Il 28 febbraio la risorta comunità ellenica di Capitanata ha festeggiato l’anno nuovo. Un’occasione per ricordarne gli illustri fondatori
I Greci siamo noi. Dal Salento al Gargano, alle isole Diomedee, la Puglia pullula di toponimi ellenici. Lo sbarco di queste popolazioni sulle nostre coste è attestato da numerosi reperti archeologici.
Le monete d’oro, argento e bronzo e le suggestive pitture vascolari rinvenute in Arpi, un sito archeologico a tre Km da Foggia, attestano la floridezza della città diomedea.
Diomede in Arpi è un bel quadro del pittore foggiano Nicola Parisi: acquista una rara potenza evocatrice del remoto passato di Foggia, quando gli Elleni, vittoriosi su Troia, e conquistatori erranti delle isole e delle coste garganiche, giunsero nella piana del Tavoliere, integrandosi con i Dauni e fondando la potente città arpana.
Luigi Pietro Marangelli, che ha analizzato i documenti dell’Archivio diocesano di Foggia, afferma che, in epoca moderna, la più antica famiglia greca stabilitasi in città fu quella dei Perifano (leggasi Perìfano).
Nel 1774 Il libro dei nati registrò la nascita di Antonio, primogenito del capostipite Giorgio Perifano e di Arcangela Bifulco. Seguiranno altri sei figli: Michele, Rosa, Spiridione (in omaggio al patrono di Corfù), Sofia, Giambattista e Demetrio.
La famiglia giunge da Corfù, probabilmente nel 1750; a Foggia si fa costruire una bella casa nelle adiacenze di via Arpi, in Vico 1° Zingani: Palazzo Perifano (completamente distrutto dai bombardamenti del 1943).
Nel 1848 l’avvocato Pietro de Plato (1804-1884) fa erigere una cappella gentilizia nel cimitero di Foggia, sul Viale del Dolore. Poeta e patriota, aveva sposato la diciassettenne Casimira, figlia di Michele Perifano. Il matrimonio era stato celebrato il 16 maggio 1836, con dispensa della Curia per l’età della sposa.
Al fastoso ricevimento nuziale a palazzo Perifano furono invitate le famiglie più in vista di Foggia: gli Altamura, Bruno, Postiglione, Scillitani, Celentano. Tutti romantici poeti e avvocati che cospiravano per la libertà e l’unità d’Italia, contro Ferdinando II e contro il papa-re Pio IX, all’unisono con la colonia ellenica dei Perifano. Questi si batterono per l’indipendenza e l’unità d’Italia e subirono persecuzioni e condanne.
L’Italia, che aveva affinità con il loro paese di origine, diventò la seconda patria per cui combattere. Sull’esempio di Santorre di Santarosa e George Byron che avevano lottato per l’indipendenza della sua patria d’origine, Spiridione Perifano jr., scrittore e patriota, combatté in Lombardia per l’indipendenza e l’unità d’Italia. Egli fu grande amico di Giuseppe Mazzini e Luigi Settembrini.
Antiborbonico, subì tre anni di carcere dal 1839 al 1842. Ferventi repubblicani mazziniani, dopo la spedizione dei Mille, i Perifano sostennero la monarchia sabauda. Il 14 febbraio 1862, alla testa di un corteo, gridarono per le strade di Foggia: «Viva il Papa-prete / abbasso il Papa-re / viva Garibaldi!».
Francesco Saverio Altamura (Foggia 1822- Napoli 1897), il più illustre pittore dell’Ottocento pugliese, fu membro della comunità ellenica foggiana: era figlio di Sofia Perifano.
Dopo aver studiato presso gli Scolopi di Foggia, Altamura si era trasferito in Campania. Come i suoi cugini Perifano, prese ripetutamente parte alle lotte risorgimentali italiane: nel 1848 a Napoli si distinse tra i dimostranti sulle barricate di Santa Brigida.
In quel sanguinoso scontro si contarono 145 morti e circa 300 feriti. Per Altamura le conseguenze furono drammatiche: fuga, esilio nel granducato di Toscana e condanna a morte in contumacia. Rientrò a Napoli nei giorni della riscossa del 1860: combattè a fianco di Garibaldi sul Volturno, a Capua e a Gaeta.
Altamura, personalità di spicco della cultura partenopea, fu eletto consigliere comunale e contribuì alla fondazione della Pinacoteca di Capodimonte. Negli anni successivi, partecipò alle Esposizioni artistiche di Parigi, Torino, Roma e Napoli, dove fu altamente apprezzato. Il pittore morirà a Napoli nel 1897.
Carlo Villani lo ricordò così, nell’ultimo saluto: «È il nome di lui, già passato nel dominio della storia, mentre va ad assidersi tra le più fulgide stelle dell’Olimpo dell’arte, resterà per Foggia monumento colossale pari alle piramidi, resterà come suo vanto, suo orgoglio sua religione». Nel 1901 la città natale, Foggia, gli dedicherà un monumento.
Intanto, ormai in strettezze economiche, quasi tutti i Perifano si erano trasferiti ad Avellino e Salerno. Qui furono aiutati dai parenti di Saverio Altamura. A Foggia restarono soltanto Casimira e il marito Pietro de Plato.
Sei anni fa, questo nucleo della comunità ellenica foggiana, forte dei nuovi arrivi, si è organizzato in un’associazione, oggi guidata da Ioanna Papanicolau (presidente) e da Emmanuel Stratakis (vicepresidente). Varie sono le iniziative comunitarie in campo religioso e culturale. Funzioni di rito ortodosso vengono celebrate ogni mese presso la chiesa di San Domenico. La memoria della lingua di origine è tenuta viva da insegnanti di madrelingua.
Un recente convegno a Bari ha fatto il punto sui rapporti storico-culturali fra Grecia e Puglia. Docenti provenienti dagli atenei di Bari, Lecce, Napoli, Cosenza, hanno approfondito aspetti di storia comune: tra gli altri, Luciano Canfora (Italia e Grecia in epoca fascista); Giorgio Otranto (La Puglia cerniera tra il Mediterraneo e l’Europa: La Grecìa salentina); Pasquale Corsi (Presenza bizantina in Puglia durante il medioevo); Maria Perlorentzu (Gli studi neoellenici nelle Università pugliesi); Isabella Bernardini (Grecìa salentina: un’isola linguistica nel Salento); Roberto Romano (Poeti italo-bizantini di terra d’Otranto nel XII e XIII secolo); Gianni Korinthios (La diaspora ellenica in Italia meridionale dopo la caduta di Costantinopoli).
Giorgio Otranto, Luciano Canfora e il giornalista Gustavo Delgado solleciteranno l’inserimento, nello Statuto della regione Puglia, di un richiamo alle comuni radici culturali greche.
Fra i progetti della comunità greca di Foggia un sito web, un giornale e una collana di pubblicazioni per riscoprire le radici degli insediamenti ellenici in Capitanata e divulgarne la cultura.
Il 28 febbraio 2004 questo programma è stato presentato durante l’annuale festa in onore di Hagios Vassilos (San Basilio). È una cena, allietata da musiche e balli folkloristici, culminante nel taglio di una torta augurale: la Vassilopita.
Nell’impasto del dolce si mette una monetina, possibilmente d’oro. È il padrone di casa, o il capo della comunità, a tagliare la torta, offrendone una fetta a tutti i presenti, insieme ad un rametto d’ulivo.
Una certa ritualità sovrintende al rito: la prima fetta non si mangia, è riservata a san Basilio o alla Madonna; la seconda è per la casa; la terza è per i poveri; le altre per i familiari, parenti e amici. Chi troverà la monetina d’oro sarà «il figlio della fortuna» per il 2004!
SOTTO IL SEGNO DELLA VASSILÒPITA, LA TORTA CON LA MONETA D’ORO
Oggi non c’è comunità greca nel mondo che non festeggi l’inizio dell’anno con la Vassilòpita. La “torta di San Basilio” trae origine da una leggenda. Si racconta che, quando la città di Cesarea fu assediata dai barbari, il suo vescovo Basilio (329-379) si prodigò per raccogliere oggetti preziosi.
Per scongiurare stupri, incendi e atti vandalici, li offrì al capo degli invasori il quale, colpito dalla figura ieratica di Basilio, tolse l’assedio alla città senza portare via nulla. Il problema era restituire le monete d’oro e i gioielli a coloro che li avevano offerti.
Ma come fare a individuarli? Basilio trovò un escamotage: fece preparare una torta in cui furono posti, in ordine sparso, tutti i preziosi. Ciascun cittadino ne ebbe una fetta. I più fortunati vi trovarono le monete e i gioielli.
La ricetta della Vassilòpita si basa su ingredienti semplici: 1 kg. e 300 grammi di farina, 320 grammi di zucchero 320 ml. di latte, 240 grammi di burro o margarina, 50 grammi di lievito di birra, 6 uova (5 per l’impasto ed 1 da spennellare sulla torta), mezzo cucchiaio di sale, mandorle pelate e semi di sesamo.
Dopo aver sciolto il lievito in un po’ di latte caldo, aggiungere una tazza e mezza di farina, impastare e far riposare il panetto in luogo caldo per mezz’ora.
In una grossa ciotola mettere il resto della farina, la margarina fusa, le uova sbattute, il restante latte tiepido, lo zucchero, il sale e l’impasto lievitato. Lavorare bene il tutto e far lievitare per 4 ore. Impastare di nuovo, inserire la monetina d’oro, e disporre il panetto in uno stampo imburrato.
Spennellare la superficie della vassilòpita con l’uovo, disporre le mandorle a forma di croce e cospargere di semi di sesamo. Far lievitare mezz’ora. Cuocere in forno a calore medio, finché il dolce sarà dorato. Servire con moscato e vini “passiti” ellenici.
Gli emigrati di tutto il mondo sbarcati nel ‘Paese della Libertà’ schedati e ‘marchiati’ con il gesso
A fine Ottocento, Edmondo de Amicis viaggiò a bordo della nave Galileo, che trasportava gli emigranti italiani in Uruguay ed in Argentina. Nel suo reportage Dall’Oceano scrisse: «C’erano molti Valsussini, Friulani, agricoltori della bassa Lombardia, contadini d’Alba e d’Alessandria che andavano all’Argentina non per altro che per la mietitura, ossia per mettere da parte trecento lire in tre mesi e navigando quaranta giorni. Tessitori di Como, famigli d’Intra, segantini del Veronese. Della Liguria il contingente solito dato in massima parte dai circondari di Albenga, Savona e Chiavari…».
Questa cronaca sfata un luogo comune: negli ultimi venti anni dell’Ottocento fu soprattutto dal Nord Italia che si espatriò per La Merica. Solo col nuovo secolo arriverà l’ondata “sudista”. Culminerà nel 1906 con 787.977 espatri dall’Italia Meridionale: centomila persone partirono dalla sola Sicilia.
Il sogno americano si alimentò delle immagini dei bastimenti proposte dalle numerose compagnie di navigazione. La pubblicità dell’epoca fece centro nell’alimentare i “sogni” degli aspiranti migranti. Il transatlantico imponente e leggero, sicuro sui mari in tempesta, alimentava la speranza del sogno americano: chi avesse raggiunto la Statua della Libertà avrebbe avuto una vita dignitosa, lontana dalla miseria, dalla fame e dalle malattie.
Molti si affrettarono a svendere le loro misere proprietà pur di acquistare il biglietto di quella nave: per realizzare un sogno così a portata di mano. Attratti dal sogno, migrarono ben 60 milioni di persone dall’Italia, nel corso dei vari periodi storici, lasciandosi dietro la terra d’origine, gli affetti e le loro tradizioni. Nelle valige mettevano foto, santini, opuscoletti che gli ricordassero i luoghi e le persone che lasciavano in patria.
Una locandina della società di navigazione La Veloce, che garantiva un «servizio celerissimo con vapori elegantissimi» non smentisce il suo spot: una madame, vestita con abito e cappellino belle époque, saluta, sventolando un fazzoletto bianco, l’arrivo di una nave nel porto di Genova. A bordo ci sono gli “americani”, che rientrano in Italia. Tornano dall’America per trovare le mogli ed i parenti italiani.
Ormai sono benestanti, gente di successo. Ma in quali condizioni “reali” viaggiavano gli emigranti italiani? È lo stesso de Amicis a rivelarcelo: «ammassati tra pile di cartoni, valige e animali, assieme a ladri e uomini puzzolenti di sporcizia, vi erano donne malate con figli denutriti. In terza classe spesso non c’era nemmeno un bagno per centinaia di passeggeri, costretti ad andare in seconda per trovarne uno disponibile».
ELLIS ISLAND L’ISOLA DELLE LACRIME
Dopo 40 giorni di navigazione, i bastimenti raggiungevano Manhattan. Ma prima dovevano transitare per Ellis Island, l’isola principale di Nuova York. Nel 1894 era la più grande stazione di smistamento degli immigrati. Il governo americano controllò il flusso migratorio con metodi ferrei, polizieschi. E la diversa estrazione sociale dei naviganti marcava “la differenza”.
Quando le navi a vapore entravano nel porto di New York, i più ricchi passeggeri di prima e seconda classe venivano ispezionati a loro comodo nelle loro cabine e scortati a terra da ufficiali dell’immigrazione. Invece i passeggeri di terza classe venivano portati a Ellis Island per l’ispezione “dura”. Giunti sulla piccola isola, gli emigranti poveri, sbarcati da navi provenienti da tutto il mondo, venivano ispezionati, interrogati. Si eseguivano meticolosi controlli per eliminare gli indesiderabili e i malati. I medici accertavano soprattutto “le malattie ripugnanti e contagiose” e le malattie mentali. Gli ammalati o i “sospetti” tali venivano marcati sulla schiena con una croce bianca segnata con il gesso, confinati sull’isola per la quarantena oppure reimbarcati. I capitani delle navi avevano l’obbligo di riportarli nel porto del paese d’origine.
