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Microstorie

La Zeza-Zeza (ritrovata) del Carnevale di Peschici

Durante il Ventennio fascista, precisamente nel 1931, in occasione della festa del Carnevale, venne  inviata a tutti i Podestà della Capitanata, da parte della Regia Questura di Foggia, una circolare che ribadiva l’assoluto divieto ai cittadini di “comparire mascherati in luoghi pubblici”; si potevano usare maschere soltanto nei teatri e in altri luoghi strettamente privati. Questa ordinanza, nel Gargano nord, non veniva rispettata. I Peschiciani, anche in tempi magri come quelli degli anni Trenta, festeggiavano il Carnevale con grande entusiasmo: gli uomini si travestivano da donna e le donne da uomo ed andavano girando per il paese, fermandosi in tutte le case dove c’erano allegre feste da ballo.

Sui fili, stesi da un alto all’altro degli stretti vicoli del borgo, venivano appesi numerosi pupazzi di paglia. Ogni quartiere preparava il suo “Carnevale”, si usava paglia, carta e abiti, i più malandati che ci fossero in circolazione; la mattina di martedì, ultimo giorno di Carnevale, tutti i fantocci, vestiti di tutto punto, con in braccio l’immancabile bottiglione di vino, venivano appesi ai crocevia, sostenuti da robuste corde. Dopo aver mangiato e bevuto, ci si mascherava e si girava in gruppo per il paese; non mancava chi si improvvisava attore e si esibiva in scenette umoristiche. Fra le drammatizzazioni,  degna di nota era “l’operazione”, un vero e proprio intervento chirurgico cui veniva sottoposto Carnevale. Si preparava un fantoccio nella cui pancia si metteva di tutto, scarpe vecchie, cipolle, corde, patate, ecc., lo si caricava su di un asino al cui seguito c’era un chirurgo, accompagnato da un corteo di gente mascherata da madre, moglie, figli e parenti di Carnevale. Il dottore tagliava la pancia del pupazzo e ne estraeva stracci, indumenti, verdure: solo alla fine estraeva il gigantesco maccherone che aveva provocato l’indigestione di Carnevale. Durante l’operazione, la gente che si ammassava intorno cantava lo stornello “Il piede del porco”. L’operazione veniva ripetuta in  diverse strade del paese, accompagnata da urla, frastuono e risate degli astanti. All’imbrunire, l’asino con il suo carico e tutto il seguito si dirigevano verso il Castello, dove il fantoccio di Carnevale veniva gettato in mare dalla Rupe antistante. I Carnevali appesi nei vicoli, invece, venivano bruciati. Le alte fiamme illuminavano la notte, segnando l’avvento della Quaresima.

Durante il Carnevale, fino agli anni Sessanta, nella cittadina garganica si usava rappresentare anche la “Zeza Zeza” un vero pezzo di antico teatro popolare di origine settecentesca, importato da Napoli.

La rivista napoletana delle tradizioni popolari, il “Giambattista Basile”, riporta la definizione della Zeza napoletana come «cantata vernacola… sul gusto delle atellane che successero alle feste Bacchiche, alle Dionisiache e, quindi, ai fescennini e alle satire. Trae argomento dagli amori di un Don Nicola, studente calabrese, con Vincinzella, figlia di Zeza e Pulcinella».

I fescennini sono l’esempio più arcaico di teatro nella cultura latina, caratterizzati da versi mordaci, pungenti, espressioni spinte e a doppio senso che dovevano suscitare ilarità in chi li ascoltava.

Nella Zeza di Peschici i personaggi erano quattro: Zeza (la madre), il Padre, Vincenzella (la figlia) e Don Nicola (il giovane avvocato innamorato della ragazza). C’era anche il Coro, formato da un folto gruppo di maschere accompagnate dai suonatori.

Di sfondo, un elemento caratteristico della società feudale: lo “jus primae noctis” che i padroni esercitavano sulle ragazze del popolo, debitrici   sempre di qualcosa nei loro confronti, a causa dell’estrema povertà (qui è l’affitto arretrato della casa). Ma nella logica del mondo alla rovescia, di cui è espressione il Carnevale, le classi popolari, con l’unica ricchezza gratuita che posseggono, cioè la bellezza delle loro donne, vincono sull’altro mondo, attirandolo, sfruttandolo e  traendone profitto. Il sogno popolare sembra finalmente realizzarsi in quei magici giorni.

