu però rilasciato con la promessa che avrebbe legittimato le loro conquiste. Per questa operazione in Puglia i Normanni avevano chiesto aiuti a Gisulfo II, ma questi, che aveva tenuto sempre in odio i Normanni, ritenendoli causa dell’indebolimento del potere longobardo e, preoccupato, ne vedeva avanzare il potere, si era rifiutato e si era tenuto sempre fedele al Papa.

Roberto il Guiscardo ed il fratello Ruggero I il gran conte.

Dopo Civitate Roberto si diede alla conquista della Calabria e, nel 1057, alla morte di Umfredo, si pose anche alla guida di quel feudo ereditato dal giovane e ancora troppo debole Abagelardo.
Intanto Ruggero, che prima era al seguito di Roberto, veniva alla ribalta ormai più forte e indipendente e così il fratello maggiore lo allontanò. Non mancarono le invidie tra i due fratelli che spesso si fecero vere e proprie guerre, ma guai se terzi prendevano iniziative contro uno di loro.
Conquistata la Calabria i due fratelli Altavilla fanno una puntata in Sicilia, dove Roberto lascia il fratello minore per correre in Puglia a fronteggiare un’invasione bizantina.
Dopo le conquiste dei Normanni, il principato di Salerno aveva perso molti domini e potere. Il Guiscardo mirava ormai ad Amalfi e Salerno. Sichelgaita, figlia di Guaimario IV, intuì che l’unica speranza di salvezza era in un’alleanza con i normanni, da concretizzarsi mediante le sue nozze con Roberto, ma il fratello Gisulfo si opponeva ad ogni apertura verso coloro che vedeva come predoni ed invasori.
Il Guiscardo intuì che il matrimonio con Alberada di Buonalbergo non era valido perché celebrato ignorando il divieto canonico di nozze tra consanguinei, per tanto ne chiese l’annullamento. Così ebbe via libera per sposare Sichelgaita. Gisulfo dovette cedere e divenne alleato dei normanni.
E fu così che a Melfi nel 1058 si celebrarono le nozze tra il rude, possente, prode e affascinante guerriero e la raffinata principessa longobarda molto più giovane di lui.
La storiografa e principessa bizantina Anna Comnena descrive Roberto: ”maestoso di volto, di statura alta, largo di spalle, perfetto di forme, di chioma e barba fulve, d’occhi vivaci e penetranti: pronto e scaltro d’ingegno, ambizioso oltre misura, maturo nei consigli, provvido nelle imprese, ardimentoso ed esperto nelle cose di guerra, rigoroso e prudente nel governo civile”. Oltre al fatto che avesse un tono di voce simile al tuono dice anche che firmasse con un segno di croce. 
Va detto anche che Roberto parlava anche il greco e forse il segno di croce era solo un simbolo che usava per sigillare i patti.  Pare tenesse molto in conto i consigli della colta moglie longobarda. Era lei che curava i rapporti con la Chiesa ed era in relazione di grande amicizia con il vescovo di Salerno, Alfano, suo parente, e con gli abati di Cava, di Montecassino e con Ildebrando di Soana, poi Gregorio VII, antichi compagni di cenobio di Alfano.
Nel 1059 papa Nicolò II durante il sinodo di Melfi riconobbe come suoi fedeli vassalli Riccardo Drengot di Capua e Aversa come principe di Capua e Roberto il Guiscardo Duca di Puglia e Calabria, ed in futuro, con l’aiuto di Dio e di San Pietro, della Sicilia. Così il Guiscardo divenè il difensore della cristianità con un rapporto di vassallaggio fra il Papa e i normanni. Egli accettò anche di versare un tributo annuo alla Santa Sede, in modo da mantenere titoli e terre e garantirsi la piena legittimità sulle future conquiste.
La capitale del ducato era Melfi, mentre Ruggero, conte di Calabria, aveva posto la capitale del suo feudo a Mileto.
Nella questione tra papato e l’imperatore Enrico IV, Roberto si schierò con il Papa pur essendo in precedenza venuto in contrasto con la Santa Sede per avere egli occupato i territori di Benevento. Nel frattempo aveva affidato a Ruggero il compito di portare a termine le conquiste in Sicilia.
Intanto, il fratellastro Guglielmo con le sue invasioni si era spinto in territori alle porte di Salerno. Questo preoccupava Gisulfo, ma anche il Guiscardo che aveva dato alla moglie il compito di mediare. Ma Guglielmo non intendeva ragione e non aveva voluto dare ascolto al Papa che il 1° agosto 1067 aveva indetto un concilio proprio a Melfi nella speranza di risolvere la questione normanna. Guglielmo fu scomunicato. Ma gli fu concesso partecipare alle Assise che papa Alessandro II poco dopo tenne a Salerno e a cui era accorso anche il Guiscardo. Nel frattempo Guglielmo modificò il suo atteggiamento e ottenne il perdono.
Roberto era consapevole del fatto che se non avesse definitivamente liberato il sud d’Italia dai Bizantini non avrebbe potuto concludere la conquista del mezzogiorno e della Sicilia. Per questo da più di tre anni aveva messo sotto assedio per mare e per terra Bari, la città rimasta fedele a Bisanzio. La città pugliese difesa da Avartutele resisteva ed era allo stremo. I normanni avevano sempre vinto, i Baresi chiesero rinforzi ma l’imperatore Romano IV Diogene non aveva risorse sufficienti per sostenerli. Aveva mandato una flotta di 20 navi agli ordini di Gozzelino, un ribelle normanno che si era rifugiato a Costantinopoli, ma furono intercettate nel febbraio 1071. Si era giunti all’epilogo, il catapano Stefano Paterano si rese conto che Bari non poteva più resistere, inviò a trattare con i normanni Argirizzo Joannacci, che ottenne condizioni buone, quindi il 15 aprile 1071 la città fu consegnata ai normanni. I Greci furono definitivamente cacciati dal sud Italia e il Guiscardo poté così rivolgere la propria attenzione ai grandi principati indipendenti di origine longobarda che ancora governavano vaste aree del meridione.

Papa Niccolò II, durante il primo Sinodo di Melfi, nomina Roberto il Guiscardo, Duca di Puglia e Calabria – da “La Nuova Cronica” di Giovanni Villani.

Nel 1072 Roberto accorse in aiuto a Ruggero e insieme riuscirono ad espugnare Palermo. Probabilmente lo raggiunse anche Sichelgaita e il 10 gennaio 1072 Roberto, Sichelgaita, Ruggero, seguiti dagli altri normanni e longobardi impegnati in quella spedizione, entrarono trionfalmente nella basilica di Santa Maria che i musulmani secoli prima avevano trasformato in moschea.
Roberto era ora effettivamente anche Duca di Sicilia, non ancora tutta conquistata. In seguito il fratello, a sorpresa, si fece nominare dal Papa Gran Conte di Sicilia, diretto feudatario del Papa.
Roberto aveva ormai circa 57 anni e si presentava il problema della successione al Ducato: il primogenito era Boemondo, valoroso ed instancabile guerriero, simile al padre e figlio di una normanna; la seconda moglie di Roberto voleva a tutti i costi la designazione al trono del suo primogenito Ruggero detto Borsa, anche perché ciò avrebbe accontentato quei nobili ancora legati ai longobardi. Ma Sichelgaita non riuscì nel suo intento per volere di Roberto.
Nel 1074 il Guiscardo stipulò un’alleanza col Basileus di Bisanzio, rafforzandolo con un patto matrimoniale tra la sua giovanissima figlia Olimpia, ed il successore, ancora bambino, al trono di Bisanzio. Ed è in quel periodo che l’erede al trono del ducato di Puglia, Calabria e Sicilia risulta essere stato designato Ruggero Borsa: il padre aveva dovuto conferire la dignità di “curopalata” ad uno dei suoi figli e questi risultava essere Ruggero; e nell’Exultet della Cattedrale di Bari, dopo i nomi di Michele VII, del suo erede, il figlio Costantino, e della sua fidanzata Olimpia, erano subito nominati Roberto, Sichelgaita e Ruggero Borsa. Ma nel 1078 la destituzione di Michele sconvolse l’alleanza e Roberto attese il momento propizio per una vendetta.
Nel 1074 il Papa scomunicava Roberto per aver invaso i possedimenti della Chiesa in quel di Benevento e riconfermò la scomunica nel 1075. 
Ma Roberto non era ancora contento delle sue conquiste, o forse si sarebbe accontentato di avere il principe di Salerno come alleato se Gisulfo non si fosse impegnato alla ricerca di alleanze e accordi contro il cognato. Fu così che i timori del principe divennero realtà: nei primi di maggio del 1076 il normanno iniziò l’assedio a Salerno che fu lungo e penoso. Nonostante la popolazione fosse allo stremo, il principe non voleva cedere all’evidenza. Nel 1077 consegnò la città agli invasori rifugiandosi prima a Nocera e poi a Roma dove il Papa accolse paternamente lui e la sua famiglia affidandogli incarichi di ambasciatore della Santa Sede. Infatti Gisulfo tornerà a Salerno in tale veste a seguito di Gregorio VII.  
Poco tempo prima della conquista di Salerno, Amalfi, temendo le continue mire di Gisulfo, si era assoggettata al normanno Roberto.
A Salerno nel 1070 i Duchi fecero erigere una nuova cattedrale ed una nuova reggia, più a oriente rispetto all’antico insediamento longobardo. Diedero nuovo vigore alle attività della città ed in particolare alla Scuola Medica, accogliendo il medico Costantino l’Africano, che in seguito Roberto elevò a proprio segretario. Il Guiscardo fece costruire anche altri monumenti nel suo ducato: la cattedrale di Aversa, di Melfi, di Foggia e la chiesa della SS. Trinità a Venosa.
Verso il 1078 Giordano e Gaitelgrima riuscirono a far insorgere alcuni feudatari di Puglia impegnando così il Guiscardo, Boemondo e Sichelgaita alla quale il marito, dovendosi spostare a Castellaneta, affidò il controllo militare di Trani.
Nel 1080, con la pace di Ceprano, al Normanno furono riconosciuti dal Papa Gregorio VII i suoi possedimenti nell’Italia meridionale, tranne quelli di Amalfi, Salerno, e della Marca Fermana. Motivo per cui, a differenza dei principi Longobardi, i Normanni non furono mai chiamati principi di Salerno. <>. Roberto giurò formalmente obbedienza alle richieste del Pontefice. 
Roberto non aveva dimenticato l’affronto subito dai bizantini e con questa scusa organizzò una spedizione nei Balcani a bordo di una notevole flotta. Per la verità per giustificare la spedizione pare si servisse di un altro dei suoi ‘astuti’ espedienti: in Calabria lo aveva raggiunto un monaco bizantino che egli disse essere lo spodestato imperatore d’oriente che si era rifugiato presso di lui chiedendo aiuto contro l’usurpatore nell’interesse proprio e del duca normanno.  Con la moglie e i figli Boemondo e Ruggero conquistò Durazzo, Corfù e Avlona. Grandi successi conseguirono Boemondo e Sichelgaita si distinsero per coraggio e intraprendenza secondo quanto racconta Anna Comnena: mentre il marito era impegnato a combattere in una zona distante, lei durante la battaglia fu colpita ad una spalla, ma vedendo che le truppe si stavano disperdendo, si strappò la freccia dalla spalla e continuò a combattere arringando i militi, riuscendo così a riguadagnare una posizione di vantaggio.
Ma il Papa a Roma, assediato dalle truppe dell’Imperatore, aveva bisogno di aiuto.
Intanto Ermanno, Abelardo ed Enrico di Conversano si erano ribellati al Duca. Roberto lasciò le operazioni militari in territorio bizantino nelle valide mani di Boemondo, e tornò in Italia.
Sconfisse le truppe imperiali sottoponendo Roma ad una feroce devastazione e portò con sé a Salerno Gregorio VII.
Un mese dopo la Cattedrale di Salerno veniva aperta al culto e consacrata proprio dal Papa.
Nell’ottobre 1084 i Duchi salernitani partirono per Brindisi nuovamente diretti alla conquista dei territori bizantini.