I dati attestano che almeno il 2% per cento degli emigranti furono riportati a casa. Ma molti sfuggirono alla triste sorte del foglio di via, del rientro coatto: cercarono di restare a tutti i costi: si tuffarono in mare, raggiungendo Manhattan a nuoto. Di solito, quelli accettati, dopo una quarantena di qualche giorno venivano smistati per varie destinazioni.
La maggior parte degli immigrati venne mandata a popolare il New Jersey. Ad Ellis Island, le “Scale della Separazione” marcarono forzate “divisioni” di interi nuclei che si erano imbarcati sulla stessa nave. Dal 1917, quando gli Stati Uniti entrarono nella prima guerra mondiale, i sentimenti anti-immigrazione e le ostilità isolazioniste raggiunsero il massimo. Ed il ruolo di Ellis Island cambiò: da centro di smistamento per gli immigrati divenne un centro di detenzione per deportati e perseguitati politici. I decreti sull’immigrazione del 1921 e del 1924 posero fine alla politica di “porte aperte”‘ degli Stati Uniti. I locali del Centro vennero chiusi definitivamente nel 1954.
OGGI ELLIS È UN MUSEO
Ellis Island è un grande Museo dell’Immigrazione. Dal 1990 vi sono esposti i “segni” lasciati dagli immigrati: vestiti, tessuti, utensili. Uno dei dormitori, come in un flash-back, ci riporta alla visione di alcune note camerate dei “campi di concentramento”. Ed emoziona il visitatore. Nelle varie sale, le esperienze di vita vissuta sono ricostruite con fotografie, pannelli esplicativi, piccoli oggetti domestici portati dalla terra di origine e utilizzati per il lungo viaggio (valigie, ceste, sacchi, fagotti…). È possibile ascoltare le voci registrate dei protagonisti. Vi sono descrizioni dell’arrivo e dei successivi colloqui, esempi delle domande poste e degli esami medici effettuati.
UN SITO INTERNET SULL’EMIGRAZIONE AMERICANA
Circa 100 milioni di americani (40% dell’intera popolazione) sono diretti discendenti di quei 22 milioni di immigrati che approdarono ai moli di Ellis Island, tra il 1892 ed il 1924. È qui l’origine del melting pot, il grande calderone della multietnicità americana, che tanto giovò alla civilizzazione di questo grande paese. Oggi chiunque voglia avere notizie dei propri avi emigrati in America, di cui abbia perso traccia, può, navigando virtualmente in Internet, raggiungere il sito www.ellisisland.org ed effettuare la ricerca. Con una semplice iscrizione gratuita potrà accedere all’archivio telematico messo a disposizione di tutti i virtuali “naviganti”.
Nella sezione «Passenger Search» è possibile conoscere per ogni emigrato il nome e cognome, lo Stato e città di provenienza, la data di arrivo all’isola, l’età, lo stato civile, il nome della nave ed il relativo porto di partenza. Il sito è stato realizzato dall’AFIHC (American Family Immigration History Center). L’immane lavoro di archiviazione telematica è stato effettuato dai «Volontari della Chiesa di Gesù Cristo dei Santi degli Ultimi Giorni», più noti come Mormoni.
UN CANTO SULL’EMIGRAZIONE GARGANICA a cura di Luciano Castelluccia, direttore artistico del Carpino Folk Festival
MARITME STA ALL’AMERICA E NUN ME SCRIVE (Mio marito sta in America e non mi scrive)
Marit’me sta all’America e nun me scrive Mari’tme sta all’America e nun me scrive Nun sacce la mancanza Nun sacce la mancanza che l’aje fatte
E na mancanza mia iè stata questa e na mancanza mia iè stata questa da tre fanciull na da tre fanciull na truvat quatt
Zitt marite mije che nun je nent zitt marite mije che nun je nent e lu viam a Napl e lu viam a Napl a fa student
‘Nfa nend marit mije che a patut ‘nfa nend marit mije che a patut basta che magn e viv basta che magn e viv e va v’stut
Non jadda jess mo lu chiant amar non jadda jess mo lu chiant amar adda jess mo che m vid adda jess mo che m vid p’ na ‘merican
Non adda jess mo lu chiant a llochje non adda jess mo lu chiant a llochje adda jess mo che m vid adda jess mo che m vid a Nuva York
Zitt marite mije che non je nent zitt marite mije che non je nent e lu n’viam a napl e lu n’viam a Napl a fa student
Questo Canto di emigrazione fu raccolto da Lomax e Carpitella nel 1954 a Cagnano Varano.
Il primo grande tour fotografico di Vittorio Alinari in Sardegna fu ricco di colpi di scena
Vittorio Alinari, dopo aver effettuato nel 1913 e nel 1914 due escursioni nell’isola dei nuraghi, nel suo resoconto di viaggio ‘In Sardegna’, diede ragione al suo compianto prof. Mantegazza, che l’aveva descritta così:
“L’amante del bello trova in Sardegna paesaggi svariatissimi; coste dentellate, come le foglie delle mimose; vergini foreste, pianure e stagni; colli e vere Alpi dove il granito mostra i più bei fianchi ch’io abbia veduti al mondo.
Costumi pittoreschi, intatti da più secoli; tipi umani profondamente scolpiti: poesia popolare, passioni calde; rozze e ardenti nature (…); tutta una tavolozza di colori vivi e svariati che può dare materia d’opere immortali, al poeta, allo scrittore, all’artista“.
Quello di Alinari fu una sorta viaggio-scoperta, un gran tour alla scoperta dell’isola sarda. Noblesse oblige. Si confermò degno rampollo di una Famiglia che fece diventare la fotografia un’arte, unendo il ‘dilettevole’ di una solida cultura all’utile’ dell’impresa. Senso pratico fiorentino, unito al senso di una profonda cultura dei luoghi.
‘In Sardegna’ è un documentato reportage sui monumenti, sulle particolarità archeologiche dell’isola, con interessanti note di colore sulla selvaggia, e nello stesso tempo raffinata, sconosciuta Sardegna.
Nel suo primo viaggio, Vittorio Alinari visitò le coste occidentali: “Lo scopo era di prenderne fotografie che potessero servire a studi geologici. Il Ministero della Guerra e quello della Marina volevano profittare di quest’occasione per fare eseguire dei rilievi interessanti la difesa nazionale”.
Gli misero a disposizione addirittura una torpediniera, ma egli preferì imbarcarsi su uno yacht: ‘II Trionfante’. In compagnia di amici e di suo figlio Giorgio, parti da Livorno ‘con l’intenzione di prender terra al Golfo degli Aranci’.
Un viaggio, che si presentò, fin dall’inizio, ricco di rischiosi ‘colpi di scena’. Appena gettata l’ancora alla Maddalena, poco mancò che lo yacht saltasse in aria, per l’imprudenza del Capitano, che non aveva segnalato la sua entrata in porto.
Scrive Alinari: “Un semaforo, presso il quale passavamo sull’imbrunire, sparò contro noi due colpi di cannone, fortunatamente a polvere e ce ne avrebbe inviato un altro a palla, se il capitano, accortosi finalmente della dimenticanza, non avesse sollecitamente risposto ai segnali e fermato lo Yacht”.
Lo yacht, di origine francese, era stato ‘naturalizzato’ italiano soltanto da pochi giorni. L’unico libro per le segnalazioni esistente a bordo era scritto in francese e nessun membro dell’equipaggio, compreso il Capitano, conosceva quella lingua.
Dopo la brutta avventura, toccò ad Alinari e agli altri passeggeri che conoscevano il francese farne la traduzione, per evitare altri guai.
Fornito di lettere di presentazione del Ministro della Marina e del Ministro della Guerra, Vittorio Alinari si recò ad ‘ossequiare’ le autorità militari della Maddalena, ‘per intendersi con loro, circa le fotografie che sarebbe stato autorizzato ad eseguire nell’estuario’. Fu accompagnato quindi a Caprera da un sottufficiale.
Visitando la tomba dell’Eroe nazionale, venne informato che Donna Francesca Garibaldi desiderava essere fotografata sulla tomba del Duce dei Mille. Desiderio prontamente esaudito: Alinari la immortalò anche presso la tomba del figlio Manlio.
Anche la casa di Garibaldi, un masso granitico posto in vicinanza del mulino, suo luogo di riposo preferito, e il pittoresco spiazzo dove desiderava essere cremato, vennero fotografati.
“L’accoglienza di Donna Francesca – annota ancora Alinari – fu squisitamente cortese. Ebbi così modo di visitare tutta la casa di Garibaldi e in particolar modo la camera ove morì e le altre stanze, dove si conservano vari cimeli ed alcuni suoi intimi ricordi, ne Donna Francesca volle lasciarci partire senza prima averci regalato alcune ciocche di gerani, colte sulla tomba dell’Eroe”.
Lo yacht toccò quindi Capo Figari, il Golfo degli Aranci, e la Tavolata. Quest’isola venne fotografata da Alinari nei punti più suggestivi.
L’estuario della Maddalena, con le sue frastagliate coste, era molto pittoresco; il granito di cui era composto, in alcune parti, aveva assunto delle forme strane: Capo d’Orso aveva l’aspetto di un orso bianco.
La roccia granitica doveva essere di una consistenza straordinaria, se l’erosione di tanti secoli non ne aveva ancora alterato le forme.
Questo luogo colpì l’attenzione di Alinari, ma non potè fotografarlo. Inserì, nel suo resoconto di viaggio, uno schizzo del bizzarro paesaggio marino.
Lo disegnò Giorgio Alinari che, non avendo accompagnato il padre nell’escursione, si basò sulla sua descrizione, oltre che su un’incisione del La Marmora (il cui vademecum sulla Sardegna è citato spesso).
Anche per immortalare l’interno dei nuraghi, Vittorio Alinari non potè adoperare la macchina fotografica. Oltrepassata la stretta apertura dell’entrata, occupava uno spazio troppo grande.
Non fu possibile ‘piazzare’ il cavalletto: il nurago, nel suo punto centrale, era alto appena un metro e mezzo.
Purtroppo anche le pittoresche vedute, le riprese dell’estuario effettuate con la macchina fotografica, andarono quasi tutte perdute: ‘Sembra che in particolar modo interessassero la difesa del paese, e amore di patria me ne impose la distruzione’ – annota Vittorio Alinari, sconsolato.
Il viaggio di ritorno fu rocambolesco. Un tremendo ‘mal di mare’, provocato da una forte burrasca, colpì tutti i passeggeri dello yacht. Pur essendone immune, anche Vittorio Alinari fu contagiato dal ‘clima di bordo’. Ma non si scoraggiò…
L’anno dopo, tornò nell’isola. Stavolta si imbarcò a Civitavecchia, su un comodo ferry boat. Era attratto dagli splendidi paesaggi della Sardegna. Quei luoghi ricchi di storia, di cultura, di tradizioni singolari, erano rimasti impressi nella sua memoria. Fotografica.
VITTORIO ALINARI SCAMBIATO PER TOMBAROLO
Dopo il quasi cannoneggiamento dal ‘forte’ della Maddalena, un ennesimo ‘incidente eroicomico’ turbò il viaggio. Scesi nella lancia dello yacht, per recarsi alla capitaneria, i passeggeri furono ‘bloccati’.
L’episodio è raccontato da Vittorio Alinari con sottile ironia: “Il Capitano del porto, assicuratesi della presenza fra i gitanti di un certo Comm. Alinari, m’invita a seguirlo nel suo ufficio. Egli chiude la porta alle mie spalle, chiude anche le finestre, sicché debbo ritenere che l’affare si faccia grave, grave assai, e che non debba tardar troppo a lasciare l’ufficio della capitaneria, a essere strappato dal troppo comodo alloggio che offre lo Yacht, per cambiarlo con quello certo meno apprezzabile che può offrire la prigione mandamentale di una piccola Sottoprefettura Sarda. Infatti dopo molte tergiversazioni, vengo a sapere che sono incolpato di contrabbando: e che contrabbando!
Dal Ministero dell’Interno è giunto alla Prefettura locale l’ordine di perquisire lo Yacht, che, sotto le mentite apparenze di turismo e di fotografia, tenta un contrabbando di parecchi milioni in oggetti di belle arti. Risum teneatis!
Ci è facile dimostrare che non abbiamo contrabbando, più difficile provare che non lo tentiamo; ad ogni buon fine, il cortese Comandante, anche per mettere in salvo la sua responsabilità, ci accompagna per ogni dove, assiste alle nostre operazioni fotografiche, e anche alla modesta colazione, presa in una ancor ben più modesta locanda, e ci riaccompagna a bordo, lavandosi le mani come Ponzio Pilato!”.