Il personaggio del Padre, anticamente interpretato da Pulcinella, è un ruolo patriarcale caratteristico della tradizione meridionale: chiuso in una falsa mentalità puritana, ponendosi come retto difensore dell’ “onore” della figlia, la tiene segregata in casa, impedendole di “praticare” con chiunque. Emerge con chiarezza l’importanza della sua figura, chiamato da Vincenzella “Gnor padre”, ma anche il fatto che ad averla vinta su di lui è sempre Zeza, la moglie, che sa bene come blandirlo. Zeza è una popolana che cerca di sbarcare il lunario.  Per questo, pressata dalla paura di essere sfrattata in quanto l’affitto è ancora da pagare, non esita a far entrare in camera di Vincenzella don Nicola, il padrone di casa.  Il marito di Zeza, rientrato all’improvviso, trova Don Nicola  nascosto sotto il letto della figlia. Accecato dall’ira, accusa la moglie di non aver vigilato sull’onore della ragazza.  Zeza, a questo punto, si ribella:  fa notare al marito che la pigione è arretrata di tre mesi, che Don Nicola è venuto a esigerla e che, se non fosse stato per la “generosità” di Vincenzella, lui sarebbe già in carcere.

Zeza, tutta presa dal suo ruolo matriarcale, rivendica per la figlia il diritto di praticare l’amore “liberamente” con cento innamorati e con tutti quelli che le garbano: con principi, marchesi e persino con gli abati che bazzicano spesso nei dintorni della casa.

La chiusa della farsa è a lieto fine. Il padre, convinto dalle argomentazioni  di Zeza, acconsente alle nozze riparatrici. In fondo, imparentarsi con chi frequenta la Vicaria significa risolvere in modo indolore i pressanti problemi economici della famiglia. Resta il dubbio se sia stata tutta una messa in scena per costringere il giovane al matrimonio riparatore. L’ipotesi viene avvalorata considerando la resa del padre. Nella Zeza solofrana Pulcinella si arrende solo quando il giovane gli consegna un capace portafoglio. Nella Zeza di Peschici il motivo della resa del padre è diverso: non è solo la paura del fucile o del fucilone imbracciati dal giovane don Nicola che minaccia di scaricargli una schioppettata tra le gambe per togliergli la sua virilità a costringerlo ad arrendersi. E’ Vincenzella che scioglie l’intreccio, interponendosi tra i due e inducendoli alla ragione, con argomentazioni forti: “ Mio caro Don Nicola non ammazzare mio padre, non farmi ricordare per sempre questa giornata! Ti dico di lasciarlo andare, di lasciarlo stare. Lui, per forza, deve darmi a te!”.

La ragazza si rivolge con toni irati verso il genitore: “Che hai signor padre? Perché non vuoi farmi sposare? Dopo ti farò vedere io cosa ti combino!”.

Il padre, offeso dal suo parteggiare per chi sembra averla plagiata come un diavolo tentatore, arriva a minacciarla di morte insieme al suo amante.  Ma l’amore, alla fine, vincerà e Don Nicola potrà sposare liberamente la sua Vincenzella. Il giovane invita tutti alla festa: “E adesso faccio un invito a tutti questi signori, perché a casa di Don Nicola si mangiano i maccheroni, anche quello lungo (cannaruto) oinè!”.

Ricordiamo che a Peschici, il giorno del martedì grasso, il menu prevedeva i maccheroni fatti in casa, “tirati” dalle massaie con un ferro a sezione quadrangolare. Li si condiva con il sugo di carne per i ricchi e con il sugo di polpette e ventresca per poveri. Era usanza stendere un maccherone più lungo degli altri. Poiché si usava un unico piatto, chi, per sorte, mangiava questo maccherone, veniva canzonato come cannaròute, cioè il “goloso” della famiglia.  