Il 25 maggio del 1085 moriva a Salerno Gregorio VII. Pochi mesi più tardi dopo la vittoria a Cefalonia, il 17 luglio moriva Roberto il Guiscardo. Fu sepolto nella cattedrale della Santissima Trinità a Venosa come molti altri suoi familiari e la prima moglie Alberada. L’abbazia della SS. Trinità di Venosa fu per i Normanni consapevolmente, forse, ciò che Saint-Denis era stata per i re di Francia.

Sepolcro degli Altavilla – tomba di Roberto il Guiscardo e dei suoi fratelli. – Venosa, chiesa del complesso della SS. Trinità – fine XI sec., affresco XV sec.

A Roberto succedette Ruggero Borsa e a Boemondo fu lasciata Taranto e pochi altri possedimenti, più quelli che fosse riuscito a conquistare. Boemondo non accettò di buon grado tale posizione e tra i due fratellastri ci furono aspre contese, finché non intervenne lo zio il gran conte Ruggero.
Alla fine Boemondo organizzò una spedizione in Terrasanta cui parteciparono con valore anche il nipote Tancredi e Roberto di Buonalbergo, oltre a molti altri nobili. Alla spedizione parteciparono cavalieri campani ed un notevole gruppo di calabresi. Boemondo fu insignito del principato di Antiochia ed estese i suoi domini anche in Siria Cilicia e Armenia. Tentò anche di tornare alla conquista della Grecia, ma, dopo una disfatta a Durazzo, morì nel 1111 mentre, ferito, cercavano di riportarlo a Salerno sperando in opportune cure. Fu sepolto nella Cattedrale di Canosa.
A lui successe il figlio Boemondo II, prima sotto la reggenza della madre Costanza, figlia del re di Francia Filippo I, che invano cercò di controllare le rivolte in Puglia. Fu più volte catturata. Morì in prigionia. Ad Antiochia successe poi la figlia di Boemondo II, Costanza, e poi il di lei figlio, Boemondo III. Seguirono Boemondo IV, V, VI, e VII (+ 1287) e con lui finì il principato.
La capitale del Ducato di Puglia e Calabria fu spostata a Salerno. Ruggero Borsa non aveva la stessa intraprendenza del padre e del fratellastro. Il suo regno fu segnato dall’impegno a mantenere i suoi domini. Sposò la danese Adala o Ada dalla quale ebbe il figlio Guglielmo. Ebbe alcuni contrasti con Boemondo riguardo il possesso di alcune zone della Puglia. Dopo che il primogenito del Guiscardo aveva cercato di impadronirsi di alcune città della Puglia, ci fu uno scontro nel beneventano, da cui il fratello maggiore uscì sconfitto, ma come riferisce Romualdo salernitano, in quella battaglia nessun combattente fu ucciso, tranne uno. Intanto il ducato di Amalfi, rimasto per alcuni anni, dalla morte del Guiscardo, ufficialmente senza un duca, era stato in seguito assegnato allo spodestato principe di Salerno Gisulfo II.  In seguito (morta Sichelgaita), il duca Ruggero estese il proprio dominio su Amalfi, a scapito dello zio longobardo. Nel 1092 chiede a papa Urbano II, che era a Salerno dopo aver consacrato la Basilica benedettina di Cava, l’investitura del Ducato di Puglia dichiarandosi suo vassallo.
In cambio di aiuti militari si sarebbe impegnato a cedere allo zio Ruggero Gran Conte di Sicilia una parte del suo ducato. Ruggero morì a 50 anni, dopo oltre 25 anni di governo del ducato.
 

Nota: Alla fine del VI secolo la penisola italiana, da poco annessa all’Impero bizantino, viene travolta dall’invasione dei longobardi, i quali sottraggono gran parte della penisola al controllo di Bisanzio. I territori rimasti vengono posti sotto la giurisdizione dell’Esarcato d’Italia, con capitale Ravenna.
Tra l’inizio del VIII e la fine dell’VIII secolo i bizantini perdono il controllo di tutti i loro possedimenti nell’Italia settentrionale e centrale. Gran parte di questi territori vengono conquistati dai longobardi a seguito di scontri militari: è il caso della Liguria, di numerose fortezze in Emilia, Umbria e Marche, e della stessa Ravenna, sede dell’esarca, che viene conquistata dal re longobardo Astolfo nel 751.
Solo il Lazio e la laguna veneta rimangono immuni alle conquiste longobarde nel Centro-Nord. Invece la situazione al Sud e nelle isole è ben diversa. L’avanzata longobarda nel Mezzogiorno, rappresentata dai ducati di Spoleto e di Benevento, viene frenata grazie ad una forte presenza militare bizantina in Puglia e Calabria, regioni facili da difendere e rifornire in quanto più vicine ai territori balcanici dell’Impero. Una roccaforte bizantina rimarrà per moti anni Bari.

Bibliografia:

  • Amato di Montecassino, Storia de’ Normanni volgarizzata in antico francese, a cura di V. De Bartholomaeis (Fonti per la storia d’Italia, 76), Roma 1935.
  • Mito di una città meridionale; Paolo Delogu; Liguori Editore
  • Salerno, profilo storico cronologico; Gallo- Troisi; Palladio
  • Memorie Storico-Diplomatiche dell’antica Città e Ducato di Amalfi; Matteo Camera; Centro di cultura e storia amalfitana
  • Chronicon di Romualdo II Guarna; a cura di Cinzia Bonetti; Avagliano Editore
  • Errico Cozzo; Salerno e la ribellione contro re Guglielmo d’Altavilla nel 1160/62. Atti del convegno dell’associazione italiana dei paleografi e diplomatisti Napoli-Badia di Cava dei Tirreni ottobre 1991.
  • Un santo nella tempesta- Gregorio VII dalle sue lettere; A. Sorrentino; tip. Europa, Salerno.
  • Sichelgaita Signora del Mezzogiorno; Michele Scozia; Alfredo Guida Editore
  • Sichelgaita tra Longobardi e Normanni; Dorotea Memoli Apicella; Elea Press
  • Notizie storiche delle antiche città e de’ principali luoghi del Cilento; G. Volpe; Ripostes
  • Normanni tra nord e sud. Hubert Huben, Di Rienzo Editore
I Normanni del Sud 1016-1030. John Julius Norwich; Sellerio Editore

  • Gli Amico e le rivolte dei conti normanni di Puglia contro gli Altavilla. Giuseppe Di Perna; Malatesta Editrice.

Per saperne di più leggi: Giovanni Amatuccio – Roberto il Guiscardo: Le gesta di un conquistatore. Disponibile su Amazon in formato digitale e cartaceo. https://www.amazon.it/dp/B0CLRGYS5P

©2024 Alberto Gentile (con la collaborazione di Astrid Filangieri).

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Salviamo le Torri di Varano – i tesori del Gargano che stanno crollando

Petizione diretta a Giorgia Meloni (Presidente del Consiglio), a Michele Emiliano (Presidente Regione Puglia), Rosa Barone (Assessore Welfare Regione Puglia); Giuseppe Nobiletti (Presidente Amministrazione Provinciale di Foggia); Raffaele Piemontese (Vicepresidente Regione Puglia); Alessandro Nobiletti (Sindaco Comune di Ischitella (FG); Pasquale Pazienza (Presidente Parco del Gargano); Ludovico Vaccaro (Procuratore Capo di Foggia); Arma dei Carabinieri – Nucleo CC Tutela Patrimonio Culturale di Bari; Anita Guarnieri (Soprintendente – Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e paesaggio per Foggia e BAT); Gennaro Sangiuliano (Ministro della Cultura)

La petizione è stata lanciata l’ 11 febbraio 2024 su change.org 

da Alessandro Rota.

Ecco il testo

“La Storia è la memoria di un popolo, e senza una memoria, l’uomo è ridotto al rango di animale inferiore” Malcom X

Esprimiamo la grande preoccupazione per il Patrimonio Storico e Culturale del Comune di Ischitella (FG), rappresentato dalle due Torri medievali di Varano (grande e piccola) che versano in uno stato di totale degrado e abbandono ormai da decenni. I recenti episodi di cedimento della Torre Grande sono l’ennesima manifestazione di tale situazione, e le enormi crepe e buchi presenti nella Torre Piccola presagiscono un imminente crollo.

                                                

Le due Torri di Varano, site nella frazione “Foce Varano”, costituiscono i monumenti più importanti e significativi del territorio del Comune di Ischitella (prov. Foggia). La loro costruzione è risalente al XIII secolo e nei secoli più recenti sono passate in mano ai proprietari dei “feudi” della zona del Lago di Varano. Sono gli esempi più antichi di Torri di epoca medievale presenti sulle coste del Gargano.

                                                  

Esse costituiscono non solo due edifici di rilevanza storica, ma sono un grande patrimonio della memoria, della cultura e delle tradizioni locali.

Arrivando alla storia più recente, fino agli anni 1960/1970 le due Torri vengono utilizzate quotidianamente e mantenute con cura dalla gente del posto, dopodiché lo spopolamento della zona e la conseguente incuria ne determinano il primo abbandono.

                                             

Pur essendo beni di rilevanza storica e culturale, non vi sono stati interventi per la messa in sicurezza fino al 1987, anno in cui la Torre Grande è crollata rovinosamente per metà, fortunatamente senza causare vittime.

                                                 

Dopo la messa in sicurezza della parte rimasta in piedi, da quel momento le due Torri, anziché essere tenute sotto controllo e periodicamente curate, vengono sempre più abbandonate.

Inoltre, negli anni ‘90 l’edificio storico posto di fianco alla Torre Piccola viene demolito per costruire una casa moderna che a tutt’oggi (2024) risulta incompleta e ovviamente disabitata.

A partire dal 2010 le due Torri vengono attenzionate da alcuni abitanti del luogo e da appassionati di storia e cultura locali. I segni del degrado si fanno sempre più evidenti:

– nella Torre Grande la scalinata risulta invasa dalle piante selvatiche e vi sono numerose crepe, oltre a crolli evidenti di porzioni di facciata

– nella Torre Piccola, in corrispondenza di quella che era una finestra, si apre un enorme buco e le evidenti crepe giungono fino alle merlature. Le piante selvatiche invadono il suo interno, già pieno di detriti (pietre e travi).

In entrambe le Torri, la situazione appare gravissima e minaccia crolli importanti che potrebbero creare anche incidenti e vittime in quanto la loro posizione è prospiciente la strada.

La proprietà delle due Torri risulta privata, ma ad oggi i diversi titolari non hanno effettuato la necessaria manutenzione per far sì che tali beni storici vengano preservati, con i risultati di ROVINA che purtroppo ci ritroviamo a constatare. Le Istituzioni locali e nazionali che dovrebbero vigilare su questi beni costituenti il patrimonio storico e culturale italiano, fino a Gennaio 2024 non sono intervenute in maniera efficace.

Negli anni, sono state fatte molte segnalazioni e numerose sono state le iniziative di sensibilizzazione promosse proprio da chi ha a cuore la situazione e che promuove tale iniziativa di sensibilizzazione a interventi che ormai sono divenuti urgenti. Purtroppo, il degrado ha continuato ad avanzare.