LE TONNARE DELL’ASINARA: “BOLGE” DANTESCHE
Nel maggio del 1900, Vittorio Alinari bandì un concorso rivolto agli artisti italiani: dovevano illustrare la Divina Commedia. Naturalmente secondo i canoni innovativi del Novecento. Il bando fu pubblicato dal ‘Bullettino della Società Fotografica Italiana’. Terminata la Mostra-concorso, Alinari raccolse il materiale per realizzare l’opera ‘La Divina Commedia nuovamente Illustrata da artisti italiani’. Pubblicò la prima Cantica nel 1902, la seconda e la terza nel corso del 1903. Nel 1904 le fece rilegate in un volume unico. La predilezione per Dante era davvero forte e sentita. Emerge anche nel resoconto di viaggio ‘In Sardegna’. Vittorio Alinari cita l’Inferno parlando degli ex possedimenti sardi del conte Ugolino della Gerardesca, ma soprattutto nella descrizione della miniera di carbone del Sulcis e della ‘tonnara’ dell’Asinara. Alinari non volle perdere l’occasione di assistere alla mattanza: per vedere questa ‘interessante pesca’, rinunciò a visitare Sassari.
La scena della mattanza è descritta con patos dantesco: “Già i tonni sono stati introdotti nella così detta camera della morte, della quale vediamo chiudere la porta. Le grosse reti, inquadrate dai battelli dei pescatori, vengono lentamente alzate. Dopo circa un’ora di manovra, cominciamo a vedere i grossi pesci sguazzare alla superficie dell’acqua. I pescatori, levando in alto i roncigli, intonano una preghiera, meglio una nenia dall’intonazione tutta orientale. Il Keis, o capo della ciurma, da l’ordine, e tutti si precipitano con i lunghi raffi contro i pesci che si dibattono facendo spumeggiare le acque in breve arrossate dal loro sangue. I pescatori s’incitano a vicenda con alti gridi e larghi gesti; sembra di essere discesi, con Dante, nella bolgia infernale: ‘poi l’addentar con più di cento raffi “.
Le povere bestie, uncinate da due, tre, quattro raffi, vengono a fatica tratte a bordo, e han le viscere dilaniate come i peccatori della quinta bolgia’. La pesca, quel giorno, ‘non fu molto produttiva’: 275 tonni, alcuni dei quali abbastanza grossi, ed un pesce spada, la cui ‘arma’ venne regalata a Vittorio Alinari e ai suoi amici.
Per ricordo.
GLI ALINARI
La Fratelli Alinari, costituita a Firenze nel 1852, è l’azienda più antica del mondo operante nel campo della fotografia. Il suo immenso patrimonio iconografico è oggi fruibile in forma digitale. Immagini oggi on-line sul sito sul sito www.alinari.it.
Ripubblicati in volume i réportage d’inizio Novecento, quando ci volevano sedici ore per raggiungere Vieste da Foggia. L’intuizione turistica del sindaco Spina, il “padre”della riviera marina
Autorevoli studiosi come l’abate Saint-Non, Gregorovius, Bertaux, Beltramelli, Douglas, Ungaretti, Miller, Green, Brandi, con le loro interessanti impressioni da “grand tour”, hanno fatto scoprire al mondo degli intellettuali, ma anche al grande pubblico che amava conoscere il mondo attraverso i resoconti di viaggio, l’essenza più intima ed inedita del Gargano, un territorio suggestivo per i suoi splendidi paesaggi ed il suo innato misticismo.
Ma come si viaggiava agli inizi del Novecento sulle strade brecciate dell’impervio Promontorio del Gargano non ancora toccato dal turismo di massa?
Ce lo raccontano due famosi giornalisti del tempo, Francesco Dell’Erba (di origini viestane, redattore del «Giornale d’Italia» e corrispondente, da Napoli, del «Corriere della sera») ed Antonio Beltramelli.
I loro réportage sono stati ripubblicati da Mimmo Aliota, del Centro Studi Cimaglia, in Vieste nel primo Novecento, edito da Litostampa, con gli auspici della Società di Storia Patria per la Puglia.
Pagine che ci proiettano nel periodo in cui il tratto stradale Viesti-Foggia si copriva dopo ben sedici ore di disagiatissimo viaggio.
In particolare, Dell’Erba, ne Lo Sperone d’Italia del 1906, lamenta le condizioni della strada provinciale per Apricena, «bianca ed interminabile, piena di svolte difficilissime, di faticose salite e di discese precipitose».
Un viaggio veramente snervante, effettuato in diligenza, «grossa gabbia sgangherata», cigolante e stridente «come un’anima in pena». Il passeggero, soggetto ai rigori del freddo invernale o al caldo estivo, cui si aggiungeva il ronzare incessante e fastidioso di mosche pungenti, veniva sovente sbalzato violentemente all’interno della vettura. Finiva col «baciare il compagno di viaggio seduto di fronte».
Quando dirimpetto c’era una signora, il povero viaggiatore, per evitare questo “scabroso” contatto si sentiva obbligato a tenere le ginocchia strette al petto, e a soffrire -conclude dell’Erba – pene degne della Santa Inquisizione.
Ogni tanto i viaggiatori erano costretti a scendere e a fare larghi tratti a piedi, «o perché un uragano ha rotto un ponte o perché la strada è franata o perché è troppo ripida la salita».
L’arrivo a Vieste veniva salutato ogni volta come un grande evento, specie se a scendere dalla diligenza era un forestiero. Intorno a lui si intrecciavano le più ardite supposizioni, come se fosse un essere fantastico e favoloso, venuto misteriosamente chissà da quale paese lontano.
La testimonianza di Dell’Erba focalizza un problema oggi solo parzialmente risolto: il sottosviluppo dell’area, dovuto anche alle condizioni proibitive della viabilità: «È per la mancanza quasi assoluta di strade che il Gargano è rimasto da parecchi secoli indietro nei progressi della civiltà.
Esso è sconosciuto in gran parte agli abitanti della provincia stessa, quasi stranieri gli uni agli altri, conoscendosi male, ignorando i reciproci bisogni, non tendono mai ad un’azione comune e al raggiungimento di un fine unico».
Anche il Beltramelli, che nel 1907 al promontorio dedicò un frizzante réportage, espresse riflessioni analoghe: «Le diligenze del Gargano sono tutto ciò che di più antico, di più incomodo e di più indecente si possa immaginare.
Veicoli sconquassati, cigolanti, pericolanti, che sobbalzano quasi per acuta doglia ad ogni minimo ciottolino, che traballano su l’orlo di frequentissimi precipizi, compiacendosi, nella loro antica esperienza, dello spavento dei viaggiatori nuovi; che dondolano, ondeggiano, beccheggiano in guisa sconosciuta, procurando a qualche creatura di stomaco debole un perfetto mal di mare.
Queste sono le dolcezze a cui deve sottoporsi colui che abbia in animo di visitare una fra le più belle regioni d’Italia. Perché il Gargano è sì un luogo di incanti e di meraviglie, una delle più belle regioni d’Italia, ma è anche fra le regioni più dimenticate del nostro bel Regno».
Eppure qualcuno, nativo del luogo, già a quel tempo intuì che anche il paese meno raggiungibile del Promontorio (Viesti era denominata «La Speduta») avrebbe potuto avere un futuro economico diverso, se soltanto si fosse ovviato al problema.
A crederci e a far di tutto per concretizzare questo sogno fu un sindaco: Domenicantonio Spina. La viabilità fu il punto di forza della sua azione amministrativa: egli si batterà per il porto commerciale, per la ferrovia circumgarganica e per l’apertura della strada Viesti-Mattinata, molto più agevole di quella per Apricena.
Un personaggio davvero fuori dell’ordinario, questo retto ed intransigente amministratore della cosa pubblica, che smaschera anche “in alto loco” chi rema contro provvedimenti a suo dire “meritori”, opere pubbliche “inderogabili” per la modernizzazione di una cittadina di 9.000 abitanti come Vieste, ancora lontana dall’attivismo della belle époque giolittiana.
Questo sindaco non vuol assolutamente sentir parlare di interessi personali. Fa una cosa eccezionale, se consideriamo i molteplici incarichi degli amministratori comunali di oggi: per attendere degnamente ai suoi impegni pubblici, chiude la sua farmacia per ben dieci anni e mezzo, l’intero periodo del suo mandato amministrativo: dal 16 gennaio 1899 al 31 luglio 1910.
Le spese per le innovazioni della città le finanzierà con “coraggiose” imposte sul patrimonio e sul lusso: tasserà i cavalli da sella e da tiro, l’impiego dei domestici, i generi superflui.
Il sindaco darà un vero e proprio scossone all’apatia delle precedenti amministrazioni, sistemando le strade principali e dotando Vieste degli edifici e dei servizi pubblici essenziali: il municipio, la scuola, la pescheria, il mattatoio, il cimitero, le piazze e i viali.
E i sindaci che verranno dopo di lui saranno “costretti” loro malgrado ad adeguarsi, andando contro gli interessi dello stesso ceto sociale cui appartengono. A Domenicantonio Spina va il merito di aver aiutato Vieste a muovere i primi passi sui sentieri del turismo.
Seppe “volare alto”, guardando al futuro, oltre che al presente. Già dal 1899 egli trasformò una riva squallida, con un muro a protezione dell’abitato, in un bellissimo viale alberato, che in seguito farà illuminare con lampioni elettrici.
La Riviera Marina di Vieste diventerà la mitica “passeggiata” dei primi villeggianti d’élite, nelle calde serate della “dolce vita” del Gargano Nord.
Oggi, nei romantici sognatori di una Vieste diversa, è rimasto il ricordo delle belle signore in abito lungo che nelle sere d’estate sfilavano per il Corso Fazzini, come se fosse una passerella di moda. Era il tempo in cui il turismo non aveva ancora assunto l’aspetto omologante e caotico di oggi.
NEGLIANNI SESSANTA ENRICO MATTEI SCOPRÌ DALL’ALTO LA MERAVIGLIA DI PUGNOCHIUSO
In un mattino di sole dell’anno 1959, Enrico Mattei, mitico presidente dell’ENI, sorvolando con il suo aereo personale la costa viestana, rimase tanto affascinato dalla sua bellezza che indusse il pilota ad effettuare più di un passaggio. Quando giunse nei pressi di Pugnochiuso, Mattei esclamò:«Ma questo è il Paradiso!». Il suo Centro turistico sorse proprio qui, nei primi anni Sessanta, dando l’avvio al turismo garganico. E fu un evento rivoluzionario.
Dagli archivi dell’Istituto Luce due filmati della Settimana Incom sui lavoratori agricoli pugliesi tra gli anni Quaranta e Cinquanta. La dura fatica nei campi, ma non solo.
Lucien Febre, storico delle «Annales», dettava questi “anomali” consigli agli aspiranti ricercatori:
«Per fare storia volgete risolutamente la schiena al passato e, innanzi tutto, vivete. Mescolatevi alla vita, in tutta la sua varietà. Storici, siate geografi. Siate anche giuristi. E sociologi. E psicologi. Non accontentatevi di osservare oziosamente dalla riva quel che avviene sul mare in tempesta. Rimboccatevi le maniche e aiutate i marinai nella manovra.
È tutto? No. Bisogna che la storia non vi appaia più come una necropoli addormentata, dove soltanto ombre passano, prive d’ogni sostanza. Bisogna che penetriate nel vecchio palazzo silenzioso, e spalancando le finestre, richiamando la luce e il rumore, risvegliate la gelida vita della principessa addormentata…».
Di questo insegnamento facciamo subito tesoro. Utilizzando come “fonte” i brevi filmati della Settimana Incom. Sfuggendo alla stilizzazione dello stereotipo, essi riescono a restituirci, più di tanti “classici” libri di storia, l’impatto del reale, mostrandoci il “visibile” di una società, e il suo “invisibile”, il senso simbolico delle immagini.
Siamo verso la fine degli anni Quaranta/inizio anni Cinquanta. È il tempo delle occupazioni delle terre, delle rivendicazioni per la riforma agraria. Il tema della giustizia sociale è divenuto patrimonio talmente condiviso che anche i media del tempo fanno la loro parte.
L’Istituto Luce gira alcuni video sul tema. Il primo filmato, I braccianti pugliesi, datato 24/11/1948, dura soltanto un minuto e 14 secondi, fa parte del cinegiornale della Settimana Incom 00215; ambientato nella zona di Andria, di Corato, di Bitonto, è dedicato alle disumane condizioni di lavoro dei braccianti del Meridione. La Puglia, in particolare, presenta luoghi difficili da coltivare, che non assicurano affatto una vita dignitosa a chi si cimenta nell’arduo compito.
La macchina da presa zoomma su una vacca smagrita brucante la poca erba del pascolo, seguono immagini di contadini dissodanti il terreno con le zappe: uno si asciuga il sudore della fronte, un altro lavora i campi con un aratro trainato da un cavallo. Il commento dello speaker è asciutto: «Qui tutti gli anni sono anni di vacche magre. Non gleba, non zolle, ma crosta di terre e pietre e poche cipolle per il desinare».
I braccianti pugliesi svolgono un lavoro faticosamente manuale: «I solchi li fanno ancora con l’aratro a chiodo». Le loro condizioni di vita sono precarie. Dopo le dure giornate di lavoro sotto il sole, il vento e la pioggia, non possono neppure tornare a casa. Le loro abitazioni sono troppo lontane. I paesi troppo distanti.
La campagna pugliese non offre la comodità dell’insediamento sparso tipico di altre regioni d’Italia. I braccianti non hanno luoghi dignitosi ove dormire, ogni giorno i ripari dalle intemperie sono da tutti da inventare. Utilizzano i materiali che trovano in campagna per costruire improvvisati pagliari, simili a nuraghi sardi: «Con la pietra costruiscono le capanne per quando fa notte».