Evidenti concordanze con la Zeza Zeza di Peschici si trovano nelle versioni di alcuni centri della pianura irpina come San Potito, in provincia di Salerno e Galluccio, in provincia di Caserta. I nomi dei personaggi sono gli stessi con qualche piccola variante. Don Nicola si chiama  “’0 si’ Ronnicola (il signor don Nicola)”.

Questa antica farsa popolare è oggi rappresentata a Solofra, elaborata e fatta propria dal popolo irpino con il titolo “Canzone di Zeza”. Durante il Carnevale viene presentata da vari gruppi che la cantano nelle vie della città, accompagnandosi con nacchere, triccheballacche e tamburelli. Segue l’immancabile tarantella cui partecipano tutti gli spettatori. La Zeza è interpretata solo da attori uomini poiché alle donne, come nell’antica commedia, l’esposizione al pubblico è vietata. C’è un capozeza-regista che guida la presentazione, dialoga con il pubblico e dà inizio alla sfrenata tarantella finale.

E’ presumibile che anche le modalità di presentazione, gli strumenti musicali d’accompagnamento e il ballo di chiusura fossero gli stessi anche a Peschici.

La Zeza Zeza ormai da un trentennio non si rappresentava più a Peschici, ma il testo della farsa, ricostruito nel 1987 grazie alla testimonianza orale di Giulio D’Errico, è stato riproposto negli ultimi anni, durante i convegni del Centro Studi Martella, dagli alunni dell’Omnicomprensivo “Libetta” di Peschici, preparati dalla prof.ssa Lucrezia d’Errico (nipote del vecchio cantore della Zeza) e da Stefano Biscotti.

Ecco il video della prima rappresentazione:

https://www.facebook.com/teresa.rauzino/videos/1070494133693?locale=it_IT

La Zeza potrebbe ritornare a essere rappresentata, oltre che dagli studenti, dagli amanti delle tradizioni locali della compagnia “Ars Nova” durante le sfilate del “Carnual” di Peschici. Inserita nel repertorio dei gruppi di musica popolare del Gargano, potrebbe essere proposta come “borgo narrante” all’attenzione dei turisti che visitano il Promontorio.

@Teresa Maria Rauzino

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Microstorie

Quando i Garganici disubbidivano (un po’) al Duce

Un figlio della lupa di solo un anno


Gli abitanti delle zone limitrofe al lago di Varano non aderivano all’autarchia del Regime ma reclamavano i premi per le famiglie.

Il fascismo, in vista all’autarchia, aveva incoraggiato le ditte che producevano prodotti tessili sintetici. Dalla guerra etiopica in poi la qualità dei tessuti era progressivamente degradata.

Secondo Venè, l’italiano medio continuò ad associare mentalmente il senso di calore con la lana, quello del fresco con il cotone, quello della robustezza con il cuoio e forse usò ancora per poco le stesse parole per definire la stoffa dell’abito pesante, della giacchetta estiva, le buone scarpe. Ma nei fatti capì che, per un tempo indefinito, forse per sempre, non avrebbe più potuto permettersi indumenti fatti con quei prodotti.

Fu Andrea Ferretti, Commendatore e poi Cavaliere del lavoro, il primo a studiare l’utilizzo dei cascami del cuoio, dalla cui lavorazione inventò il “cuoio rigenerato” che brevettò con il nome di salpa. Fu ancora lui a scoprire che dalla caseina del latte si poteva ricavare un prodotto tessile, qualitativamente simile alla lana: il lanital.

Niente più seta, ma raion; niente più cotone, ma cafioc, ossia fiocchi di canapa. Questi nuovi tessuti si imposero presso i ceti medio-bassi come espressione tangibile della modernità italiana, come conquista il cui merito, oltre che al genio nazionale, andava a tutta la nuova Italia.

