Categorie
Medioevo e Videogiochi

“Medieval bullshit”

L’idea di Medioevo nei capitoli “europei” di Resident Evil.

Introduzione.

Il Medioevo, come diceva Umberto Eco, lo si “rabbercia”. Lo si ristruttura grossolanamente, lo si raffazzona in modo da poter continuare a usarlo come contenitore per le nostre vite, dal momento che il Medioevo ha inventato una vasta gamma di cose con cui stiamo ancora facendo i conti. Il fenomeno è stato osservato per ogni aspetto possibile, materiale e immateriale: chiese, palazzi comunali, monumenti, film, serie tv, romanzi, fumetti e chi più ne ha più ne metta. Ma come si rabbercia il Medioevo, o meglio il sogno di un Medioevo, in due videogiochi che parlano di zombies, vampiri e lupi mannari ambientati in Europa? 

Wu Ming, nel suo romanzo Ufo 78, asserisce che l’obiettivo di uno scritto è raccontare la verità, sia pure parlando di dischi volanti e lupi mannari; dunque, il sogno di un Medioevo in dei videogiochi che parlano di morti viventi e lupi mannari si analizza, a modesto parere di chi scrive, innanzitutto raccontando la verità, storicizzando le opere.

Resident Evil 4 e Resident Evil: Village sono due videogiochi del genere action-horror pubblicati dalla celebre casa nippo-statunitense Capcom. I titoli sono ambientati in piccoli centri isolati di due Paesi europei, rispettivamente la Spagna e la Romania, per fornire il pretesto alla trama (completamente cinematografica) comune a tutta la saga: l’incidente che trasforma un’intera comunità in zombies, che vengono combattuti da eroi “quotidiani”. Il primo titolo, sebbene sia stato oggetto di un ottimo remake lo scorso anno, è in realtà uscito, nella sua versione originale, nel 2004. Il secondo titolo è di parecchio successivo al primo (2021), ma ne raccoglie per molti versi l’eredità, come stiamo per vedere.

Una delle cose inventate dal Medioevo che ci angoscia ancora ai giorni nostri è il terrorismo mistico: da quando è esplosa la polveriera mediorientale e le organizzazioni terroristiche moderne hanno iniziato a pullulare, figure come la setta degli Assassini e il Veglio della montagna hanno suscitato tutta una serie di riflessioni tagliate con l’accetta riguardo a una naturale quanto lombrosiana propensione di determinate popolazioni a svolgere il mestiere di sicario, per la precisione di sicario fanatico. Tali sforzi speculativi hanno poi contribuito, nel sentire comune, a fornire una grossa base di consensi per chi li ha utilizzati per fini politici, evocando invasioni e sostituzioni etniche. Qui ci sarebbe da parlare parecchio, ma noi ci atterremo all’argomento.

Nel 2004, anno di uscita del primo videogioco preso in esame, si era nel pieno dell’operazione Iraqi Freedom, durante la quale si cercavano ipotetiche armi di distruzione di massa che i terroristi avrebbero voluto utilizzare contro “i crociati occidentali”. La Francia, isolandosi, oppose una chiusura alla richiesta di partecipazione al conflitto, scatenando una reazione stizzita oltreoceano che arrivava a vette vertiginose, come gli spot pubblicitari che invitavano a non acquistare automobili francesi o a mutamenti linguistico-culinari come l’innovativo “freedom fries” al posto di “french fries”, le patatine: la guerra si combatteva su ogni fronte. Fra i sostenitori dell’intervento armato, i cosiddetti “falchi”, serpeggiava la livida connotazione di “amico dei terroristi islamici”, riferita a chi sosteneva posizioni per così dire meno massimaliste. Si era sull’onda emotiva dell’attentato al World Trade Center, d’altra parte, e, nel 2004, il Giappone mandò in Iraq un battaglione denominato “Self-Defense Forces Iraq Reconstruction and Support Group”. Sulla carta, il contingente aveva scopi umanitari, ma fu così chiamato per aggirare l’articolo 9 della Costituzione giapponese. Al-Zarkawi, nello stesso anno, intimò al governo giapponese di ritirare le proprie truppe. Fu il primo dispiegamento militare nipponico all’estero dopo la Seconda guerra mondiale.

Noi ci fermeremo qui, perché di sogni, nello spazio di una cartella editoriale, ne abbiamo sciorinati parecchi: il sogno, se dura troppo, diventa coma profondo e, come scriveva Raffaele Licinio, nel coma, i sogni diventano incubi.

  1. Chiusure medievali e Parassiti di Distruzione di Massa

Come punto di partenza, prenderemo il quarto capitolo della saga nel suo remake del 2023.

Ci troviamo a Valdelobos, un paesino rurale sperduto su montagne non meglio precisate della Spagna, in compagnia di due poliziotti che sembrano incarnare uno dei clichés più longevi della letteratura mondiale: l’impiegato pubblico scansafatiche.

Il protagonista è il superpoliziotto statunitense Leon S. Kennedy, in missione per salvare Ashley, la figlia del Presidente degli Stati Uniti. La ragazza è stata rapita da una setta, che ora chiede un riscatto. Leon è sopravvissuto all’incidente di Raccoon City (Resident Evil 2), rimanendone fortemente scosso, e proprio per questo è stato inserito in un programma di addestramento militare estremo.

Il nostro eroe, rimasto solo, si inoltra in un villaggio coperto di erbacce selvatiche, costituito da stamberghe fatiscenti e luride abitate da una popolazione dagli sguardi febbrili e dai movimenti trascinati, che lo attacca violentemente urlandogli contro «forastero», “sconosciuto”. A parte imbarazzanti rassomiglianze cinematografiche (innanzitutto The wicker man del 1973), cosa succede?

Per fortuna, abbiamo una spiegazione: Incubate (bel gioco di parole tra l’incubo di cui sopra e l’incubazione di una malattia) è un film in computer grafica uscito in accompagnamento dell’edizione originale del 2004 di Resident Evil 4, che racconta di Valdelobos con il classico espediente del diario scritto da un dissidente. Si tratta di un paesino montano isolato e chiuso, nel quale fa il suo avvento lord Saddler, capo della setta degli Illuminados. La filosofia degli abitanti di Valdelobos è quella di stare il più lontano possibile dalla modernità e dalla tecnologia, adottando uno stile di vita rustico e semplice, per molti versi simile a quello dell’età preindustriale, con i suoi riti e i suoi ritmi. 

Saddler (che, come ogni villain che si rispetti, parla con accento britannico) li convince però che è necessario purificare il loro sangue e le loro anime e, casualmente, ha con sé “il dono”, la cura che li renderà più forti e puri: dei parassiti, Las Plagas. Gli abitanti, a farla breve, si tramutano in una specie di zombies rimbambiti e aggressivi, ma il parassita non riesce a adattarsi al corpo dei bambini del villaggio, che muoiono tutti. Sebbene l’espediente abbia la sua ovvia funzione morale, perché nessun giocatore vorrebbe far saltare la testa a dei poveri pargoli malati, anche questo è un déja-vu: nelle epidemie di peste del Trecento, molti bambini infettati morivano perché tra un’epidemia e l’altra passava parecchio tempo, e i più piccini non erano immunizzati. Lo stesso nome del parassita, Las Plagas, è palesemente un calco dall’inglese plague: peste, piaga.

Dopo aver fatto la sgradita conoscenza dei primi residenti, Leon si ritrova ben presto davanti alla scena madre di ogni rappresentazione di un Medioevo buio: il rogo. 

I contadini cercano allora di uccidere Leon, in quella che sembra una trasposizione videoludica della famiglia Hellequin, con tanto di gigante armato di clava. La caccia selvaggia si protrae per varie fasi del gioco, mentre Leon perde e ritrova più volte Ahsley in un purgatorio itinerante spasmodico. 

Praticamente sovrapponibile risulta la trama dell’ottavo capitolo, Village, in cui un altro eroe ombroso e americano deve salvare una figlia “speciale” (stavolta la sua Rose) da orde di esseri mostruosi mutati da un parassita. 

Il protagonista è Ethan Winters, un uomo comune che si trova in Romania con moglie e figlia neonata grazie a un programma di protezione della BSAA, un ente ONU che si occupa di bioterrorismo. Ethan è sopravvissuto ai macabri fatti del settimo episodio della saga, ambientato in Louisiana: ancora una volta, un eroe dal passato travagliato.

Come recita il titolo, l’avventura si svolge in un anonimo villaggio rumeno sperduto tra i monti, isolato come Valdelobos, governato da una struttura di potere matriarcale (gli antagonisti maschili sono immaturi, impulsivi e trattati con sufficienza dalle donne) che richiama vagamente un sistema feudale: la signora Madre Miranda, alata come un serafino greco e provvista di un’aureola rigida, controlla il villaggio con il terrore insieme ai suoi quattro baroni, dei quali citeremo solo Alcina Dimitrescu, giunonica vampira di due metri e mezzo vestita in stile Belle Époque. Sono esseri mutanti loro stessi, grazie al “cadou”, il “dono” del parassita Megamicete, e capeggiano legioni di licantropi, vampiri e altre creature del genere, cioè i popolani sottoposti alla medesima iniezione salvifica elargita da Madre Miranda.

Ethan è un americano che ficca il naso in un posto in cui non dovrebbe essere (ma guarda un po’…) e allora i cinque “signori” si contendono la sua sorte, sprofondandolo nelle viscere della roccaforte, dove si compie la rituale “caccia selvaggia” da parte dei licantropi. Dopo fasi di gioco rese ancora più rocambolesche dalla visuale in prima persona, Ethan si ritrova prima nel castello e poi nuovamente nel villaggio, costretto a seguire percorsi da criceto prodotti dagli sbarramenti costruiti dalla popolazione sana residua.

Le case del villaggio, pur spoglie e semi dirute, non sono però coperte di escrementi e lerciume e non vi si trovano resti di cibarie tossiche, come in quelle di Valdelobos. Tra gli abitanti ce ne sono per l’appunto alcuni non ancora trasformati, che si riuniscono nell’unica dimora sicura, pregando Madre Miranda con litanie pagane, chiedendole la salvezza. Sono donne e uomini miti, accoglienti e depressi, al punto di cedere all’alcol per fuggire da una realtà allucinante, paradossalmente peggiore della mutazione. Insomma, chiudersi davanti a una minaccia non serve a nulla; anzi, può solo peggiorare la situazione.

La narrazione è però arricchita di alcuni elementi singolari. Ad esempio, l’avventura si apre con un piccolo gioiellino metaletterario: una fiaba animata vera e propria, con tutti i suoi elementi, che anticipa la trama del gioco. Una bambina, incurante del divieto, si allontana nella foresta, dove incontra tre aiutanti (un pipistrello che le dona del nettare, un ragno che le tesse un vestito di seta, un pesce che le dona una scaglia) e un trickster, un cavallo con un ingranaggio sulla fronte. La bimba prende l’ingranaggio dalla fronte del cavallo inchinato, cadendo nel tranello, e l’equino la consegna all’antagonista, Madre Miranda. Ma ecco il co-protagonista entrare in scena: è il padre-eroe che alla fine accetta la lotta e si sacrifica, permettendo alla figlia di salvarsi insieme alla madre.

2. Sto sognando come te un castello che non c’è

Gli scenari di entrambi gli episodi, come è facilmente immaginabile, non possono prescindere dall’elemento principe di ogni ambientazione neogotica: il castello.

Sull’enorme maniero di Resident Evil 4 sembra essersi posato lo stesso ufo planato su Castel del Monte. La struttura si configura infatti come il contenitore unico, nel suo involucro tetro e mastodontico, di tutti i luoghi comuni di antico regime, e dunque del feudalesimo e del Medioevo: lo sfarzo e la pulizia dei pavimenti tirati a lucido dei saloni contrapposti agli ambienti miseri e lerci del villaggio appena lasciato; la completa assenza dei contadini infetti, esclusi dagli ambienti protetti del potere, contro la massiccia presenza di clero e nobiltà (Salazar e i suoi deformi accoliti), unici a godere degli agi di un’abitazione di pregio; il buio di saloni enormi e sprovvisti di finestre adeguate appena rischiarato da lampadari e candelabri mastodontici.

Ci verranno incontro lugubri monaci armati di balestre e catapulte dai proietti infuocati, mazze, scudi e altre armi da mischia; giganti da abbattere a cannonate prima che vi tirino dietro ogni pietra del castello; parassiti disgustosi che si muovono in autonomia o infestando monaci, cani e anche armature cinquecentesche.

Si passerà dai camminamenti di ronda e dai torrioni esterni agli ambienti interni forniti di mobilia e suppellettili raffinatissime, nonché di straordinari rompicapi rappresentati sotto forma di bassorilievi, insegne e serrature cervellotiche. Si arriverà negli immancabili sotterranei colmi di strumenti di tortura farlocchi degni di un museo nazional-popolare e di creature mostruose, per giungere alle ambientazioni da Reggia di Caserta, decorate di stucchi, dipinti e biblioteche. L’intera fortezza si configura come una labirintica scatola cinese, a tratti claustrofobica, a tratti magnifica, in cui il giocatore fa un tour completo dei secoli che vanno dal XIV al XVIII in un’inversione di paradigma del castello disneyano: le attrazioni sono infatti sostituite da sfide mortali, gli indovinelli da enigmi ansiogeni, i personaggi da mostri, la meraviglia dal senso di terrore. La ricostruzione fantastica del gioco ne muta solo la funzione, mantenendo intatta l’immaterialità di fondo del costrutto.

Lo stesso discorso vale per l’ottavo capitolo.

Nuovamente, in tutto il gioco troviamo ambientazioni medievaleggianti, stavolta coadiuvate dalla cornice dell’inverno nevoso di montagna. Vi sono però alcune differenze che, secondo il modesto parere di chi scrive, costituiscono dei miglioramenti. 

Le rovine della fortezza, tana dei lupi mannari, sono sufficientemente verosimili, così come gli esterni del castello Dimitrescu, sebbene siano infestati di creature alate simili a gargoyles (sorte inaspettata per dei doccioni) in carne e ossa. Anche gli interni del castello, per quanto ormai ristrutturati in un pesantissimo stile barocco buio e ridondante, sono molto più piccoli e soprattutto sono ripartiti in maniera logica e coerente con gli esterni. Gli ambienti non presentano elementi bizzarri come trenini per il trasporto interno o montacarichi azionati da ingranaggi improbabili, come accade nel maniero spagnolo, e non sono stati disegnati come il solito castello di un vampiro qualunque: c’è il tocco femminile della lady.

Nei sotterranei, di contro, gli sviluppatori si sono sbizzarriti: all’inizio sembrano sobrie strutture ipogee in materiale laterizio smangiato dai secoli e dall’umidità, piene di mobilia in disuso accatastata e cantine polverose; tuttavia, ci si imbatte ben presto nei consueti strumenti di tortura abbandonati e addirittura in una stanza in cui si procede immersi nel sangue fino alla cintola, tra le imprecazioni terrorizzate del protagonista costretto a impallinare vampiri famelici incappucciati e armati di spade e asce da negozio di souvenir sammarinese. Risulta poi particolarmente divertente notare come il parassita sembri mutare gli abitanti in base a un immaginario cinematografico molto distante dal contesto cronologico e geografico: un gigante ipernutrito ricorda più un lottatore di sumo che il diavolo di Cuenca, e Vlad Tepes ha ottenuto la sua fama di vampiro in tempi più vicini al suo successo a Hollywood che al XV secolo, periodo al quale gli sviluppatori hanno ancorato l’immaginario del villaggio anonimo in questione.

3. Lo stereotipo come regola

A partire dal quarto capitolo, assistiamo a una rivoluzione nella saga. I primi tre episodi erano infatti ambientati in America, nell’area dell’immaginaria Raccoon City, e il parassita era il classico virus fuggito da un laboratorio segreto. I luoghi dei primi tre capitoli, ancora una volta isolati e montani, vengono cancellati per sempre da un’arma che nell’immaginario nipponico deve risultare ancor più risolutiva del normale: la bomba atomica.

Il Medioevo post-apocalittico, la distruzione di ogni ordine sociale e delle regole del vivere civile, non c’è più. La peste, dal quarto capitolo, si riprende il suo mondo di riferimento originale: l’Europa di antico regime.

In effetti, almeno per quel che riguarda il quarto capitolo, non sappiamo quanto sia giusto parlare di Medioevo: la parola non esce praticamente mai, né dalla bocca di Leon, né da quella degli altri personaggi. Semmai, ci sono delle interessanti citazioni del Don Quijote, in spagnolo, quando si incontra il controverso Luis Sera, un NPC[1]. Leon e Luis sono due personaggi quasi speculari, che si spalleggiano in un gioco di luci e ombre: eroe traumatizzato ma integerrimo il primo, antieroe castigato e in cerca di redenzione il secondo. Nella cornice di Cervantes, il senso del dovere granitico dell’uno e la sbruffoneria loquacissima dell’altro si configurano come una bislacca controfigura letteraria, con tanto di Dulcinea del Toboso.

Non mancano altri clichés abbastanza scontati: il luogotenente di Saddler è abbigliato come un prete cattolico seicentesco, salvo avere tutti i capi in cuoio da vero duro e, proprio quando lo si incontra, Leon libera un lupo da una nefandissima trappola “medievale”. L’animale, a suo modo, lo ringrazia: la bestia per antonomasia viene redenta con patetica empatia (“take care of yourself, buddy“) dal moderno eroe salvifico. Americano, ça va sans dire

Lo scontro finale con l’antico regime si ha con il duello tra Leon e il castellano Salazar, il quale, dopo aver insultato diverse volte il protagonista (“non sei per niente un buon cavaliere” – un altro stereotipo – gli dice ad esempio, una delle tante volte in cui Leon perde Ashley), quasi a sottolinearne l’alterità, si becca due pallottole con un americanissimo “you talk too much”: l’eroico uomo d’azione a stelle e strisce cancella un passato logorroico e corrotto, cavia per l’esperimento di Saddler; un “altrove negativo” infestato da una pestilenza perenne, un microcosmo arretrato asservito a un monarca assoluto che lo governa tramite il male. 

Leon, salvando la figlia del Presidente dall’orda dei morti viventi, diventa uno dei miti americani per eccellenza: ascende al Valhalla della Greatest generation ever, quella che salvò l’Europa dalla barbarie nazifascista, rassomigliando molto a una specie di Captain America scongelato in un altro contesto.

L’Europa, checché ne dica la Francia, deve ricambiare il favore.