                                    

Successivamente al nuovo rovinoso crollo della scalinata della Torre Grande avvenuto il 13 Gennaio 2024 abbiamo mandato una segnalazione direttamente al Segretario Generale del Ministero della Cultura, Dott. Mario Turetta, che ha prontamente risposto inoltrando la segnalazione direttamente alla Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio BAT e Foggia.

Da quel momento, sono intercorsi i primi dialoghi tra la Soprintendenza e il Comune di Ischitella, seguiti da un sopralluogo della Soprintendente BAT e Foggia Anita Guarnieri il 5 Febbraio 2024.

L’obiettivo dei firmatari è rendere noto alla popolazione quanto accaduto fino ad oggi, e di quanto sta accadendo, con la finalità di attivare finalmente le azioni e gli interventi necessari ed estremamente urgenti per salvare le due Torri di Varano.

In conclusione, dopo tali considerazioni e dati di fatto, con tale lettera

                                                                       RICHIEDIAMO

– che il Ministero dei beni culturali attivi direttamente, per i due Beni Culturali in oggetto, le due Torri di Varano, la procedura di Esproprio per pubblica utilità a fini di tutela, fruizione pubblica e ricerca, corrispondendo un’indennità ai proprietari, secondo la normativa vigente:

• D.P.R. 8 giugno 2001, n. 327, “Testo Unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di pubblica utilità”, in particolare D.L.gs 27.12.2002, n. 302, e successive integrazioni e modificazioni;

• D.L.gs 22.01.04, n. 42, “Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio”, artt. 95-100.

CHIEDIAMO INOLTRE

– che venga URGENTEMENTE analizzata la situazione dagli organi competenti, attuando tutte le azioni possibili finalizzate alla tutela di questi due beni del patrimonio storico-culturale del territorio di Ischitella, condividendo con la cittadinanza un progetto di restauro urgente e valorizzazione.

Il fine di tale richiesta è che le due Torri di Varano possano tornare ad essere due significative attrattive storico-culturali e turistiche del territorio del Gargano, che potranno essere valorizzate, una volta restaurate, attraverso la costituzione di una rete di collaborazione tra Istituzioni e Associazioni locali che potranno gestire, anche tramite la richiesta di appositi fondi, la promozione e le visite nei siti.

LE TORRI DI VARANO NON DEVONO MORIRE: non c’è più tempo, salviamole insieme!

Alessandro Rota

presidente Associazione Culturale Officine Ianós ed ex-bambino che tutte le estati giocava alle due Torri di Varano, immaginando che fossero eterne e indistruttibili come i castelli delle fiabe

Teresa Maria Rauzino

presidente Sezione Gargano Nord della Società Storia Patria per la Puglia

Associazione “il Quadrato Magico”

Potete firmare la petizione “Salviamo le Torri di Varano – i tesori del Gargano che stanno crollando”

su change.org al seguente link: 

https://chng.it/hTY7ZBk8DF

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    Arthur Miller a Monte Sant’Angelo… alla ricerca delle sue radici ebraiche

    Per il drammaturgo americano, il viaggio a Monte Sant’Angelo diventa un pretesto per riscoprire la sua identità

    Monte Sant’Angelo in un quadro del pittore Luigi Schingo

    Molte suggestioni vengono ispirate dai viaggi, che per il narratore diventano pretesto di scrittura. Nel 1948, nel Mezzogiorno poverissimo di un’Italia appena uscita dalla seconda guerra mondiale, su una piccola Fiat rumorosa, viaggia un newyorkese di origine ebraica: Arthur Miller (1915-2000), uno degli intellettuali più impegnati del Novecento, che balzerà agli onori della cronaca dopo il matrimonio con  Marilyn Monroe.

    Il giovane scrittore è in compagnia dell’amico italo-americano Vincent Longhi e visita Monte Sant’Angelo, un “nido d’aquila turrito” denso di memorie medievali.  Quell’angolo di Puglia lascia un’impronta indelebile nell’animo di Miller, che l’anno dopo pubblicherà il capolavoro che gli valse il Premio Pulitzer: “Morte di un commesso viaggiatore (1949)”.

    Il racconto “garganico” appare nel 1951 sull’autorevole rivista “Harper’s Magazine”. Tradotto in italiano dalla Rizzoli nel 1970, è stato ripubblicato da Davide Grittani nell’antologia “Verso Sud” (ed. Grenzi).

    Monte Sant’Angelo diventa il luogo dove Miller va alla ricerca del tempo perduto, riscopre la propria identità. L’autore ritrova nella luce tersa del Sacro Monte tutta la sua essenza. L’ambiente e le persone destano in lui strane suggestioni, facendogli riconoscere, in alcuni gesti e situazioni, una componente etnica latente: l’ebraismo.

    Miller, che nella finzione del racconto è l’ebreo Bernstein, resta colpito dall’asprezza del paesaggio e del contesto; vorrebbe ritornare a casa. Ma Vinny Appello (Longhi), l’amico d’origini italiane, che prima a Lucera, poi a Monte Sant’Angelo sta ricercando le proprie radici presso una zia e nel santuario di San Michele, gli comunica il desiderio che guida il suo viaggio: “appartenere a una storia”.

    Quando scendono nella cripta del santuario, il pavimento di pietra è bagnato dallo stillicidio della grotta carsica. Lungo le pareti e ai lati dei tortuosi corridoi che si diramano da una sala centrale a volta, vi sono delle tombe antiche, con iscrizioni illeggibili. Il prete ricorda vagamente una nicchia degli Appello, ma non ha idea della sua ubicazione. Appello passa da una cripta all’altra, facendosi luce con una candela. Si curva, sembra un monaco, o un archeologo, scompare poco a poco nella lunga oscurità dei tempi, in cerca del suo nome su una pietra.

    Bernstein (Miller) ne è fortemente turbato. Ricorda i racconti di suo padre sul paese d’origine in Europa, la tinozza dove tutti attingevano l’acqua, lo scemo del villaggio, il barone del luogo. Nessun motivo di orgoglio in tutto questo, niente. E del resto, ora non è un americano a tutti gli effetti?

    Trovano un ristorante, sul precipizio al margine opposto della città; un grande, unico locale con quindici o venti tavoli; sulla parete di fondo una fila di finestre si affaccia sulla piana sottostante. Fa freddo. Il vento imperversa.

    Una ragazza, la figlia del padrone, arriva dalla cucina, e Appello le chiede cosa c’è da mangiare.

    La porta si apre ed entra un uomo. Guardandolo, Bernstein prova un’immediata impressione di familiarità, di cui non sa trovare la ragione. Si chiama Mauro di Benedetto, porta un cappello nero, insolito da quelle parti, dove tutti portano il berretto: «Vendo stoffe, qui, alla gente, e ai negozi, se così si possono chiamare» dice. Il suo sguardo non ha l’innocenza contadina degli uomini del paese. Dopo aver mangiato, beve un’ultima, lunga sorsata di vino, si alza e comincia a rivestirsi. Prende il suo fagotto posato su un tavolo e comincia a disfarlo.

    Bernstein lo osserva leggermente curvo sopra il fagotto. Vede le sue mani occupate a disfare il nodo. Ora l’uomo sta togliendo la carta che avvolge due pezze di stoffa, ne spiana con cura le grinze. La cameriera porta un’enorme pagnotta rotonda di almeno mezzo metro di diametro. Gliela offre, e lui la mette in cima alla pila di scampoli.

    A quel gesto, un’ombra di sorriso increspa le labbra di Bernstein (Miller). Ora l’uomo riavvolge con attenzione il fagotto, lo chiude con un laccio e lo riannoda. Bernstein ride, sollevato, dicendo ad Appello: « È esattamente il modo in cui faceva un fagotto mio padre… e mio nonno. Tutta la nostra storia è far fagotto e andar via. Solo un israelita sa legare un fagotto così!».

    Perché tanta fretta di arrivare a casa? L’uomo scrolla le spalle: «Non so. Per tutta la vita sono tornato a casa per l’ora di cena, il venerdì sera, e mi piace arrivare prima del tramonto. E mio padre il venerdì sera è sempre tornato a casa prima del tramonto».

    «Porta a casa il pane fresco per il Sabbath, che comincia al tramonto del venerdì – dice Bernstein all’amico – E’ un ebreo, ti dico. Domandaglielo, per piacere».

    Alla domanda di Appello, l’uomo scuote la testa, in segno di diniego. Quindi va via, ma Bernstein è felice lo stesso. Si sente finalmente a proprio agio. Ridiscende nella cripta e mentre l’amico continua a cercare la tomba dei monaci medievali suoi avi, egli non si muove, cercando dentro di sé il perché di quello che è accaduto. Vede quell’uomo cortese scendere giù per la montagna, camminare attraverso la piana, per strade segnate da generazioni di uomini, un viandante senza nome che porta a casa una pagnotta ancora calda il venerdì sera… e che si inginocchia in una chiesa la domenica.

    Un’ironia indescrivibile: sotto l’insensato impulso della storia, un ebreo è segretamente sopravvissuto. Pur spogliato della sua coscienza, osserva il Sabbath in un paese cattolico. La sua stessa inconsapevolezza finisce per essere una muta prova di un passato ancora vivo.

    «Un passato anche per me» pensa Bernstein, attonito nel sentire quanta importanza abbia questa cosa per lui. Per lui che non ha mai avuto una religione, e nemmeno una storia.

    Finalmente Appello ritrova la tomba tanto cercata. Anche lui è felice di aver ritrovato l’identità perduta. Quando risalgono su, il paese è deserto. L’aria odora di carbone di legna e di olio d’oliva. Qualche pallida stella è apparsa nel cielo.

    Bernstein (Miller) pensa a Mauro di Benedetto che sta scendendo per la strada sassosa e serpeggiante, affrettandosi per arrivare a casa, prima del calar del sole…

    @Teresa Maria Rauzino

    sul Corriere del mezzogiorno agosto 2008

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    Rodiani e molfettesi emigrati a Hoboken festeggiano le sante patrone delle città di origine

    Rodiani e molfettesi hanno fatto di Hoboken, la città di Frank Sinatra, affacciata sul fiume di fronte a New York, un pezzo di Puglia.

    Manifesto contributo rodiani residenti in America (fra cui Andrea e Michele Guglielmelli) per la festa della Madonna della Libera.

    Nella popolosa Hoboken, la più metropolitana e cosmopolita città del New Jersey, sita sulla sponda destra del fiume Hudson che la separa dall’isola di Manhattan, il 12 dicembre di 87 anni fa nasceva Frank Sinatra, l’italoamericano dagli occhi azzurri che avrebbe incantato, con la sua voce suadente e vellutata, gli innamorati di tutto il mondo.

    Hoboken celebra ogni anno la sua nascita e gli ha dedicato un parco ed una viuzza, che s’affacciano sull’Hudson; meta di conoscenti e vicini di casa, che in ricordo del loro beniamino vi depongono i mazzi di fiori coltivati nei loro giardini. Ad Hoboken risiedono molte famiglie provenienti da tutte le regioni italiane ed anche i discendenti di molti immigrati pugliesi. 

    Anche Rodi Garganico pagò il suo tributo all’emigrazione verso le Americhe, concentrando le sue speranze di riscatto economico oltreoceano, proprio in questa area suburbana di New York.

    Molti rodiani abbandonarono le attività agrumarie che registravano in quegli anni una preoccupante involuzione dovuta alle frequenti gelate, e lasciarono l’Italia tra la fine dell’Ottocento e il primo decennio del secolo scorso. I primi arrivati si fecero raggiungere dai propri familiari, ma anche dagli amici e dai conoscenti. Hoboken diventò la seconda patria di questa gente di mare che si portava dentro il ricordo della Madonna della Libera, l’eco dei rintocchi serali della campana del santuario mariano.