Nel dicembre del 1940 arrivò, nel comune di Cagnano, una lettera della ditta Leumann di Torino: «Nell’Aprile scorso, il Duce, cui abbiamo l’onore di sottoporre tessuti autarchici al 100% di nostra nuova produzione, ci impartì precise direttive per la divulgazione di questi nostri tessuti in tutta Italia, direttive che egli rese di pubblica ragione con il suo comunicato Stefani del 7 aprile scorso. Con questa consegna di “andare verso il popolo”, abbiamo messo a disposizione della battaglia autarchica tutta la nostra organizzazione produttiva e, poiché lo svolgimento di un simile programma richiede un meticoloso lavoro di penetrazione presso tutti i rivenditori di tessuti del Regno, ci rivolgiamo alla vostra cortesia, per conoscere i nominativi di tutti i negozi di stoffe e dei rivenditori di piazza (con banco), siti nel vostro comune. Vi ringraziamo sin d’ora per le comunicazioni che vorrete favorirci».

Fino a che punto l’invito della ditta Leumann fu accolto dai Cagnanesi? Forse non lo fu affatto perché non c’era bisogno di tessuti autarchici.

Nelle zone limitrofe al lago Varano, nella stagione primaverile veniva seminato, oltre al cotone ed alla canapa, il lino. Questo fatto è testimoniato da un documento del 26/12/1924 dell’Archivio comunale di Ischitella.

La Giunta Comunale si era riunita per deliberare sulla chiusura della Foce di Capoiale. Conseguenza dell’apertura di questa era la iniziata salsedine del lago, che influiva negativamente sulla macerazione del lino, lungo le rive del lago stesso.

Le piante del lino venivano carpite nel mese di agosto. Dopo aver tolto il seme, usato per l’estrazione dell’olio “siccativo”, che si impiegava principalmente per la fabbricazione delle vernici e per la preparazione del tessuto di juta, il lino si legava in fasci e si portava sulle rive del lago a macerare. Per farlo ben sommergere dall’acqua, sopra si mettevano delle pietre.

Dopo una quindicina di giorni il processo di macerazione era aumentato e così si toglievano le pietre e i fasci, si portavano in un prato e si lasciavano asciugare sotto il sole cocente.

Finita questa operazione il lino si portava a casa e si metteva sotto qualche capanna, fino a che non si asciugava completamente. Avvenuto questo, veniva maciullato con un arnese creato per l’occasione, poi si pettinava e si ammatassava. In seguito, la stoppa si metteva nella rocca e veniva filata dalle nostre donne durante le sere invernali. Infine si ordiva il telaio e si tesseva la tela.

I tessuti fatti in casa, con prodotti naturali, avevano qualità di robustezza che le stoffe di città certo non eguagliavano.

L’autarchia casalinga dei braccianti e contadini garganici produceva lini, maglie e calze in lana di pecora che l’autarchia statale, quella dei lanital e del cafioc, aveva di fatto e per principio, sacrificato. Certo, il contadino che, all’inizio della giornata lavorativa, infilava maglia e pantaloni non aveva gran che da scegliere, ma la sua tenuta era forse più protettiva di quella di un impiegato e con meno toppe di quella di un operaio.

La fatica delle massaie tessitrici era confortata dalla tradizione che le voleva, fin da bambine, intente alla preparazione del loro corredo, spesso prezioso per qualità di stoffa e raffinatezza di ricami.

L’artigianato delle campagne diventò un privilegio inaspettato negli anni di precipitosa decadenza del regime, dopo la dichiarazione della seconda guerra mondiale: i contadini diventarono arbitri del mercato nero di qualsiasi genere di prima necessità.

Nel 1935, dichiarata la guerra d’Etiopia e avutone come contropartita le sanzioni internazionali, Mussolini ebbe l’idea propagandisticamente più felice di tutto il Ventennio, per dimostrare non solo agli stranieri, ma anche agli Italiani tiepidi, quale fosse la forza del consenso che lo circondava: “Oro alla patria”.

Gli sposi furono invitati a donare le fedi d’oro e di argento allo stato in cambio di fedi di ferro. E’ risaputo. Pochi invece ricordano – come ci informa Vené – che in quella occasione decine di migliaia di genitori-donatori chiesero qualcosa di più: l’iscrizione, all’Opera balilla, dei figli che non avevano ancora compiuto gli otto anni regolamentari.