Lievemente diverso, per quanto praticamente congruente, risulta l’impianto narrativo dell’ottavo capitolo, nel quale vediamo popolani non ancora infetti e addirittura alcuni che sono riusciti a fuggire altrove, lasciando le loro catapecchie sbarrate. Gli altri devono difendersi a fucilate da orde di licantropi che li usano come dispensa vivente, pur pregando tutti insieme Madre Miranda nell’unica casa sicura del villaggio, dove si rifugiano quando escono i mostri. Le ambientazioni, per quanto meno campate in aria, trasudano neogotico da tutti i pori, a cominciare dalle teste ci caprone appese un po’ ovunque tra i vicoli. Grottesca risulta la figura del “duca”, nobiluomo parecchio corpulento e decaduto al punto di dover fare il mercante, che svolge la funzione dell’aiutante e, alla fine, conduce sul suo carretto Ethan allo scontro finale, quando ormai l’eroe sembra spacciato.

In Village, inoltre, si ha una menzione del Medioevo direttamente dalla bocca del protagonista, e la cosa accade in una cornice ancora una volta molto più accurata rispetto all’ambientazione del quarto capitolo. Dopo aver sconfitto Alcina Dimitrescu, Ethan incontra una vecchia strega in una cappella sotterranea, tutta adorna di icone della madonna e candele di sego. La strega gli dice che per salvare sua figlia deve recuperare tutti e quattro i contenitori nei quali è stata suddivisa dai duchi cattivi (con un piccolo sforzo si può addirittura pensare al miracolo di una delle leggende agiografiche di san Nicola di Bari) e l’americano, dopo uno scambio di battute immaginabile, proferisce “medieval bullshit”, “stronzate medievali”: la classica espressione con cui ci si riferisce a tutto ciò che di irrazionale e credulone proviene da un passato andato, lontano, obsoleto e ovviamente superstizioso; un’espressione, “medieval bullshit”, che può essere applicata praticamente a tutto, senza perdere la sua efficacia rappresentativa e mantenendo la sua autorevolezza proprio nel menzionare quell’aggettivo, “medieval”, che è diventato ormai il contenitore di ogni stupidaggine possibile. Per uscire da quel Medioevo buio, bigotto e ingiusto bisogna seguire la direzione indicata dal dito puntato dello zio Sam, insomma. Tutto ciò che è da cassare, da rimodernare, da ristrutturare o addirittura da radere al suolo proviene dal Medioevo. Un Medioevo che è rimasto stigmatizzato in una cultura che ha avuto sì il suo, ma l’ha chiamato in un altro modo.

Nota bibliografica

Per il sogno del Medioevo ci si è riferiti a Umberto Eco, Dieci modi di sognare il Medioevo, tratto da Sugli specchi e altri saggi, Milano 1985 e Raffaele Licinio (a cura di), Castel del Monte. Un castello medievale, Bari 2002, Premessa.

Per le ambientazioni orrorifiche medievali e le loro corrispondenze nella letteratura specifica e nelle fonti, si veda Vito Fumagalli, I paesaggi della paura. Vita e natura nel Medioevo, Bologna 2001, pp. 31-34 e 37-39. Si veda anche, dello stesso autore, Quando il cielo s’oscura, Bologna 1998, in particolare pp. 24-29 e 64-65.

Fondamentale anche la lettura di Piero Camporesi, Il pane selvaggio, Milano 2016, in particolare p.23 ss; 85-86; 134 ss.

Per la famiglia Hellequin e le superstizioni in generale, Orderico Vitale, Historia Ecclesiastica, Lib. VII., Londra 1864 e Jean-Claude Schmitt, Medioevo superstizioso, Bari 1992, p. 126 ss. e passim.

Per la caratterizzazione del lupo tra antichità e Medioevo, cfr. Gherardo Ortalli, Lupi genti culture. Uomo e ambiente nel Medioevo, Torino 1997, pp. 57-83. Notare che lo stesso nome del villaggio di Valdelobos richiama il lupo, animale padrone delle valli in cui sorge l’abitato, rendendolo un luogo spaventoso anche nella toponomastica.

Per l’idea di Medioevo in generale, si vedano Francesco Violante, L’età dimezzata. Il Medioevo come stereotipo tra ricerca e didattica, in AA.VV., Il Mezzogiorno medievale nella didattica della storia, a c. di Raffaele Licinio e Tommaso Montefusco, Bari 2006 e Giuseppe Sergi, L’idea di Medioevo, Roma 2005. Per la caratterizzazione negativa a priori del Medioevo, anche a livello giornalistico, G. Sergi, op cit. p. 22.

Per gli effetti degli ufo sui castelli, si veda Raffaele Licinio (a cura di), Castel del Monte. Un castello medievale, Bari 2001, Premessa.

Per il concetto di “alterità nell’alterco” cfr. Massimo Arcangeli, Senza parole. Piccolo dizionario per salvare la nostra lingua, Milano 2020.

Per il Medioevo “americano”, la sua differente accezione nella cultura d’oltreoceano e la percezione dello stesso nella cultura mainstream, si veda Gabriella Piccinni, I mille anni del Medioevo, Milano 2002, p. 434 e passim.

Tutte le immagini sono state tratte dai videogiochi originali tramite il sistema di cattura schermo di PlayStation 5.


[1] Data la nequizia dei tempi, occorre specificare che NPC sta per Non Playable Character, personaggio non giocabile, niente a che fare con i balletti dai movimenti stereotipati tanto in voga oggigiorno sui social media. Tali espressioni artistiche vanno sotto il nome di NPC per ragioni completamente ignote a chi scrive. 

Categorie
Personaggi

Michele Scoto

Michele Scoto fu filosofo, scienziato, medico, alchimista, traduttore dall’arabo e dal greco al latino, enciclopedista ed astrologo, molto probabilmente nacque intorno al 1175 in Scozia.
Studiò ad Oxford, a Parigi e a Bologna che all’epoca erano le migliori università europee, qui arricchì le sue conoscenze scientifiche, filosofiche e umanistiche. Con un ampio bagaglio culturale si trasferì in Spagna e a Toledo, nel 1217 tradusse dall’arabo il De animalibus di Aristotele (nota 1) e ancora il De coelo et mundo, il De anima dello Stagirita con i commenti di Averroè uno dei più noti filosofi arabo-spagnoli. Con queste traduzioni lo Scoto permise di conoscere al mondo latino queste opere. Durante la sua permanenza spagnola tradusse anche il De sphaera di Alpetragio.

Si trasferì in Italia intorno al 1220 alla curia papale che gli riconobbe per i suoi meriti alcune rendite ecclesiastiche, poi passo alla corte dell’imperatore Federico II, di cui fu l’astrologo ufficiale seguendolo nei suoi spostamenti.

Pare che Federico l’abbia inviato all’università di Bologna a far dono delle traduzioni dei commenti averroistici ad Aristotele fatte da lui e da altri.
Alcune fonti riferiscono che l’imperatore Svevo utilizzò Michaele Scoto come inviato presso i sovrani Arabi, come al-Kamil, per scambi diplomatici e culturali.
Michele Scoto fece parte della corte itinerante federiciana insieme ad altri filosofi e scienziati, tra questi ricordiamo Davide di Dinant, Adamo da Cremona, Teodoro di Antiochia, Gualtierio d’Ascoli, Roffredo di Benevento, Leonardo Fibonacci ed il cronista Riccardo di San Germano.

Federico II riceve un libro da Michele Scoto nel dipinto di Giacomo Conti – Palazzo dei Normanni.

I testi medievali ci riferiscono una serie di quesiti che Federico II avrebbe rivolto ai saggi della sua Corte, ed in particolare a Michele Scoto.
Qui di seguito inseriamo alcuni dei quesiti che Federico II pose a Michele Scoto.

“[…] Noi ti preghiamo di volerci spiegare l’edificio della Terra, e precisamente quanto è alta la sua solida consistenza sovrastante gli abissi; […] se laggiù esista qualche altra cosa che la sorregge oltre l’aria e l’acqua; […] l’esatta misura che separa un cielo dall’altro e ciò che esiste al di là dell’ultimo cielo; in quale cielo Dio, per sua natura, si trovi, ed in che modo egli stia assiso sul trono celeste, e come gli facciano corona gli angeli ed i santi, e cosa facciano gli angeli ed i santi costantemente in sua presenza…

“Inoltre desideriamo sapere […] dove esattamente si trovino l’Inferno, il Purgatorio ed il Paradiso: sotto la Terra, nella Terra o sopra essa? […] E se un’anima nell’aldilà riconosca un’altra anima e se taluna di esse possa tornare in vita per parlare con qualcuno o mostrarglisi…

“Vogliamo inoltre conoscere le misure della Terra: la sua altezza, il suo spessore e quanto disti dal più alto dei cieli, quanto si estenda nel profondo; […] se contenga spazi vuoti oppure no, se sarebbe un corpo solido come una pietra focaia…

“Desideriamo sapere com’è che le acque dei mari sono tanto amare, e come mai, sebbene tutte le acque provengono dal mare, vi siano acque salate in molti luoghi, e in molti altri, lontane dal mare, acque dolci…

“Vorremmo sapere di quel vento che viene da ogni punto della Terra, e di quel fuoco che prorompe dalla Terra […] come accade in alcune località della Sicilia e presso Messina, sull’Etna, a Vulcano, Lipari, Stromboli…”

Lo scoto scrisse anche il Liber introductorius, che metteva insieme tutto ciò che si sapeva su geografia, medicina, studio dei pianeti e ricerca teologica che dedico all’imperatore Svevo. Ci restano frammenti di una sua Divisio philosophiae mentre sono perdute le Quaestiones Nicolai Peripatetici.

Per i suoi interessi alla scienza araba, all’astrologia e alla magia fu considerato da alcuni un mago.
Scoto è citato da Dante Alighieri nel canto XX dell’Inferno all’interno della bolgia degli indovini:

«… Quell’altro che ne’ fianchi è così poco,
Michele Scotto fu, che veramente
de le magiche frode seppe il gioco…»


In una leggenda pervenuteci si dice che egli avrebbe predetto a Federico II la morte “Sub Flore” ed effettivamente lo Svevo morì in un luogo dal nome di un fiore; Castel Fiorentino.
Molto verosimilmente lo scoto morì nel 1236, tra le varie leggende che si tramandano su di lui ce né una relativa alla sua morte, in particolare si dice che morì colpito sulla testa da un sasso mentre, a messa, come si deve, si era tolto un pesante elmo che teneva sempre a protezione del capo, avendo lui stesso preconizzato questa fine.

Nota 1 De animalibus di Aristotele; i 10 libri della Historiae animalium, i 4 del De partibus animalium, e i 5 del De genere animalium.

Bibliografia:

  • Commento sul De Sphera: The Sphere of Sacrobosco and its Commentators, a cura di L. Thorndike, University of Chicago Press, Chicago 1949.
  • Michele Scoto, Liber Phisionomiae, Venetiis 1477.
  • L’arte dell’Alchimia: The texts of Michael Scot’s Ars Alchimiae, a cura di S. H. Thomson, in Osiris, V (1938).
  • P. Morpurgo, Federico II e la fine dei tempi nella profezia del cod. escorialense f.III.8, “Pluteus. Periodico Annuale di Filologia”, 1, 1983, pp. 135-167

Per approfondire:
– R. Manselli, La corte di Federico II e Michele Scoto, in Atti del convegno internazionale L’averroismo in Italia, Roma, Accademia nazionale dei lincei 1979.
– Le scienze alla corte di Federico II, a cura di V. Pasche, Leiden, Brill 1994.
– Federico II, a cura di P. Toubert e A. Paravicini Bagliani, Palermo, Sellerio 1994 (3 voll.: Federico II e il mondo mediterraneo; Federico II e le scienze; Federico II e le città italiane).

Copyright © Alberto Gentile

Categorie
Medioevo e Videogiochi

Nonantola medievale

«[…] La varietà delle testimonianze storiche è pressoché infinita.

Tutto ciò che l’uomo dice o scrive, tutto ciò che costruisce,

tutto ciò che sfiora, può e deve fornire informazioni su di lui […]».

Marc Bloch, Apologia della storia o Mestiere di storico

Marc Bloch, nella sua “Apologia della Storia”, parlava di Bruges e dell’insabbiamento del golfo dello Zwin nel X secolo, mettendo in relazione l’attività dell’insediamento e il fenomeno idrogeologico nell’analisi della crescita e del declino commerciale della città.

Lo storico si interrogava su quale dovesse essere la disciplina più adatta allo studio del fatto, arrivando alla conclusione per cui nessun fenomeno fisico e naturale, quando interessa dei costrutti umani, può essere studiato “a sé”, ma deve essere rapportato all’azione umana. Nessuna scienza, se non la storia, è costretta a «[…] usare simultaneamente tanti strumenti diversi […]»: la storia è la disciplina che studia l’uomo nel tempo e l’esempio citato si sposa particolarmente bene con il discorso che stiamo per affrontare. Parleremo infatti della trasformazione e dello sviluppo di una città medievale in rapporto alle terre e alle acque che la circondano, e di come le donne e gli uomini che l’abitavano interagirono con l’ambiente nella costruzione, nella trasformazione e nell’espansione della stessa.

Forse abbiamo puntato troppo in alto in questa breve introduzione: non ce ne voglia chi fa un utilizzo migliore degli scritti di Bloch. Cionondimeno, dovremo servircene almeno per un altro punto che si cercherà di evidenziare: lo storico francese, nel viaggiare per le campagne del Nord della Francia, rimaneva colpito dal disegno dei confini dei campi e avviava una profonda riflessione sulla mentalità contadina che andava ben oltre sistemazioni giuridiche tutto sommato recenti, fornendo spunti per ragionare addirittura su quale educazione dovettero avere i figli piccoli delle famiglie contadine e sull’impatto che ebbero i rapporti tra diverse generazioni nella trasformazione del territorio.

Noi cercheremo di occuparci di un mondo contadino, tradizionalista come diceva Bloch, ma anche capace di strutturarsi in modo funzionale e longevo, tanto da durare, nelle sue espressioni politiche e gestionali, fino ai giorni nostri. E non stupirà che sia stata necessaria un’indagine archeologica per lo studio di un passato istituzionalmente così strutturato: Nonantola è una comunità contadina, e come le altre non fa eccezione: i suoi documenti più antichi, conservati nell’archivio storico del Comune, risalgono solo alla fine del secolo XVIII.

La storia di Nonantola è da sempre fortemente legata alle terre e alle acque che la circondano: la cosa è chiara fin dall’analisi dei primi reperti risalenti all’età del bronzo.

Lo stesso nome della città (da Nonaginta, novanta) deriva dalla divisione in centurie dei terreni bonificati ad opera dei romani, aspetto sul quale non si insisterà per ragioni di sintesi.

Ci occuperemo del periodo medievale, al quale la comunità nonantolana deve molto, e del quale porta avanti alcune idee originali, adattandole di volta in volta ai tempi e valorizzandone ogni lascito.

Per iniziare in modo serio, citeremo lo scavo dell’Università Ca’ Foscari in piazza Liberazione, dal quale è emersa la chiesa medievale (XII secolo) di San Lorenzo, con annesso cimitero, demolita nel secolo XVI. Il perimetro della chiesetta è stato evidenziato dopo aver ricoperto lo scavo attentamente, in modo da lasciare traccia di un intervento delicatissimo di archeologia urbana, pur senza limitare la fruizione di spazi comuni.

Certo, la presenza dell’importantissima abbazia e dell’istituto della Partecipanza agraria hanno contribuito non poco al modellarsi dell’identità collettiva e uno dei monogrammi di Carlomagno, in un diploma conservato nel museo dell’abbazia, ha fornito idee lapalissiane alle attività commerciali limitrofe.

Non che i nonantolani manchino di autoironia: fino a non molti anni fa, mi raccontavano, sulla parete della chiesa della Beata Vergine della Rovere, santuario sconsacrato posto all’ingresso ovest dell’abitato, campeggiava un’iscrizione goliardica che recitava “benvenuti a Frìttole”, periodicamente cancellata e puntualmente riscritta. Il contenuto del messaggio era sicuramente scherzoso (neanche troppo), ma riflette un’abitudine tutta emiliana di affermare il proprio pensiero anche e soprattutto quando te lo censurano: sul muro dell’ospedale vecchio di Sant’Agostino a Modena, qualcuno scriveva continuamente “grazie a Dio non sono bolognese”, soprattutto quando il Comune faceva coprire il messaggio dagli imbianchini divertiti.

Goliardie a parte, a un occhio attento risalta subito come una delle attività economiche di un certo rilievo, posta immediatamente all’ingresso del paese, porti il nome di una delle più importanti famiglie della Partecipanza; come le espressioni dialettali richiamino a gran voce abitudini inveterate; come le testimonianze medievali, pur volendo fare un discorso a parte per l’abbazia, siano non solo ben conservate, ma ancora parte integrante di un tessuto cittadino in cui esistono ancora l’operosità e la solidarietà emiliane di una volta, connesse tra loro in modo così stretto da non produrre, nei dialetti della zona, alcun termine che designi precisamente lo sfaticato: si devono utilizzare iperboli come bôun ed gnìnta, il buono a nulla, o antifrasi tipo lavòr tanta rôba, che non c’è bisogno di tradurre.

Nonantola e i nonantolani meritano una menzione d’onore prima di iniziare, dato che abbiamo appena parlato di solidarietà, per la vicenda di Villa Emma: nel 1942, diversi ragazzi orfani di origine ebrea tedesca furono ospitati nella villa per un anno intero su iniziativa della DELASEM e furono fatti poi fuggire di nascosto in Svizzera con uno sforzo eroico di tutti i cittadini, che li salvarono così dalle angherie naziste successive all’8 settembre 1943.

Come dicevamo, la storia di Nonantola è legata a quella della sua abbazia.

Nel 752, Astolfo, re dei Longobardi da pochi anni, fece un atto di donazione a suo cugino Anselmo, nel quale erano compresi diversi beni e varie pertinenze territoriali.

Il documento ci è giunto, come spesso accade, in una copia più tarda rispetto all’originale perduto, ma gli elementi che lo costituiscono possono essere a buon diritto dichiarati fededegni.

I territori elencati nel documento gravitano intorno alla corte Gena, una proprietà agricola dai confini ben definiti, che presenta i tratti caratteristici del sistema curtense già in età longobarda.

Diversi scavi hanno dimostrato che la corte Gena era un’area probabilmente agricola, attraversata dal torrente Torbido, che scorreva nell’area dove ora sorge l’Abbazia.