Costretti a spostarsi continuamente per raggiungere i campi da coltivare, i loro giorni di lavoro non bastano ad assicurare il minimo vitale. Sono giorni contati, pochi in confronto alla lunghezza dei giorni dell’anno. I braccianti pugliesi «lavorano in media 190 giorni all’anno, ma la famiglia bisogna sfamarla per 365 giorni all’anno!». Un lavoro soggetto all’alea della concorrenza, alla lotta tra poveri: ogni mattina vanno in piazza a cercare l’ingaggio. Una sfida quotidiana. I padroni la fanno da padrone: scelgono gli elementi più adatti alle loro esigenze. Una vita insopportabile, che suscita innati sentimenti di aggregazione, di lotta. Lo speaker parla di organizzazioni di base: «Già sono sorte le comunità dei braccianti, un primo spiraglio». E, in fondo, le loro sono rivendicazioni minime: «Vogliono non garanzia di lavoro, ma speranza! Spesso vale quanto il pane!».
Il filmato si chiude con la visione di una donna seduta sulla porta di casa. Accudisce, tenendolo sulle sue sode ginocchia, il suo bambino di pochi anni, speranza dell’avvenire. Contadini in bicicletta attraversano le vie del paese, con un significativo passaggio davanti alla sede della Comunità dei Braccianti. Una speranza che in quegli anni si identificò nella mitica figura del sindacalista Giuseppe Di Vittorio. La sua leadership animò fortemente le campagne pugliesi negli anni Cinquanta, dando speranza di riscatto ai braccianti.
Già nel 1951 si respira un clima diverso. Siamo alla vigilia della Riforma fondiaria del 1953.
La settimana Incom 00623, il 20/07/1951, presenta un filmato di un minuto e 23 secondi. L’aspetto inedito di vita contadina si intuisce già nell’accattivante titolo di colore: Domenica al mare coi braccianti pugliesi.
Le immagini ci visualizzano carretti trainati da asini che vanno verso il mare, due uomini che tagliano delle funi per costruire tende sui carri e riparare i bambini e le donne dal sole cocente. «Ai caldi infuocati dell’estate – spiega lo speaker con voce stentorea – anche i braccianti hanno diritto a qualche svago, e soprattutto al refrigerio. E allora cosa fanno? Quando viene la domenica, attaccano il traino e tutti a bordo!
I braccianti di Barletta e delle Puglie se ne vanno al mare, bagnanti per un giorno: non occorrono stabilimenti: dei carri fanno capanno, c’è pure il bar sulla spiaggia fornito di un ricco repertorio!». Ecco un gelataio preparare dei coni e consegnarli ad un uomo che tiene in braccio una bambina.
Lo speaker fa qualche battuta ironica sulle «camicie refrigeranti con circolazione d’aria indossate dai bagnanti, una moda che un giorno sarà copiata a Capri, al parcheggio per i rotabili, alle elegantissime che per l’occasione si vestono a festa», mentre le immagini inquadrano bellezze contadine intente a fare il bagno con indosso castigatissimi vestiti, ed i contadini accampati sulla spiaggia che si difendono dal sole con larghi cappelli di paglia.
Ma per un giorno, finalmente, anche i braccianti pugliesi sono giunti «al miraggio azzurro che brillava in mezzo ai campi. Vogliono condividere il refrigerio e la gioia con gli animali che hanno lavorato tutta la settimana con loro. Anche gli zoccoli dei muli attraversano il lido sassoso».
Cosa pensano gli abituali frequentatori della spiaggia di questi anomali bagnanti domenicali? Un dejà vu. Li chiamano «gli zingari del mare». Perché arrivano soltanto la domenica e si portano tutto da casa, persino l’acqua per cucinare. Mentre un cane nuota e i bambini giocano nell’acqua, le donne preparano un succulento pranzo, su un fuoco impovvisato sull’arenile.
E lo speaker del cinegiornale Luce chiude, con fare nostalgico: «Al sentore salino si mescola l’inconfondibile sapore dei cibi arrivati al punto di cottura. Ma che buona vecchia sapienza casalinga nel sapore negli odori di questa zuppa!».
Tutta la famiglia mangia con gusto, alla relativa frescura di tende improvvisate.
«E per chiudere, il melone!». È l’immancabile anguria, tenuta in fresco nelle azzurre acque marine, a completare l’inusuale pranzo sul lido.
E quest’anno quel mondo è finito sulle tavole dei palcoscenici
A fare tesoro della preziosa ricerca di senso suggerita da Lucien Febre sono stati Giovanni Rinaldi e Paola Sobrero, autori del libro Vissuto quotidiano, mito e storia dei braccianti del Basso Tavoliere.
Questa preziosa “ricerca sul campo” è stata rielaborata, per una più immediata fruizione collettiva, nella piéce Braccianti. La memoria che resta, in tournèe da quest’anno in vari teatri dell’Emilia Romagna fino al ritorno al «Mercadante» di Cerignola in Puglia, città fonte della ricerca.
Notazioni sociologiche, messe a punto storiche, trascrizioni musicali e ricerca antropologica si sono unificate per valorizzare la peculiare cultura espressa dalla civiltà contadina di questa città simbolo del Tavoliere, assurta a simbolo di una condizione esistenziale e del movimento sindacale grazie alla presenza del leader carismatico della CGL: Giuseppe di Vittorio.
Lo “Sperone d’Italia”, documentario turistico di dieci minuti visibile in rete, si rivela una fonte preziosa di informazioni sul recente passato: paesaggio e cultura materiale
Luciano De Feo, fondatore dell’Istituto Luce, nel lontano 1924 capì che le immagini in movimento potevano assolvere, come mai era accaduto prima, a fini educativi. Ma le riprese filmate sarebbero state determinanti per la comunicazione di massa di quegli anni. L’Istituto Luce assolse anche il compito di promoter turistico: fece conoscere agli Italiani, nei brevi documentari proiettati in tutte le piazze italiane o nell’intervallo dei film in visione nei cinema, delle zone sconosciute, fuori dagli itinerari soliti delle vacanze.
Abbiamo cercato nella banca dati del Luce postata sul web qualche documentario sui primordi del turismo sul Gargano. Una ricerca fruttuosa. On line è in visione Lo Sperone d’Italia, un bel promo realizzato nel 1943. Ci restituisce visivamente una dimensione inedita della Montagna del sole nella prima metà del Novecento, visualizzandoci i paesi, il paesaggio ancora “vergine”. Furono queste visioni “selvagge”, che attrassero artisti di livello internazionale come Alfredo Bortoluzzi e Manlio Guberti, quando vennero per la prima volta, negli anni Cinquanta, sul Gargano. Furono questi paesaggi naturalistici ed umani che li convinsero a ritornare, eleggendo Peschici a loro dimora.
Lo Sperone d’Italia è un breve documentario di 10 minuti e 40 secondi. Fu realizzato nel 1943 dal regista Mario Chiari, in bianco e nero. Le sequenze iniziali visualizzano una cartina dell’Italia, con focalizzazione sulla Puglia e zoommata sul Promontorio del Gargano. Lo speaker “apre” con voce stentorea: «La carta geografica fa nascere spesso il desiderio di conoscere nuove regioni. Nel caso del Gargano il gusto della scoperta può tentare largamente gli esploratori del proprio paese».
E il proverbiale Sperone d’Italia è sinonimo di… terra vergine, evocante suggestioni da paradiso terrestre. Un eden visualizzato in ampie vedute di secolari argentei uliveti e distese di esotici fichi d’india. Terra vergine che affonda le sue radici in un humus di fede medievale. «Appaiono le rovine di San Leonardo di Siponto risalenti al secolo XII, con le primitive antiche sculture. Era un’antica città, Siponto, oggi scomparsa». Le immagini scorrono sulle rovine della chiesa romanica di San Leonardo, sui particolari decorativi interni; sull’antico campanile a vela.
Ma le pendici del Gargano sono anche gradoni rocciosi, dalle forme caratteristiche, che si stagliano improvvisi dal piatto Tavoliere. Le inquadrature dall’alto riprendono mandrie di bovini e un cavalli al pascolo o diretti all'”abbeverata”. Ecco una panoramica di Monte Sant’Angelo, con gli scorci più caratteristici dell’abitato, i particolari decorativi dell’architettura di antichi palazzi.
PERCHÉ QUESTA SCELTA?
Monte Sant’Angelo è il centro più popoloso del Gargano. Sorge, strano a concepirsi, proprio sulla Montagna… sacra. È tipologicamente il più rappresentativo. «Il nostro viaggio – commenta lo speaker – non ci porterà sistematicamente di luogo in luogo, dovunque toni e lineamenti comuni si ritrovano come antiche conoscenze. Guardate la grazia di questi balconcini settecenteschi…».
Ma l’indizio sicuro della bellezza di una regione è la presenza dei monasteri «che chiamano da ogni parte a una sosta di riposo». Il tema Gargano sacro viene sviluppato con le vedute di tre storici conventi di San Matteo (San Marco in Lamis), San Francesco (Ischitella), il convento dei Cappuccini (Vico del Gargano). All’interno di un chiostro, la dimensione quotidiana del sacro: un frate legge mentre un giovane lo ascolta, un altro attinge l’acqua dal pozzo, un monaco anziano cammina, con un breviario fra le mani.
L’obiettivo ritorna sui vari paesaggi. Strano a dirsi: siamo ancora nella stessa regione, anzi no siamo in una minuscola subregione d’Italia. «Nei campi fra aria di mare ed aria di monte scaldati dal sole di Puglia, il rigoglio della vegetazione è stupendo – scandisce lo speaker – Dal fico d’India che vuole il sole più ardente a un vivaio di pini e di abeti… alla Foresta Umbra». Il Bosco Umbra è il più grande del Gargano. Le zone più folte giustificano il suo nome: l’ombra qui è davvero impenetrabile. «Una volta questo prepotente avventarsi di alberi si estendeva dall’altopiano alle rive del mare, perché quasi tutto il Gargano era ricoperto da una immensa foresta digradante».
Un bosco produttivo. Le vedute di Umbra si alternano ad immagini del lavoro umano: alcune donne attendono alla cura di piantine di abeti e di pini in una zona di rimboschimento; due grandi alberi vengono tagliati da un gruppo di boscaioli, nelle radure nel bosco fumano le carbonaie; i tronchi degli alberi tagliati vengono trasportati via, forse sulla ferrovia Decauville nella segheria di Mandrione; la visione di un piccolo casolare si alterna a quella di due guardie forestali a cavallo che attraversano il fitto bosco.
La macchina da presa segue una carovana di asinelli, che si avvia in campagna circondata da bambini vocianti. Una mandria di bovini è in marcia lungo la costa dell’Adriatico. È la volta di scorci panoramici sugli ampi agrumeti nelle fertili vallate nel Gargano. Le immagini inquadrano aranci, limoni, pere, olive, pesche, mele, fichi e fichi d’india, grappoli d’uva maturi.
«Ci eravamo scordati che il Gargano è un paese essenzialmente costiero – continua lo speaker – il Lago di Varano, comunicante con il mare, conferisce un inatteso aspetto a questa regione…».
La visuale lacustre e marina si stempera nell’immagine dei pescatori intenti a preparare le reti, con una zoommata sui pesci sguazzanti sott’acqua. Una diversa luminosità del mare, acqua di un azzurro profondo permeata di sole, segnala la presenza del mare aperto.
Appaiono barche e pescatori che stendono le reti sulla spiaggia. Lungo la costa, le reti a bilancia, formano «tanti appostamenti per i favolosi cefali dell’Adriatico. I pescatori non hanno bisogno di muoversi troppo per fare buona preda». Spunta il Trabucco di Monte Pucci: un pescatore osserva il fondale da un albero sporgente sulle reti a bilancia poste sulle scogliere.
Appare Peschici, erta sulla rupe. A 90 metri emerge il suo castello, precipitante a picco sul mare.
Lo speaker evoca ulteriori suggestioni: «I paesi della costa sono piantati in alto sopra la roccia, visti dal mare, hanno un’apparenza inaccessibile e pittoresca, come antichi castelli. Accanto ad ogni paese, fra le rocce, si aprono lidi dolcissimi. Dietro sono le pinete… Odori di mare e di resina si confondono nell’aria».
1943 UN ANNO TERRIBILE
Prima e dopo l’armistizio, Foggia e la Capitanata subivano i bombardamenti più terribili della loro storia.
Lo Sperone d’Italia fu girato nel 1943, mentre infuriava la II guerra mondiale. È singolare che l’Istituto Luce non rinunci a produrre dei “promo” in un periodo in cui era oltremodo occupato a documentare i danni bellici subiti da varie città italiane.
Nell’archivio sono presenti vari video a riguardo. Mancano quelli sulla Puglia. Eppure il 1943 fu l’anno terribilis in cui la Capitanata subì i bombardamenti più rovinosi della sua storia: i bombardieri alleati sferrarono una serie di furiosi attacchi contro gli aeroporti di Foggia, provocando la distruzione di numerosi velivoli tedeschi.
Ma ad essere colpita fu soprattutto la popolazione civile: a partire dal 28 maggio 1943, la città venne messa a ferro e fuoco dagli aerei angloamericani. Furono presi di mira non solo gli obiettivi militari, ma i luoghi di aggregazione della città, fra cui il centro storico e la villa comunale. Anche ad armistizio firmato. E fu un’ecatombe. Dalle stime ufficiali redatte nel 1957 dal sindaco Vittorio de Miro d’Ajeta, la popolazione di Foggia, dal maggio 1943 all’aprile 1945, passò infatti da 79.202 a 59.176 abitanti.