    Lo ha documentato lo storico Filippo Fiorentino, che nell’articolo I rodiani di Hoboken (pubblicato nel 2001 su «Frontiere», bollettino semestrale del Centro di documentazione sulla Storia e la Letteratura dell’Emigrazione della Capitanata) scriveva: «Da Hoboken nel New Jersey, alcuni anni fa, i coniugi Guglielmelli fecero giungere al Santuario della Libera di Rodi Garganico un labaro finemente ricamato, vessillo della Società Madonna della Libera Ladies Auxiliary, che porta riprodotto nella parte centrale la tradizionale sacra effigie.

    Significativo il gesto di affidare alla chiesa, che è memoria lontana della fede mariana mantenuta viva anche sulle sponde del fiume Hudson, il simbolo della devozione delle donne rodiane emigrate con le loro famiglie negli Stati Uniti d’America. Il 2 luglio di ogni anno, le strade di quella industriosa cittadina nordamericana erano percorse da un’insopprimibile volontà di testimoniare una fede popolare e antica.

    E, quasi a richiamare la tradizione che vuole le donne di Rodi portatrici del Sacro Quadro nel tratto terminale della processione, le “ausiliatrici” di Hoboken portavano con altrettanta emozione quel vessillo di raso, che ricongiunge ora nel Santuario le generazioni di ieri a quelle del presente, gli affetti dolenti d’oltreoceano al bisogno di affidamento cristiano della vita nei luoghi nativi».  

    A sostenere lo spirito di solidarietà tra emigrati, era attiva a Hoboken già nel 1911 la Promontorio Garganico Società di Mutuo Soccorso. Dal libretto-statuto si evince che la Società mirava a promuovere «l’istruzione, la moralità ed il benessere collettivo». Il sodalizio si proponeva tra l’altro di creare una cooperativa di consumo tra i soci. Il mutuo soccorso si ispirava a logiche sociali di tutela della manodopera italiana e, in occasione di malattie o di inabilità al lavoro dei soci, si concretizzava in sussidi pecuniari.

    I «Molfettesi» di Hoboken

    Attualmente lo scopo delle associazioni presenti ad Hoboken come quella dei «Molfettesi» (nel 1929 Gaetano Salvemini parlò di una colonia di 3000 immigrati) è di mantenere i soci legati alle loro radici. Anno dopo anno, il loro impegno per mantenere viva la loro identità è facilitato dai nuovi mezzi di comunicazione sociale.

    Gli italoamericani infatti seguono continuamente i telegiornali e tanti altri programmi della radiotelevisione italiana, che incentivano i rapporti con la cultura legata all’Italia. Particolare l’attenzione verso i giovani. Nati e integrati in una nazione come gli Stati Uniti d’America, è infatti difficile mantenerli uniti e interessarli alle attività dei più anziani. Ma quasi tutti parlano l’italiano, oltre al dialetto d’origine delle loro famiglie.

    La processione della Madonna dei Martiri di Molfetta ad Hoboken.

     

    Nei club dei rodiani, dei molfettesi e delle altre comunità pugliesi tutto parla della Puglia: le stampe che riproducono le vie delle città d’origine delle varie comunità, le chiese, le foto storiche e quelle sugli eventi più significativi. È qui che oggi si svolgono gli incontri associativi, i ricevimenti, i banchetti e i picnic per le famiglie dei soci e dei paesani; ma è anche qui che ogni giorno, chi vuole bere un buon caffé italiano, va a trovarli, respirando aria di casa.

    Occasioni di aggregazione e di gioia comunitaria sono le feste dei santi patroni dei paesi d’origine. Ogni 25 e 26 luglio le varie comunità partecipano sempre più numerose alle feste di Sant’Anna e di San Giacomo e, in ottobre, al Dinnerfest, a cui sono invitati i membri dei club della Comunità montana del Vallo di Diano (SA) residenti nel New Jersey e a New York. Ma la festa più importante è senz’altro l’Hoboken Italian Festival, organizzato dal 9 al 12 Settembre di ogni anno dalla «Society Madonna dei Martiri» dell’omonima comunità originaria di Molfetta.

    DOCUMENTI
    I nomi dei rodiani che si rincorrono a Ellis Island
    .

    Scorrendo le liste degli emigranti sbarcati ad Ellis Island,  postate sul sito www.ellisisland.org, si leggono i nominativi di alcuni membri della famiglia Guglielmelli, partiti da Rodi Garganico per raggiungere Hoboken nel primo Novecento.

    L’11 Settembre 1906 il diciassettenne Michele Guglielmelli si imbarcò da Napoli sul «Manuel Calvo», un bastimento a vapore battente bandiera spagnola e impegnato per anni sulla rotta Barcellona-New York-Caraibi.

    La nave, costruita nel 1892 dalla ditta Armstrong, Mitchell & Company, a Newcastle, con il nome di «Lucania» per il Lloyd germanico aveva una stazza di 5.617 tonnellate; misurava 128 metri di lunghezza per 14 di larghezza e poteva raggiungere una velocità di servizio di 13,5 nodi. La sua capienza massima era di 1.116 passeggeri (84 posti di prima classe, 32 di seconda, 1.000 di terza classe).

    Lista d’imbarco dei Guglielmelli.


    Il 3 Settembre 1909, fu una ragazza, la diciassettenne Rosa Guglielmelli, ad imbarcarsi a Napoli sul «Calabria», un bastimento che sotto bandiera britannica fu impegnato per più di venti anni sulla linea Mediterraneo-New York e Glasgow-New York.

    Un altro membro della famiglia Guglielmelli, il diciassettenne Michele, diretto a Hoboken, risulta iscritto e cancellato nella lista dei passeggeri del bastimento «The Berlin», salpato il 19 Novembre 1913 da Napoli (che sbarcò ad Ellis Island i rodiani Zicolella Giuseppe di anni 17, Sangillo Michele di anni 18, Sangillo Angelina di anni 24 e Miucci Maria Vincenza di anni 24).

    Non risulta il motivo per cui il ragazzo preferì imbarcarsi oltre un mese dopo, esattamente il 26 dicembre 1913, insieme ad altri due rodiani (Di Lella Matteo di anni 17 e Carbone Vittoria di anni 48, diretti a Rochester) sul «Franconia», una nave molto più grande (18.150 tonnellate, 190 metri di lunghezza per 21 di larghezza; velocità di servizio di 17 nodi; 2.850 passeggeri (300 in prima classe, 350 in seconda, 2.200 in terza), di proprietà della compagnia britannica Cunard, una delle principali del mondo.

    ©2005 Teresa Maria Rauzino, articolo pubblicato su «Corriere della sera – Corriere del Mezzogiorno» del 14/04/2005. Le liste di imbarco dei Guglielmelli sono tratte dal sito www.ellisisland.org; la foto della processione dal sito http://www.hobokenitalianfestival.com/. Il manifesto dei contributi degli emigranti americani per la festa della Madonna della Libera di Rodi è tratto dall’album fotografico a cura di don Matteo Troiano, Rodi Garganico. Splendori di un passato, Edizioni Parrocchia San Nicola, Stampa Più Grafica Bologna, 1999.

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    1527. I lanzichenecchi a Roma

    Andrea Moneti, collaboratore del sito www.storiamedievale.net, vince il Premio Michelangelo 2005 con un romanzo edito nella collana “Eretica” di Stampa Alternativa.

    Il primo posto della X edizione del Premio letterario nazionale “Michelangelo” quest’anno è toccato ad  Andrea Moneti, autore del romanzo 1527. I Lanzichenecchi a Roma (Stampa Alternativa, Eretica, 2005, pp. 297). 

    La giuria, memore che il primo romanzo di Moneti, Eretica pravità, uscito per i tipi della Firenze Libri, e vincitore della passata edizione,  è stato premiato con ben 11 premi letterari (fra cui il Mario Soldati e, ultimo in ordine temporale, il Premio Italia Medievale 2005 per l’editoria) augura al «bravissimo scrittore» una splendida carriera e altrettanti meritati successi.

    Dalle motivazioni del Premio “Michelangelo” si rileva come 1527 sia «un romanzo storico, ottimamente scritto, di facile lettura pur nella complessità, narrazione molto aderente alla realtà dei fatti citati, con avvenimenti, località e date in perfetto ordine cronologico. Cattura l’attenzione del lettore, portandolo a rivivere le vicende del passato in un emozionante susseguirsi di immagini».

    Leggendo il libro di Moneti, in effetti, si resta colpiti dalla “levità” con cui l’Autore ha saputo tradurre una vicenda rigorosamente storica, il sacco di Roma, in un testo di ampio respiro narrativo. Ma se è la storia  a connotare la tipologia testuale prevalente,  1527  vede confluire in sé il ritmo del romanzo d’avventura, la suspance del thriller, i temi psicologici del romanzo di formazione. Un mixage di generi narrativi sapientemente dosati dall’Autore, che trascina il lettore in una lettura coinvolgente, nel segno dei migliori romanzi che sanno convincere ed avvincere dalla prima all’ultima pagina.

    L’intreccio della vicenda parte da una missiva del protagonista Heirich, che sarà la chiave di volta dell’intera vicenda. Il tema è di quelli “impegnati”: la violenza della guerra, peggiore delle sciagure. Cieca e disumana si abbatte come un maglio divino sulla città eterna dove la vita è un’imponente lotteria, dove soltanto i più fortunati o i più furbi vengono baciati dalla sorte, dove la lussuria e l’ipocrisia regnano sovrane nella corte papale.

    Il 6 maggio 1527, l’esercito di Carlo V tiene in scacco Roma, mettendola a ferro e fuoco per nove lunghi mesi. Fra i 30mila o forse 35mila soldati, vi sono 12mila mercenari che si battono contro la corruzione della Sacra Romana Chiesa in nome di una nuova fede: il luteranesimo.

    A nulla servono le parole di Clemente VII che sprona i suoi prodi a fermare gli invasori in nome di Dio. Ben presto il pontefice capirà, nel chiuso della prigione di Castel Sant’Angelo,  che Dio non segue alcuna bandiera, nessun esercito. Dio non guarda mai cosa succede sui campi di battaglia. Distoglie lo sguardo e lo volge altrove, lasciando gli uomini a scannarsi tra loro.  

    Roma subisce un’immensa profanazione: i paramenti sacri, gli ori, gli oggetti liturgici vengono rubati o gettati per strada, nel fango e nel letame. Le bolle papali, le lettere e i registri dei conventi e dei monasteri alimentano altissimi, mirati falò. Ovunque, in ogni rione, divampano gli incendi e risuonano le grida delle donne stuprate, il pianto dei bambini strappati alle madri, le urla dei soldati ebbri di furore. Molte fanciulle vengono uccise dai loro stessi parenti per sottrarle all’onta del disonore. Non c’è rispetto per nessuno.

    La mattina del 7 maggio 1527 la città eterna si presenta come una città morta. Non c’è luogo che non sia stato saccheggiato dagli spagnoli e dai lanzichenecchi. I luterani, insieme ai marrani e ai giudei che combattono con i tercieros spagnoli, non hanno risparmiato alcun luogo di culto.

    Oltre all’orrore per la guerra, emblematico degli orrori di tutte le guerre, Andrea Moneti fa vibrare nei suoi personaggi i sentimenti eterni dell’uomo. L’amicizia, la lealtà, l’amore rivivono nei protagonisti, avvicinandoli al lettore, che impara ad amarli e a seguirli fino allo scioglimento della vicenda,  al fatidico “The End”. Un finale che ha un lieto fine, quel lieto fine che spesso è negato nei romanzi contemporanei, e che invece Andrea Moneti riesce a sciogliere nel rispetto dell’evoluzione dei personaggi, e in particolare di Heinrich, protagonista della storia.