In uno dei primi abitati esaminati negli scavi sono state trovate tracce di un torchio, di magazzini e altri ambienti legati ad attività produttive, adiacenti a un edificio religioso, già demolito e riutilizzato in età carolingia, e definitivamente cancellato dalla costruzione delle mura bolognesi nel XIV secolo.

Siamo quindi davanti a un modesto abitato sulle rive del torrente, i cui edifici dovevano essere stati fondati su preesistenti costruzioni di età romana riutilizzate, e realizzati con materiali deperibili su alzato in pietra o materiale laterizio.

La fondazione dell’Abbazia, che conobbe una certa fortuna, determinò una rapida trasformazione dell’abitato. Il monastero, già sul finire del secolo VIII, possedeva i territori degli attuali territori di Nonantola, Ravarino, Camposanto, Crevalcore, San Giovanni in Persiceto e Sant’Agata, e i monaci dell’abbazia iniziarono un’opera di bonifica che fu coadiuvata da fattori esogeni come un generale miglioramento climatico, un aumento della popolazione e importanti innovazioni tecniche in agricoltura. I canali vennero utilizzati non solo per irrigare, ma anche come fonti di energia cinetica per mulini e torchi. La domanda per i terreni coltivabili aumentò sensibilmente e l’abbazia seppe trarre vantaggio dalla rinnovata ricchezza dei suoi possedimenti.

A partire dal IX secolo, infatti, furono realizzati ambienti più pregevoli, in linea con la crescente notorietà dell’istituzione. La prima chiesa fu infatti demolita, facendo spazio a diverse attività artigianali (come la fornace, il cui utilizzo da parte dei monaci è attestato da embrici che riportano le abbreviazioni dei nomi tracciate con uno strumento appuntito prima della cottura), che scomparvero in seguito con la costruzione dello scriptorium e la ristrutturazione della residenza abbaziale.

Di particolare importanza, lo scriptorium nonantolano presentava decorazioni sulle pareti e ospitava una complessa manifattura di codici, come attestano i ritrovamenti di fermagli e altri elementi utili a fabbricare le chiusure dei tomi in età carolingia. L’eterogeneità dei ritrovamenti testimonia degli scambi con altri centri manifatturieri, e quindi di dialogo con altri centri di produzione libraria.

L’importanza dell’abbazia tra VIII e IX secolo è testimoniata da reperti certamente pregevoli, come il sigillo plumbeo di Ludovico II e le spoglie di San Silvestro, ancora patrono di Nonantola, che furono traslate intorno al secolo VIII da Roma ad opera dell’abate Anselmo, rendendo l’abbazia meta di pellegrinaggi.

Con il X secolo, l’abbazia conobbe un periodo di declino, certamente legato alla crisi del potere politico cui era profondamente legata, che determinò la perdita di autonomia dell’istituzione monastica.

All’inizio del secolo, Nonantola fu saccheggiata dagli Ungari. I monaci dell’abbazia si diedero alla fuga e, se l’abate Leopardo riuscì a mettersi in salvo, diversi suoi confratelli furono uccisi. Modena non fu espugnata, grazie alla solidità delle mura fatte racconciare il secolo prima dal vescovo Liduino e allo zelo dei giovani modenesi chiamati a fare da scolte e vedette, così come ci informa il “Ritmo delle scolte modenesi”.

Questi eventi determinarono delle trasformazioni strutturali sia del tessuto urbano che dell’edificio di culto nonantolani: l’abitato fortificato da fossati e palizzate viene indicato nelle fonti del X secolo come castrum Nonantule.

Se il secolo XI viene considerato un periodo di “svolta” un po’ in generale, ciò è particolarmente vero per Nonantola. Risale al 1058, difatti, la costituzione di un istituto tuttora vigente: la Partecipanza agraria.

Nel 1058, l’abate Gotescalco instaurò un legame singolare con le famiglie nonantolane maiores, mediocres e minores. L’abate concesse il privilegio (trasmissibile per via ereditaria) del godimento dei diritti fondamentali riguardanti la libertà delle persone e il diritto di uso della terra “con le selve e le paludi e i pascoli in essa compresi”. Per godere di questo diritto, l’abate chiedeva la residenza (clausola ad incolandum), la costruzione di tre quarti delle fortificazioni del borgo (mura e fossato, parte della clausola ad meliorandum) e la difesa del monastero e del territorio di Nonantola contro qualsiasi nemico.

La Partecipanza, una proprietà collettiva di terreni, esiste ancora oggi.

L’istituzione della Partecipanza fu anche l’occasione per il riempimento del canale Torbido, confine naturale dell’abbazia, che poté così allargarsi con il nuovo cenobio e la chiesa abbaziale, donando al centro l’aspetto che ha poi conservato nei secoli.

L’evento che più trasformò le strutture dell’abbazia e probabilmente dell’intero abitato nonantolano fu però il terremoto del 1117. Numerosi scavi hanno confermato lavori importanti dopo questa data, sia per la facciata che per la muratura, sebbene non comportarono una completa trasformazione dell’edificio. Quello che cambiò profondamente nel corso del XII secolo fu l’utilizzo dei terreni.

Dal 1152, dopo la rotta di Ficarolo, il Po abbandonava infatti il ramo di Ferrara per migrare verso il ramo di Venezia. Il Secchia e il Panaro, per le trasformazioni dovute alla diminuzione della forza dragante del Po e al conseguente interramento dei loro alvei, deviarono il loro corso verso Ovest. In questo modo, molti terreni videro cambiare la propria destinazione, diventando l’asse portante per progetti di valorizzazione agricola, come per l’appunto quelli delle Partecipanze agrarie.

Tra il XII e il XIII secolo, Modena e Bologna conobbero uno sviluppo e un dinamismo eccezionali, espandendosi nel contado. Nonantola fu prima controllata dai modenesi, che ricostruirono, intorno al 1261, una delle torri volute da Gotescalco nel 1058. Nonantola era ancora sprovvista di mura vere e proprie, quindi la fortificazione, di utilizzo prettamente militare, doveva stagliarsi solitaria sui fossati.

E fu forse per i parziali interramenti degli alvei di Secchia e Panaro, che il torrente Tiepido fu ragione di sventura per le truppe imperiali di Federico II nel 1249, alla Fossalta.

L’avanguardia guidata da re Enzo voleva attaccare dei bolognesi che costruivano un ponte sul Panaro, ma le forze imperiali furono colte di sorpresa dal grosso delle truppe bolognesi e, ripiegando, non riuscirono a manovrare perché il Tiepido (che è un torrente, quindi soggetto a queste dinamiche) era ingrossato, e furono massacrate.

Questo episodio, seppur indirettamente, ci racconta della profonda simbiosi tra gli abitanti del luogo e le acque: i bolognesi costruivano un ponte sul Panaro, che è un fiume e ha una portata stabile. In più, da qualche tempo era parzialmente interrato, come abbiamo visto: i bolognesi lavoravano in sicurezza.

Gli imperiali, vuoi per inesperienza dei luoghi, vuoi per pura e semplice tracotanza, non si curarono di lasciarsi alle spalle un torrente ingrossato: guardarono solo avanti e probabilmente si sentirono incoraggiati dal fatto che il terreno non presentasse particolari difficoltà in una carica. Furono però presi ai fianchi da truppe esperte, e fecero la fine che tutti conosciamo.

Per dovere di cronaca, l’alluvione di Nonantola del 2021 fu provocata proprio da un ingrossamento anomalo del torrente Tiepido.

Nel XIV secolo, più precisamente dal 1307, Nonantola passò sotto il controllo del comune di Bologna, che costruì la torre dei Bolognesi, anch’essa ancora visibile, in un sistema di fortificazioni edificate in materiale laterizio e consistente di un buon numero di torri e rivellini, corredato di ponti mobili per l’accesso all’abitato.

La torre fu trasformata in carcere nel secolo successivo, quando Nonantola passò sotto il dominio estense, essendo mutate le esigenze difensive dell’abitato. Dal 2007, la torre dei bolognesi ospita il museo di Nonantola.

Bibliografia essenziale:

  • AA. VV., Aquae. La gestione dell’acqua oltre l’Unità d’Italia nella pianura emiliana. Celebrazione del 525° anno dallo scavo del “Cavamento Foscaglia” 1487-2012, a cura di Silvia Marvelli, Marco Marchesini, Fabio Lambertini, Carla Zampighi, Bologna 2011.
  • AA. VV, Nonantola (6 volumi), a cura di Sauro Gelichi e Mauro Librenti, Firenze 2013 e l’edizione sintetica: AA. VV. Nonantola nel Medioevo, a cura di Mauro Librenti e Chiara Ansaloni, Modena 2020.
  • David Abulafia, Federico II, un imperatore medievale, Torino 1990.
  • Marc Bloch, Apologia della storia o Mestiere di storico (Piccola biblioteca Einaudi. Nuova serie Vol. 460). EINAUDI, Edizione del Kindle.
  • Ritmo delle scolte modenesi (O tu qui servas), in MGH, Poetae Vol. III, Berlino 1896, p. 703.
Categorie
Personaggi

Enrico VII di Hohenstaufen

Enrico VII era il primogenito di Federico II, nato dal matrimonio di questi con la prima moglie Costanza d’Aragona. Nato nel 1211, fu nominato nel 1220, ancora bambino, re di Germania, alimentando la speranza di poter unire concretamente, alla morte del padre, i Regno di Germania con il Regno di Sicilia. Raggiunta la maggiore età, fu per Federico una vera e propria spina nel fianco: il carattere indocile, le ambizioni, i cattivi consiglieri, lo indurranno ad una continua lotta familiare, che lo condurrà alla distruzione.

Enrico crebbe e maturò nell’ambiente dei ministeri imperiali di Germania, viziato dagli estranei ma senza conoscere l’affetto della famiglia sempre lontana, al seguito delle perenni missioni politiche e militari.
A questa circostanza — peraltro non nuova presso le dinastie imperiali — può forse essere ricondotto il rapporto conflittuale di amore – odio che ebbe con il padre, considerato un uomo eccezionale, mitico, irraggiungibile, ma lontano dalle legittime esigenze di un figlio.
Federico ed Enrico avevano un differente modo di vedere la gestione dello stato: il primo riteneva che dovesse andare ben oltre gli interessi nazionali ed assumere una dimensione sovranazionale, imperiale; il secondo, tendeva a favorire gli interessi germanici, nella convinzione che l’avvenire della dinastia fosse nella terra d’origine.
Nonostante i reiterati chiarimenti e le amorevoli raccomandazioni di Federico, la situazione condusse presto ad un doloroso scontro.

Stemmi di Enrico VII. A sinistra: Corpus Christi College di Cambridge, MSS 16II, fol.155v. A Destra: British Library, Royal MS 14 C VII fol.134v

Enrico, influenzato dai prìncipi germanici e dalle città che tendevano a consolidare le proprie autonomie, contravvenne alle disposizioni imperiali e fu il protagonista di una vera e propria ribellione. Dopo diverse insubordinazioni, fu costretto a presentarsi al cospetto di Federico II ad Aquilea nel maggio del 1232 e qui dovette impegnarsi ad eseguire a tutte le disposizioni imperiali.
Tornato in Germania, si comportò come se nulla fosse accaduto e riprese a spargere i semi della discordia; finché Papa Gregorio IX, i cui interessi nella circostanza coincidevano con quelli dell’Impero, nel 1234, gli lanciò l’anatema, giustificato con presunti atteggiamenti che infrangevano le leggi contro gli eretici.
Alla fine dello stesso 1246, Federico II apprese con costernazione che Enrico aveva niente meno che stipulato un’alleanza difensiva con la Lega Lombarda: i peggiori nemici dell’Impero e della Casa di Svevia!
Tutto ciò voleva dire alto tradimento: Enrico fu convocato senza indugio a Wimpfen, dove, dopo un sommario processo, fu deposto dal trono di Germania e condannato a morte. Solo in un secondo tempo Federico II — alla razionalità ed al dovere di Stato prevalse il cuore paterno — fece commutare la condanna in carcere a vita.
Enrico VII, rinchiuso in varie fortezze dell’Italia del Regno di Sicilia, iniziò una durissima prigionia.
La storia — che in queste circostanze è spesso inquinata dal mito — racconta che finì i suoi giorni suicida a soli trentun anni, il 10 febbraio 1242.

Enrico VII muore suicida a Martirano buttandosi da un dirupo, così è stato disegnato da Enzo Maria Carbonari nel libro “La montagna incantata” pubblicato con il patrocinio della Fondazione Federico II di Jesi.

Quel giorno stava percorrendo una tortuosa strada di montagna, mentre era trasferito da Nicastro alla volta del castello di Martirano di Calabria: uno dei tanti cambi di prigione. Improvvisamente, sottraendosi alla vigilanza degli accompagnatori, si gettò dal cavallo sfracellandosi in un dirupo. I soccorritori lo raggiunsero già morto.Federico diede ordine di seppellire il giovane figlio ribelle nel Duomo di Cosenza, avvolto in mantelli regali e con tutti gli onori. Un frate minore tenne l’orazione funebre commentando il versetto: “Abramo impugnò la spada per immolare il figlio a Dio”. Dall’esame paleopatologico effettuato dal prof. Gino Fornaciari è emerso che Enrico era affatto da lebbra.

Cosenza Duomo, Sarcofago di Enrico VII.

Bibbliografia:

  • Ernst H. Kantorowicz – Federico II Imperatore – 1931
  • David Abulafia, Federico II. Un imperatore medievale, Enaudi, Torino, 1993.
  • Eberhart Horst, Federico II di Svevia L’imperatore filosofo e poeta, Rizzoli Supersaggi, Milano, 1994.
  • Gino Fornaciari – La lebbra di Enrico VII, 1211-1242, figlio dell’imperatore Federico II e re di Germania: prigionia o isolamento? 2018 Luigi Pellegrini Editore
  • Georgina Masson, Federico II di Svevia, Tascabili Bompaini, prima edizione 1957, riedizione tascabile aprile 2001.
  • Wolfgang Stürner – Enrico VII re di Sicilia e di Germania (Federiciana) – Treccani

Copyright Alberto Gentile

Categorie
Personaggi

Marcovaldo di Anweller

Marcovaldo di Anweller o Marquardo di Anweiler fu uno dei ministeriali dell’Impero più in vista dell’epoca sveva. Nacque in una famiglia con possedimenti nei territori del medio corso del Reno. Già funzionario di corte sotto Federico I Barbarossa divenne uno dei principali collaboratori dell’imperatore Enrico VI in Italia. 

Nel 1186-1187 svolse su incarico di Enrico funzioni di legato nell’Italia centrale, e si fa onore in operazioni militari per conto dell’imperatore Barbarossa.

Nel 1189 accompagnò Federico Barbarossa alla terza crociata, qui si distinse sia come capo militare sia come legato presso la corte imperiale bizantina. Nei primi mesi del 1192 rientrò in Europa e da quel momento fu sempre più vicino al nuovo imperatore Enrico VI.

Nel 1194 riuscì a procurare all’imperatore svevo il sostegno di Genova per la spedizione di conquista nel Regno siciliano-normanno. In questa occasione fu comandante supremo delle flotte genovese e pisana, con cui contribuì in modo determinante al rapido successo dell’impresa. 

Nel corso della dieta di Bari (1195) Enrico VI lo nominò marchese di Ancona, duca di Ravenna e conte di Romagna. Da lì a poco ottenne anche la contea degli Abruzzi e l’anno successivo a quella del Molise. 

Nel maggio-giugno del 1197 Marcovaldo soffocò nel sangue, insieme al maresciallo Enrico di Kalden, la rivolta esplosa in Sicilia contro l’imperatore.

Alcune fonti sostengono che Enrico VI, prima di morire (28 settembre 1197), gli abbia affidato il suo testamento. 

Marcovaldo di Anweiler in un’illustrazione del Liber ad honorem Augusti di Pietro da Eboli.

Dopo la morte di Enrico VI il Regno venne diviso tra i Baroni tedeschi, tra questi si impose proprio Marcovaldo, e i sostenitori del papato e dell’Imperatrice Costanza.

Ma l’Imperatrice fece arrestare i consiglieri di Enrico VI: Marcovaldo, Corrado d’Urslingen e Gualtiero di Palearia vescovo di Troia che erano membri del consiglio di reggenza. 

Poi Costanza espulse dal Regno Marcovaldo e tutti i tedeschi, e li fece giurare che non vi sarebbero più rientrati senza il suo permesso. Non è stato ancora confermato se l’imperatrice abbia concluso un accordo particolare con Marcovaldo in merito all’assicurazione dei suoi diritti sul Molise, come suppone Wolfgang Stürner (1992).

Nel 1198 l’imperatrice Costanza dichiarò Marcovaldo nemico dell’Impero e vietò qualsiasi contatto con lui perché aveva saputo che voleva rientrare nel Regno. 

Marcovaldo dovette affrontare l’ostilità del papato essendo deciso a recuperare i beni della chiesa che l’imperatore gli aveva dato in feudo, il conflitto con la Chiesa si aggravò quando Costanza d’Altavilla morì (28 novembre 1198) lasciando la tutela del figlioletto Federico a papa Innocenzo III. 

Nell’ottobre 1199 Marcovaldo ritornò in Sicilia e, appoggiandosi a un presunto passo del testamento di Enrico VI, rivendicò il diritto di assumere la reggenza affiancando l’erede al trono Federico. Anche i principi favorevoli agli Staufen riconobbero Marcovaldo come reggente imperiale su disposizione di Filippo di Svevia fratello di Enrico VI.

Innocenzo III lo accuso di avere ambizioni personali sul Regno di Sicilia e arrivò a proclamarlo “nemico di Dio e della Chiesa e persecutore del Regno” (Die Register, 1964, nr. 570, p. 829). 

È evidente che in quel momento per Innocenzo III Marcovaldo era divenuto il suo avversario più temibile. Nonostante l’impegno del papato, Marcovaldo riuscì a impadronirsi di buna parte dell’isola dopo una serie di continui combattimenti. 

Nel 1200 fu sconfitto dalle truppe pontificie a Monreale e a Randazzo. Alla fine dell’anno il cancelliere del regno Gualtiero di Palearia, che godeva della fiducia del papa, lo ammise nel collegio dei familiari, ma ciò lo portò alla rottura con il pontefice. 

Il controllo del piccolo Federico fu affidato al fratello di Gualtiero, il conte Gentile di Manoppello, mentre lo stesso cancelliere scese in campo contro Gualterio III di Brienne che era stato inviato dal pontefice per riprendere il controllo della Sicilia. In questa occasione Marcovaldo fu sconfitto dalle truppe pontificie.