Probabilmente le richieste furono guidate. È certo che, in questo caso, la ricevuta delle fedi, recante la grammatura delle offerte in metallo e la caratura di eventuali pietre, era accompagnata da una lettera intestata Partito nazionale fascista, il cui testo, firmato dal segretario del fascio locale, diceva: «Pregiatissimo signor… Le rimetto la ricevuta per il versamento dell’oro da lei effettuato e La ringrazio vivamente. Ho dato disposizioni all’Opera Balilla perché il suo piccolo… sia iscritto con la data del…  corrente mese. La prego perciò di rivolgersi alla Presidenza dell’Opera Balilla per il ritiro della tessera».

Sul finire del 1935, Mussolini decise, dunque, che la iscrizione all’Opera poteva essere estesa anche ai neonati. Da quel momento, le puerpere e i loro mariti ricevettero a ogni nascita di figlio un biglietto di auguri prestampato, che vale la pena di rileggere per intero, anche perché, come l’atto di ricevuta dell’oro alla patria, non risulta sia menzionato dagli storici. «L’Opera balilla di… ha appreso con vivo piacere la nascita del bambino… venuta ad allietare la sua famiglia ed a portare il suo promettente sorriso nella gaia schiera dei ragazzi di Mussolini, e, certa di far cosa gradita, porge insieme agli auguri più sinceri la tessera di iscrizione all’Opera Balilla per l’anno». In carattere molto più piccolo seguiva un “nota bene”: «Le SS.LL. vorranno versare la somma di lire 5, corrispondente al prezzo della tessera, a mezzo dell’unito modulo di versamento in c.c. postale, alla tesoreria dell’Opera Balilla in via… . In caso diverso la tessera sarà cortesemente restituita al Comitato provinciale dell’Opera Balilla in via…». 

Probabilmente, nei nostri paesi, pochi ebbero la possibilità di versare le cinque lire per comprare questa tessera.

Il Regime, condizionato dal Concordato del 1929 a rispettare l’enciclica Casti Connubi di Pio XI (1930) che ammetteva rapporti sessuali solo al fine di procreare, arroccato sul principio che il numero fa la forza della nazione, si lanciò in quella ossessionante campagna demografica che, a poco a poco, da calorosa raccomandazione, prese forma e forza di legge.

In effetti la campagna demografica fu un’iniziativa del regime destinata a penetrare nella vita coniugale, attentamente valutata prima di essere disattesa. Si trattava di accettare o rifiutare i benefici immediati in denaro che il fascismo offriva agli sposi e moltiplicava in proporzione al numero dei figli.

Alle madri, riconosciute ufficialmente con almeno sette figli, Mussolini inviava o consegnava personalmente in fastose cerimonie a Palazzo Venezia 5000 lire, più una polizza di assicurazione di 1000 lire. Anche gli assegni familiari erano ragguardevoli. Le madri prolifiche, additate ad esempio d’italianità, venivano soprattutto dalle campagne del Sud e del Veneto.

Anche nei nostri paesi furono concessi premi per la campagna demografica.

Le somme disponibili per i premi di nuzialità venivano usate, però, più a scopi assistenziali, che per l’intensificazione della campagna demografica disposta dal Governo.

Le domande erano sempre numerose; molte venivano respinte perché non ricorrevano i termini per la concessione dei benefici richiesti.

I Cagnanesi non si scoraggiavano per le mancate concessioni e, in modo abbastanza polemico, si rivolgevano alle autorità superiori per avere spiegazioni e per ottenere “giustizia”. Lo testimoniano le lettere ritrovate nell’archivio comunale di Cagnano Varano.

Il fatto che i premi di natalità non fossero distribuiti a tutte le famiglie con nascituri è dimostrato da una lettera di protesta che Papantuono Grazia scrive all’Opera Maternità e Infanzia di Foggia il 20-01-1937.

La donna fa presente la situazione di favoritismo nei confronti di altre mamme che ricevono dei premi, mentre lei ne è esclusa: «Nello scorso anno uscì al pubblico un decreto che tutte le donne che partorivono nel mese di ottobre li spettava il premio. In questo paese il 18 corrente mese tutte le buone donne e le moglie dei ladri che sono sgravidate dal mese di ottobre fino a tutto dicembre li hanno segnato quasi tutto perché sono messi di accordo non solo con questa assistenza che sono tutte moglie di signori e anche la levatricia fa il suo porco comodo».