    L’io narrante è alterno: passa da quello interno del protagonista a quello del narratore. Un narratore discreto, che muove con abilità la storia, anticipandola o posticipandola con l’uso sapiente della prolessi e del flashback.

    Il punto di vista dell’autore Andrea Moneti, che condanna l’insensatezza di tutte le guerre, viene fuori dalla storia stessa, dai dialoghi e dal flusso libero di coscienza del protagonista Heinrich. Costante tema di fondo è l’inconciliabile contrasto, interno alla stessa Riforma protestante, tra i seguaci dell’ortodossia luterana ed i seguaci di Muntzer, trucidati dalle truppe armate dai principi per stroncare le rivolte contadine scoppiate in tutta la Germania.

    Per stroncare “l’eresia” della comunanza dei beni condannata da Lutero, non ci si ferma neppure davanti al sacro sentimento dell’amicizia. Si tradisce e si uccide, accampando giustificazioni superiori. La ragione della religione, che diventa ragione di stato, prevale sui sentimenti più puri. Heinrich per non tradire un amico d’infanzia che ha preferito Muntzer a Lutero, è costretto, suo malgrado,  a disubbidire ai suoi superiori.  La sua coscienza è lacerata dal dissidio interno della scelta. Considerato un traditore da amici che diventano i suoi occulti nemici, rischia di morire.

    Una brutta fine per le idee innovative della Riforma, che avevano provocato una vera rivoluzione culturale. La predicazione contro le indulgenze,  la sfida aperta al papa in nome della libertà di coscienza, avevano librato sulle ali del vento la fama di Lutero. Il monaco agostiniano non si era fermato qui. Aveva tradotto la Bibbia in tedesco. Aveva insegnato ai fedeli a leggersela da soli, ad essere unici interlocutori di Dio, a sentirsi liberi anche nei confronti dei potenti della terra…

    Il sensibile e problematico Heirich, capitano lanzichenecco sui generis, figlio di un nobile proprietario terriero, si era sentito libero. Aveva messo a frutto l’insegnamento di Lutero. Era andato oltre lo studio della Sacra Bibbia, aveva studiato all’università di Tubinga la lingua ufficiale della “nemica” Santa Romana Chiesa. Una decodifica del latino che aveva affinato il suo gusto, insegnandogli ad apprezzare la poesia di Ovidio e di Orazio.

    Heirich si era convinto, suo malgrado, a ripercorrere le orme del padre, dedicandosi alle sue terre, ma dopo la precoce perdita della giovane sposa (recisa dall’albero della vita da un dio beffardo), per sfuggire all’abisso della solitudine, aveva scelto di dare una svolta alla sua vita. Era diventato capitano di ventura. Una scelta che comincia a pesargli appena è costretto dalla dura legge marziale a stroncare, senza pietà, la prima vita umana.

    La vita avventurosa, i facili guadagni, i saccheggi, gli amori prezzolati cominciano a stargli stretti. La crisi, già latente, matura durante il sacco di Roma. Heirich, entrato in San Pietro, che l’abbaglia per la sua maestosità, quando posa lo sguardo sul pavimento macchiato di sangue, ha un istintivo moto di disgusto.

    Solo dopo una lunga serie di eventi tragici (riecheggia nel romanzo l’inconfessata preghiera Domine, libera nos a peste, fame et bello), il nostro eroe ritroverà finalmente se stesso. La sua lunga crisi interiore avrà un epilogo. A riconciliarlo con la vita, e forse con il suo Dio perduto, sarà Angelica, una  fanciulla che non ha avuto paura di lui, e lo ha accarezzato con un sorriso durante il suo febbricitante delirio. Per Heirich, l’alba e l’imbrunire ridiventeranno una cosa sola.

    Come la vita e la morte, l’odio e la speranza…

    L’AUTORE

    Andrea Moneti, un ingegnere innamorato della storia, nasce nel 1967 ad Arezzo, dove vive. È un ingegnere gestionale, e si occupa di organizzazione aziendale, logistica industriale, marketing di acquisti, approvvigionamenti, qualità, relazioni industriali, etc. etc.

    Che barba, direte! Non vi si può dar torto, ma è pur sempre meglio che lavorare in miniera – confida Andrea Moneti ai visitatori del sito www.storiamedievale.net – cui collabora con la rubrica sulle eresie medievali.

    Moneti risponde alle eventuali, possibili domande su come un ingegnere possa scrivere e parlare di Medioevo: «Forse l’unica spiegazione di questa bizzarra alchimia è che, essendo nato e vissuto da sempre in una città e in una regione dove il Medioevo lo si respira passo dopo passo – sasso dopo sasso – ne è proprio intriso: con una predilezione per i movimenti ereticali dei secoli XIII e XIV, catari e apostolici in testa».

    La sera, quando torna a casa, Andrea Moneti si sveste dai panni dell’ingegnere, tanto attillati per tutta la giornata. Vede in televisione il deserto, il pressappochismo e il politichese inutile, fastidioso, dei governanti nostrani (governo e opposizione, senza distinzioni). E pensa: «I secoli bui mi sembrano molto meno bui», concludendo come Cecco Angiolieri: «S’i’ fosse fuoco, arderei ‘l mondo… ma le zoppe e vecchie lasserei altrui».

      
               

    ©2005 Teresa Maria Rauzino. Articolo pubblicato il 6 settembre 2005 su www.capitanata.it.

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    Processo a Napoleone per l’eccidio di San Severo

    Il 25 febbraio 1799, 240 sanfedisti di San Severo, dopo aver divelto l’albero della libertà, furono massacrati dai francesi del generale Duhesme inviato da Bonaparte.

    Era legittimo mettere a ferro e fuoco la città di San Severo? Chi dispose l’eccidio del 25 febbraio 1799? Due interrogativi su una pagina oscura della storia di San Severo, che sono stati anche i due capi di imputazione a carico di Napoleone Bonaparte nel processo sui “fatti e misfatti” compiuti dalle truppe francesi inviate a San Severo per reprimere i moti filoborbonici che si è celebrato il 9 marzo 2006 presso l’Istituto tecnico “Minuziano” di San Severo.

    L’evento è stato organizzato dal «Centro di Ricerca e di documentazione per la Storia della Capitanata», con la collaborazione dell’associazione «Beatrice di Tenda» di Binasco (Mi) e vari patrocini istituzionali.

    La rievocazione storica, introdotta dal professor Giuseppe Clemente e da Luigi Minischetti (con letture di pagine di Fraccacreta, La Cecilia, Duhesme, D’Ambrosio e Irmici) è avvenuta grazie alla disponibilità di giudici e avvocati “veri”, in servizio in vari tribunali italiani (presidente del tribunale: Teodoro Rizzi; componenti del Collegio giudicante: Lucia Navazio e Ludovico Vaccaro; difesa: Guido De Rossi. La Parte Civile si è costituita nella persona del dr. Francesco Gatti, in rappresentanza delle persone danneggiate).

    L’interesse del pubblico, che è accorso in massa  per seguire l’evento, è stato enorme, grazie alla presenza di due magistrati di fama nazionale: il personaggio di Napoleone è stato infatti “interpretato” da Giuliano Turone; il pubblico ministero da Gherardo Colombo. Un PM  perfettamente nella parte che ha interrogato prima il teste, lo storico Matteo Fraccacreta, interpretato da Pasquale Corsi, e poi l’imputato, difeso dall’avv. De Rossi.

    Interessante l’intervento finale del prof. Clemente, che si è fatto portavoce del “pentimento” del generale Duhesme. Perché sono stati scomodati tanti giudici per un “processo” al grande condottiero corso? Per ricordare la cronaca di un eccidio ormai dimenticato.

    Un processo che non ha voluto mettere sotto accusa un periodo storico, ha precisato Colombo, ma un episodio specifico, che lascia questo interrogativo: gli ideali di libertà, uguaglianza e fraternità possono trasformarsi in pretesti per vere e proprie stragi? 

    La Corte ha emesso una sentenza con la quale ha dichiarato «Bonaparte Napoleone responsabile dei reati commessi in San Severo in data 25/02/1799 in concorso con il generale Duhesme e le truppe da questi comandate». 

    I giudici hanno ritenuto «di non poter irrogare una pena nei confronti dell’imputato ormai defunto», ma hanno auspicato, a titolo di risarcimento delle sofferenze patite dalla comunità di San Severo, che «resti imperituro il ricordo del sacrificio di tante vite umane e dei tanti abusi perpetrati» chiedendo, di conseguenza, che l’Amministrazione Comunale si faccia portatrice di opportune iniziative in tal senso. 

    Molto soddisfatto della riuscita dell’iniziativa il presidente del Centro di Ricerca, il prof. Giuseppe Clemente, che ha dichiarato: «Ci eravamo prefissati di riproporre la storia in modo originale ed accattivante, di rileggere i fatti di allora e di dare orizzonti più ampi ad un momento tra i più cruenti della nostra vicenda cittadina. Pensiamo di aver centrato pienamente gli obiettivi che ci eravamo dati, anche perché puntavamo a favorire la riflessione e l’approfondimento restando scevri da qualsivoglia forma di revisionismo».

    Nel corso della manifestazione lo stesso Clemente, nei panni del generale Duhesme, ha proposto che il Governo francese, interessato dalla Città di San Severo attraverso i canali diplomatici, voglia erigere nel centro cittadino un cippo commemorativo contro ogni tipo di violenza e a severo monito per tutti i popoli per continuare a vivere in pace e nel rispetto reciproco delle identità e delle differenze.

    Alcuni momenti del Processo a Napoleone svoltosi a San Severo con Collegio giudicante, Gherardo Colombo, Giuliano Turone, Giuseppe Clemente.

    FEBBRAIO 1799. CRONACA DI UNA STRAGE

    Le vicende di San Severo del febbraio 1799 costituiscono una delle pagine più tragiche della storia della città. Intorno a questi fatti molto è stato scritto, a cominciare dal resoconto dell’erudito Matteo Fraccacreta, che ne fu testimone e principale cronista. Il professor Giuseppe Clemente ha portato recentemente questo evento all’attenzione dell’opinione pubblica  nazionale, ripubblicando il saggio Febbraio 1799. Giacobini, sanfedisti e francesi a San Severo. Cronaca di una strage (Esseditrice, San Severo 2005). Il volume, basato sullo spoglio di fonti archivistiche come i registri dei morti delle parrocchie cittadine e gli atti notarili, si apre con una dettagliata descrizione degli eventi di quel periodo. La vicenda sanseverese viene snodata in tutte le sue connessioni e interferenze, senza trascurare le premesse più o meno lontane: dalla mancata modernizzazione del Regno di Napoli agli arruolamenti borbonici per la guerra contro i Francesi.

    Napoleone, impegnato fin dal 1796 nella prima campagna d’Italia, vince ovunque: esige versamenti in denaro e opere d’arte. Nel mese di gennaio 1799 è alle porte di Napoli, dove nasce la Repubblica Partenopea. Le notizie sulla Rivoluzione Francese avevano provocato in Italia contrastanti reazioni: da un lato la borghesia si attendeva il rinnovamento sociale a lungo auspicato, dall’altro l’esasperato anticlericalismo e il Terrore innescarono spiccati sentimenti antifrancesi.

    Anche in Puglia  si erano creati gruppi di patrioti filo-giacobini, contrastati dai lealisti borbonici.