Ciò nonostante, alla fine del 1201, Marcovaldo prese il controllo di Palermo e di Federico, in questo modo divenne reggente e padrone incontrastato dell’isola. Ma il suo progetto di dominio non poté realizzarsi completamente, perché nel settembre del 1202 morì di dissenteria a Patti.

Letture consigliate per approfondire: 

  • Giosuè Musca a cura di, Il mezzogiorno normanno-svevo e le crociate; Atti delle quattordicesime giornate normanno-sveve Bari, 17-20 ottobre 2000. Edizioni Dedalo 2002.
  • Th.C. van Cleve, Markward of Anweiler and the Sicilian Regency, Princeton 1937

Copyright  © Alberto Gentile

Categorie
Personaggi

Corradino di Svevia

Corradino di Svevia nacque a Landshut, in Germania, nel 1252. Il padre era Corrado IV, figlio di Federico II, la madre Elisabetta di Wittelsbach (di Baviera). Noto anche come Corrado V di Hohenstaufen, fu l’ultimo sovrano della illustre dinastia: con lui si estinguerà, in pratica, la discendenza diretta. E’ stato duca di Svevia (1254-1268, come Corrado IV).
Fu re di Sicilia dal 1254 al 1258 con il nome di Corrado II, e re di Gerusalemme dal 1254 al 1268 con il nome di Corrado III.

Chiesa del Carmine Napoli – statua di Corradino 

Nel 1266, dopo la morte di Manfredi, quando aveva solo quattordici anni, fu chiamato in Italia dai ghibellini.
Allora nell’Italia meridionale erano accesi fuochi di resistenza nei confronti di Carlo d’Angiò, che fu costretto a precipitarsi verso il sud per cercare di reprimere almeno le principali opposizioni prima che il giovane Hohenstaufen varcasse i confini del regno di Sicilia.

Miniatura del Codex Manesse che illustra il quattordicenne Corradino di Svevia durante una battuta di falconeria.

La calorosa accoglienza ricevuta nella ghibellina Pisa lo incoraggiò   a continuare la marcia verso il Sud e verso l’eredità che legittimamente gli spettava.
Accolto con favore dalle città imperiali dell’Italia settentrionale, entrò a Roma trionfalmente, ponendo le premesse per una facile vittoria.
Fu allora che Carlo d’Angiò, abbandonato l’assedio della colonia musulmana di Lucera che aveva intrapreso per onorare una promessa formulata al Pontefice, si mise in marcia per intercettare al più presto l’esercito di tedesco.
L’incontro avvenne sul confine del Regno di Sicilia presso Tagliacozzo.
Era il 23 agosto 1268. Dopo le prime mosse di assaggio, i comandanti dei due eserciti accettarono lo scontro campale. L’esito della battaglia si mantenne a lungo incerto, la carneficina fu enorme finché gli Angioini più numerosi, freschi, e forse meglio organizzati, ebbero la meglio.
Ma vediamo come si svolse la battaglia.
Corradino fu sconfitto dopo un’apparente iniziale vittoria a causa di uno stratagemma ideato da Alardo di Valéry, che prese spunto a sua volta da un analogo espediente usato dai saraceni nelle crociate: il nobile Henry de Cousances, che era aiutante di campo del re, indossò le vesti del sovrano francese e si lanciò in battaglia con tutta l’avanguardia angioina preceduta dalle insegne reali. Gli uomini al seguito di Corradino si scagliarono in massa contro questa schiera, sbaragliandola. Caduto il Cousances, i ghibellini ebbero l’illusione di aver ucciso l’usurpatore francese e di avere in pugno la vittoria.

Dalla Nuova Cronaca di Giovanni Villani – Battaglia di Tagliacozzo
Codice Chigi, Biblioteca Apostolica – Vaticano

Ruppero così le loro formazioni, rilassandosi e poi inseguendo disordinatamente i franco-guelfi. Tutto ciò diede a Carlo I d’Angiò l’occasione di sferrare un nuovo attacco, questa volta a sorpresa, utilizzando 800 cavalieri che aveva tenuti in riserva e nascosti in un avvallamento. I ghibellini furono presi di sorpresa e alle spalle, non ressero alla carica della cavalleria angioina, furono travolti e si dispersi. Per lo schieramento svevo fu una disfatta che assunse in breve le proporzioni di un vero e proprio massacro. 

Battaglia di Tagliacozzo, minaitura medievale.

In un primo momento Corradino riuscì a sottrarsi alla cattura, iniziando una rocambolesca quanto umiliante fuga nella campagna, ospite di gente che forse neppure lo conosceva. Alla fine, tradito da alcuni compagni, fu catturato dalle milizie angioine ed imprigionato.
Portato in catene a Napoli, fu sottoposto ad un processo farsa, assieme ad alcuni suoi fedelissimi: quali delitti potevano essergli contestati, tranne quello di voler onorare il nome della dinastia e di affermare i propri diritti?
Condannato a morte, fu decapitato a soli sedici anni il 29 ottobre 1268 sul patibolo eretto in Campo Miricino, l’odierna Piazza del Mercato della città partenopea.
Con questa orrenda, ingiusta morte che all’epoca destò grande scalpore, finivano gli Hohenstaufen. Si dice però che alla esecuzione fosse presente Giovanni da Procida, fedele amico di Federico II, che raccolse il guanto di sfida con l’intenzione consumare presto ad una giusta vendetta.

Decapitazione di Carradino – Codice Chigi.

Dante ricorda il giovane Corradino nel XX canto del Purgatorio:
“Carlo venne in Italia e, per ammenda,
vittima fe’ di Curradino…”.

LA FIRMA AUTOGRAFA DI CORRADINO DI SVEVIA
Nota a cura di Alessandro De Troia.
Questa è l’unica firma autografa di Corradino di Svevia, nipote di Federico II, a quel tempo (Giugno 1268) appena sedicenne. Il giovanissimo svevo scrisse di propria mano la prima delle sottoscrizioni nel trattato di Pisa quando da Pavia vi giunse nella traversata verso il Sud Italia nel tentativo di strappare il regno a quel Carlo d’Angiò che appena due anni prima l’aveva conquistato uccidendo Manfredi, il “bello, biondo e di gentile aspetto” dantesco e figlio di Federico II.
A firmare con lui, il fedelissimo Federico di Baden, Duca d’Austria e Wolfrad di Veringen a cui toccò la sua stessa sorte. L’ultimo a firmare fu Guido Novello, il più importante rappresentante dei ghibellini toscani di quel periodo.
Nos Corradus Secundus Dei Gratia Jerusalem et Sicilie Rex, Dux Svevie, suprascripta manu propria confirmatus
Fonte: Archivio di Stato di Pisa


Copyright  © Alberto Gentile

Categorie
Personaggi

Corrado IV di Svevia

Corrado visse la vicenda tormentata dell’uomo cresciuto all’ombra di un padre forte, autoritario, senza avere la possibilità di avere una vita propria, secondo le proprie attitudini.
Secondogenito di Federico II, nacque ad Andria il 25 aprile del 1228 dalla giovanissima Jolanda di Brienne, che l’Imperatore sposò senza amarla, solo perché gli recava in dote il titolo di re di Gerusalemme; e che morì solo dieci giorni dopo il parto.
Il padre si legò molto al figlio, vedendo in lui il proprio successore: per questo, cercò di impartirgli un’educazione rigida, finalizzata, degna di un imperatore.
Ma non tutti gli uomini accettano di essere predestinati ad un fulgido futuro.

Corrado IV interpretato da un Pittore anonimo – XVIII secolo.

Così, Corrado rifiutò la disciplina imposta dal ruolo, e si rivelò indisciplinato, privo di volontà. Il contatto ed il confronto con i fratellastri (figli bastardi dell’imperatore) che mostravano coraggio, intelligenza e amore per la poesia e le arti cavalleresche, voglia di affermarsi, gli inasprì il carattere rendendolo chiuso, diffidente e violento.
Federico non riuscì ad essere severo con lui; ma il ragazzo si rese conto della severità del padre quando questi operò la feroce repressione contro l’altro figlio Enrico, re di Germania, che gli si era ribellato.
Quando il fratellastro Manfredi gli comunicò la morte del padre avvenuta il 13 dicembre 1250, Corrado fu colto da una tempesta di sentimenti: dolore per la perdita di un punto di riferimento certo, senso di liberazione da un padre padrone che lo aveva vessato fin dall’infanzia, rabbia per non sentirsi all’altezza di una grave eredità…

Incoronazione di Corrado IV, da un manoscritto francese del XIV secolo.

Nei mesi successivi Corrado entrò in contesa con Guglielmo d’Olanda per la successione al trono imperiale, ma nessuno dei due fu eletto. Così, nel gennaio del 1252 scese in Puglia, sua terra natale, dove allontanò Manfredi e si fece incoronare re di Sicilia.
Qui cercò di rafforzare la sua posizione in Puglia e si riappropriò delle città di Capua e Napoli; quindi si oppose senza successo all’ostilità di papa Innocenzo IV, che lo scomunicò più volte.
Trascorrendo i mesi, gli anni, Corrado non riusciva ad ambientarsi nella terra che tanto aveva amato Federico. Il clima mediterraneo, nel quale peraltro era nato, non gli giovava, gli usi del posto gli erano estranei.
La sua vicenda umana si concluderà a Lavello il 21 maggio del 1254 colpito dalla stessa febbre intestinale che aveva ucciso il padre ed il nonno Enrico VI. Un altro perfido avvelenamento?
Lasciò erede il figlio Corradino che non divenne mai re. Fu sepolto a Messina.
 
Bibliografia:
• Bianca Tragni, Il Re Solo, Corrado IV di Svevia, Mario Adda Editore, Bari, 1998.
• Eberhart Horst, Federico II di Svevia L’imperatore filosofo e poeta, Rizzoli Supersaggi, Milano, 1994.
 
 
© 2024 Copyright Alberto Gentile

Categorie
Microstorie

L’industria del freddo in Capitanata


Archivio del Centro Studi di Storia e Cultura di Turi (BA): resti di una neviera

L’approvvigionamento della neve, ed il conseguente utilizzo delle neviere per la conservazione di questo prezioso bene, in passato ha rappresentato per l’uomo un’esigenza di assoluta importanza.

Sin dall’antichità la neve era largamente utilizzata. Testimonianze architettoniche di questi manufatti sono riscontrabili presso i vari siti archeologici, mentre per quelle storicamente più recenti l’utilizzo si è protratto sino ai primi anni del ‘900.

In Capitanata, le prime notizie documentali sulle neviere, sulla vendita della neve e sulla regolamentazione legislativa si hanno a partire dalla fine del 1600 per la città di Foggia, e dai primi anni del 1800 per gli altri centri. In particolare, dallo studio sono emerse notizie interessanti sulla presenza di neviere disposte soprattutto nell’arco del Subappennino Dauno e del Gargano, i cui centri erano i maggiori fornitori del prodotto, ma non è stato neanche trascurato lo studio sulla presenza e sulla tipologia delle neviere situate in pianura, in particolare nell’alto e basso Tavoliere; un’ampia trattazione che in definitiva ha riguardato tutti i centri della Capitanata.

Se dal punto di vista documentale la ricerca è stata abbastanza esaustiva, del manufatto architettonico di epoca più recente, purtroppo, ci sono pervenute pochissime testimonianze perché, nel tempo, molte neviere sono state destinate ad altri usi o interrate, pertanto, di alcune si è persa ogni traccia.

Ciò che si può affermare è che ogni centro, piccolo o grande che fosse, poteva vantarne il possesso.

Alla luce di tutto ciò, il presente studio ha lo scopo di riportare alla memoria di tutti una parte di storia, ormai dimenticata anche dagli anziani e sconosciuta alle nuove generazioni.

Da sempre l’uomo ha avuto l’esigenza di trovare refrigerio, specie durante la stagione estiva, attraverso l’assunzione di cibi e bevande fredde.

Oggi la tecnologia consente la produzione del ghiaccio artificiale in ogni casa, con frigoriferi, congelatori ecc., ma non sempre è stato così.

In passato l’uomo, per poter godere del privilegio di avere bevande e cibi freddi durante i mesi torridi, si ingegnò utilizzando ciò che la natura gli metteva a disposizione: la neve.

Questo prodotto, formato da microscopici cristalli di varie forme più o meno regolari, di acqua solidificata, spesso uniti in falde o fiocchi, si forma quando la temperatura dell’aria è inferiore a 0° C.

Essa, in passato, era merce preziosa ed un’abbondante nevicata era considerata una benedizione.

Con ogni mezzo l’uomo cercò di utilizzare questo prezioso genere anche quando madre natura non lo forniva, ossia durante la stagione estiva.

Nei paesi a clima temperato, l’utilizzo della neve era consuetudine sia per l’uso alimentare sia per quello medico: serviva per preparare sorbetti e bevande, per conservare i cibi, come riserva di acqua potabile per i periodi di siccità, ma era usata anche per curare febbri, ascessi, contusioni, ecc.

La neve veniva raccolta in luoghi esposti a nord, freschi ed umidi, quali sotterranei, grotte, scantinati e fosse oppure in costruzioni apposite, chiamate neviere [1].

Esse assunsero forme e tipologie diverse in funzione della zona geografica in cui si trovavano ed a seconda delle necessità locali.

In talune zone dell’Appennino, le neviere erano delle semplici buche nel terreno, pressoché circolari, con diametro di 5-10 m. e profonde altrettanto, con pareti di rivestimento in pietra in cui veniva conservato il ghiaccio [2].

In altre zone, specie nell’arco alpino ma anche in molte zone appenniniche, erano delle vere e proprie costruzioni in muratura, con il tetto a due e a quattro falde, senza finestre e con la sola porta di accesso.

Quando la profondità della neviera lo consentiva, si formavano più strati di neve intervallati da strati di frasche e foglie secche, che avevano funzione isolante. Questo sistema consentiva di mantenere freddo lo strato più profondo, anche quando si estraeva la neve dagli strati più superficiali.

Per il trasporto della neve nei luoghi di utilizzo erano adottati vari sistemi: talvolta sul dorso di muli, altre volte, quando le vie lo consentivano, in carretti o slitte.

Sul monte Faito, verso la fine del secolo scorso, si costruì una funivia con vagoncini per trasportare il ghiaccio dalle neviere montane agli abitanti di Castellammare.

Lungo l’arco alpino, ogni malga aveva la propria neviera: serviva per conservare meglio il latte, in attesa dell’accumulo di una quantità sufficiente per l’avvio della lavorazione del formaggio [3].

Nelle zone vulcaniche le neviere consistevano in un cilindro, scavato nel terreno, con una sola apertura per il carico di neve fresca e per il prelievo del ghiaccio; per garantire un sufficiente isolamento termico la costruzione era ricoperta da un grosso cumulo di terreno. Esse avevano l’ingresso rivolto verso Nord, per ridurre l’irraggiamento solare diretto verso l’interno. Anche la porta d’ingresso era schermata da una fitta copertura di frasche [4].

In Sicilia fino agli inizi del ‘900, nei mesi invernali più rigidi quando la neve cadeva copiosa, molti contadini di Piana salivano sulla Pizzuta a lavorare nelle neviere di proprietà del comune di Palermo, poste all’inizio del versante occidentale della montagna. La neve, raccolta in buche scavate ad imbuto, era compressa su vari livelli in corrispondenza dei quali veniva inserito uno strato di paglia [5].

A Catania era molto diffuso il commercio della neve dell’Etna; pertanto, le neviere si trovavano nelle cavità naturali della montagna. La neve veniva trasportata in città e nei paesi limitrofi con carretti coibentati in maniera rudimentale; infatti, per evitarne lo scioglimento i venditori cospargevano il fondo del carro con uno strato di carbonella ricoperto a sua volta di felci; al di sopra di queste ultime si disponeva la neve avvolta in un telo di canapa protetto superiormente da un altro strato di felci [6].

In Val Mugone, le neviere erano profonde circa 57 metri ed avevano l’ingresso con uno scivolo inclinato che portava direttamente alla cavità, alla cui base era depositata un’enorme quantità di ghiaccio [7].

Nell’Appennino Umbro-Marchigiano, le neviere erano delle strette depressioni esposte a nord, spesso a ridosso di pareti rocciose ed impervie. A Secinaro, vicino alla maestosa catena del Sirente, i nevaroli sin dal ‘500 erano soliti risalire il monte, fino alla neviera, dove si calavano con scale e corde per tagliare i blocchi di ghiaccio e riportarli a valle in gerle di vimini, avvolte in foglie secche isolanti, sul dorso di asini e muli [8].

Nell’Altopiano delle Murge le neviere erano distribuite soprattutto presso le masserie e nei declivi dei campi; avevano la forma di un parallelogramma con volta a botte ed un piano di calpestio formato da terriccio ricoprente le lastre adagiate sulla volta per neutralizzare il calore in maniera uniforme. Esse avevano, inoltre, una o due aperture laterali murate o chiuse con porte di legno che servivano per prelevare il ghiaccio mentre la neve veniva infilata dalla bocca posta alla sommità della volta. Sul fondo, all’interno, si deponevano dei fasci di sarmenti il cui scopo era quello di evitare che le neve venisse a contatto con il suolo e potesse sciogliersi o inquinarsi.

La neve appena caduta veniva raccolta e, ancora fresca, veniva trasportata sui vaiardi [9] perché i traini erano ingombranti e non potevano entrare negli erbaggi senza provocare danni; oppure, si formavano grosse palle di neve e si lasciavano rotolare dall’alto verso il fondo della valle dove erano collocate le neviere. Solo la neve raccolta lontano dalle neviere era trasportata sui traini.

La neve raccolta veniva immessa nella neviera dall’apertura sulla volta mentre le porte laterali restavano chiuse sino al prelievo del ghiaccio. I fasci di sarmenti isolavano la neve dal fondo su cui si lasciava cadere un tubo che serviva per pompare l’acqua che lentamente si accumulava.

La neve veniva compressa affinché la neviera potesse contenerne grandi quantità.

Il commercio del prodotto era destinato soprattutto all’esportazione, fuori dall’Alta Murgia, verso i paesi costieri. Altamura, Minervivo, Santeramo, Locorotondo ed altri comuni erano i maggiori esportatori di neve [10].

Per meglio regolamentare i traffici commerciali della neve furono varate delle leggi apposite che regolavano, attraverso una serie di norme e consuetudini, la fornitura e la vendita del prodotto.

Fu quindi istituita la gabella della neve: un unico appaltatore aveva l’esclusiva della vendita della neve, egli però era obbligato a fornirla alle città a prescindere dalle condizioni climatiche.