PS. Numeri notevolmente ridimensionati in un recente censimento della biblioteca “La Magna Capitana”, che è in ancora progress.
Un laboratorio didattico con Viviano Iazzetti realizzato all’Istituto Superiore “Mauro del Giudice” di Rodi Garganico
Nei manuali di storia, i lager nazionali non sono affatto menzionati. Pochi sanno che anche in Italia dal 1940 al 1943 vennero aperti numerosi campi di concentramento. È merito dei ricercatori di microstoria se riusciamo talvolta a penetrare la fitta cortina dell’oblio e della dimenticanza. Solo così alcuni momenti fondamentali della nostra storia recente affiorano. Ed è motivante simulare un percorso sulle memorie rimosse in un laboratorio didattico, per rianimarle nella loro attualità.
Viviano Iazzetti, paleografo dell’Archivio di Stato di Foggia, ha ripercorso così, fonti d’archivio alla mano, la vita vissuta dagli internati del campo di concentramento di Manfredonia. Evidenziando dettagli che, una quindicina di anni fa, pubblicò in un saggio su «La Capitanata», rivista della Biblioteca Provinciale di Foggia. La sua ricerca nacque quasi per caso: «Mi incuriosì – racconta – un fascicolo sul ‘campo di concentramento di Manfredonia’ presente nel fondo “Commissariato della P.S. di Manfredonia“. Avevo intenzione di approfondire la ricerca, ma la rivista doveva andare in stampa. Feci una cosa affrettata. Comunque, di documenti ne raccolsi diversi: dagli Atti che servirono a mettere su il campo di concentramento, fino agli elenchi ed alle schede degli internati, che ho trovato a Roma, all’Archivio Centrale dello Stato ed all’Archivio della Polizia. Feci delle statistiche, elaborando i dati relativi ai movimenti del campo. Riuscii persino a contattare qualcuno degli internati. Poi non ne feci più niente».
Il campo di concentramento di Manfredonia incominciò a funzionare il 16 giugno del 1940. Fu chiuso nel 1943. Tornò ad essere il macello comunale della città. È dismesso da qualche decennio: sulla Statale, entrando in Manfredonia da Siponto, sulla sinistra, si vede tuttora. «Non è cambiato niente, la struttura è quella».
Nel 1940 il macello comunale era nuovo di zecca, e piuttosto grande. Per adeguarlo a campo di concentramento, furono effettuati dei lavori, furono ricavati dei camerini, furono scavate le fogne, attrezzate le docce e le cucine; lo si recintò, perché dava quasi sulla strada.
È inquietante, nella piantina topografica del campo, la dicitura: “forno crematorio” che contrassegna uno dei vani. La mente corre subito ai famigerati lager nazisti. Ma Viviano Iazzetti smorza le facili deduzioni: «Forni crematori sono presenti in tutti i macelli comunali. I documenti da me rinvenuti in Archivio non autorizzano paragoni con i lager tedeschi e polacchi. Il campo di Manfredonia fu, più che altro, un campo di ‘internamento’: in tre anni vi passarono 519 persone; non raggiunse mai il limite massimo di capienza, che era di 300 unità.
Fu una cosa all’italiana. Un posto in cui la gente veniva sorvegliata, custodita, ma che non servì certo per ammazzare delle persone. Dai documenti ufficiali, sia dalle ispezioni sia dalla visita del Nunzio Apostolico di Napoli, pare che le cose a Manfredonia andassero bene. L’unica restrizione di rilievo era che la sera chiudevano i camerini. Li ‘lucchettavano‘, mettevano i lucchetti alle finestre ed alle porte. Per il resto non ho riscontrato anomalie. Ci fu qualche fuga: c’erano due gruppi di guardia (8 poliziotti ed 8 carabinieri), ma il campo era proprio sulla strada, la ferrovia distava soltanto 150 metri. C’erano le solite restrizioni sulla corrispondenza, che veniva letta e censurata.
Per gli internati di lingua tedesca, era il professor Aurelio Volpe a praticare la traduzione, e ci furono difficoltà quando egli morì. Invece le lettere degli slavi venivano inviate a una traduttrice, al campo di Fabriano: la posta veniva censurata lì. Essi non potevano leggere libri, se non su autorizzazione, ma noi sappiamo che glieli fornì, in una certa quantità, l’arcivescovo Cesarano. Anche i giornali erano filtrati. Per il resto era un campo piuttosto alla buona, tranquillo. Gli internati ebbero la possibilità di realizzare degli orticelli per coltivare le proprie cose; c’era anche un campo di bocce. Chi aveva qualche risparmio, poteva depositarlo in un libretto al portatore presso il locale Banco di Napoli. In genere, gli internati era sussidiati dallo Stato, ricevevano un contributo. Con quei soldi acquistavano degli alimenti che si cucinavano da soli, in genere tutti si adattavano. C’era un vivandiere solo per i benestanti. Era possibile una doccia ogni dieci giorni, a turno.
La pulizia del campo era affidata a loro stessi, il campo era autogestito dagli internati. Due medici di Manfredonia a pagamento prestavano servizio a mesi alterni, un cappellano diceva messa la domenica. Era vietato giocare a carte. Gli internati avevano delle limitazioni d’orario, ma potevano ricevere delle visite: quando arrivavano i parenti a Manfredonia potevano soggiornare in paese, con loro. Alcuni internati furono autorizzati a prestare la loro attività: ci fu chi fece il barbiere e chi l’infermiere. Quando venne il Nunzio Apostolico alcuni chiesero di poter lavorare. Braccianti e contadini furono trasferiti a Pisticci, dove c’era un campo agricolo. Un gruppo di muratori e imbianchini fu mandato a Fara Sabina. Il 1 luglio del 1940 giunsero nel campo di Manfredonia 31 ebrei tedeschi ma, per la maggior parte, furono trasferiti quasi subito, il 18 settembre, nel campo di Tossicia, vicino Teramo. A Manfredonia restarono soltanto cinque ebrei fino al febbraio del 1942, quando furono trasferiti a Campagna, in provincia di Salerno. Oltre agli ebrei tedeschi, ai comunisti, ai socialisti, ai sovversivi in genere e agli anarchici, di varia estrazione sociale e provenienti dalle regioni del centro Nord (in particolare dalla Toscana), gli internati più numerosi del campo di Manfredonia furono i cosiddetti ‘ex iugoslavi’, provenienti dall’ Istria e da Fiume. Questi slavofili, prelevati dai luoghi di origine, furono tenuti congelati qui, a Manfredonia, per evitare che commettessero attentati. Oppure che sobillassero la popolazione contro lo stato italiano. Gli slavi nutrivano forti sentimenti anti-italiani, essendo stati i loro territori annessi all’Italia».
ALLA RICERCA DI UN CAMPO IDONEO
In Italia, nella primavera del 1940, si cercarono dei luoghi ‘idonei’ a realizzare campi di concentramento. Anche in provincia di Foggia ci furono delle ispezioni. Si vagliò dove stabilire un secondo campo, oltre a quello già attivo delle Isole Tremiti. A Manfredonia furono individuate furono individuate due possibili ubicazioni: 1) Villa Rosa, in località Scaloria, dove c’era posto per 160 persone; 2) il Macello comunale di Manfredonia appena ultimato, che con opportune modifiche, poteva ospitare 300 persone. Fu anche ipotizzato l’utilizzo di un convento di Sannicandro Garganico, di proprietà comunale, che poteva contenere 150-180 internati.
Un’ulteriore inchiesta fu effettuata, per vedere dove si potessero collocare altre persone pericolose. Da un rapporto di polizia risultarono le seguenti disponibilità: 2 posti a Casalnuovo Monterotaro, 20 a Castelnuovo della Daunia, 3 a Celenza Valfortore, 4 a Pietra Montecorvino, 2 a Rocchetta Sant’Antonio, 5 a Roseto Valfortore, 4 a Volturara Appula, 5 a San Marco La Catola. La scelta definitiva cadde su Manfredonia, soprattutto perché la città era ben collegata, via mare, con Tremiti. Il Comune non voleva che il suo macello fosse utilizzato come campo di concentramento, ma l’Amministrazione dello Stato, d’autorità, impose la nuova destinazione d’uso, lasciando al Comune soltanto la possibilità di decidere l’entità dell’affitto.
I CAMPI DI CONCENTRAMENTO ITALIANI
Prima dell’entrata in guerra del 10 giugno 1940, il governo italiano emanò dei provvedimenti per preparare la popolazione alla guerra, tipo l’oscuramento oppure la stretta vigilanza, in appositi ‘campi di concentramento’ su tutte le persone ostili al regime. L’elenco ‘ufficiale’ del Ministero dell’Interno, consultato da Viviano Iazzetti, conta una quarantina di questi campi. Si trovavano tutti nell’Italia centro-meridionale: Salsomaggiore e Bagno a Ripoli, Civitella Chiana, Petriolo (in Toscana), Montechiarugolo (in prov. di Parma), Campagna, Urbisaglia, Tolentino, Lanciano, Pollenza, Ferramonti di Tarsia, Nereto, Lama dei Peligni, Agnone, Isola Gran Sasso, Solofra, Isernia, Notaresco, Casacalenda, Casoli, Tortoreto, Civitella del Tronto, Tostice, Vinchiaturo, Boiano, Ustica, Ventotene, Lipari, Ariano Irpino, Histonium (Vasto), Montalbano, Tollo e Ponza. In Puglia i campi furono 4: Alberobello, Gioia del Colle; le Isole Tremiti e Manfredonia.
Articolo pubblicato il 27 gennaio 2003 da capitanata.it e da varie testate, tra cui «Il Corriere del Golfo» (le foto dell’ex campo di concentramento sono state scattate dal fotografo del quindicinale di Manfredonia).
La cronaca di Silvio Petrucci del viaggio di Mussolini in Capitanata.
Silvio Petrucci, con il fratello Armando, fu un importante organizzatore del “consenso” al regime fascista, oltreché della promozione turistica del Gargano Nord. La sua villa di San Menaio, negli anni Trenta, fu ritrovo di feste e di comitive di giovani, nonché luogo di riunione per artisti e politici, amici provenienti da tutte le parti d’Italia.
Nel settembre 1934, il giornalista seguì Mussolini durante la visita di cinque giorni in Puglia. La cronaca del viaggio fu pubblicata nel volume celebrativo delle realizzazioni del Regime In Puglia con Mussolini, edito nel 1935.
Nel resoconto del Petrucci, Foggia, «cuore della Capitanata», il giorno della visita del Duce si presentò «avvolta in una bruciante vampata di entusiasmo». La città «colma di grano», che custodiva, nelle cosiddette fosse, piene di chicchi di oro, il prezioso prodotto della sua terra, gli preparò un’accoglienza di schietto significato rurale.Anche se la trasformazione agraria del Tavoliere era appena all’inizio, Foggia vantava «con fierezza» il primato della produzione granaria fra tutte le province italiane: «Il Fascismo ha qui mobilitato masse di contadini, agricoltori che sono dediti alla vita dei campi, perchè ha voluto salutare nel Duce soprattutto il condottiero di quella battaglia del grano, che in questa terra ha trovato schiere di veliti».
Secondo le stime di Silvio Petrucci, ben 150.000 persone, «dai più lontani paesi del Gargano e dell’Appennino, dagli estremi lembi della pianura», si riversarono nel capoluogo, durante la notte e per tutta la mattina, per accogliere Benito Mussolini. E qui il suo racconto giornalistico assume toni davvero epici: «Formidabili correnti umane percorsero il Tavoliere inondando i campi di grida gioiose e di una parola breve e folgorante “Duce!”». Tutta quella folla si schierò per le vie della città, «avvolta in uno sfolgorante alone tricolore, ad aspettare fremente sotto un implacabile sole». La gente, al colmo dell’entusiasmo, vedendolo apparire, esplose in un unico grido: «Duce! Duce! Duce!». Nel mezzo del piazzale della stazione, tutti i gagliardetti dei fasci giovanili della provincia «si levarono in alto, guizzando come fiamme al sole. Si innalzò un coro di canti, squilli, accompagnati da un tripudio di bandiere».
La città «avvolta in una bruciante vampata di entusiasmo». A destra: Mussolini visita il cantiere del Palazzo del Podestà.
Ed il Duce cosa fa? Dopo aver accolto il primo gioioso saluto di Foggia, monta su un’automobile per dirigersi fino al Palazzo del Governo. Qui un manipolo di Balilla «moschettieri», in servizio d’onore lungo lo scalone, immobile sull’attenti, presenta le armi con fierezza, mentre un “leggiadro sciame» di Piccole Italiane lancia uno squillante «A Noi!». A Mussolini viene offerto, a nome di tutta la Capitanata, una targa d’argento, sul cui piano è presente una visione dei campi del Tavoliere, dominata dalla figura di un seminatore. Il Duce nel suo esaltante cammino ricognitivo delle magnifiche e progressive realizzazioni fasciste, prosegue con la visita alle case rurali del villaggio “La Serpe” (l’odierno Borgo Mezzanone). Fa fermare la vettura davanti ad una casa, dove ad attenderlo c’è un folto, pittoresco, gruppo di uomini e donne del Gargano, nei loro sgargianti costumi tradizionali. Al suono caratteristico di fisarmoniche, tamburelli e nacchere, intonano canzoni campestri e intrecciano danze popolari. Qui una fanciulla di Monte S. Angelo avanza, porgendo al Duce una statuetta in alabastro dell’Arcangelo Michele, un’altra gli offre un fascio di spighe e poi tutte le altre offrono spighe ed anche dei fiori. Una fanciulla in costume avanza verso di lui. Gli porta il saluto del nonno che, da anni emigrato in America, in quel momento, aveva voluto fargli pervenire, da così lontano, «il pensiero devoto e grato dei pugliesi staccati dalla terra natale». Ma la commozione le tronca la parola: la fanciulla, prorompendo in singhiozzi, si inginocchia e bacia la mano del Capo.