    Possiamo inquadrare i fatti di San Severo intorno a tre date emblematiche:

    –  8 febbraio: i giacobini innalzarono in piazza della Trinità l’albero della libertà, emblema del nuovo governo repubblicano;

    – 10 febbraio: l’albero venne abbattuto dal popolo, che si scatenò in una sanguinosa repressione di coloro che erano sospettati o esplicitamente accusati di simpatie giacobine.

    – 25 febbraio: il cerchio si chiuse con l’arrivo delle truppe francesi agli ordini del generale Duhesme. La resistenza degli insorti venne piegata dopo violenti scontri nelle campagne, cui seguirono violenze e saccheggi in città, e condanne a morte per chi si era maggiormente compromesso, che inasprirono gli animi e generarono sentimenti di odio e propositi di vendetta nei superstiti e nei parenti delle vittime.

    Eppure il generale Championnet, inviato da Napoleone nel regno di Napoli, nelle “Istruzioni ai patrioti” aveva caldamente raccomandato «di rendere la rivoluzione amabile, per farla amare e renderla utile al popolo», sopprimendo titoli nobiliari, fedecommessi, e maggioraschi, primo passo verso l’abolizione della feudalità. Ordinando di piantare in ogni comune l’albero della libertà, e di munirsi di coccarde di tre colori della bandiera cisalpina (giallo-rosso-turchino), aveva raccomandato che i membri delle nuove municipalità fossero scelti tra «cittadini onesti e virtuosi».

    Come sempre accade nei cruciali momenti di “svolta” politica, anche a San Severo ci furono repentini cambiamenti di fronte: i fedeli sudditi borbonici si trasformarono in ferventi giacobini, pronti a ritornare sotto le bianche bandiere gigliate appena la situazione lo avesse richiesto. Trionfò il cameolontismo. Ecco perché la massa popolare lottò contro il nuovo governo filofrancese, con l’aggravante di essere strumentalizzata dai maggiorenti rimasti fuori dai giochi di potere.

    Questi diffusero tra il popolo già in fermento la voce che la successiva domenica, durante il terzo giorno dei festeggiamenti repubblicani, sotto l’albero della libertà ci sarebbero state «danze sfrenate, abbracciamenti e nozze» e che «a’ repubblicani connubi auspice sarebbe stata la statua della Santa Vergine».

    Domenica 10 febbraio 1799, perciò, quando i repubblicani prelevarono il simulacro della Madonna del Soccorso, patrona di San Severo, per portarla accanto al «gran cipresso coronato di alloro, con sulla cima il pileo rosso», la popolana Antonia de Nisi, detta la «scazzosa»,  insieme ad altri sanfedisti, gridò: «Perché, perché la Vergine co’ giacobini sotto l’albero? All’armi, all’armi!». Si scatenò una sanguinosa rivolta contro i giacobini. Questi furono decapitati con le stesse accette con cui fu tagliato l’albero della libertà, e le loro teste seppellite nel fosso del divelto albero, dopo essere state coperte di sputi.  

    Il vescovo Giovanni Gaetano del Muscio, che aveva ordinato ai parroci di predicare la pace nelle piazze, promettendo indulgenze ai penitenti, corse il rischio di essere linciato dalla folla insieme al frate francescano Michelangelo Manicone (illuminista di Vico del Gargano, autore de La Fisica Appula), che in quei giorni stava visitando San Severo ed aveva partecipato alla piantumazione dell’albero della libertà.

    La rivolta antifrancese si diffuse in molti paesi della Capitanata, da dove partirono gruppi di filoborbonici per dar man forte ai sanseveresi. Su San Severo, che non volle patteggiare la resa, si abbattè il 25 febbraio 1799 la tremenda vendetta dei francesi. La città fu messa a sacco. Ci fu una vera e propria strage d’inermi, di donne, di fanciulli.

    Il generale Duhesme il 7 marzo scrisse il seguente rapporto al suo superiore Mac Donald: «Dopo le manovre valorosamente eseguite dalle nostre truppe è stata chiusa la ritirata ai ribelli. Il resto della giornata non è stata che un massacro. (…) Avevo giurato di far incendiare San Severo, ma fui commosso dalla sorte lacrimevole di una popolazione di ventimila anime. Feci cessare il sacco e perdonai».

    Il Colletta parlò di tremila morti. La verifica effettuata dal professor Clemente sui registri delle varie parrocchie della città ha ridimensionato questo numero. In realtà, i morti registrati furono 240 fra i residenti a San Severo, 100 dei paesi vicini e 100 soldati francesi. In totale si contarono quindi 450 vittime. La maggior parte aveva meno di quarant’anni.

    Furono complessivamente 11 le donne vittime della strage, alcune mentre aiutavano i loro uomini impegnati negli scontri, altre massacrate in fuga o mentre cercavano scampo nelle chiese. Angela Giuliani fu uccisa insieme alla figlioletta Antonia Moscatelli, di appena un anno, mentre la stava allattando. Il 17 marzo venne fucilata Antonia de Nisi. Prima della pubblica esecuzione fu trascinata, con un laccio al collo legato alla coda di un cavallo, per le strade di San Severo. 

    L’arciprete Masciocchi, nell’annotare il nome della De Nisi sul registro dei morti della Cattedrale, scrisse: «Sacra poenitentia munita, a Gallis, praecedente  decreto condemnationis, pluribus ictibus ignearum balistarum vulnerata, mortem obiit, prope ianuam majorem Monasterium Patrum Coelestinorum, praecedente, dico, decreto condemnationis, ob crimen sibi imputatum et probatum, commovisse populum ad tumultum ob arborem libertatis in publica platea infixam» («Munita di conforti religiosi, per un precedente decreto di condanna, ferita dai Francesi con numerosi colpi di fucile, trovò la morte vicino alla porta d’ingresso del monastero dei Padri Celestini, per un precedente, ripeto, decreto di condanna, a causa di un crimine a lei imputato e provato: aver spinto al tumulto il popolo, dopo aver divelto l’albero della libertà piantato in pubblica piazza»).

    Ferdinando IV inviò il cardinale Ruffo alla riconquista del suo ex regno. La vittoriosa spedizione dei sanfedisti trovò il sostegno popolare e l’appoggio della flotta inglese di Nelson. Seguì dal giugno 1799 una spietata ritorsione del re contro chi aveva sostenuto la repubblica partenopea. A San Severo vi fu chi, pur avendo sostenuto i giacobini, per evitare ritorsioni, fece attestare da numerosi testimoni di aver tenuto un comportamento “lealista”. Quasi tutti i notai furono impegnati nella redazione di questi documenti “giurati”. Le mogli delle vittime della strage del 1799 chiesero e ottennero un risarcimento per sé e dei maritaggi per le piccole orfane.

    E ogni 25 febbraio fino al 1860, le campane della Croce Santa ricordarono ai sanseveresi, con i loro lenti rintocchi, quel giorno di ordinaria follia.

    PER NAPOLEONE UN PRECEDENTE: IL PROCESSO A BINASCO  
    Il processo a Napoleone svoltosi a San Severo nasce su ispirazione dell’associazione “Beatrice di Tenda”, che nel 2002 ha istruito un processo vero e proprio contro Napoleone e contro i responsabili dell’eccidio di Binasco, importante e ricco centro agricolo fra Milano e Pavia che nel 1796 venne messa a ferro e fuoco dalle truppe di Napoleone, in seguito ad un colpo di fucile partito contro un soldato francese: oltre cento civili furono uccisi, il paese fu distrutto. Questa terribile storia – all’epoca exemplum e monito verso chi poteva resistere alla determinazione napoleonica – era stata letteralmente rimossa dalla memoria locale. Una sola famiglia ricordava vagamente la perdita di un parente in quella data: l’intero episodio, una vera scena madre di distruzione, era stato dimenticato, come un vero shock collettivo, almeno sino al lavoro storiografico, datato circa una decina di anni fa. Anche il processo di Binasco è stato celebrato da protagonisti di primo piano (Virginio Rognoni in veste di presidente, Gherardo Colombo pubblico ministero, Salvatore Marceca nelle vesti di difensore) che hanno offerto numerose occasioni di riflessione: i conti col passato si fanno anche così, e straordinariamente attuali appaiono i termini con cui è stata posta la questione dei portatori di libertà, dei diritti dei civili, del diritto di guerra.     

    ©2006 Teresa Maria Rauzino.

    Foto del processo a Napoleone: @ Teresa Maria Rauzino


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    Microstorie

    L’agonia feudale e la scalata dei galantuomini

    Una ricerca storiografica di Leonarda Crisetti Grimaldi

    Dopo la lettura del libro di Leonarda Crisetti Grimaldi L’agonia feudale e la scalata dei galantuomini, cosa va posto all’attenzione del lettore? Quali i punti di forza della ricerca? Il compito è piuttosto arduo, vista la complessità della tematica. L’impianto temporale è di lunga durata: partendo dal 1750, la Crisetti si sofferma sull’Ottocento e giunge fino al 1914,  con qualche rapida incursione nei secoli passati e in quello attuale per ricostruire gli antefatti e le conseguenze della questione demaniale a Cagnano Varano.

    Uno spaccato storiografico che ci disvela status e modi di vivere delle vecchie classi egemoni, oltre ai meccanismi che connotano la scalata sociale di quelle classi che erano state, fino a quel momento, subalterne. Colpisce l’estrema varietà e ricchezza delle fonti utilizzate per ricostruire il contesto socio-economico: oltre alle Delibere comunali, la Crisetti analizza le Rivele, il Catasto Onciario, il Catasto Murattiano. Anche se redatti a distanza di sei decenni, i due catasti riflettono logiche, strutture e metodi differenti. Le consentono comunque di delineare un profilo attendibile della realtà tendenzialmente dinamica del regime possessorio della terra, oltre agli aspetti socio-economico-demografico-culturali della popolazione.

    L’Autrice non disdegna, per l’analisi delle vicende del Novecento, l’utilizzo delle fonti orali, raccordando la microstoria di Cagnano Varano con gli eventi coevi, con l’intento di dare risposta ad una domanda-chiave: «Chi furono  i  protagonisti della scalata sociale nel primo decennio dell’Ottocento?». Ecco perché scandisce tutti i passaggi che permisero a poche famiglie di appropriarsi illegittimamente dei terreni sottratti ai feudatari o al Comune, “affrancando” gli usi civici per regolarizzare le occupazioni e diventare proprietari. I cosiddetti “emergenti”, nel corso di oltre un secolo si servirono, a questo scopo, della politica e della “nuova” gestione della cosa pubblica.

    Nel 1750, al tempo dell’Onciario, la popolazione di Cagnano, di circa 1850 persone, è concentrata nei quartieri denominati “Entro la Terra”, “Casale” e “Nuovo Casale”. Le famiglie “gentilizie”, quelle che abiteranno nell’Ottocento i palazzi con portali e stemmi ben visibili, sono poco in vista. Non godono di redditi significativi: sono semplici “bracciali” e massari.

    La terra è nelle mani di tre grandi proprietari, esponenti della nobiltà e del clero: il principe-duca Brancaccio, titolare della Terra di Cagnano; il duca Zagaroli, proprietario della Difesa della Regia razza delle Giumente; i Canonici Regolari Lateranensi di Santa Maria di Tremiti, che posseggono San Nicola Imbuti, sul lago di Varano.

    Nel 1741, nella piccola cittadina garganica, c’è quindi un unico possessore di “sangue blu”: Luigi Paolo Brancaccio. Nelle rivele dell’Onciario è denominato “l’Illustre Possessore”. Il duca, di antica nobiltà napoletana, ha 46 anni. Ha rimpinguato il suo blasone sposando la duchessa di Carpino Felicia Vargas, sua coetanea, che gli ha dato sei figli: un maschio e cinque femmine.