Il prodotto, consolidato in ghiaccio, era tagliato in blocchi e trasportato dagli appaltatori verso i comuni per essere destinato alla vendita al minuto.

In Capitanata, le neviere solitamente venivano costruite dagli appaltatori, i quali stipulavano i contratti di appalto, con privativa [11]. Le modalità erano stabilite anno per anno sia dai comuni stessi sia dall’Intendenza di Capitanata.

La neve venduta era di due tipi: quella bianca, per uso alimentare e medico, e quella grezza o nera destinata ad altri usi.

Il prezzo variava a seconda della provenienza e non poteva essere superiore a tre grana per rotolo; a volte il prezzo di vendita era comprensivo della gabella che l’appaltatore doveva versare al comune. Spesso la gabella era comprensiva di una somma che l’appaltatore doveva versare alla chiesa Matrice del comune interessato per la festa dei SS. Patroni o per il viatico, come succedeva per il comune di Foggia. Tra le curiosità, dalla ricerca emerge che ancora oggi nel capoluogo della Capitanata esiste una via intitolata a S. Maria della Neve [12], protettrice di questo prodotto.

Tra le altre condizioni, inoltre, nei contratti si stabiliva la durata dell’appalto che poteva essere di un solo anno ma poteva protrarsi per un periodo più lungo e durare anche vari anni.

Le gare si bandivano attraverso l’affissione di manifesti. In base alle offerte presentate si procedeva alle subaste, l’aggiudicazione definitiva avveniva ad estinzione di candela in grado di sesta o di decima [13].

Gli appaltatori dovevano sempre essere garantiti, solidalmente, da una persona del posto di indubbia moralità. Tra le condizioni dell’appalto si stabiliva che la neve doveva essere fornita solo dagli appaltatori aggiudicatari e venduta dai dettaglianti scelti dal Comune, ma di concerto con gli appaltatori stessi. In caso di mancanza della neve l’appaltatore era soggetto al pagamento di una multa ed in caso di recidiva anche all’arresto personale.

Del manufatto architettonico, un tempo esistente nel nostro territorio, si hanno poche notizie certe; secondo alcune testimonianze orali, le neviere montane, per struttura e morfologia, erano diverse da quelle delle zone pianeggianti. Le prime erano scavate sia nella roccia sia nel terreno, le seconde erano scavate solo nel terreno; quelle collinari presentavano la stessa morfologia delle neviere montane.

A tale riguardo, Alfonso la Cava, a proposito delle neviere di Monte Sant’Angelo, piccolo centro del Gargano, parlando del clima garganico asserisce che il paese aveva un clima intensamente rigido nei mesi invernali, in cui la neve cadeva abbondante; gli sbalzi di temperatura, con frequenti temporali, specie quelli causati dal libeccio, erano improvvisi e di forte intensità.

Ma il paese era anche soggetto a periodi di intensa siccità, tanto che nel 1920 il Comune fece costruire delle grandi botti per il trasporto dell’acqua dalle navi cisterne in paese.

Ai periodi di siccità si contrapponevano le intense nevicate.

Le neviere di Monte Sant’Angelo si trovavano intorno al castello, e furono fatte interrare nel 1937 dall’avvocato Matteo Gatta per effettuare il rimboschimento dell’area.

La neve era raccolta in grossi blocchi provvisti di un foro centrale nel quale gli operai ponevano un bastone lungo e robusto che poggiava sulla spalla del portatore; in seguito, furono utilizzate le ceste di vimini che i contadini mettevano sulla testa o sulle spalle; la neve veniva deposta all’interno delle ceste, tra la paglia [14].

Poi, dalle zone di raccolta, la neve veniva trasportata con i Traini per mezzo di persone addette al compito, che solitamente erano scelte dallo stesso appaltatore del luogo in cui era stato aggiudicato l’appalto per l’anno della fornitura.

Le neviere delle zone pianeggianti erano grotte coniche a doppia fodera, profonde circa 12 o 15 metri; questi impianti produttivi oggi sono difficilmente riconoscibili, sia perché destinati ad altri usi, sia perché degradati a tal punto da poter individuare solo le cavità a cielo aperto [15].

Le neviere di Vico del Gargano erano per tipologia formate da una fossa di grandi dimensioni scavata nel terreno, a volte solo in parte nella roccia, solitamente erano situate nella zona più fresca ed ombrosa dove la neve si accumulava in grande quantità. I proprietari delle neviere erano soliti assumere una squadra formata da dieci o quindici operai che, muniti di pale, dopo aver eliminato lo strato superficiale di neve, la caricavano sui Traini e la trasportavano nei depositi per la conservazione.

La neviera era stata pulita in precedenza e, sul fondo, era stato depositato uno strato di paglia.

Al suo interno operavano gli Insaccaneve che calzavano sopra le scarpe e pantaloni dei sacchi di canapa legati all’altezza delle cosce per evitare di sporcare il prodotto durante il lavoro.

Questi erano muniti di appositi attrezzi di legno detti Paravisi aventi una forma rettangolare, con uno spessore di circa 40 cm., una larghezza di 30 cm. ed una lunghezza di 50 cm., molto pesanti con un manico alto circa un metro infisso al centro, cominciavano a comprimere la neve depositata; dopo il primo strato alto circa 40 o 50 cm., nella parte laterale delle pareti veniva deposta la paglia per isolare il prodotto dalla terra. Poi, la neve era coperta da uno strato di paglia avente una qualità diversa dalla prima, essa era detta Cama, e derivava direttamente dalla frantumazione della spiga del grano; mentre la paglia vera e propria era ricavata dallo stelo della spiga.

In questo modo, sotto il controllo del proprietario, dopo aver messo di lato la paglia per gli altri strati successivi si riempiva la neviera fino al raggiungimento del bordo superiore. Qui l’ultimo strato di paglia era più abbondante. Infine, si ponevano molti sacchi di canapa, uno strato di terra, delle tavole pesanti che premevano sulla neve sottostante coperte da ampi teloni si sovrapponevano le ramaglie di ginestre che fungevano da camera d’aria: il tutto era ricoperto da altre tavole.

Per evitare lo scioglimento del prodotto durante il trasporto si era soliti deporre la neve in sacchi di canapa contenenti paglia pulita, si caricavano sugli asini o sui carretti e si procedeva alla consegna per la vendita al minuto [16].

U’ Grattamariann’

Dalla documentazione archivistica si evince che nelle zone pianeggianti la neve era fornita da vari paesi del Gargano, del Subappennino, della Lucania, dell’Abruzzo e delle Murge; i prezzi della fornitura variavano da periodo a periodo e per questo furono molte le situazioni controverse che si crearono fra appaltatori e Comuni.

Prima del 1800, a Foggia i contratti tra il Comune e gli Appaltatori erano stipulati dai notai attraverso le Obbliganze [17]. Nessuna notizia, invece, è giunta per il periodo anteriore al 1800 circa le condizioni di vendita della neve negli altri centri della Capitanata.

Prima dell’unità d’Italia, ove non specificato, nei contratti si faceva riferimento alla Legge n. 77 del 12 dicembre 1816 [18], che attraverso alcuni articoli, fissava le condizioni di appalto per la vendita della neve.

L’art. 206 stabiliva che le privative volontarie riguardavano solo la preparazione e la vendita dei beni commestibili. Esse erano temporanee e ad esclusivo vantaggio del Comune.

L’art. 208 della stessa legge stabiliva che le privative volontarie dovevano essere date in appalto a mezzo di asta pubblica. La loro durata ordinaria non doveva essere superiore ad un anno, inoltre solo quando le circostanze e le esigenze di un Comune richiedevano una durata maggiore, l’appalto poteva essere prolungato, ma non avrebbe potuto superare i tre anni.

L’art. 235, titolo IX- Capo I, stabiliva che le subaste [19] dovevano essere precedute da due manifesti da pubblicarsi ed affiggersi nell’intervallo di tre giorni l’uno dall’altro. Tra questi uno doveva essere affisso la domenica nei luoghi consueti del Comune; inoltre le subaste non potevano cominciare prima di otto giorni dalla pubblicazione del primo manifesto.

L’art. 236 stabiliva una seconda subasta cinque giorni dopo la prima, in seguito all’affissione di un altro manifesto pubblicato a norma dell’art. 235. Solo con questa i partecipanti  avrebbero avuto l’aggiudicazione definitiva in grado di sesta o di decima.

Stabiliti i criteri dell’appalto, attraverso i verbali decurionali, i Comuni facevano affiggere i manifesti in luoghi diversi e, dopo aver esaminato le prime offerte, procedevano alle subaste.

Per meglio comprendere le modalità e le condizioni degli appalti si trascrive un contratto tipo.

I contratti di appalto, sia pure con qualche variazione, in genere erano identici per ogni Comune; solitamente, per le norme generali, si rimandava alla legge n. 77.

Si trascrive il contratto di appalto del Comune di Campomarino, riportato nel verbale del 23 maggio 1807, estratto dal libro delle Obbliganze penes acta della Regia Corte [20].

«A dì ventitré Maggio milleottocento sette in Campomarino e presso gli atti della Regia Corte.

Costituiti personalmente presso gli atti di questa Regia Corte ed in presenza nostra, e de’ sottoscritti testimoni il sig. Domenico Antonio Noventa Sindaco di questa Comune interviene per se e suoi successori Sindaci in nome e parte di questa Comune alle cose infra[scri]tte.

E Pasquale Russo di Montorio, al presente in questa Terra, interveniente per se e suoi eredi e successori dall’altra parte.

I detti sig. Sindaco e Pasquale Russo con giuramento, toccate le scritture, hanno asserito, che sono venuti a Convenzione di dover d[etto] Pasquale Russo provvedere questa Comune della neve, che gli bisogna ne’ mesi estivi, cominciando dal primo Maggio a tutto li quindici di Ottobre colle seguenti condizioni.

1° – che debba d[etto] Russo a sue proprie spese, e conto fissare qui un venditore di neve a minuto, il quale deve dispensare la neve a chiunque n’avrà bisogno a giusto peso, e misura, senza far mai mancare detto genere dal primo Maggio a tutte li quindici Ottobre senz’interruzione alcuna; nel qual caso di mancanza, niun caso escluso, incorre d[etto] Russo nella pena di Docati sei in beneficio dell’università, qualora d[etta] mancanza succede per lo spazio d’una sola ora.

2° – che d[etto] obbligo di provvista di neve s’intenda a decorrere per quest’anno, e per altri anni nove successivi a tutto li quindici ottobre milleottocentosedici; col patto però espresso, che mancando o nel sud[detto] tempo la neve in Montorio, perché non caduta dal cielo, debba, e possa essere in quell’anno escluso il d[etto] Russo dal partito, che contra e, per quell’annata; ben inteso, che ciò s’intenda qualora effettivam[en]te d[etto] Russo non abbia neve di sorta alcuna nella sua neviera, ne ve ne sia in Montorio, nel qual caso deve d[etto] Russo deve prevenire gli Amministratori di questa Uni[versi]tà per tutto li quindici d’aprile di quell’anno, perché se ne posseggono altrove.

3° – che d[etta] vendita di neve al minuto debba farsi dal d[etto] Russo ne’ tempi convenuti al prezzo stabilito e fisso di grana uno e cavalli sei per ogni rotolo di giusto peso in tutto il suddetto decennio senzacchè possa alterarsi in modo alcuno il d[etto] prezzo; e per la giustezza del peso si obbliga a soggiacere alle pene comunali ogni qualvolta sia trovato in frode.

4° – che per la validità della presente convenzione l’obbliga d[etto] sig. Sindaco d’ottenere il permesso, ed assenso dell’Intend[en]za Provinciale, ed esso Pasquale Russo da per le sue mancanze e per la sicurezza del partito per plaggio il sig. Giuseppe Corriero qui presente, ed accettante; il quale si assume di rispondere per d[etto] Russo nella forma più ampia, e più legale.

Obbligandosi a tale effetto vicendevolm[en]te esse Parti, l’una all’altra, in tutte sud[dette] cose anche a modo delle prigioni di Napoli, e de’ riti della G. C. potendosi incusare la presente convenzione contro del controventore di ogni luogo, Corte o foro colla clausola del Costituto precario, sotto pena d[detta] homo giurato e si sono obbligati in forma.

Segno di croce di Pasquale Russo, che si obbliga come sopra = segno di croce di Giuseppe Corriero, che si obbliga e plaggia come sopra = Domenicantonio Noventa Sindaco = Donato Manes Testimonio = Diego Sportelli Testimonio = Giandom[eni]co Gianni Testimonio = Isidoro De Laureto Supp[len]te.

La presente Copia è stata estratta dal libro delle Obbliganze penes acta di questa Corte di Campomarino, principiato in Agosto 1807, in avanti si stente al foglio 49, col quale sulla collazione concorda, in fede Isidoro De Laureto supplente». 

Analizzando i vari punti del contratto trascritto, si potrà notare che l’appaltatore doveva provvedere anche alla vendita al minuto della neve, cosa che in genere spettava ad altre persone scelte dai decurioni come avveniva in altri centri della Capitanata e, in caso di mancata fornitura del prodotto, l’appaltatore, come previsto, pagava una multa a beneficio del Comune interessato.

In questo caso il contratto di appalto aveva una durata di dieci anni. Come si è visto, con la Legge n. 77 furono stabilite condizioni diverse e, la durata dell’appalto non poteva superare i tre anni. Tra le altre condizioni, il contratto prevedeva che nel caso in cui la neve non fosse caduta e l’appaltatore fosse stato impossibilitato a fornirla in tempo utile, solo per quell’anno, era esonerato dalla fornitura del prodotto senza pagare ammende, a patto che avesse avvertito il Comune interessato.

Dopo aver stabilito il prezzo, l’appaltatore era obbligato a vendere la neve a peso giusto, senza frode. Nel caso fosse stato scoperto in flagranza di reato, sarebbe stato multato dal Comune.

Tra le clausole finali si apprende che, per l’approvazione definitiva dell’appalto, il Comune si rimetteva all’espresso assenso dell’Intendenza Provinciale. Nel caso l’appaltatore fosse venuto meno agli obblighi contrattuali, sarebbe subentrato il garante solidale, che all’atto della stipula del contratto assicurava l’osservanza delle norme contrattuali sia sotto l’aspetto amministrativo sia legale, rispondendone personalmente e solidalmente in caso di inadempienza.

Solitamente, le clausole esaminate nel contratto di appalto relativo al Comune di Campomarino si presentano identiche anche per gli altri centri della Capitanata; qualche piccola variazione sarà sottoposta all’attenzione del lettore nell’analisi dei singoli contratti. Il repertorio archivistico oggetto della presente pubblicazione esplicita con maggiore chiarezza sia i luoghi di provenienza della neve, sia le modalità degli appalti per il periodo che intercorre tra il 1696 ed il 1800.

Dai primi anni del 1900 la fornitura di neve è soppiantata dalla produzione di ghiaccio industriale che viene venduto fino a tempi recentissimi, ovvero fino a quando non entra nelle case il frigorifero. Si conclude così un’era di tradizioni e folclore lasciando spazio solo ai ricordi.  

CURIOSITÀ

U’ Grattamariann’

La tradizione narra che in molti paesi della Capitanata durante il periodo estivo nelle cantine e nei caffè si vendeva la neve ai clienti abituali tagliandola a pezzi per preparare sorbetti.

La domenica, dopo le celebrazioni religiose, la gente del posto dopo la passeggiata, ù strusc’, si recava in questi posti per acquistare il prodotto che, doveva refrigerare e deliziare i palati dei buongustai più esigenti che, dopo il luculliano pranzo festivo, erano soliti preparare le refrigeranti bibite.

Nei paesi del Gargano, l’acqua fresca delle sorgenti veniva trasportata nei Cic’nGiarr e Quartèr, appositi recipienti di creta di capacità differenti. I gestori dei caffè e cantine specie nei giorni festivi, su richiesta dei clienti preparavano le granite con caffè o altre essenze usando un coltello per raschiare la neve oppure era usato un attrezzo simile ad una piccola pialla munita di una lama affilata di acciaio posta di traverso nella parte di sotto che sfregata su un pezzo di ghiaccio lo sbriciolava minuziosamente fino a raggiungere la quantità occorrente per far le granite richieste.

Tale attrezzo era meglio conosciuto con il nome di Grattamariann’ [21].

IL NEVIERAIO “IL NEVIAIOLO”

Quasi all’ingresso della vecchia Vico (FG), percorrendo Via di Vagno si perviene alla piccola Piazza denominata della Misericordia, che prende il nome dalla chiesa lì situata. In questa viene venerata la “Madonna della Neve” che viene festeggiata annualmente nei primi del mese di agosto.

È rappresentata con il bambino Gesù sul braccio sinistro; con la mano destra ostenta verso i devoti un fiocco di neve. Verso la fine del 1800, il priore di quella confraternita era tal Azzarone Michelantonio, il quale era proprietario di vastissimi agrumeti ubicati in località “Murge nere”.

All’epoca non esistevano attrezzature per la confezione di gelati, granite e altro, che si vendevano specialmente durante i periodi estivi. All’epoca, la neve cadeva abbondantissima ed alle volte, specialmente a dicembre che era il mese maggiormente nevoso, arrivava fino agli architravi delle porte di casa. Altrimenti era un’invernata abbastanza calda e senza neve. Nei pressi dell’attuale piazza “San Francesco” vi erano delle neviere, costituite da ampi fossati nei quali i “nevierai” facevano raccogliere la neve a strati, calcati con i piedi e ricoperti di paglia, per prelevarla d’estate a piccoli cubetti e venderla per i rinfreschi. Ciò è avvenuto fino al 1925 quando Nicola De Petris, ex coadiutore del notar Saverio Girlanda, divenuto industriale, fece impiantare la macchina per la costruzione di blocchi di ghiaccio. Occorre inoltre precisare che le arance specialmente quelle toste (durette) maturavano più o meno nel periodo natalizio.

In dicembre, mese al quale si riferisce l’accaduto, non s’era ancora visto un fiocco di neve. Il povero nevieraio, preoccupandosi che ai suoi pargoletti durante l’estate sarebbero mancati i più indispensabili mezzi di vita, si recò presso la balaustra dell’altare della Madonna sua protettrice, e battendosi in petto e senza alcun rispetto umano cominciò a implorare la grazia di abbondanti nevicate senza preoccuparsi, nella disperazione della sua richiesta, se vi fossero persone presenti. Supplicò: «Madonna mia, fai nevicare!».