Il corteo prosegue nella campagna, fermandosi a tre chilometri da Foggia, dove sorgeva l’Istituto Sperimentale d’Agraria, fondato nel 1925 dall’Ente dell’Acquedotto Pugliese. Il Duce visita i locali dell’azienda. E prosegue nella sua marcia trionfale. Presso la scuola rurale “Arnaldo Mussolini”, una schiera di bimbe, in divisa di Piccole Italiane, lo accoglie con uno squillante «A Noi!». La più piccola gli si avvicina e gli chiede una fotografia, Mussolini assicura che gliela avrebbe spedita, e prende immediata nota del suo nome e indirizzo. Al Duce viene quindi offerto un carro romagnolo, bianco, rosso e verde, con una coppia di buoi. Il corteo prosegue nella sua marcia trionfale nelle campagne foggiane: dopo un po’ raggiunge la località dove stava sorgendo una borgata rurale. Il grandioso progetto di bonifica prevedeva, per la trasformazione fondiaria del Tavoliere, la costruzione di quindici nuovi centri urbani e di diciotto borghi rurali. Il primo centro rurale, in avanzato corso di costruzione, intitolato al martire fascista Raffaele Laserpe, fu visitato quel giorno.
Quindi il Duce ritornò alla Stazione. Quando, alle 18.15 precise, apparve alla Folla e la salutò, questa si sollevò «in un grido ruggente: “Duce! Duce! Duce!”». A placare tutta questa esaltazione furono gli squilli delle trombe; il clamore si spense d’improvviso non appena Mussolini cominciò a parlare. Nella cronaca del Petrucci, dopo il discorso del Duce, «una luce raggiante riempì i volti di tutti e molti occhi brillarono di lacrime. Il clamore della luce si propagò su tutta la città e investì l’ampiezza solenne del Tavoliere, che sembrò scuotersi in ogni sua zolla. E il saluto fu festoso e trionfale, come il saluto che accolse l’ospite attesissimo al suo primo apparire sulla terra di Puglia, e al suo ingresso nelle città, al suo passaggio per i paesi e per le campagne».
Silvio Petrucci chiude la sua cronaca con un resoconto sulle realizzazioni del regime: dalla Marcia su Roma al 1936, in Puglia erano stati eseguiti o iniziati lavori pubblici per un ammontare di circa due miliardi e cento milioni. L’Acquedotto, da solo, aveva già assorbito oltre 555 milioni; e 557 milioni erano stati spesi per l’edilizia scolastica. A tale cifra andava aggiunta quella non precisata per sovvenzione nella costruzione di ferrovie, concessa dall’industria privata, nonché quella cospicua, ma non controllabile statisticamente, delle spese fatte dai Comuni e dalle Province per opere eseguite a loro completo carico.
Secondo il Petrucci, in Puglia, Mussolini era stato accolto trionfalmente da una popolazione «che viveva il fascismo in maniera attiva», perché il regime aveva affrontato i suoi numerosi problemi contemporaneamente, mediante un’azione rapida, metodica ed energica. Nel campo delle bonifiche la Capitanata vantava un primato incontestabile, con un’opera di grande importanza, igienica, economica e sociale: la trasformazione fondiaria del Tavoliere. L’opera, già all’inizio, aveva dato vita al primo villaggio rurale “La Serpe”. Nello stesso periodo era in pieno sviluppo la bonifica idraulica di Lesina, dove erano impegnati con un “esercito” di operai, moderni mezzi tecnici. Nel campo delle comunicazioni i servizi ferroviari erano stati perfezionati ed intensificati, con il vasto rinnovamento edilizio delle stazioni e degli edifici post-telegrafonici. Le linee marittime erano state migliorate: considerevoli i lavori portuali di Manfredonia.
Tra le opere di maggiore importanza, di cui il regime esaltava il compimento, figurava la ferrovia Garganica, inaugurata dal conte Costanzo Ciano. Invano attesa per mezzo secolo, la ferrovia era stata costruita per precisa volontà del Duce; essa preludeva ad un grande sviluppo soprattutto turistico ed economico. Se dalle ferrovie si passava poi alle strade, si notava lo stesso scopo di avvicinamento più diretto, quasi di affratellamento tra le varie regioni. Era stata riordinata la circoscrizione giudiziaria; il capoluogo e i vari comuni si erano impegnati in un profondo risanamento igienico e rinnovamento estetico; mai così “prosperoso” era stato l’impulso dato all’edilizia. Gli unici edifici pubblici costruiti in Puglia, prima del 1922, erano state alcune caserme. In quasi tutti i comuni ora erano sorti edifici scolastici; era stata portata l’energia elettrica; moltiplicate le palestre e i campi sportivi e accanto alle case del Fascio si elevavano le prime case economiche per il popolo; erano inoltre state create le prime istituzioni assistenziali.
Secondo il Petrucci, il Regime «aveva compiuto, tra queste popolazioni, una radicale trasformazione sociale, riuscendo a conquistare in pieno le masse, per lo più mancanti di una tradizione associativa e perciò più esposte agli abusi del “feudalesimo”padronale. Attraverso l’ordinamento corporativo, i contratti di lavoro e le provvidenze sociali, il fascismo aveva di colpo elevato i lavoratori della Capitanata allo stesso livello dei camerati delle province più progredite, di fronte ai quali in passato si erano trovati in condizioni d’umiliante inferiorità. Mussolini era un prodigioso seminatore che, di tanto in tanto, si muoveva da Roma, per recarsi in quei luoghi in cui aveva scagliato il seme con la mano, per ammirarne la prima fioritura o il novello frutto».
SILVIO PETRUCCI, UN GIORNALISTA D’ASSALTO Silvio Petrucci nacque a Sannicandro Garganico il 13 luglio 1894. Si laureò a Roma in giurisprudenza; svolse la professione di avvocato sino al 1924, anno in cui entrò nel giornalismo. Lavorò nella redazione romana de «Il Popolo d’Italia» fino al 1939, allorché fu nominato redattore capo de «Il Messaggero» fino al 25 luglio del 1948. Morì a Roma il 17 febbraio del 1971. Nel 1935 uscì il libro In Puglia con Mussolini, cronache delle giornate pugliesi di Mussolini nel settembre 1934. Pur vivendo a Roma, il Petrucci svolse il ruolo di organizzatore del consenso nella zona garganica. Lo scioglimento del PNF di due piccoli comuni garganici, Faeto e Lesina, fu commentato duramente da Silvio Petrucci in un articolo apparso su «Roma Fascista». Il fondo venne ripubblicato sul «Foglietto», giornale della Daunia, il 28 luglio del 1927 (n° 29). Esso si intitolava Beghe e beghisti. Lo riportiamo in alcuni passi: «Faeto e Lesina, dimenticati e minuscoli paesi della Capitanata, attraversano un periodo di improvvisa, antipatica notorietà. I due fasci sono stati soppressi per le insanabili e ingiustificabili beghe, che ne rendevano inutile l’esistenza. Provvedimento severissimo, ma salutare e ammonitore…. Il Segretario Federale di Foggia e il Segretario generale del P.N.F. hanno voluto evidentemente colpire la turbolenza beghista di pochi irriducibili, nostalgici del vecchio tempo e dei vecchi sistemi, che credono di poter rinnovare, ancora oggi, le lotte per il predominio personalistico sulle popolazioni…». Silvio Petrucci prospetta per i beghisti cronici, se continueranno, «la comoda, vicinissima villeggiatura delle isole Tremiti».
Nell’Archivio comunale (dismesso) di Peschici sono presenti alcuni documenti interessanti: una ventina di lettere che, fra il 1934 ed il 1936, furono inviate direttamente a Mussolini dagli abitanti del piccolo borgo garganico. Madri, sposi, vedove, anziani, giovani, disoccupati si rivolgevano direttamente al Duce per ottenere sussidi di vario genere, sgravio di tasse, richieste di danaro per comprare i mobili o la casa, richieste di pensioni di vecchiaia o di cure specialistiche, richieste di lavoro anche all’estero, come si evince da una lettera di 69 disoccupati che chiedono di partire come volontari per l’Africa Orientale.
Questa corrispondenza, come si può verificare dai vari timbri appostivi, arrivava al Ministero degli Interni, dove veniva smistata dalla Segreteria Particolare del Duce, catalogata in diverse sezioni (Assistenza, Finanze, Agricoltura, ecc.) ed inoltrata al Prefetto di Foggia, il quale trasmetteva al Podestà di Peschici gli esposti, per i possibili provvedimenti, con preghiera di farne diretta comunicazione agli interessati.
Dall’esame della grafia, che in alcune lettere si presenta simile, possiamo affermare con sicurezza che molti dei “supplicanti” erano analfabeti. Per farsi scrivere queste lettere, in cui riponevano le loro più vive e forse uniche speranze, si rivolgevano alle persone più istruite del paese, che arrotondavano i magri stipendi di impiegati facendo gli scrivani. Alcune missive, però, sono scritte dagli stessi mittenti e questo lo si deduce chiaramente dal fatto che, alla fine della lettera, essi si scusano dei possibili errori ortografici, dicendo che hanno potuto frequentare solo le prime classi della scuola elementare.
Tutte le lettere, in ogni caso, sono testimonianze preziose, utili per conoscere lo stato d’animo degli strati più umili di una popolazione che si trovava a vivere un periodo di acuta crisi economica. Abbiamo scelto le più significative. Le riportiamo così come sono state scritte, con gli “errori” d’italiano: anche il modo in cui si esprimevano i Peschiciani, il modo in cui la lingua veniva scritta, è certamente degno di nota.
Scrive un giovane ardito:
«A S.E. il Capo del Governo – Roma.
Il sottoscritto Lamargese Pietro, della classe 1910, fà a Vostra Eccellenza il seguente esposto. Sono Barbiere di professione, da ragazzo nel mio paese vidi per la prima volta una squadra di camicie nere, infervorato dall’entusiasmo di detta squadra feci domanda al mio Centurione, Turi Riccardo, per essere messo nelle file degli squadristi; avevo appena 12 anni e fui accettato per miracolo e quindi inquadrato nei ranghi delle C.N. di Peschici e per la mia età mi chiamavano la mascotta della squadra. Quando fu istituita l’opera nazionale Balilla indossai il fazzoletto azzurro, poi infilai i cordoni degli avanguardisti e nel 1928 passai alla Milizia. E sono Milite con vero entusiasmo.
La condizione della mia famiglia è molto disagiata; mio padre ha sette figli ed è già vecchio (anni 70) e non può sostenere la mia famiglia. Il 3 marzo U.S. scappai con una ragazza di nome Di Maria Maria. Avrei l’intenzione di sposarmi ma le condizioni della famiglia della mia congiunta è poverissima e non può disporre di mezzi per farci vivere in una casa pulita, igienica ed addobbata decentemente, nonché numerosa (11 persone). V.E. nel discorso della”Assemblea Quinquennale” del Regime ha detto che ogni cittadino Italiano deve avere un’abitazione propria ed igienica, su questa parola la mia speranza si fa più viva nel chiedere a V.E. un sussidio per beneficenza. Detto sussidio servirà per il necessario che ogni casa ha bisogno».
Sempre del 1934 è la lettera di Elia Biscotti, di anni diciannove:
«Son giovane fascista e da due anni mi trovo con una gamba ammalata, visitatomi diversi medici del paese e nessuno mi ha saputo dire la mia malattia. Son figlio di famiglia ed ho altri sei fratelli e mio padre povero non può mandarmi a farmi osservare da qualche specialista. Così io mi rivolgo a lei di dare disposizioni onde farmi osservare da qualche specialista di qualche ospedale e farmi curare perché sono giovane e non posso vivere così. Lei che desidera vedere la Gioventù FascistaItaliana forte e robusta mi aiuti così sarò utile alla nostra Patria (…). Son certo che mi aiuterà perche son Giovane Fascista ed è un peccato farmi perdere così»[2].
Il 22/11/1934 Rocco Verderame si rivolge al Duce per chiedere l’esonero dalle tasse:
«Sono padre di sette figli, cinque maschi e due femmine e per tirare la vita avanti chissà quanto lavoro mi toca di fare. Il mio mestiere è macellaio, ma in un piccolo paese non è sufficente per poter portare avanti una famiglia di nove persone e perché non ho capitale per poterlo esercitare, tanto che due dei miei figliuoli esercitano il mestiere a vendere aqua nel paese. Ora, se non posso vivere, posso io pagare le tasse che mi hanno gravato? Quindi mi rivolgo a sua Eccellenza di essere esendato da queste tasse, perché mi trovo proprio a non poterli pagare. I miei figli sono tutti iscritti al partito e perché non posso pagare la tessera me li hanno tutti cancellati. Il più grande tiene 14 anni è dovrebbe essere Avanguardista, il secondo anni 12, il terzo anni 10, il quarto anni 8 e il quinto anni 6. Tutti desiderano di appartenere nelle file del partito Fascista, ma per mancanza di mezzi, poveri figli stanno ritirato a casa loro”. Alla fine della lettera, il mittente chiede a Mussolini di disporre di non fargli pagare, per i suoi bambini, la tessera di iscrizione al Partito, e non solo per un anno, altrimenti si sarebbe trovato sempre nella stessa situazione[3].