La sua vuole essere una denuncia contro le ingiustizie verso i poveri: «Chi avi di sua proprietà una casa a un solo vano è proprietario e lo stesso chi avi un pezzo di terra e proprietario, le moglie dei ladri anno capri pecore e altri cosi sono tutti povere, le mali donne anno fino a un palazzotto di fabbricato con 4 o 5 stanzi, sono tutti povere perché così vogliono tutti questi signori di questo paese». Lei invece che è “proprio sgravidata” non li può avere perché possiede giusto una casa per riparare la testa dalla pioggia.

La chiusa è rivendicativa: «Prego la S.V. Ill.ma di darmi tale schiarimenti a me povera donna che questo premio mi tocca o pure non mi tocca e voglio risposta quanto prima se non mi dati tali schiarimenti io scriverò più avanti. Saluti fascisti anticipati da me Papantuono Grazia fu Giovanni».

©2008 Teresa Maria Rauzino

L’articolo è stato pubblicato sul quotidiano «L’Attacco» del 10 gennaio 2008. La foto d’epoca fa parte della collezione privata dell’Autrice. 

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L’ultima Festa


Pietro Sisto nel suo libro ”L’ultima festa”, edito da Progedit, racconta la “storia” del Carnevale in Puglia indagando gli aspetti antropologici e le profonde trasformazioni che, soprattutto nel Novecento, hanno accompagnato la festa in angoli diversi della regione, dalla più nota città di Putignano fino a Trani, Molfetta, Bitonto, Manfredonia e in centri “minori” come Peschici.
Il Carnevale a Putignano partiva dal 26 dicembre, giorno di Santo Stefano, in cui ci fu la traslazione da un’altra città delle reliquie del santo per preservarle dall’attacco dei Turchi. Era il 1394. La popolazione festeggiò, travestendosi in maschera. Lo faceva anche il 17 gennaio, festa di sant’Antonio Abate, che dava il via ufficiale al Carnevale, che proseguiva, il 2 febbraio, con la Candelora, fino ad arrivare al giovedì e al martedì grasso che chiudevano la festa.
Quattro erano gli animali che rappresentavano la ritualità del carnevale pugliese: l’asino, il maiale, il tacchino e l’orso. A Putignano era proprio la festa dell’orso che apriva (ed apre ancora oggi) i festeggiamenti. L’orso simboleggiava il risveglio della natura, e il propiziarsi la stagione favorevole perché il 2 febbraio prediceva il tempo buono se quel giorno il tempo era cattivo, e viceversa.
Dell’ “ultima festa” Sisto mette in luce non solo i riti più irriverenti, legati al divertimento, ai piaceri del corpo e alla gastronomia, ma anche il rovesciamento dei ruoli sociali, e lo scontro tra società laica e gerarchie ecclesiastiche che si opposero strenuamente, ma con scarsi risultati, allo spirito giocoso della società contadina.
Intriganti sono le osservazioni che Sisto fa sul modo in cui il Carnevale veniva osteggiato dalle autorità ecclesiastiche. Il Carnevale era un periodo in cui le licenziosità erano all’ordine del giorno, per cui la Chiesa “ufficiale” sentiva il dovere di intervenire, emanando degli editti che proibivano i comportamenti “lascivi”. Veri e propri editti vennero emanati dai monsignori delle varie diocesi pugliesi per bloccare queste manifestazioni di trivialità. A Trani si svolgeva la cosiddetta processione del Santo Membro, una vecchia statua di legno che rappresentava Priapo con il fallo (l’elemento “proibito” di questa divinità) sproporzionato rispetto al resto del corpo, e che arrivava fino all’altezza del mento. Ci volle l’intervento dell’arcivescovo Davanzati, da sempre impegnato nella lotta contro le superstizioni, fantasmi, vampiri e spettri, per bloccare definitivamente questo corteo blasfemo, cui probabilmente amavano accodarsi preti e frati. Priapo era un personaggio della mitologia greca, figlio di Afrodite. Rappresentava l’istinto, la forza sessuale maschile e la fertilità della natura.