Il Michelantonio, che stava nell’adiacente sacrestia e che proprio in quell’anno aveva un’abbondanza di arance, temendo che un eventuale gelo danneggiasse il prodotto del suo latifondo, uscì dalla sacrestia e volgendosi al nevieraio lo apostrofò duramente: «E tu, cosa stai dicendo?».

E il nevieraio, in risposta: «E tu cosa vuoi da me? Non sai che danno subirei io con la mia famiglia se non nevicasse? Ai figli miei chi darebbe un tozzo di pane durante l’estate? Del resto, fammi pregare la Madonna mia e tu vai a pregarti san Valentino che è il patrono degli aranceti.

A tali parole l’alterco ebbe fine…


FONTI DOCUMENTARIE

Archivio di Stato di Foggia:

–         Intendenza e Governo di Capitanata, Affari Comunali s. I e s. II;

–         Intendenza e Governo di Capitanata, Carte varie, Corrispondenza Amministrativa;

–         Consiglio d’Intendenza, di Governo e Prefettura di Capitanata, 1^ Camera, Processi;

–         Intendenza e Governo di Capitanata, Affari Comunali, s. I e s. II, Appendice I e II;

–         Intendenza, Governo e Prefettura di Capitanata, s. II, Appendice I e II;

–         Intendenza di Capitanata, Atti vari;

–         Intendenza di Capitanata, Amministrazione Finanziaria, s. II;

–         Catasto Onciario di Sant’Agata di Puglia;

–         Archivio Storico del Comune di Foggia, Obblighanze Penes Acta, Parte I e Parte II;

–         Archivio Storico del Comune di Foggia, Appendice;

–         Dogana s IX, processi;

–         Dogana s. II, Atti Civili;

–         Intendenza di Capitanata, Prefettura di Foggia, s. II, Tratturi;

–         Collezioni delle Leggi e Decreti Reali, vol. 4;

–         Prefettura, Affari Speciali del Comune, s. II;

BIBLIOGRAFIA

ANTONELLIS L., Cerignola Guida alla città, Comune di Cerignola,Cerignola 1999.

ARBORE G., Famiglie e dimore gentilizie di Foggia, Schena, Fasano 1995.

BIBLIOTHECA SANCTORUM – ISTITUTO GIOVANNI XXIII DELLA PONTIFICIA UNIVERSITA’ LATERANENSE, Città Nuova Editrice, Roma 1968.

CALVANESE G., Memorie per la città di Foggia, Leone Editrice, Foggia 1991, rist. anast. del 1932

DE MONTE N., Una gemma del Gargano, Arti Grafiche S. Pescatore, Foggia, senza data.

DI GIOIA M., Foggia Sacra ieri e oggi, Amministrazione Provinciale di Capitanata, Foggia 1984.

GANDOLFI g., Tavole di ragguaglio delle unità di pesi e misure, Napoli 1861.

G.E.A., Conoscere la città, Foggia dal Neolitico ai giorni nostri, Scuola Media “G. Bovio”, Foggia 1997.

GUARELLA G, Niviere e vendita della neve nelle carte del passato, in Umanesimo della pietra, 1988.

GUIDA IAL, Viaggiando tra i Santuari di Capitanata, Edizioni Incontro alla Luce S.R.L., Foggia 1998.

Icone di Puglia e Basilicata dal Medio Evo al Settecento, a cura di Pina Belli D’Elia, Mazzotta, Milano 1998.

Il Gargano Nuovo, anno IX, nn. 1, 2, 3, gennaio, febbraio e marzo 1983.

LOPRIORE L., Orta Nova tra ‘700 e ‘900, Storia Urbanistica ed Architettura, Bastogi, Foggia 1999.

MAULUCCI VIVOLO F. P., Sulle Tracce di San Potito, Bastogi, Foggia 2000.

NICASTRO C. G., Bovino, storia di popolo, vescovi duchi e briganti, Amministrazione Provinciale di Capitanata, Foggia 1984.

RICCA E., La nobiltà delle Due Sicilie, Forni, Bologna 1978.

ROSSION M. V. O.Ss.R. – Al sole dell’amore, Postulazione Generale C.Ss.R., Materdomini (AV) 1985.

SAITTO G., Poggio Imperiale, storia, usi e costumi di un paese della Capitanata, Edizioni del Rosone,Foggia 1997.

Saluti da Foggia, Amministrazione Provinciale, Foggia 1997, pag. 5.

SINISI A., I beni dei Gesuiti in Capitanata nei secoli XVII – XVIII, C.E.S.P., Napoli 1963.

SPIRITO G., La Storia di Foggia attraverso la toponomastica, Bastogi, Foggia 1998.

TANCREDI G., Folclore Garganico, rist. anast. del 1938 a cura del Centro Studi Garganici per la Banca Popolare di Apricena.

Villaggio Globale, anno 1, Centro Studi Torre di Nebbia, giugno 1998.

VILLANI M. – SOCCIO G., Le Vie e la memoria dei Padri, Santuari e percorsi devoti in Capitanata, Amministrazione Provinciale di Foggia, Foggia 1999.

BIBLIOGRAFIA TELEMATICA

http://212.77.69.144/sportello/mestieri/neviera.htm

http://www.parks.it/grandi.itinerari/altavia/altavia23-24/altavia23-24.html

http://www.geocities.com/Yosemite/Forest/5244/CAM/Roccamonfina.html

http://trevico.terrashare.com/cultura.html

http://www.asicilia.it/cultura/storie/21.htm

http://www.comune.gioiadeimarsi.aq.il/gioia_pna_geologia.htm

http://sirente.net/it/paesi/secinaro/neviera.htm



NOTE

1 http://212.77.69.144/sportello/mestieri/neviera.htm

2 http://www.parks.it/grandi.itinerari/altavia/altavia23-24/altavia23-24.html

3 http://www.geocities.com/Yosemite/Forest/5244/CAM/Roccamonfina.html

4 http://www.geocities.com/Yosemite/Forest/5244/CAM/Roccamonfina.html

5 http://trevico.terrashare.com/cultura.html

6 http://www.asicilia.it/cultura/storie/21.htm

7 http://www.comune.gioiadeimarsi.aq.il/gioia_pna_geologia.htm

8 http://sirente.net/it/paesi/secinaro/neviera.htm

9 Specie di portantine in legno a quattro mani.

10 P. CASTORO, Le neviere, in Villaggio Globale, anno 1, n. 2, giugno 1998, a cura del Centro Studi Torre di Nebbia. Sulle neviere di Locorotondo ed Altamura si veda pure: G. GUARELLA, Niviere e vendita della neve nelle carte del passato, in Umanesimo della pietra, 1988, pp. 117 e ss.

11 Contratto con cui l’appaltatore si assicurava il monopolio sulla vendita del prodotto.

12 G. SPIRITO, La Storia di Foggia attraverso la toponomastica, Bastogi, Foggia 1998, p. 196. La strada prende il nome da un’antica chiesa sotto il titolo di Sant’Elena, ubicata nell’attuale Piazza Giordano; nel 1078, l’eremita Carlo Ferrucci, rettore della chiesa e dell’abbazia di Sant’Elena, voleva installare una lampada ad olio sotto il quadro che raffigurava Sant’Elena. Nel conficcare il chiodo al muro l’intonaco si scrostò ed apparve l’occhio di un affresco più antico, raffigurante la Madonna con Bambino con le mani incrociate, era il 5 agosto ed in quella data si festeggiava la ricorrenza della Madonna della Neve. Così, la chiesa da allora fu intitolata alla Madonna della Croce, ma fu anche detta della Madonna della Neve. La chiesa fu demolita nel 1930,  per far spazio all’attuale Palazzo degli Uffici Statali.

13 Per sesta si intenda il sesto giorno di asta e per decima il decimo giorno.

14 G. TANCREDI, Folclore Garganico,rist. anast. del 1938, a cura del Centro Studi Garganici per la Banca Popolare di Apricena, pp. 367 e 368. L’indicazione è stata cortesemente fornita dalla prof.ssa Teresa Maria Rauzino.

15 Cfr. L’antica civiltà…  sito internet cit.

16 Cfr. N. M. BASSO, L’industria del freddo fra ‘800 e ‘900, Parte descrittiva, in Il Gargano Nuovo, anno IX, nn. 1 e 2 gennaio-febbraio 1983, p. 3.

17 Contratti brevi contenenti tutte le condizioni di appalto.

18 ASFG, Collezione delle Leggi e  Decreti Reali, anno 1816, vol. 4 – 15777, p. 423.

19 Forma di aggiudicazione all’incanto dell’appalto.

20 ASFG, Intendenza e Governo di Capitanata, Corrispondenza Amministrativa, Carte varie, b. 41, fasc. 3321.

21 N. M. BASSO, L’industria del freddo fra ‘800 e ‘900, Parte descrittiva, in Il Gargano Nuovo, anno IX, nn. 1 e 2, gennaio-febbraio 1983, p. 2.

©2004 Lucia Lopriore. Queste pagine sono tratte dal volume di L. LOPRIORE, Le neviere in Capitanata : affitti, appalti e legislazione, Edizioni del Rosone, Foggia 2003.

 

©2004 Lucia Lopriore. Queste pagine sono tratte dal volume di L. Lopriore, Le neviere in Capitanata : affitti, appalti e legislazione, Edizioni del Rosone, Foggia 2003.

Categorie
Microstorie

Pellegrinaggi mariani in Capitanata

Tre Madonne: da sinistra, di Ripalta sull’Ofanto; dell’Incoronata; di Loreto in Peschici.

La devozione mariana in Capitanata, attraverso i pellegrinaggi, è stata riproposta analizzando il fenomeno da cui si evince la presenza di una religiosità popolare sentita in modo pregnante.

Importante è accertare la provenienza storica, religiosa e culturale di tale devozione che, generalmente, è fatta rientrare tra le pratiche più direttamente connesse a contesti di riferimento popolare [1].

Dall’analisi delle presenze umane sul territorio, dovute in massima parte alla transumanza, emerge lo stimolo per esaminare attentamente il fenomeno dei pellegrinaggi mariani [2].

In Capitanata tale fenomeno si è esteso attraverso i percorsi devozionali che i pellegrini solevano seguire manifestando la loro fede: era consuetudine recitare litanie, preghiere e canti religiosi per chiedere e ricevere grazie.

Principalmente partendo dal culto per l’Arcangelo Michele seguendo il percorso della Via Sacra Langobardorum si raggiungevano altri centri della Capitanata, per venerare Madonne e Santi che si trovavano lungo il cammino.

In tale percorso devozionale è compreso il santuario della Madonna di Loreto, protettrice di Peschici, la cui chiesa si trova a circa un chilometro dal paese.

Il culto nasce da un episodio che lega la Madonna ai marinai del posto. Si racconta che un giorno, durante una terribile tempesta, essi scorsero in lontananza una luce che proveniva dalla lampada ad olio che i fedeli, per devozione accendevano davanti all’immagine della Madonna di Loreto situata in una piccola grotta. Essendo in pericolo, a gran voce invocarono l’aiuto della Madonna alla quale in cambio della vita promisero di edificare una chiesa delle stesse dimensioni della nave. D’un tratto il mare si calmò e tutti i marinai riuscirono a salvarsi: la promessa fu mantenuta e la chiesa fu costruita proprio sulla grotta dove ardeva la lampada.

Molte da allora sono state le grazie concesse dalla Madonna e testimoniate dagli ex voto. Chi otteneva la grazia si recava in pellegrinaggio per rendere omaggio alla Madonna a piedi nudi percorrendo la polverosa strada che conduce da Peschici al santuario. La festa della Madonna di Loreto si celebra otto giorni dopo la Pasquetta con festeggiamenti, pellegrinaggi, processioni, celebrazioni religiose ecc. ma non mancano anche le tradizionali specialità gastronomiche che da sempre fanno di questo piccolo centro la culla delle tradizioni [3].

Il culto mariano a Peschici si estende anche alla Madonna di Kàlena. La Sua ricorrenza cade l’8 settembre di ogni anno; gli abitanti di Peschici celebrano tale evento recandosi in pellegrinaggio fino all’antica abbazia, oggi diruta. La chiesa di Kàlena, oggetto di attenzione da parte di cultori e studiosi, avrebbe bisogno di un immediato restauro e si spera che ciò possa avvenire al più presto. Molti in passato si recavano in pellegrinaggio presso la chiesa della Madonna per chiedere le grazie o semplicemente per devozione. La tradizione vuole che i bambini in tale occasione portassero le loro noci raccolte in un fazzoletto ed appese al braccio della ròcile questo attrezzo consisteva in una rudimentale rotellina applicata all’estremità di una mazza di scopa che, appoggiata alla spalla del bimbo, era tenuta con due mani per mezzo di una mazza incrociata. Tra rumori, schiamazzi e qualche chiacchierata si arrivava alla chiesa della Madonna delle Grazie, adiacente all’abbazia di Kàlena, che i proprietari facevano trovare aperta per l’occasione. Verso il tramonto alla spicciolata si faceva ritorno alle proprie abitazioni tra la paura delle leggende legate al luogo raccontate dagli anziani e le curiosità che il posto suscitava.

Una delle leggende che ancora oggi si ricordano è legata al cunicolo che, partendo dalla chiesa, arriva sulla spiaggia del Jalillo, ottima via d’uscita in caso di pericolo. Seguendo il cunicolo ci si trovava direttamente in mare, dove era attraccata una barca sempre pronta per la fuga. Questa e tante altre sono le leggende legate all’abbazia di Kàlena, posto misterioso ed affascinante nello stesso tempo [4].

Nel percorso della Via Sacra dei Longobardi è inserita la cittadina di Monte Sant’Angelo, nota per il santuario di San Michele Arcangelo presso il quale i pellegrini, giunti da ogni parte d’Italia e non solo, si recano ogni anno in segno di fede. Proprio qui vi è un altro importante santuario: quello della Madonna di Pulsano.

Secondo la tradizione esso deve la sua fondazione a San Giovanni da Matera; si narra che in quel luogo esistesse già un monastero edificato dal duca Tulliano di Siponto con le rendite dei genitori che erano ricchi patrizi romani, e anche sul suo etimo molte sono le asserzioni anche discordanti: c’è chi sostiene che il nome derivi da una località nel pressi di Taranto, chiamata Pulsano, dove San Giovanni ha soggiornato, mentre c’è chi fa derivare il nome dal fatto che la Vergine avrebbe guarito il Santo, febbricitante, prendendogli il polso, per cui il nome deriverebbe da polso sano. Quest’ultima versione è quella che più frequentemente si trova nei racconti leggendari e nei canti dei pellegrini. Di certo è noto che a partire dal 1129 attorno a San Giovanni da Matera, vi erano sei discepoli che nel giro di pochi mesi si accrebbero nel numero tanto da diventare sessanta. Costoro ben presto costruirono un grande monastero. Nei dintorni, specie nel vallone dei romitori, i monaci edificarono molte piccole abitazioni addossate alle aspre pareti della montagna dove trascorrevano lunghi periodi in meditazione. La comunità seguiva la Regola di San Benedetto ma si dedicava anche ad un’intensa attività di apostolato tra i contadini e, soprattutto, tra i pellegrini provenienti dalla Grotta di San Michele e diretti al santuario di San Leonardo di Siponto. Ben presto si diffuse la fama di questa comunità, grazie anche agli abati Giordano e Gioele, che continuarono l’opera del fondatore, fino al punto che essa diventò il primo nucleo di un vero e proprio ordine monastico, la Congregazione benedettina dei Pulsanesi. La nuova congregazione ebbe case fino in Toscana, come San Michele di Guamo presso Lucca e San Michele di Orticara presso Pisa, nella pianura Padana come a Quartazzola sul Trebbia presso Piacenza. Della congregazione pulsanese facevano parte anche case femminili come il monastero di Santa Cecilia in Foggia. Giovanni da Matera morì in Foggia, nel monastero pulsanese di San Giacomo il 20 giugno 1139. Il suo corpo fu deposto sotto l’altare maggiore del monastero di Pulsano e, nel 1830 fu trasferito nella cattedrale di Matera.

Le devote visite che i pellegrini facevano alla Madonna di Pulsano per sette sabati consecutivi durante la quaresima sono da relazionare ai sette giorni in cui la chiesa, addossata alla grotta naturale che funge da abside, secondo la leggenda fu costruita. Il quadro della Madonna di Pulsano, trafugato con alcuni arredi liturgici nel 1966, apparterebbe alla scuola dei Ritardatari, fiorente in Puglia ed in Basilicata tra il XII ed il XIII secolo. L’immagine riecheggia le antiche icone bizantine con il volto scuro della Madonna leggermente inclinato, il capo coperto e l’aureola dorata, il Bimbo è rivolto verso chi osserva. Nel complesso richiama la Madonna di Siponto e la Madonna di Ripalta. Già nel XIII secolo il monastero entrò in una fase di decadenza. Il suo ultimo Abate di nome Antonio, eletto nel 1379, pare che si fosse schierato con l’antipapa Clemente VII il quale aveva dato inizio al grande scisma d’Occidente. Il legittimo pontefice Urbano VI, pertanto, pur non destituendolo, ne ridusse il potere sottraendo alla sua giurisdizione il beneficio abbaziale ed affidandolo ad un Abate Commendatario. Alla morte dell’Abate Antonio, gli edifici già degradati a causa degli eventi sismici furono abbandonati. Tra Settecento e Ottocento il monastero ricevette le cure dei Celestini, i quali lo abbandonarono nel XIX secolo in seguito alla soppressione degli Ordini Religiosi voluta da Gioacchino Murat. Partiti i Celestini, la chiesa fu affidata ai cappellani e, uno di questi, Nicola Bisceglia, nel 1842 la acquistò con le sue pertinenze.

Nonostante le vicissitudini dell’abbazia, il culto della Vergine fu tenuto in vita da diversi ordini monastici: Carmelitani, Francescani, Domenicani, fino a giungere ai nostri giorni. Numerose e spiacevoli sono state le vicende che hanno colpito il santuario, tuttavia esso ancora oggi è considerato uno dei più venerabili luoghi della Capitanata dedicati alla Vergine Madre di Dio [5].

Un altro santuario situato lungo il percorso micaelico è quello di Santa Maria Maggiore di Siponto. Esso sorge attiguo alle vestigia di una basilica paleocristiana risalente ai tempi del vescovo Lorenzo. La tradizione locale fa risalire la sua costruzione al I secolo d. C.