Un ex combattente della Grande Guerra, Domenico Costantino, chiede anch’egli, il 20 agosto del 1935, di essere esentato dalle pesanti tasse a suo carico. Egli è un pescatore, soggetto alle stagioni incostanti proprie di questo mestiere:
«S’immagina sua Eccellenza – lamenta il supplicante – quale tenore di vita che percorro, con moglie e figlio, con l’aggiunto di tanti pagamenti adempiere, e cioè tassa esercizio, tassa famiglia, ed altre, con l’aggiunto di questa ultima che alligo alla presente, che sua Eccellenza potrà esaminare. Umanamente non posso adempiere tali impegni, e non essendo avvezzo a fare delle cattive figure, ricorro a S.E. per alienarmi da tanti pagamenti»[4].
Una donna, abbandonata dal marito, così scrive al Duce in data 1/10/34:
«Rivolgo vivissima domanta per avere un sussidio date che mi trova povera, ed abbandonata dai miei tutti, motivo che da tempo mio marito in america senza sapere notizie, date la mia necessità del proprio pane, sono state costretta a quello che non doveva trasciendere e mi trova con una bambina avanda e percepiscie, mensilmente lire 20 dall’opera della Maternità ed Infanzia che non bastano a niente (…). Mi rivolgo a V.E. di prendere accura la mia posizione, di avere possibilmente un sussidio straordinario perché non so propia come fare. Con molta preghiera la risposta possibilmente averla direttamente»[5].
La vedova di un milite, in data17 febbraio 1936, scrive:
«Duce.
Sono una povera donna priva di ogni mezzo con a carico tre figli di piccola età. Ho lavorato per otto anni di vedovanza per procurare un onesto pane ai tre figli e inoculare loro i santi principi del Fascismo, per cui il padre ha vissuto ore di passione. Ora sento le forze diminuire, il lavoro manca e soffro coi miei figli la fame. In nome dei miei figli ed in memoria di mio marito mi rivolgo alla pietà dell’E.V. che non è mai stato sordo alla voce dei poveri e non per me, ma per essi io chiedo un aiuto. Iddio benedica l’E.V.» [6].
Ed un’altra donna, poverissima e debilitata dai numerosissimi parti:
«Sono una madre che o data alla luce N. 15 figli più volte gemelli, però me necampano N.5 figli tutti mali ridotta per il motivo che non anno sostenimento.Come questo qui presente Certificato Medico condotto di questo comune, la mia saluta non permetta annessun lavore per la troppa debolezza e nel momento stesso mi trova di bel nuovo inginta, e per la mi granda debolezza sto più giorni alletto che non ne posso regermi in piede, perciò mi son permesso domandare a V.E. onde potrà risolvere la mia posiziona».
Il certificato del dottor Giovanni Del Viscio, medico condotto di Peschici, attesta che la signora Triggiani Maria, autrice della lettera, «è malata di anemia, con deperimento organico, che la rendono inidonea a qualsiasi lavoro muliebre». Tale stato, secondo il medico, è dovuto ai molti parti e ai consecutivi allattamenti,«senza che le sue misere condizioni finanziarie le permettano una dieta corroborante e le necessarie cure medicamentose»[7].
La signora Triggiani, non avendo ricevuto risposta, in data 14/6/36, riscrive a Mussolini. Riespone la supplica e prega di accoglierla, anche se è in carta libera:
«L’altra volta – fa notare – la domanta la feci in carta da bollo di lire quattro soldi che non ce li aveva, o dovuto ricorrere ai miei amici, onde con la speranza che avesse qualche cosa di sussidio»[8].
Nel 1921 Peschici è il più piccolo centro del Gargano.
Non si sono reperiti documenti scritti sulla reale consistenza dei partiti socialista e comunista. Fonti orali ne hanno confermato tuttavia la presenza tre i numerosi braccianti.
L’eco di una “certa presenza sovversiva” è ravvisabile in una corrispondenza del «Il Foglietto» del 1923/10/23, dal significativo titolo: Peschici fuori legge:
«Proprio così. Peschici è fuori legge! Un’intera seduta è stata occupata da questo consiglio comunale per oppugnare una esatta e chiara interpretazione di legge e sopraffarla con un sofistico ragionamento che definiamo senz’altro un colossale monumento di malafede.
In una votazione definitiva per la nomina di un assessore, la minoranza chiedeva che a parità di voti riportati nella seconda votazione libera, entrasse in ballottaggio l’anziano di età. Norma espressa e chiara nell’ultimo comma dell’articolo 56 Regolamento per l’esecuzione della Legge Comunale e provinciale. Ma tale interpretazione veniva contraddetta e sopraffatta dalla maggioranza che scartava l’anzianità d’età ritenendo invece… (nientemeno!!!) l’anzianità per voti riportati nella elezione a … consiglieri comunali.
Tutto ciò si perpetra da amministratori che hanno portato il paese sull’orlo del fallimento, sovvertendo l’ordine ed il principio di disciplina, proteggendo le peggiori camarille, istigando allo sperpero nelle forme più volgari ed indecenti.Per mero capriccio il paese è da due anni senza una farmacia».
Si nega la rinnovazione d’un contratto esattoriale al 30% per dare il 4 dopo due aste deserte, gravando d’inutili spese i contribuenti; si permette la distruzione dei boschi comunali sotto gli occhi di tutti, nonostante le autorità locali fossero avvertite da una clamorosa interpellanza consigliare. Così si vive in questo lembo di terra soviettista mentre la popolazione attende l’opera della Nemesi purificatrice. Alle cure sapienti ed alla provata energia del Comm. Mormino denunziamo la illegale condizione del Comune di Peschici, quale ci viene descritta dal nostro corrispondente»[9].
A Peschici l’avvento del Fascismo fu indolore, nel senso che non si registrarono le violenze verificatesi nei paesi più popolosi del Gargano. Come in tutti i centri della provincia, al PNF aderì tutta la vecchia classe dirigente, sempre disponibile a compromessi, pur di non farsi estromettere dal gioco del potere. Dalle testimonianze orali non risulta che gli antifascisti fossero attivi per riorganizzare i partiti cui tenevano sempre fede. Se qualche contatto mantenevano fra loro lo facevano solo in occasione di lavoro, approfittando del fatto che non erano controllati da nessuno. Avevano la tessera del partito, perché altrimenti non avrebbero potuto lavorare.
Il numeroso bracciantato pagò duramente l’avvento del nuovo regime.
Sui registri delle delibere delle Giunte comunali e podestarili conservati in Archivio comunale, che vanno dal 1920 al 1940, vi sono gli elenchi dei poveri agli effetti dell’assistenza sanitaria gratuita. Nel 1920 gli iscritti risultavano 49, nel 1926 salirono a 67, nel 1929 il numero raggiunse quota 99. Nel 1930 gli iscritti furono ancora più numerosi: 104; nel 1931 il numero restò invariato, scese a 79 nel 1936, risalì a 96 nel 1937, ancora a 108 nel 1938; scese a 106 iscritti del 1939. Considerando il fatto che agli elenchi erano segnati solo i capifamiglia nullatenenti, che erano i più prolifici e costituivano l’elemento bracciantile, possiamo senz’altro affermare che, specie negli anni centrali del fascismo, la grande maggioranza degli abitanti del paese versava in condizioni poverissime.
La percentuale dei disoccupati agricoli aumentò in modo impressionante nel corso degli anni Trenta. Una vera e propria protesta di massa si verificò nell’estate del 1931. Vennero effettuati parecchi arresti, per manifestazione e grida sediziose. La maggioranza fu rilasciata dopo pochi giorni. Ben sei persone (Del Duca Matteo, Corso Fabrizio, Frantuma Matteo, Giocondo Rocco, Maggiano Maria Teresa, Santoro Matteo) vennero dimesse in libertà provvisoria dalle carceri di Foggia soltanto il 12 gennaio 1932, con ingiunzione di presentarsi al Commissario Prefettizio Colonnello Principe [10].
Non avendo rinvenuto il verbale dell’arresto, siamo ricorsi alle testimonianze orali. Secondo queste fonti, parecchie persone, in maggioranza donne, si rivoltarono contro il Commissario Prefettizio che aveva ordinato di convogliare in tubi chiusi l’acqua dei canali di scolo dei tetti delle case. In un periodo in cui l’acqua piovana era vitale per le famiglie, serviva avere una certa riserva d’acqua permanente. Sotto i canali venivano posti tutti i recipienti utili per le provviste domestiche, e il provvedimento di far convogliare l’acqua in tubi chiusi, anche se giustificato da motivi di ordine igienico (l’acqua bagnava i muri, e in caso di gelo provocava i ghiaccioli), provocò una veemente reazione. Ci fu “uno sciopero generale”, durante il quale tutti i dimostranti si recarono sotto la sede municipale, gridando:«Abbasso, abbasso il Commissario!».
A proposito dei fatti del 1931, abbiamo rintracciato una lettera dattiloscritta, inviata al Commissario Prefettizio in data 26/11/1931 da Rocco Tavaglione, un barbiere trasferitosi, da qualche tempo, da Peschici ad Adorno Micca (Vercelli). Doveva rivestire una certa importanza, se il Commissario prefettizio la trasmise, in via riservata, al Prefetto e si sentì in dovere di inviare una lettera di ringraziamento al mittente. Riportiamo, quasi integralmente questo documento, perché emblematico della situazione politica del paese:
«Pregiatissimo signor Commissario.
Mi giungono notizie da Peschici di malumori, avvenuti in seguito ai suoi comandamenti sagaci e giusti, come vuole Lui il Duce, e si sono ribellati i buoni popolani… Veda che grande errore! Si dovevano ribellare ai Martucci, Collotorto, Rauzino, Diana e quanti furono sul Municipio: sono questi i responsabili di tanta anarchia.
Volevo scrivere al Duce delle cose del mio povero paese disgraziato (…). Quell’ondata di balda giovinezza che conquistò Roma e l’Italia nel 1922 non arrivò neanche il più piccolo soffio a Peschici, regna tuttora il feudalesimo e l’infausto liberalismo. Come dovevano saperlo i poveri ed ingenui Peschiciani, se i responsabili non facevano altro che i bellimbusti? Il Fascio a Peschici non è altro che un circolo da gioco, ma se domanda a quelli che ci sono dentro:“che cos’è il Fascio?” non lo sanno e non è colpa loro, bensì di quelli che occupavano cariche di responsabilità.
Il sottoscritto come tutti i Peschiciani maledivano al Duce e al Fascismo, perché l’ignorava, ma ora che vivo quassù in Piemonte, e che constato con mia meraviglia tanto rinnovamento e tanta vita che giorno per giorno si perfeziona, perché governati con disciplina veramente ferrea e militare, la Cartadel lavoro, L’Assistenza Maternità e Infanzia sono tanti fatti compiuti, dovunque, in ogni ramo della vita c’è attività. E a Peschici? La pigrizia! Scellerati! Degni del confino e dell’obbrobrio popolare. Eppure (a) Peschici, data la sua piccola popolazione, la miseria non dovrebbe esistere, perché possiede tante cose, la pesca, l’agricoltura; se i sindacati facessero applicare la Cartadel Lavoro come la forgiò il Duce, regnerebbe sovrana l’armonia e il benessere e allora come succede in tutto il mondo anche i bravi Peschiciani griderebbero osanna la Ducee al fascismo che salvò l’Italia dalla corsa fatale allo sfacelo.
(…) Vedo che il suo compito è arduo, ma se vuole sentire un mio mediocre e sincero consiglio, governi con fermezza e senza egoismo, e schivi i luoghi infetti da vecchiume, e ce lo addito pure, la Farmacia, è questa il focolare di tutti gli errori passati, dato che il proprietario è Lui il primo nemico del buon popolo che suda e lavora, se vuole persuadersi di quello che dico domandi agli operai che lavorano alle paludi malariche senza assistenza, e senza nessuna norma umanitaria e i poveri operai lavorano dal sorgere del sole al tramonto e quando sono colpiti dalla malaria sono lasciati al destino senza paga e senza niente. Se vuole avere un buon consiglio» – continua il latore della lettera – «c’è proprio alle sue dipendenze un bravo e leale uomo, che risponde al nome di Fasanella Domenico, Segretario, ebbene costui è l’unico che sia immondo da compromessi, perché compie il suo ufficio con lealtà e severità».
A questo punto, la missiva denuncia la totale inosservanza delle norme sull’assistenza invernale, da parte dei datori di lavoro: «Vedrà lei signor Commissario che viso le faranno quei proprietari peschiciani quando saranno invitati da Lei a provvedere ai disoccupati. Inviterà anche un signore che chiamasi Della Torre Achille: è questo il creso di Peschici e Vieste, che non pensa ad altro che spassarsela su e giù con una fiammante Fiat. Domandate pure se la causa di tanto malumore popolare…».
L’autore della lettera, infine, mette in guardia il Commissario: «Bada ai voltafaccia e agli ex imboscati che sono tutti in generale a Peschici, esclusi pochi; ci sono tanti oscuri eroi contadini, ma i signori furono tutti imboscati»[11].
Le autorità locali si barcamenavano tra varie difficoltà: la questione della disoccupazione si imponeva come la più importante e la più urgente cui dovevano far fronte.
Le esigue somme, disponibili in bilancio sotto questa voce, erano usate per alleviare lo stato di indigenza, miseria e fame di chi non lavorava.