Il Carnevale era una tradizione trasgressiva che i divieti non riuscirono a bloccare, sebbene la Chiesa cercasse di creare un’alternativa alla festa profana. Ci fu l’intervento dei Gesuiti che istituirono i “carnevaletti”, una sorta di 40 ore posizionate nei giorni in cui il Carnevale impazzava, dalla domenica al martedì grasso. Le chiese divennero una sorta di apparato teatrale, con luci e soavissime musiche. Si organizzavano bellissime processioni, si sparavano razzi, in grado di attirare più gente possibile.
Ma i vescovi non riuscivano a contenere il fenomeno.
Pietro Sisto racconta che a Molfetta, prima monsignor Fabrizio Antonio Salerni nel 1736, e poi mons. Celestino Orlandi nel 1757 minacciarono con un editto di scomunicare chi ballava scandalosamente. In questo caso ci fu l’intervento dell’Università di Molfetta che inoltrò un ricorso, firmato dal marchese Brancone, a Napoli. Il vescovo fu invitato a precisare quali fossero questi balli licenziosi. Il vescovo li descrisse minuziosamente, uno a uno. C’erano gli scelleratissimi balli del “zinsitto”, “dell’ignudo” e della “stoccata”. Il primo consisteva in una danza scandita dai comandi del maestro di ballo che, “dopo aver fatto disporre dietro di sé alternativamente uomini e donne” comandava loro di assumere posizioni “sempre più sconce e disoneste” (petto a petto, culo a culo, faccia a faccia, bocca a bocca). Nel secondo, il maestro di ballo ordinava a uomini e donne di spogliarsi lentamente nel corso delle danze che spesso si concludevano al buio, con una sorta di caccia alla donna, “qualche volta totalmente alla nuda”, al grido di “chi la trova, la trova!”. Nel ballo della “stoccata”, si simulava un duello tra un uomo e una donna. A perdere era sempre la donna che, colpita, cadeva per terra e veniva soccorsa dal cavaliere che se la portava a letto, tra gli applausi e le grida sconce e “stomachevoli” di tutti i presenti.
Erano balli decisamente licenziosi, che il vescovo Orlandi non poteva permettere nella sua Diocesi, perché costituivano fonte di eccitazione erotica per connubi proibiti talvolta favoriti dalle madri che volevano accasare le figlie in età da marito. Numerosi erano gli aborti, se il matrimonio riparatore veniva negato dai seduttori che le avevano ingravidate, durante le pazze serate “dell’ultima Festa”. Numerose erano le ragazze che, esattamente dopo 9 mesi dal Carnevale, mettevano al mondo dei neonati concepiti in quelle feste, e che venivano deposti nelle ruote dei conventi o “esposti” sui sagrati delle chiese.

Pietro Sisto cita un articolo “La vendemmia del Diavolo”, pubblicato nel 1938 da “Vita Cattolica” periodico ufficiale dell’Archidiocesi di Manfredonia, in cui l’editorialista descrive scandalizzato cosa avveniva in città “nei giorni detti del Carnevale”: «Mentre la Chiesa richiama i cristiani ai patimenti e alla morte del Redentore, molti si danno alla pazza e sfrenata allegrezza e ai disordini. Che avviene infatti in questi giorni nelle sale da ballo? Giovanetti rabbiosi, ragazze frenetiche non sanno rinunciare al turpe divertimento del ballo. Passioni roventi che si sviluppano e ardono; affetti pravi che si iniziano; mode turpi, nudismo, abbracciamenti disonesti che si fanno; peccati che si consumano nel bollore della danza e negli agitati ritrovi notturni; tresche che si svolgono; onore che spesso si perde; malizie che s’imparano; pericoli fisici: contatti di membra, sudori, fiati ecc., facile comunicazione di mali contaggiosi (sic) tanfo ributtante… ». E si chiede: «Come pretendono, poi, certi cristiani di regnare con Gesù Cristo, se vivono da pagani, o un giorno con Cristo e un giorno col Demonio?».



Teresa Maria Rauzino