Secondo alcuni studiosi l’edificio, a pianta quadrata, fu eretto tra la fine del XI secolo e l’inizio del XII, quando era vescovo Leone ed è legato alle lunghe battaglie sostenute per il riconoscimento della sua autonomia dalla diocesi beneventana. La sua esistenza è testimoniata da un’epigrafe datata al 1039 che documenta la presenza di un ambone monumentale opera dello scultore Acceptus, che ha legato il suo nome a varie opere coeve tra cui si ricordano la cattedra di Canosa e il pulpito di Monte Sant’Angelo, che insieme alle altre dotazioni, sottolinea il ritrovato prestigio dell’antica diocesi pugliese.

Il tempio nel 1117 fu consacrato da Papa Pasquale II; nel 1149 e nel 1067 fu sede di sinodi locali celebrati rispettivamente dai pontefici Leone XI e Alessandro II. Tra il 1223 ed il 1250, a causa degli eventi sismici, la città subì gravi danni; l’interramento del porto chiuse definitivamente la vicenda di Siponto. Il culto della Vergine è legato alle vicende della chiesa e con essa è sopravvissuto per giungere fino ai nostri giorni. Il portale fu commissionato e realizzato intorno al 1060 ed in quell’occasione la chiesa fu dotata dell’icona della Vergine con il Bambino.

L’immagine della Vergine è realizzata su legno di cedro secondo i canoni classici ispirati alla tradizione orientale: la Madonna regge con il braccio sinistro il Bambino mentre questi esibisce il rotolo della Parola di Dio. Oltre a questa sacra immagine la chiesa è dotata anche di una statua straordinariamente bella; per devozione dal popolo è chiamata “la Sipontina” assisa in trono con in grembo il Bimbo benedicente; con gli occhi sbarrati in atteggiamento di doloroso stupore ed il mento coperto da strane macchie biancastre. Per questa immagine la tradizione popolare narra che la Madonna fu testimone di uno stupro da parte di un nipote del vescovo Felice ai danni di Catella, figlia di Evangelio, diacono della chiesa sipontina. La vicenda è raccontata nelle lettere di San Gregorio Magno indirizzate al suddiacono Pietro intorno alla fine del VI secolo, al notaio Pantaleone ed allo stesso vescovo Felice affinché fosse resa giustizia alla ragazza. La leggenda prosegue narrando che le macchie bianche sul mento della Vergine sono dovute al vomito prodotto dalla Madonna a causa di una mareggiata durante la traversata della statua da Costantinopoli a Siponto. Secondo alcuni autori la “Sipontina” fu rapita durante il sacco dei turchi  nel 1620, in tale occasione due dita della mano furono recise. Nonostante ciò, la Vergine tornò indietro rimanendo tra i giunchi della palude. Ella rimase a lungo nelle campagne proteggendo i contadini ed i pastori, tanto che è usanza offrirle le primizie raccolte o i prodotti caseari. Anticamente era tradizione prelevare il sacro tavolo e portarlo in processione fino al duomo di Manfredonia in occasione di avversità o calamità. Man mano questa pratica processionale si è ripetuta fino a trasformarsi in una ricorrenza e in una festa patronale il 30 agosto di ogni anno. Il pellegrinaggio della Madonna di Siponto era una delle tappe obbligate che i pellegrini diretti al santuario micaelico solevano fare. Gli interventi miracolosi della Vergine sono confermati da numerosi attestati di vescovi, ma soprattutto dagli ex voto. L’intervento salvifico della Madonna è registrato nei casi più disparati ma quelli che riguardano i casi di naufragio ed annegamento sono i più numerosi e fanno comprendere come questo santuario sia uno tra i più importanti punti di riferimento della fede e della devozione della gente di mare [6].

Seguendo il percorso dei pellegrinaggi mariani è indispensabile sostare anche in Apricena, dove è molto venerata la Madonna dell’Incoronata.

Secondo la tradizione locale un tale di nome Giacinto Lombardi donò alla cappella intitolata alla Madonna di Loreto una statua lignea rappresentante la Madonna Incoronata venerata a Foggia; in realtà messe a confronto le due statue presentano molte diversità tra loro. Tale culto per la Madonna Incoronata nasce in Apricena intorno alla seconda metà dell’Ottocento grazie proprio alla donazione del Lombardi fatta alla cappella; con la donazione della statua seguirono anche i festeggiamenti che furono curati dallo stesso Lombardi.

L’immagine più antica della Madonna Incoronata di Apricena è quella rappresentata dalla Madonna assisa su un tronco di quercia spoglio di fronde e adornata alla base del tronco da due grossi mazzi di fiori di campo e da quattro putti disposti due all’altezza del capo e gli altri due ai suoi piedi. La Madonna è in atteggiamento orante [7]. Alla Sacra Immagine sono stati più volte attribuiti eventi prodigiosi: il primo nel 1868 si verificò con il movimento degli occhi ed il secondo con un altro movimento degli occhi nel 1908 di fronte alla folla di fedeli. I festeggiamenti della Madonna Incoronata avvengono durante il mese di maggio di ogni anno.

Altra meta di pellegrinaggio in questa cittadina è rappresentata dal santuario della Madonna della Rocca. Anticamente quando la campagna era soggetta a periodi di siccità, il clero e gli abitanti di Apricena solevano recarsi in processione preceduti da giovanette vestite a lutto e coronate da spine, essi si recavano scalzi fino al santuario della Madonna della Rocca invocando la grazia per la pioggia e cantando inni a Lei dedicati. La chiesa costituiva la meta di uno dei pellegrinaggi che gli aprecinesi erano soliti seguire nel corso dell’anno, insieme al santuario di San Nazario e quello di San Michele Arcangelo a Monte Sant’Angelo. Il popolo si recava in pellegrinaggio la seconda domenica dopo Pasqua. Questo rito ha avuto seguito fino al primo conflitto mondiale, quando il santuario per il suo difficile accesso divenne luogo di rifugio per i disertori di guerra che lo devastarono e lo depredarono; l’incuria degli uomini ha completato l’opera e della chiesa dedicata a questa Madonna non ne resta alcuna traccia, se non qualche rudere da recuperare [8].

Proseguendo il cammino è interessante visitare la cittadina di San Marco In Lamis. Qui è venerata la Madonna delle Grazie cui è stata intitolata una chiesa. Ritenuta una tra le più antiche chiese del paese, è stata più volte e nel tempo restaurata. In occasione del Giubileo del 1900 fu completamente rimaneggiata e decorata, ed il 26 settembre 1899 il vescovo, mons. Mola, la riconsacrò dedicandola a Cristo Redentore ed a Maria SS. del Rosario, ma comunemente continua a conservare l’antica denominazione. Adiacente alla chiesa vi era il cimitero del paese che fu momentaneamente chiuso dopo il colera del 1837 e definitivamente nel 1909 con la costruzione di quello nuovo.

Dopo il terremoto del 1837 che danneggiò gravemente la chiesa Collegiata, la Confraternita del SS. Rosario, che aveva sede in questa chiesa si trasferì in quella di Santa Maria delle Grazie.

Per l’incremento demografico e lo sviluppo urbanistico, intorno agli ani ’30 del Novecento mons. Farina, con il consenso del Capitolo della Cattedrale di Foggia e quello della Collegiata di San Marco in Lamis, con Bolla del 15 settembre 1936 eresse la chiesa a sede della nuova parrocchia intitolata a Santa Maria delle Grazie [9].

È interessante osservare come in altri centri della Capitanata, ad esempio Bovino, il culto di Santa Maria di Valleverde fa confluire nella storia della religiosità popolare della città le sue tradizioni.

Santuario della Madonna di Valleverde in Bovino.

Santa Maria di Valleverde è la Protettrice di Bovino insieme a San Marco di Ecana. La tradizione narra che la sua apparizione avvenne intorno all’anno 1266 quando la Madonna apparve, in sogno, ad un onesto e probo uomo di nome Nicolò. Questi, una notte, sognò di andare con i compagni a spaccare la legna nel bosco di Mengaga, distante dall’abitato circa un miglio. Mentre si accingeva a raccogliere la legna, gli apparve una bellissima Signora, vestita di bianco, dall’aspetto stanco che lo pregò di riempirle una brocca di acqua dalla vicina sorgente perché aveva una gran sete.

Nicolò si rifiutò di esaudire la sua richiesta, perché doveva raccogliere la legna altrimenti i suoi compagni lo avrebbero lasciato da solo, ma la Signora gli assicurò che se le avesse riempito la brocca di acqua avrebbe trovato l’asino già carico di legna. Egli allora ubbidì; al suo ritorno rimase meravigliato nel vedere l’asino con la soma carica di legna, così le chiese chi fosse. Ella gli rispose di essere la “Madre del Figliuolo di Dio”, di aver abbandonato il territorio di Valverde in Spagna profanato dalle cattiverie degli uomini e di essere venuta in Puglia per proteggere gli abitanti di Bovino. Raccomandò a Nicolò di recarsi dal Vescovo a raccontargli tutto, di diffondere la voce in tutto il territorio e di far edificare una chiesa in suo onore, sotto il titolo di Santa Maria di Valleverde.

Purtroppo, Nicolò non esaudì il desiderio della Signora, ma raccontò il sogno solo a Lavinia, sua madre. La notte seguente la Beata Vergine gli apparve nuovamente riprendendolo per la sua noncuranza e dicendogli che se non avesse tenuto fede alla richiesta si sarebbe risvegliato con le membra doloranti. Neanche questa volta Nicolò diede ascolto alle richieste della Vergine.

Così, dopo la terza notte, Nicolò si risvegliò dolorante e gonfio tanto da spaventare i suoi familiari. La quarta notte gli apparve ancora la Beata Vergine che lo rimproverò per la sua ostinazione e gli replicò la richiesta, ma lui rispose che essendo malato non poteva eseguire i suoi ordini.

Ella gli intimò di alzarsi e di camminare. Il mattino seguente, Nicolò si alzò in perfetta forma, decise di recarsi dal Vescovo e di raccontargli quanto gli era successo. Il Vescovo, Giovanni Battista, fu commosso dal racconto del giovane tanto che si limitò a chiedergli dove la Vergine voleva fosse eretta la chiesa.

Nicolò, addormentatosi nella notte seguente, sognò di recarsi con la Vergine nel bosco di Mengega, dove ella gli apparve la prima volta, descrisse come voleva che fosse eretta la chiesa legando l’erba ed i fiori con le sue mani.  Il vescovo, udito il racconto del giovane andò subito con il clero ed il popolo in processione nel bosco di Mengaga dove rese grazie a Dio per il portentoso avvenimento. Subito si diede inizio alla costruzione della chiesa. La Beata Vergine aveva detto a Nicolò:

«Io sono la Madre del Figliuolo di Dio, che per insino adesso sono stata nel Territorio di Valleverde e per la puzza, e la mala vita di molti homini di quel paese, mi sono già partita di là, e sono venuta per star qui per la difesa de’ Pugliesi, e particolarmente di quei che abitano in Bovino».

Ogni anno, la prima domenica di maggio, clero, popolo e confraternite, si recano in processione al santuario per celebrare messe ed altre sacre funzioni in onore della Vergine, per ricordare l’apparizione. Al ritorno le congreghe sono precedute da due lunghe file di ragazzi che portano i rami degli alberi rivestiti di tenere foglie[10]. La Madonna di Valleverde si festeggia il 29 agosto.

In Cerignola il culto per la Madonna di Ripalta sull’Ofanto ripropone il tema religioso pagano, dal quale trae origine quello cristiano. La Sua chiesa sorge sulla riva sinistra del fiume ad una distanza di circa 9 Km dal centro abitato. Anticamente in questo luogo si praticavano riti pagani in onore della dea Bona, divinità della pastorizia e dei boschi. I monaci seguaci di San Basilio, venuti probabilmente dall’Oriente, costruirono sia il convento sia la chiesa sulle vestigia del tempio pagano intitolandolo alla Madonna della Misericordia.

I monaci, però, abbandonarono questo luogo intorno al IX secolo forse a causa delle scorrerie da parte degli Arabi che invadendo le terre comprese tra Bari e Napoli causavano stragi e rovine.

La chiesa, in seguito, passò sotto la tenenza del chierico Cicerone quando fu concessa in proprietà a Gundelguifo, figlio di Mimo d’Oria, al quale nel 947 Leone abate di S. Vincenzo al Volturno diede anche alcune terre. Infine, passò alla città di Cerignola che la intitolò a Santa Maria di Ripalta sull’Ofanto, dal luogo in cui si trova, e la Madonna fu venerata come protettrice della città.

Dal 6 al 10 settembre Cerignola festeggia nella consueta e rinomata Kermesse la ricorrenza della Madonna di Ripalta, con gare di fuochi pirotecnici ed altre iniziative religiose e folcloristiche che richiamano turisti ed abitanti dai paesi limitrofi. Il secondo lunedì di ottobre, il quadro della Madonna da Cerignola è riportato nella chiesa sull’Ofanto, dove sosta dal mese di settembre fino al sabato successivo alla Pasqua, in tale occasione la città festeggia l’avvenimento con una processione ed una sagra [11].

In Orta Nova è molto sentita la devozione per la Madonna dell’Altomare che trae origine dal culto sorto nella cittadina di Andria.

Gli avvenimenti che originarono la particolare devozione degli abitanti di Andria verso la Madonna dell’Altomare e la elevazione a santuario della chiesa a Lei intitolata, sono riconducibili al 1588, alla vigilia della Pentecoste quando una bimba di quattro anni scomparve dalla propria abitazione. Dopo lunghe ed estenuanti ricerche condotte senza esito positivo, dopo tre giorni, il martedì di Pentecoste, un contadino mentre si accingeva ad attingere l’acqua da una cisterna posta ad un centinaio di metri fuori dall’abitato, fu attratto dalla voce di una bimba che proveniva dal fondo della stessa cisterna.

Dopo aver dato l’allarme gli abitanti si accinsero a portare fuori il corpo della bimba e, con sorpresa, constatarono che si trattava proprio della bimba scomparsa tre giorni prima. Ai genitori ed alle persone accorse in quel luogo la bimba riferì che il giorno della sua scomparsa era caduta in quella cisterna e che era stata salvata da una bella Signora. Così, svuotata la cisterna, su una parte di essa fu trovata l’immagine della Madonna venerata nel Santuario.

Dai paesi vicini, dopo questo evento, incominciò un pellegrinaggio sempre più intenso; così l’allora vescovo mons. Vincenzo Basso, diede all’Immagine il titolo di Madonna dell’Altomare.

Dopo un periodo di iniziale entusiasmo, la Sacra Immagine fu dimenticata, tanto che durante la peste del 1656 il luogo fu utilizzato come camposanto degli appestati. L’unica a non trascurare la Madonna fu un’anziana devota di nome Angela che ogni giorno accendeva la lampada in quel luogo sacro. Più tardi la Madonna compì un altro prodigio: una giovinetta si era ammalata gravemente, così la devota segnò la fronte della fanciulla con l’olio della lampada della Madonna. Miracolosamente la ragazza guarì. Quest’ultimo miracolo segnò la vera origine del culto per la Madonna dell’Altomare perché da quel momento non solo la Sacra Immagine non fu più dimenticata ma fu eretta una chiesa in Suo onore.

Nella cittadina di Orta Nova, invece, la Madonna dell’Altomare fu portata da una fanciulla di nome Maria Balsamo soprannominata “Marietta”.

Questa ragazza un giorno si recò in pellegrinaggio ad Andria per chiedere alla Madonna la grazia della guarigione in quanto aveva una salute cagionevole e, non avendo nulla, destinò le uniche monete in suo possesso, che non ricordava neppure di avere, all’acquisto del quadro della Madonna. Ritornata ad Orta Nova per Maria le cose andarono meglio, ella guarì completamente e si sposò, ebbe dei figli ed un futuro radioso, anche perché la giovane era rimasta sempre devota alla Madonna.

Con il tempo gli abitanti di Orta Nova stimolati dalla stessa Marietta incominciarono a venerare la Sacra Immagine della Madonna dell’Altomare. In seguito il prodigioso quadro fu spesso portato in processione e, quando Maria e suo marito ebbero la possibilità, con l’obolo dei fedeli fecero erigere una chiesa alla Madonna dell’Altomare. Attualmente la vecchia chiesa ha avuto altra destinazione d’uso mentre verso la fine degli anni Ottanta del Novecento, ne è stata edificata una nuova [12]. I festeggiamenti della Madonna dell’Altomare avvengono durante il mese di agosto di ogni anno.

Nei pellegrinaggi mariani è inserita la cittadina di Panni dove si venera la Madonna Assunta in Cielo. L’antica piccola chiesa Madre del paese risale alla fine dell’ XI secolo e fin d’allora era dedicata a questa Madonna. Poiché il borgo era abitato da pastori in tempi più remoti, si ipotizza che la chiesa sia sorta sulle vestigia di quella più antica dedicata a San Martire di Costanzo, compatrono della città. In seguito all’espansione del borgo la chiesa fu ampliata e dedicata all’Assunta in Cielo.

A causa degli eventi sismici la chiesa fu più volte restaurata fino a quando, intorno alla prima metà dell’800, fu demolita per essere poi ricostruita dall’imprenditore edile foggiano Petrosillo che verso il 1830 su committenza della Confraternita e del Comune di Panni iniziò i lavori. Il costruttore si ispirò grossomodo alla Cattedrale di Troia realizzando la chiesa in uno stile dell’epoca, arricchendo di stucchi decorativi le volte a crociera. Molto del materiale appartenente all’antica chiesa fu reimpiegato ma furono utilizzati anche materiali provenienti dal castello.

La nuova chiesa fu ultimata nel 1842 ed ebbe un costo complessivo di ducati 14,000. A completamento dell’opera fu eretto un campanile a quattro piani. A causa di gravi lesioni e cadute di stucchi provocate dal sisma del 1930 e da quello del 1962 la chiesa fu demolita nella parte interna fatti salvi i muri perimetrali.

L’attuale costruzione mantiene le stesse caratteristiche di quella antica mentre la struttura interna è stata realizzata seguendo i criteri moderni di costruzione. I lavori furono in un primo momento sospesi nel 1972 e ripresi nel 1976; nuovamente interrotti per ragioni varie, furono ultimati nell’85 anno in cui la nuova chiesa fu inaugurata [13].