    Nel Palazzo baronale di Cagnano, la famiglia dimora con la sua piccola corte, proveniente da località dove i principi Brancaccio gestiscono altri feudi: il segretario è palermitano, i camerieri sono napoletani, il “repostiero” è calabrese; non è specificata la provenienza della nutrice, del maestro di casa, dei due servitori, del cuoco e del sottocuoco, del calessiere e del “volante”, che  probabilmente sono stati assunti sul posto. Il duca Brancaccio esercita di diritto di pesca nei “tre puzzacchi” sul lago; possiede il grande bosco demaniale in località Bagno, una vigna con torre, pozzo d’acqua sorgiva e uliveti a San Rocco; mezzane d’uliveti, olivastri, orni, un orto di fichi, seminativi, diverse “piscine”, la Taverna, tre “trappeti per macinar olive”; animali vari.

    Luigi Paolo Brancaccio ha ceduto all’Università e affittato la portolania e la mastrodattia;  è altresì comproprietario di un “bosco sassoso e macchioso” di querce, cerri e faggi: il Compromesso; possiede la “defensa”  di Santa Marena, dove le università di Cagnano e di Carpino fanno pascolare le loro mandrie di buoi per tutto l’anno, riservando l’erbaggio anche alla Regia Dogana di Foggia per tre mesi all’anno. I pascoli sono sufficienti ad alimentare, oltre alle greggi e alle mandrie locali, circa ventimila pecore che giungono dall’Abruzzo.

    All’epoca dell’Onciario, poche unità, rappresentate da nobiltà e clero, producono il 56% del reddito del paese, mentre i produttori, ossia il 92% della popolazione, il restante 44%. Questi ultimi sono vessati da tasse e prestazioni da corrispondere all’Università, ai nobili e al clero.

    Durante il Decennio francese, i feudatari sono privati della giurisdizione e di alcune prerogative fiscali, ma non di tutti i beni: una parte viene loro assegnata come proprietà privata, un’altra parte è data al Comune, con l’obbligo di ripartirla tra i cittadini che hanno perso gli usi civici. 

    Nel 1806 cessa il sistema della Regia Dogana e nel 1807  gli ordini religiosi sono sciolti. I loro beni, incamerati nel Demanio dello Stato, vengono venduti ai privati. Una Commissione feudale, che opera fino al 1810, ha l’incarico di dirimere le questioni nate prima del 2 agosto 1806 tra Baroni e Università, mentre la quotizzazione è affidata ai commissari ripartitori, che nel 1811 definiscono i confini delle acque del Varano.

    Il Catasto Murattiano del 1813 dà un nuovo profilo delle classi sociali emergenti che producono il 77% dell’imponibile: l’ipotesi del miglioramento delle condizioni di vita dei cittadini di Cagnano è validata dall’aumento dei benestanti i cui nuclei familiari, elencati nel Catasto Onciario del 1750, versavano in condizioni modeste. Sono in mobilità ex massari, allevatori, coltivatori e commercianti. Produttori sono anche medici, avvocati, notai, speziali, funzionari, parenti del clero.

    La proprietà si consolida tramite accorte politiche matrimoniali. Il nuovo ceto, sostituendosi alla vecchia classe dirigente, ne  assume comportamenti e titoli onorifici, non si pone come forza antagonista; decide di mandare i figli a studiare a Napoli, per elevare il loro livello culturale e preparare la loro scalata sociale.

    Cambia la dimensione abitativa di Cagnano. La popolazione arriva a 3820 persone; il totale dei vani è di 1538, di cui 619 siti nella Terravecchia e 919 fuori le mura. Il Comune beneficia delle leggi eversive della feudalità, ampliando il suo patrimonio, entrando in possesso di Parchi e Mezzane, di una parte del Compromesso, delle Terre liquide, della Riseca e del Parco delle Giumente. Ma in queste terre si verificano ben presto occupazioni, dissodamenti e messa a coltura abusivi.

    I demani usurpati, la ricchezza mal distribuita, l’attentato agli usi civici, la fame di terra dei coloni, la precarietà dell’esistenza minacciata dalla malaria e dal colera, sono alla base delle agitazioni di massa dell’ultimo ventennio dell’Ottocento, che mettono in crisi varie amministrazioni comunali, costrette a dimettersi per la loro incapacità a fronteggiare gli eventi.

    È attiva sul Gargano una sezione dell’Internazionale socialista. Qualcosa si muove anche a Cagnano, che nel 1879 conta 18 affiliati al movimento anarchico, il cui leader è Carmelo Palladino, che proprio in quell’anno è arrestato con l’accusa di “cospirazione diretta a distruggere i poteri dello Stato”. La  reclusione dura pochi mesi.  Le autorità di polizia vigilano costantemente su di lui. L’8 maggio 1881 arriva un pacco, intestato a Palladino, contenente un giornale scritto in francese e manifesti incitanti alla rivolta.  

    Palladino, che era stato segretario pro-tempore dell’associazione napoletana internazionale dei lavoratori, continua a collaborare con la stampa anarchica e, alla vigilia del Congresso dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori, che avrà luogo in Svizzera nel 1887, elabora le sue risposte ai 17 quesiti congressuali. Progetta di scrivere un libro. E’ amico di Bakunin, Engels e Marx, con cui corrisponde. La sua fine è tragica: viene assassinato lungo corso Roma davanti alla sua casa, colpito alle spalle. E’ il 19 gennaio del 1896.

    «Il motore della storia – osserva la Crisetti con una punta di amarezza – non è stato la cultura, non è stato la giustizia sociale, non è stato il progresso scientifico. Il cammino verso il riconoscimento dell’uguaglianza dei diritti, della dignità umana in particolare, la riscoperta del valore della cultura e della partecipazione, nel Mezzogiorno era ed è ancora lungo».

    I beneficiari del decennio francese furono pochi. Non ci fu la mobilità sociale auspicata dai legislatori. Il connubio terra-istruzione-potere politico costituì il trampolino di lancio che permise soltanto a poche famiglie di passare dallo status di massaro, “bracciale”, pastore o piccolo proprietario a quello di notaio, avvocato, farmacista, agrimensore, medico, giudice.

    Fu così che a Cagnano nacque e si affermò, nell’arco temporale di un paio di generazioni, la moderna borghesia fondiaria. I nuovi padroni entrarono in possesso delle tenute migliori del demanio comunale e le difesero con tutti i mezzi, avvantaggiati dal fatto di occupare i posti chiave del potere. Quasi tutti i possidenti si alternarono nelle varie amministrazioni comunali, mentre ai contadini preferirono cercare altrove una vita migliore, prendendo la via dell’emigrazione.

    Ma il  paesaggio agrario, descritto dalla Crisetti nel suo libro, è tuttora vivo. Le Difensole, la Riseca, i Parchi, le Mezzane, puntellati da torri, casini, casoni e  mànere, citati dalle fonti come strutture e infrastrutture costruite dai coloni nei i luoghi più impervi del paese prima posseduti dal principe e poco valorizzati, non sono un retaggio storico scomparso nel nulla: esistono ancora in agro di Cagnano.

    L’Autrice, dopo averne trattato le complesse vicende, ce ne offre un suggestivo percorso per immagini. Un percorso inedito, anche per chi vive soltanto a pochi chilometri di distanza. Scopriamo oltre a luoghi intatti, dei bei manufatti ridotti a ruderi dopo l’abbandono da parte di chi li ha abitati.

    Molti agricoltori, pastori, ex emigranti, continuano ancora a praticare l’attività agro-pastorale.

    Nella ricognizione dei luoghi, la Crisetti si è fatta guidare proprio da questi coloni ed allevatori che hanno raccontato il loro disagio di vivere in località così impervie, difficili da raggiungere. Allevatori e agricoltori costretti a svolgere le loro attività agro-silvopastorali come duecento anni fa, nella speranza, finora delusa, che gli Enti preposti forniscano loro almeno i servizi di acqua e luce.

    Una ricognizione cui è sottesa la finalità di fermare l’esodo in atto: con la dipartita degli ultimi anziani che ancora coltivano questi terreni o praticano l’allevamento brado, questa fetta del territorio sarà condannata all’abbandono.  

    Se l’economia della zona resterà  al palo – ci avverte l’Autrice, facendo parlare i diretti protagonisti – questi luoghi del Gargano si spopoleranno sempre più: urgono misure per incentivare i giovani a restare, a non abbandonare questi ultimi presidi che conservano ancora intatti i saperi, i sapori, gli odori, connotanti l’identità di questo sperduto pezzo del Sud Italia. Su questo accorato grido d’allarme non possiamo che concordare. L’esodo è un’amara realtà.

    @Teresa Maria Rauzino

    LEONARDA CRISETTI GRIMALDI, L’agonia feudale e la scalata dei galantuomini. Cagnano Varano: l’Onciario, il Murattiano, le Questioni demaniali (1741-1915), 2 tomi, Edizioni del Rosone, Foggia 2007.

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    Un artista a tutto campo: Corrado Terracciano

    La copertina del volume.

    Bello ed interessante il pregevole volume curato da Gaetano Cristino, noto critico d’arte, dal titolo Corrado Terracciano: la scultura come sfida e come destino (pp. 143, ill. b/n e colori, Foggia 2008), edito da Claudio Grenzi Editore.

    Il libro si avvale dei contributi di personaggi appartenenti al mondo dell’arte e della cultura, viventi e non, come Marziano Bernardi, Mario Corfiati, Dario Damato, Giulia de Leo Catalano, Franco Fano, Pasquale Guaragnella, Luciano Luisi, Leon Marino, Émile Marzé, Lia Masi, oltre al curatore dell’opera, tutti in qualche modo legati alla vita del Maestro sia nel capo artistico che nel vissuto quotidiano.

    Ognuno di loro racconta in modo personale la propria esperienza con il Maestro facendo emergere le varie sfaccettature dell’artista e dell’uomo, come si evince dalle sue opere.

    «Caro Corraado, questa monografia sarebbe monca senza la tua voce […]», così introduce il suo saggio intitolato Intervista il critico d’arte Mario Corfiati, in cui sono contenuti interessanti quesiti rivolti al Maestro, del quale è amico, raccontando la sua spiritualità proiettata nell’arte.

    Circa il tratto umano del Maestro Terracciano, possiamo di certo affermare che il volume pone in luce, proprio grazie ai contributi degli amici chiamati in causa, varie situazioni in cui il Maestro si distingue per la sua simpatia e la sua gioia di vivere.

    Tra i tanti ci piace riportare quanto affermato dal prof. Pasquale Guaragnella, docente universitario ed amico del Maestro, il quale racconta che spesso, durante le sue frequentazioni, il Maestro lo coinvolgeva narrando gli episodi di cui era stato protagonista che a volte avevano dell’incredibile. Così una volta gli raccontò un episodio di cui era stato “attore”, davvero singolare al punto da suscitare l’incredulità di chi lo ascoltava. Una scena che avrebbe potuto ispirare uno dei registi degli anni della Dolce vita o del più recente periodo in cui fu girato il film Amici miei.

    Un giorno in autostrada Corrado Terracciano stava guidando la sua auto; ad un certo punto sulla strada incontrò un camionista che non gli aveva voluto dare spazio. Appena superato il camion, il Maestro lo salutò con l’inequivocabile gesto usato dagli automobilisti inalberati: un bel paio di corna.

    Poi, proseguendo il suo viaggio e dimenticandosi dell’accaduto, fece sosta poco dopo presso un autogrill e lì dopo aver parcheggiato la sua auto si diresse al bar per sorbire un caffè. Subito però, proprio in quello stesso autogrill, parcheggiò il suo mezzo anche il camionista insultato che, riconosciuta l’automobile, entrò nel bar e con sguardo minaccioso, a voce alta, chiese a chi appartenesse l’auto in sosta specificandone il tipo e la targa.