Tra le mete dei pellegrini non può mancare la visita al santuario dell’Incoronata di Foggia. Tale titolo è dovuto alla corona che cinge il capo della Madonna. Il culto per la Madonna Incoronata risale all’XI secolo quando la Ella manifestò la Sua presenza su una quercia nel bosco l’ultimo sabato di aprile. Secondo la tradizione Ella apparve al conte di Ariano [14] mentre questi si trovava nella foresta  nei pressi del fiume Cervaro. Durante la notte una luce vivissima attraversò la selva. Il Signore attratto dal chiarore giunse ai piedi di una quercia dalla cui sommità una misteriosa Signora, avvolta in aura sfolgorante e presentatasi con il nome di Maria madre di Dio gli indicava una statua di legno scuro assisa fra i rami dell’albero. Nel contempo un contadino di nome Strazzacappa, che si recava al lavoro con i suoi buoi alla vista della Signora, si inginocchiò, prese il paiolo che gli serviva per il pasto giornaliero, lo svuotò e vi versò l’olio che gli sarebbe servito per l’intero mese e, realizzato un rozzo stoppino, l’accese in onore della Madonna. L’omaggio di Strazzacappa restò per sempre il simbolo del santuario, segno di fede. Il nobile Signore fece edificare una piccola chiesa che divenne poi santuario famoso.

La cura della chiesa fu affidata ad un eremita, ma le comitive di pellegrini e villani sempre più numerose e, soprattutto, quelle dirette al santuario di San Michele Arcangelo determinarono l’esigenza dell’ampliamento del santuario dell’Incoronata di Foggia. La nuova chiesa fu affidata alla cura dei monaci Basiliani che la tennero fino al 1139. In quella data il normanno Ruggero II la donò a San Guglielmo da Vercelli che aveva da poco fondato il monastero di Montevergine presso Avellino.

Dal secolo XIII agli inizi del secolo XVI nel santuario si stabilirono i monaci cistercensi. La loro operosità e la dedizione ai pellegrini fecero del santuario uno dei maggiori centri religiosi della Capitanata. Nella seconda metà del secolo XVI l’intero complesso fu sottratto ai cistercensi e dato in commenda dapprima al nobile Antonio Carafa e poi ad altri dignitari che contribuirono con le loro opere ad accrescere l’importanza del santuario.

Con l’approvazione della legge sull’eversione feudale e la soppressione degli ordini religiosi i beni furono confiscati. Cominciò così un periodo di totale abbandono del santuario fino a quando agli albori del XX secolo l’opera dei vescovi e di alcuni benefattori tra cui i foggiani Perrone e Postiglione provvidero al recupero della struttura. Nel 1950 l’intero complesso fu affidato alle cure dell’Opera di Don Orione e da allora fu incrementato il pellegrinaggio. La vecchia chiesa si rivelò insufficiente ad accogliere i pellegrini e così nella seconda metà del XX secolo fu eretta una nuova basilica su progetto dell’ing. Luigi Vagnetti di Roma.

Tra i segni di devozione popolare degna di nota è senz’altro la Cavalcata degli Angeli che si svolge il venerdì successivo alla vestizione della statua. La statua della Madonna è incoronata, come avvenne durante la notte dell’apparizione, dagli angeli festanti con una triplice corona. Cavalli bardati a festa ornati di lustrini piume e sonagliere, insieme a centinaio di fanciulli vestiti da angeli, da santi e da fraticelli, girano per tre volte intorno al santuario in mezzo alle decine di migliaia di fedeli che accompagnano il corteo con il canti e preghiere.

Anticamente era tradizione che i pellegrini giunti nei pressi del fiume Cervaro o quelli provenienti dalla Basilicata usassero togliersi i calzari e percorrere a piedi nudi gli ultimi due chilometri di strada fino alla chiesa. Era un gesto di umiltà fatto nel ricordo di Mosé a cui sul monte Oreb il Signore comandò di togliersi i sandali per la sacralità del luogo. Oggi i pellegrini compiono ancora il triplice giro intorno al santuario prima di entrarvi. Tra le usanze ricorrenti vi è quella della benedizione con l’olio che ciascun pellegrino riceve; l’olio dell’umile Strazzacappa simbolo di fede, speranza e carità, come recita una preghiera tramandata dai pellegrini di Ripabottoni:

«[…] Ora vi preghiamo di ungere la nostra anima 
con quell’olio che il semplice campagnolo
detto Strazzacappa mise ad
ardere per voi sull’albero.
Perciò fate che nell’anima nostra non manchi
Mai l’olio della fede, l’unzione
della ferma speranza e la fiamma della santa carità» [15].

Alla luce di quanto emerge dagli studi svolti sull’argomento, si può affermare con fondato realismo che in ogni comprensorio urbano dell’Alto e del Basso Tavoliere la presenza del culto mariano espresso sotto le varie forme è vivo e sentito in modo evidente; così i molteplici segni di fede siano essi manifestati attraverso i pellegrinaggi oppure in altro modo, rappresentano il punto essenziale mediante il quale la religiosità popolare raggiunge la massima espressione.


NOTE

1 G. DE VITA, Orta Nova tra storia locale e religiosità popolare, in “ Segni di fede a Orta Nova” (a cura di Rosa Avello), CRSEC – Cerignola,Foggia 2000, pp. 9 e ss.

2 Ibidem.

3 A. CAMPANILE, Peschici nei ricordi, Foggia 2000, p. 59.

4 Ibidem, pp. 65 e 66.

5 M. VILLANI – G. SOCCIO, Le vie e la memoria dei padri, Santuari e percorsi devoti in Capitanata, Foggia 1999, pp. 60 e ss.

6 Ibidem, pp. 47 e ss.

7 G. LO ZITO, L’Incoronata, storie & restauri, Apricena 2003, pp. 15 e ss.

8 G. DI PERNA, Santa Maria di Selva della Rocca – la storia, in “Siti archeologici nel territorio di Apricena, Santa Maria di Selva della Rocca”, a cura di G. Di Perna, V. La Rosa e M. Violano, San Severo 1997, pp 53 e ss.

9 P. SCOPECE, Dalle Origini… comuni e chiese parrocchiali dell’Arcidiocesi Foggia – Bovino, Foggia 1999, p. 257.

10 C.G. NICASTRO, Bovino, storia di popolo, vescovi duchi e briganti, Amministrazione Provinciale di Capitanata, Foggia 1984, pp. 149, 150 e 151.

11 L. ANTONELLIS, Cerignola Guida alla città, Comune di Cerignola, Cerignola 1999,  pp. 96, 97, 99, 100 e 101.

12 V. SANTORO, Orta Nova e il Santuario della Madonna dell’Altomare, storia, cronaca e itinerari turistici, Foggia 1987, pp. 21 e ss.

13Ibidem, pp. 372.

14 Personaggio legato alla sola tradizione religiosa e popolare, indicato come appartenente alla dinastia Guevara. Storicamente questa nobile famiglia giunse dalla Spagna in Italia al seguito di Alfonso d’Aragona nel 1400, per cui non poteva essere in Capitanata in epoca anteriore a quella data. La scarsa documentazione risalente a quel periodo, inoltre, attesta che l’Italia meridionale non era ancora regolata dal sistema feudale.

15 M. VILLANI – G. SOCCIO, Le vie … op. cit., pp. 39 e ss.

 

©2006 Lucia Lopriore

Categorie
Microstorie

Il “mistero dell’incarnazione” nel culto mariano

La copertina del volume.

In un’epoca in cui tutto sembra andare a rotoli, dove tra il problema dello stoccaggio dei rifiuti in Campania, l’inquinamento ambientale, i disordini politici, ed altre problematiche che si alternano alle facezie del vissuto quotidiano tanto da diventare oggetto d’interesse dei mass media – si veda il caso Sarkozy-Bruni -, in un mondo dove la cattiveria impera, ecco spuntare all’orizzonte miracolosamente un messaggio di pace e di speranza: quello della fede Cristiana.

A pensarci è stato un noto studioso del nostro territorio esperto di agiografia, il prof. Gilberto Regolo, con l’ultima Sua fatica data recentemente alle stampe per i tipi delle Edizioni del Rosone “Franco Marasca” di Foggia, dal titolo L’uomo, il silenzio di Dio, i dolori della Vergine (pp. 192, ill. b/n e colori, Foggia 2007).

Il volume, diviso in quattrodici capitoli, percorre attraverso un’ampia carrellata di notizie storiche, politiche e religiose il cammino della fede Cristiana, spaziando dagli scismi della Chiesa Primitiva, attraverso la testimonianza di fede di Paolo, al protestantesimo di Martin Lutero, alle esperienze religiose di Santa Caterina Labouré, la cui storia riecheggia nei miei ricordi d’infanzia, quando mia madre era solita recitare nelle preghiere la giagulatoria: “O Maria, concepita senza peccato, pregate per noi che ricorriamo a Voi”.

Il racconto del miracolo dell’apparizione della Madonna a Santa Caterina Labouré, Figlia della Carità, mi veniva ripetuto spesso anche da una zia materna, suora appartenente allo stesso Ordine di Santa Caterina, quando mi recavo a farle visita le poche volte in cui le era concesso ricevere i parenti.

L’Autore racconta, inoltre, le esperienze di Santa Margherita Alacoque e Sant’Alfonso de’Liguori, mentre il Suo spirito cristiano ed ascetico emerge dall’esegesi della “Salve Regina” recitata e commentata nei tratti salienti.

Nel testo non mancano le tematiche filosofiche che l’Autore ritiene fortemente discutibili in quanto in esse tutto è concesso, anche l’improponibile.

Nel racconto del miracolo di Fatima, analizzato sotto i diversi aspetti, l’Autore lancia un grido di speranza che si accentua quando parla delle politiche contrapposte allo spirito cristiano, tematiche, queste ultime, affrontate con estrema durezza concettuale. Tra le tante: il Modernismo, il Laicismo ed il Relativismo sono additate come strumenti di scristianizzazione.

La parte centrale del volume affronta la crisi dell’uomo di oggi, l’aggressione alla famiglia con i falsi modelli culturali, le convivenze, l’amore libero e quanto altro, fino ad inoltrarsi nei flagelli del Terzo Millennio con il turismo sessuale, la droga di massa, il terrorismo, le malattie sessuali ecc. Qui, emerge il tema della spiritualità: l’uomo ovvero il Cristo che risorgere per redimere l’Umanità dai peccati e dalle cattiverie, ed il Mistero dell’Incarnazione: “Dio è il Verbo che viene generato dalla Madre”.

“Maria piena di Grazie Regina del Cielo e della Terra” intercede per l’Umanità attraverso le frequenti e necessarie apparizioni: a Parigi, in Rue du Bac (1830), a La Salette (1846), a Lourdes (1858), a Pont-Main (1871), a Fatima (1917), a Bennaux (1933) fino a quella di Medjiugorye nel 1981. Luoghi che diventano scenario del messaggio mariano.

La Madonna venerata dopo millenni perchè dispensatrice di grazie a testimonianza della speranza che l’Umanità nutre per Sua intercessione. “L’occhio miracoloso della Madre” che segue i Suoi figli accompagna il lettore attento con la Sua presenza in quasi ogni pagina del volume.

La devozione mariana, soprattutto in ambito locale, stabilisce la totale prevalenza tra le scelte coeve dell’immagine della Madonna sotto i diversi titoli, a Foggia tale culto si estende alla Madonna del Carmine, alla Madonna Addolorata, alla Madonna della Croce, all’Immacolata, all’Incoronata, alla Madonna della Pace, alla Madonna della Neve, alla Madonna del Grano, alla Madonna delle Grazie e, per il passato, a Santa Maria in Silvis la cui icona è custodita presso la chiesa delle Croci ed infine, a Santa Maria di Costantinopoli alla quale fu intitolata una chiesa in seguito demolita.

Beato Angelico, Madonna col Bambino e angeli.
Giovanni Bellini, Incoronazione della Madonna (particolare).

Tuttavia, emblematica per il capoluogo daunio è certamente la presenza del culto per la Madonna Iconavetere. Meglio conosciuta come Madonna dei Sette Veli, è un’antica immagine raffigurante la Vergine Kyriotissa Nicopaia.

Secondo la tradizione, le origini della città di Foggia risalgono intorno all’anno Mille con il rinvenimento della tavola raffigurante la Madonna Iconavetere , affiorata sulle acque di un pantano nei pressi del quale era stata occultata, avvolta in drappi o veli, forse per sottrarla alla furia iconoclasta.

La sua provenienza è incerta. L’icona che secondo la tradizione fu dipinta dall’evangelista Luca, cui sono riferite diverse icone mariane, fu portata nel 485 d. C. a Siponto dalla città di Costantinopoli, dove era oggetto di grande venerazione. Sarebbe stata consegnata, in tale circostanza, al vescovo Lorenzo Maiorano, che ne fece dono alla città di Arpi.

Durante la distruzione della città risalente al 600 d. C. circa, il Sacro Tavolo fu posto in salvo da un contadino del luogo che, avvoltolo in drappi, l’avrebbe poi nascosto nel sito del suo rinvenimento.

L’Iconavetere fu ritrovata a Foggia nel luogo oggi denominato piazza del Lago, nei pressi della cattedrale, da alcuni pastori incuriositi alla vista di un bue genuflesso al cospetto di tre fiammelle posate sulle acque del lago; i pastori portarono l’icona nella vicina Taverna del Gufo del bufo, divenuta poi una chiesa rurale, attorno alla quale si formò il primo nucleo abitativo che riunì gli abitanti dell’antica Arpi,dispersi nelle vicinanze dopo la sua distruzione.

Dai paesani e dai forestieri La Taverna del Gufo fu denominata “cappella di Sancta Maria de Focis”, a ricordo della Vergine Santa e delle tre fiammelle apparse sulle acque dello stagno.

Alcuni studiosi ritengono che il Sacro Tavolo dell’Iconavetere raffiguri l’immagine dell’Assunta in cielo. Un gruppo di storici dell’Arte negli anni ’80 del Novecento ha effettuato un restauro sul Tavolo dell’Iconavetere, riconoscendo la Madonna riccamente abbigliata, seduta con il bambino in grembo. In tale occasione, è stato stabilito che, dal profilo dell’aureola che emerge, è possibile collocare l’opera secondo modi diffusi in ambito campano-abruzzese.

Le tracce di lapislazzuli e di oro, gli alveoli destinati ad ospitare pietre dure intorno alle aureole, emersi nel corso di un restauro precedente, risalente agli anni sessanta del Novecento, attestano la preziosità dell’icona, databile tra l’XI ed il XII secolo.

Nel 1080 Roberto il Guiscardo volle che sullo stagno dove era stato rinvenuto il Sacro Tavolo fosse costruita una grande chiesa, che fu ampliata nel 1172 per volere di Guglielmo II di Sicilia detto il Buono. Con la chiesa crebbe anche la città, che divenne una delle più importanti del Regno. La storia del santuario si identificò con quella di Foggia. Diverse volte i principi regnanti scelsero la chiesa di Sancta Maria de Focis per celebrare i loro matrimoni. Carlo I d’Angiò fece del tempio mariano la sua cappella palatina, e qui volle che nel 1274 si celebrassero le nozze tra la terzogenita Beatrice e Filippo di Courtenay. Furono devoti dell’Iconavetere anche Carlo II lo zoppo, Roberto il saggio, Giovanna I, Giovanna II ed il consorte Ladislao, Alfonso I e suo figlio Ferrante I d’Aragona.

Nel 1731 la chiesa fu semidistrutta da un violento terremoto, ed il Sacro Tavolo fu portato nella chiesa di Santa Maria di Costantinopoli dove il volto della Madonna apparve per la prima volta dalla piccola finestra ogivale dell’icona. Era il 22 marzo, giovedì santo, il popolo era raccolto nella partecipazione della Santa Messa quando si verificò il prodigioso evento.

Sant’Alfonso Maria de’Liguori, appresa la notizia, volle recarsi a Foggia per rendere omaggio alla Vergine Santissima. Anche lui ebbe il privilegio di vedere la Madonna che appariva come una giovinetta di 13 o 14 anni con il capo coperto da un velo bianco. Le apparizioni si rinnovarono fino al 1745.

Nel 1767 Maria Carolina d’Asburgo, moglie di Ferdinando IV di Borbone, si recò in pellegrinaggio a Foggia. Più tardi ella volle che le nozze tra suo figlio Francesco I, principe ereditario, e Maria Clementina d’Austria, fossero celebrate a Foggia. Correva l’anno 1797 e per un solo giorno la città fu capitale e l’Iconavetere patrona del Regno.

Nel 1782 la sacra immagine fu incoronata con decreto del Capitolo Vaticano e nel 1806, per volere di Pio VII, la chiesa fu illustrata con il titolo di Basilica Minore.

La corona d’oro fu sottratta da ignoti il 6 marzo 1977. Il popolo foggiano si offrì di provvedere all’acquisto della nuova corona, così la Madonna fu nuovamente incoronata il 22 marzo 1982.

Infine, nel 1855, con l’istituzione della diocesi di Foggia, la chiesa di Sancta Maria de Focis fu elevata a cattedrale della nuova diocesi.

Vennero a Foggia anche Vittorio Emanuele II di Savoia che venerò l’immagine della Madonna nel 1863. Tre anni dopo fu la volta dei principi Umberto ed Amedeo di Savoia, mentre nel 1928 venne anche Vittorio Emanuele III.

Molti furono anche i Santi venuti da lontano per venerare l’immagine della Vergine. La tradizione ricorda i nomi di San Francesco d’Assisi, San Giovanni di Matera, San Tommaso d’Aquino, San Pietro Celestino, San Vincenzo Ferreri, Sant’Antonino, San Gerardo Majella, oltre al già citato Sant’ Alfonso Maria de’ Ligori ed i Santi Guglielmo e Pellegrino di Antiochia.

Per la devozione di questa Sacra Immagine, la Chiesa ed Capitolo di Foggia ebbero alcune rendite annue attraverso una serie di privilegi concessi già in epoca angioina con i vari diritti quali quello sullo scannaggio, la decima sopra il dazio e la bagliva, alcune rendite sopra le gabelle della carne, della neve, della farina e forno, ecc. e tali privilegi furono confermati anche dai Regi successori e fino agli albori del secolo scorso.

Gli ultimi capitoli del prezioso volume sono dedicati all’arte mariana vista da varie angolazioni. Sono chiamati in causa artisti che hanno fatto dell’Arte Sacra “l’ombelico del mondo”. Caravaggio, Michelangelo, il Beato Angelico, solo per fare qualche citazione, emergono attraverso il dovizioso apparato iconografico.

Gli echi delle ultime apparizioni a Medjiugorye, ed i quattro inviti della Vergine: la Pace , la Conversione , il Digiuno, la Preghiera, sembrano voler preannunciare l’attesa di venute escatologiche simili a quelle delle prime comunità cristiane concludendo il bellissimo testo che si inserisce a pieno titolo nella letteratura agiografica costituendo un ulteriore valore aggiunto al prezioso patrimonio bibliografico sulla storia del nostro territorio.

©2008 Lucia Lopriore