    Ovviamente nessuno, e men che meno il Maestro, si fece avanti vantandone il possesso. Il camionista allora si recò vicino all’autovettura aspettando minaccioso l’arrivo dell’automobilista. Il Maestro, notata la cosa, gli si avvicinò e, spacciandosi per un ufficiale dei carabinieri, lo convinse ad entrare nel bar perché avrebbe atteso lui il proprietario dell’auto in modo tale da elevargli una bella multa.

    Il camionista, convinto, si allontanò seguendo il consiglio del sedicente carabiniere. A questo punto il nostro protagonista salì sulla sua autovettura e, anziché andarsene silenziosamente, come avrebbe fatto chiunque al suo posto, avviò l’automezzo e lo posizionò proprio davanti all’ingresso del bar; subito dopo, con un colpo insistente di clacson, richiamò l’attenzione del camionista che stava sorbendo la sua consumazione, attese che uscisse dal bar e, con naturalezza, gli ripetè il saluto con le corna sgommando immediatamente tra le proteste dello sventurato autista.

    Questo racconto evidenzia lo spirito goliardico del Maestro che, come tutti gli artisti, affronta la vita con eccentrica ironia.

    Circa la vita professionale, Gaetano Cristino nel saggio La scultura come sfida e come destino, che dà anche il titolo al volume, evidenzia nell’ampia carrellata di opere, commentate con la chiarezza di chi è abituato a comunicare con un linguaggio ecumenico e coinvolgente tale da incuriosire anche il più profano dei lettori, l’arte di Corrado Terracciano che si fonde con la sua personalità e la spiritualità.

    Emergenti in sculture come: Deposizione. Non fu solo Giuda a tradirloCallipigia. Fanciulla prostrata in preghieraL’eterno soffio di Dio. La vita oltre la vitaUn dono di Dio. Estasi, solo per citarne alcune.

    Nell’opera Pilato non è morto, inoltre, traluce la plasticità della sofferenza umana che suscita a primo acchito disgusto e pietà: il bambino del Biafra, magro, monco, sofferente, con lo sguardo implorante ma dignitoso sembra domandarsi il perché di tanta sofferenza. Ma c’è un discorso molto più profondo che l’artista evidenzia in quell’opera, un discorso che va oltre le semplici esigenze di vita, un discorso che induce il pubblico a domandarsi il perché della sofferenza umana.

    Così come ne L’eterno soffio di Dio. La vita oltre la vita, l’artista immortala l’effige della bella moglie Laura, sua compagna e sostenitrice, che spirata torna serena alla casa del Padre mentre, tramite il lungo collo, sottilissimo, si libra in volo con la certezza della resurrezione. Il volto esprime la serenità di chi ha avuto una vita felice e tranquilla.

    Nell’opera Callipigia. Fanciulla prostrata in preghiara, l’artista pone in essere il ciclo della vita che se è in continua evoluzione da un lato – secondo Gaetano Cristino – con l’evocazione di Venere rappresentata con il corpo sinuoso in cui sono messi in evidenza i glutei, dall’altro lato la ragazza della scultura è prostrata in disperata preghiera, mentre l’assenza della testa può significare che la mente ed il corpo sono un unico insieme.

    Tuttavia non è solo la spiritualità il tema affrontato dal maestro. Anche il mondo sociale ed istituzionale viene “preso in esame”.

    A nostro avviso, più di tutte, l’opera maggiormente significativa in tal senso è senz’altro Uomini di potere. Molti ma non tutti. In questa scultura, infatti, che rappresenta una sequenza armoniosa di falli in erezione con relativi attributi, – secondo Cristino – il Maestro pone in evidenza il suo concetto del “potere”, specificando che molti uomini di potere sono pieni di presunzione e di superbia, ne sono talmente pieni da essere paragonati ai falli in erezione altrettanto pieni di niente se non di arroganza, tracotanza e quanto altro.

    Ci sentiamo di condividere in pieno questa interpretazione, ma in più, possiamo aggiungere che questa opera sarà sempre attuale, in quanto il potere, come si sa, è sorretto da uomini quasi mai umili. Da uomini piccoli nell’intelletto come nei modi, uomini, appunto, senza testa, pieni di niente, proprio come dei falli. Ma non tutti sono così. Tra i tanti, pochi si distinguono per l’umiltà e l’onestà. In realtà vi sono dei valori nella vita che nessun titolo e nessuna condizione sociale possono dare se non sono già esistenti nell’animo umano.

    In buona sostanza Gaetano Cristino in questo volume ha saputo evidenziare le peculiarità dell’Artista e dell’uomo nella sua poliedrica genialità.

    Un’ampia carrellata sulle opere di Corrado Terraciano e le schede sulle sue principali mostre, infine, completano il volume che resta sicuramente un libro divertente ed utile per la quantità di notizie fornite che lo rendono indispensabile per chiunque voglia conoscere questo eccentrico e simpatico artista.

          

    ©2008 Lucia Lopriore

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    Sensazionale scoperta nel Lapidario del Museo Civico di Foggia…


    L’epigrafe de’ Sangro.

    La riapertura delle sezioni del Museo Civico di Foggia, arricchite di nuovi reperti, offre ai visitatori l’opportunità di conoscere aspetti interessanti sulla storia della Daunia dalla Preistoria fino ai nostri giorni.

    La novità assoluta per il Museo è rappresentata dall’apertura del Lapidario che arricchisce la cultura della città di nuove testimonianze indispensabili per la conoscenza dei percorsi storici.

    Un’inedita e quanto mai utile esposizione, curata egregiamente fin nei particolari dal dott. Francesco Picca storico dell’Arte dello stesso Museo, invita gli studiosi locali ed i cultori della storia ad individuare tali reperti, ed a collocarli nei relativi periodi storici restituendo loro una propria identità che diversamente non avrebbero.

    È questo il caso di due splendidi esemplari.

    Il primo è rappresentato da un’epigrafe esposta in una delle sale di questa nuova sezione del Museo, rinvenuta sul verso di un pluteo risalente al VI secolo d. C. quest’ultimo quale elemento architettonico parte di una basilica paleocristiana. L’epigrafe commemora l’edificazione e la relativa dotazione della chiesa della SS. Annunziata di Foggia che, sorta come cappella dell’omonima Confraternita nel XV secolo, nel 1665 fu concessa alle Clarisse che vivevano nell’attiguo monastero. Fu poi demolita e fatta ricostruire nel 1690 per merito di mons. Antonio de’Sangro, vescovo di Troia.

    Tale elemento marmoreo, studiato da Giuliana Massimo durante la catalogazione dei reperti custoditi nei depositi del Museo, rappresenta una sorta di unicum per la storia della città, non solo per il recto ma anche per il verso dello stesso, in quest’ultimo caso quale testimonianza della presenza dell’aristocrazia napoletana in Capitanata e recita:

    D[EO] O[PTIMO] M[AXIMO]
    TEMLU[M] HOC MONIALIU[M] S[ANCTAE]  CLARAE D[ive o  ivinae(?)] ANNUNCIAT[AE] DICATUM ANT[ONIUS] CL[ERICUS] REG[ULARIS] EP[ISCOP] US TROIANUS EX C[omitibus (?)] MARSOR[UM] MARCHION[IB]US S[ANCTI] LUCIDI D[OMI]NI D[e] SANGRO, ET ALVINAE EX DIIS PENATI[BUS]… [Frangi]PANORU[M] FAMILIA DE TOLF[a] D[OMINI] [L]UTII FILIUS PROPRIIS SU[M]PTIB[US] A FU[N]DAME[N]TIS EREX[it] [or]NAVIT DOTAVIT AN[N]O SUI PRESULATUS XV IN[DITION]IS

    Il secondo reperto è rappresentato dal blasone adottato da mons. de’Sangro nei primi anni del suo ministero. Si tratta di un rarissimo esemplare in pietra, probabilmente proveniente dalla chiesa Collegiata e collocato, forse, su una delle pareti della stessa chiesa in occasione di alcuni interventi di restauro fatti eseguire dal vescovo, ma se ne ignora l’anno preciso.

    Tale esemplare, miracolosamente recuperato, era depositato nel Museo tra i reperti da catalogare. Anche dopo la sua catalogazione e relativa  sistemazione nel Lapidario era rimasto privo di attribuzione fino quando è stato riconosciuto da chi scrive in occasione di una recente visita presso la sezione lapidea.

    Lo stemma di Antonio de’ Sangro.

    Questo pezzo unico, uno scudo partito, riporta a destra i colori di casa di Sangro: di oro a tre bande di azzurro ed a sinistra quelli della famiglia Frangipane della Tolfa: di azzurro alla torre d’argento.

    La rarità di questo reperto è dovuta al fatto che il vescovo lo utilizzò quasi certamente  per un periodo limitato del suo ministero.

    Resta, pertanto, un blasone ignoto ai più, in quanto sia nella letteratura specialistica (Cronotassi ecc.), sia nelle testimonianze riscontrabili attraverso i manufatti nei vari interventi di restauro fatti eseguire dal vescovo, specie nell’ultimo periodo del suo ministero, presso la chiesa Collegiata di Foggia e la Cattedrale di Troia.

    Appare sempre la seconda arme utilizzata da mons. de’Sangro, composta di uno scudo a tutto campo con i soli colori di casa de’Sangro, così come si può notare nei bassorilievi a stucco scolpiti sulle lesene ai lati del Paliotto di tre dei cinque altari minori presenti nella stessa chiesa dell’Annunziata, nonché dal portale della Cattedrale di Troia.

    L’attuale difficoltà di poter accedere agli archivi diocesano e capitolare di Troia non ci ha dato la possibilità di riscontrare con prove tangibili  quanto da noi fin qui asserito. Ci riserviamo, pertanto, di essere più precisi dopo aver avuto l’opportunità di accesso agli archivi.

    A questo punto ci sembra utile tratteggiare, brevemente, la figura di questo personaggio protagonista della scoperta. Monsignor de’Sangro discendeva da un’illustre casata di stirpe longobarda cui furono assegnati possedimenti nei territori di Roccasecca, Rocca Tre Monti, Rocca Cinquemiglia, Alfedena, Barrea e Castel di Sangro. Per tale ragione i membri della famiglia furono decorati del titolo di conti dei Marsi.

    Antonio, appartenuto alla linea dei baroni di Casignano e dei marchesi di San Lucido, era il settimo figlio di Luzio, marchese di San Lucido, ed Alivina Frangipane della Tolfa dei conti di Serino.

    Nacque a Napoli nel 1629; seguendo le regole imposte dal Maggiorasco intraprese la carriera ecclesiastica entrando nell’Ordine del Chierici Regolari Teatini; divenne professore di Teologia Sacra e per le sue virtù fu ordinato vescovo di Troia il 16 dicembre 1675 e fu consacrato il 26 gennaio 1676. Il 19 luglio 1682 tenne un Sinodo per regolare i costumi del clero e del popolo.

    Nel 1693 partecipò al Sinodo Beneventano celebrato dall’arcivescovo mons. Orsini con il quale collaborò per fissare le norme di disciplina ecclesiastiche.

    Morì a Foggia il 24 gennaio 1694 ed ivi fu sepolto nella chiesa Collegiata.

    Tale scoperta è senz’altro un motivo in più per essere stimolati a visitare il Museo Civico di Foggia, da sempre culla della cultura e della storia delle nostre radici.

      

    ©2006 Lucia Lopriore