Nel 1930 il Podestà, in vista «della maggiore e preoccupante disoccupazione invernale dei braccianti, causata in massima parte dalla totale distruzione del raccolto oleario», delibera «alcuni lavori di sistemazione e miglioramento di talune vie e piazze principali» del nuovo abitato di Peschici. Riguardavano, in particolar modo, semplice livellamento di dette strade e piazze con relativo taglio di roccia più o meno profondo e susseguente imbrecciamento: 1) piazza 4 Novembre; 2) Piazza Rimembranza; 3) Corso Umberto; Via Malacera[12]. Sempre nel 1930 si assegnarono altri fondi per la sistemazione della strada Peschici-Cimitero-Madonna di Loreto.
Nel 1932 il P.N.F. aveva istituito un Ufficio di Collocamento gratuito per i disoccupati del Comune. Dopo accordi, presi con i datori di lavoro agricoli, era riuscito a far assumere una sessantina di braccianti. Ma ne restavano disoccupati altri 150, tutti capi di famiglia. A questo proposito, il Commissario Prencipe chiese al Prefetto «di voler ottenere al Comune da parte del Comando di Centuria Milizia forestale, l’autorizzazione ad eseguire dei lavori idonei a migliorare la praticabilità dei tratturi dei boschi, assai rovinati dalle alluvioni» [13].
Nel 1935, altro anno di profonda crisi occupazionale, si deliberò di sistemare via Malacera, molto frequentata perché conduceva alla spiaggia e al porto ed era in condizioni di vera impraticabilità, essendo ingombra di enormi massi di roccia e di ruderi delle vecchie mura.
L’inadempimento degli obblighi assicurativi da parte dei datori di lavoro privati trova conferma in un altro documento. Il 13/08/1936 l’Istituto Nazionale Fascista per le Assicurazioni contro gli infortuni sul lavoro lamenta, in una lettera al Podestà Campanozzi, «la resistenza che ancora in questo Comune si verifica da parte dei datori di lavoro», invitandolo ad intensificare l’azione di vigilanza su di essi, «visto che l’assicurazione è obbligatoria anche per gli operai avventizi, assunti per breve tempo»[14].
Le somme disponibili per i premi di nuzialità e natalità venivano utilizzate più a scopi assistenziali che per l’intensificazione della campagna demografica disposta dal governo. Significativa, a questo riguardo, è la delibera dell’8/12/1935 [15]. In data 24/12/1935 si era stabilito di concedere quattro premi di nuzialità di lire 500 ciascuno, e vari premi di natalità. Le domande furono molto numerose e per evitare malumori e risentimenti il Podestà, sentito il parere dell’OMNI, deliberò di ridurre la misura dei premi, al fine di beneficare il maggior numero possibile di persone, «tenuto presente che tutti versavano nelle condizioni più miserevoli e la maggioranza era sprovvista delle più elementari necessità della vita». Altro motivo di questa decisione fu: «il delicato momento politico che si attraversava e la cruda stagione invernale, portatrice di disoccupazione»[16].
Anche per l’anno 1936, visti gli ottimi risultati dell’anno precedente, il Podestà adottò lo stesso criterio, ma a questo punto il Prefetto Vendittelli intervenne per salvaguardare le direttive governative. Approvò la delibera con la seguente modifica: i premi di nuzialità non dovevano essere inferiori a lire 250 (Il Comune aveva deliberato 100) e dovevano essere concessi agli sposi fino ai 32 anni d’età (Il Comune aveva fissato il limite a 30 anni)[17].
Il Podestà, a questo punto, poté ripartire solo le somme per la natalità. Le divise il più possibile, cercando di accontentare tutti, «visto che anche l’esiguo premio di lire venti, consegnato proprio alla vigilia di Natale, arrecava un certo sollievo ed allietava la mensa natalizia delle poverissime famiglie di pescatori e braccianti»[18].
I rimedi, purtroppo, non erano che piccoli palliativi e non risolvevano il problema di fondo.
Agli inizi del secolo l’emigrazione aveva incominciato a portare via i primi Peschiciani disoccupati, ma il fenomeno non assunse l’aspetto di vero e proprio esodo, come nei centri vicini: Rodi, Vieste e Vico.
Al censimento del 1911 gli assenti erano stati 23, di cui solo 8 all’estero. Tra il 1921 ed il 1931 le partenze aumentarono a 92, di cui 25 all’estero [19].
In Archivio comunale, nel fascicolo Esteri del 1931, abbiamo ritrovato numerosi nulla-osta per gli Stati Uniti, per il Sudamerica e addirittura per la Bulgaria. Nonostante il blocco dell’emigrazione transoceanica, i permessi continuavano ad essere concessi largamente. Questi erano limitati ad un anno, ma gli emigrati non tornarono, perché da alcuni documenti del 1936 i giovani in età di leva risultano “disertori”.
Non è stato possibile verificare se, dopo le severe leggi antimigratorie del fascismo, l’esodo verso le Americhe si sia definitivamente bloccato. Molti braccianti e pescatori disoccupati, come testimonia questa lettera inviata al Duce in data 29/10/1935, facevano domanda di partire per l’Etiopia:
«A S.E. Benito Mussolini
I sotto elencati cittadini di Peschici, con rispettosa divozione, rapportano a V.E. quanto segue:
Essi appartengono tutti alla categoria dei braccianti poveri, che vivono col solo lavoro delle proprie braccia, aventi quasi tutti famiglia più o meno numerosa ed a proprio carico. I lavori nei quali essi impiegano più comunemente l’opera loro quotidiana sono quelli per la raccolta delle olive, che in questo comune è il prodotto che offre il maggior lavoro dall’autunno alla primavera; ma quest’anno tale rendita, poiché il prodotto è biennale, è scarsa.
Gran parte dei reclamanti si dedica qua e là pure alla pesca littoranea del pesce mugino, con reti a strascico o fisse, ma da due anni, specie per la chiusura delle foci del Varano tale pesca, che era in certo qual modo rimunerativa, è divenuta quasi del tutto passiva: nonché alla pesca delle sardelle, la quale, se ancora potrebbe dare mediocri rimunerazioni, è disturbata e seriamente ostacolata da enorme quantità di delfini, stabilitasi in questo settore del nostro Adriatico, ove tale pesca si esegue, che a fitti battaglioni assalgono le reti quando in esse si trova imprigionato la massa del pesce e strappano avidamente coi loro morsi reti e pesce, cagionando danni rilevanti e tali, da rinunziare alla stessa pesca. Questo anno poi non è consentito neppure il raccattare taluni prodotti dei nostri boschi, come diverse qualità di funghi, di lumache ed altri frutti boscaioli e di prati, poiché la persistente siccita ci nega anche tali risorse, per quanto di misero ricavo (…). In così eccezionale stato di fatto, in cui si trovano i derelitti supplicanti, invocano dall’E.V. un qualche provvedimento, che possa tornare di sollievo a noi poveri onesti braccianti, procurando un mezzo onde offrire lavoro con modeste ed oneste retribuzioni, che ci renda più calmi e meno preoccupati nella rude prospettiva di veder mancare il pane alle nostre innocenti prole».
Alla fine della lettera si faceva notare, sempre da parte dei sessantanove supplicanti, che molti di essi avevano presentato domanda come volontari per l’Africa Orientale[20].
Nel 1936 il podestà Campanozzi, invitato dal P.N.F. di Foggia ad inviare i nominativi dei militari combattenti in Etiopia, mandò un elenco di sedici persone. Altri documenti reperiti in Archivio Comunale testimoniano che nel 1936 partirono per L’Africa Orientale Italiana cinque operai, altri sei partirono nel 1937.
Rispondendo a una nota dell’ISTAT del 3I/I/37, il podestà Campanozzi riferì che nel comune di Peschici non v’erano stati deceduti in A.O.I. e in Libia dal 1° gennaio 1935 in poi né tra i militari né tra gli operai ed i civili in genere [21]. Alcuni, secondo le testimonianze orali da noi raccolte, non tornarono e restarono lì per sempre, abbandonando la famiglia.
Durante il Ventennio fascista, precisamente nel 1931, in occasione della festa del Carnevale, venne inviata a tutti i Podestà della Capitanata, da parte della Regia Questura di Foggia, una circolare che ribadiva l’assoluto divieto ai cittadini di “comparire mascherati in luoghi pubblici”; si potevano usare maschere soltanto nei teatri e in altri luoghi strettamente privati. Questa ordinanza, nel Gargano nord, non veniva rispettata. I Peschiciani, anche in tempi magri come quelli degli anni Trenta, festeggiavano il Carnevale con grande entusiasmo: gli uomini si travestivano da donna e le donne da uomo ed andavano girando per il paese, fermandosi in tutte le case dove c’erano allegre feste da ballo.
Sui fili, stesi da un alto all’altro degli stretti vicoli del borgo, venivano appesi numerosi pupazzi di paglia. Ogni quartiere preparava il suo “Carnevale”, si usava paglia, carta e abiti, i più malandati che ci fossero in circolazione; la mattina di martedì, ultimo giorno di Carnevale, tutti i fantocci, vestiti di tutto punto, con in braccio l’immancabile bottiglione di vino, venivano appesi ai crocevia, sostenuti da robuste corde. Dopo aver mangiato e bevuto, ci si mascherava e si girava in gruppo per il paese; non mancava chi si improvvisava attore e si esibiva in scenette umoristiche. Fra le drammatizzazioni, degna di nota era “l’operazione”, un vero e proprio intervento chirurgico cui veniva sottoposto Carnevale. Si preparava un fantoccio nella cui pancia si metteva di tutto, scarpe vecchie, cipolle, corde, patate, ecc., lo si caricava su di un asino al cui seguito c’era un chirurgo, accompagnato da un corteo di gente mascherata da madre, moglie, figli e parenti di Carnevale. Il dottore tagliava la pancia del pupazzo e ne estraeva stracci, indumenti, verdure: solo alla fine estraeva il gigantesco maccherone che aveva provocato l’indigestione di Carnevale. Durante l’operazione, la gente che si ammassava intorno cantava lo stornello “Il piede del porco”. L’operazione veniva ripetuta in diverse strade del paese, accompagnata da urla, frastuono e risate degli astanti. All’imbrunire, l’asino con il suo carico e tutto il seguito si dirigevano verso il Castello, dove il fantoccio di Carnevale veniva gettato in mare dalla Rupe antistante. I Carnevali appesi nei vicoli, invece, venivano bruciati. Le alte fiamme illuminavano la notte, segnando l’avvento della Quaresima.
Durante il Carnevale, fino agli anni Sessanta, nella cittadina garganica si usava rappresentare anche la “Zeza Zeza” un vero pezzo di antico teatro popolare di origine settecentesca, importato da Napoli.
La rivista napoletana delle tradizioni popolari, il “Giambattista Basile”, riporta la definizione della Zeza napoletana come «cantata vernacola… sul gusto delle atellane che successero alle feste Bacchiche, alle Dionisiache e, quindi, ai fescennini e alle satire. Trae argomento dagli amori di un Don Nicola, studente calabrese, con Vincinzella, figlia di Zeza e Pulcinella».
I fescennini sono l’esempio più arcaico di teatro nella cultura latina, caratterizzati da versi mordaci, pungenti, espressioni spinte e a doppio senso che dovevano suscitare ilarità in chi li ascoltava.
Nella Zeza di Peschici i personaggi erano quattro: Zeza (la madre), il Padre, Vincenzella (la figlia) e Don Nicola (il giovane avvocato innamorato della ragazza). C’era anche il Coro, formato da un folto gruppo di maschere accompagnate dai suonatori.
Di sfondo, un elemento caratteristico della società feudale: lo “jus primae noctis” che i padroni esercitavano sulle ragazze del popolo, debitrici sempre di qualcosa nei loro confronti, a causa dell’estrema povertà (qui è l’affitto arretrato della casa). Ma nella logica del mondo alla rovescia, di cui è espressione il Carnevale, le classi popolari, con l’unica ricchezza gratuita che posseggono, cioè la bellezza delle loro donne, vincono sull’altro mondo, attirandolo, sfruttandolo e traendone profitto. Il sogno popolare sembra finalmente realizzarsi in quei magici giorni.
Il personaggio del Padre, anticamente interpretato da Pulcinella, è un ruolo patriarcale caratteristico della tradizione meridionale: chiuso in una falsa mentalità puritana, ponendosi come retto difensore dell’ “onore” della figlia, la tiene segregata in casa, impedendole di “praticare” con chiunque. Emerge con chiarezza l’importanza della sua figura, chiamato da Vincenzella “Gnor padre”, ma anche il fatto che ad averla vinta su di lui è sempre Zeza, la moglie, che sa bene come blandirlo. Zeza è una popolana che cerca di sbarcare il lunario. Per questo, pressata dalla paura di essere sfrattata in quanto l’affitto è ancora da pagare, non esita a far entrare in camera di Vincenzella don Nicola, il padrone di casa. Il marito di Zeza, rientrato all’improvviso, trova Don Nicola nascosto sotto il letto della figlia. Accecato dall’ira, accusa la moglie di non aver vigilato sull’onore della ragazza. Zeza, a questo punto, si ribella: fa notare al marito che la pigione è arretrata di tre mesi, che Don Nicola è venuto a esigerla e che, se non fosse stato per la “generosità” di Vincenzella, lui sarebbe già in carcere.
Zeza, tutta presa dal suo ruolo matriarcale, rivendica per la figlia il diritto di praticare l’amore “liberamente” con cento innamorati e con tutti quelli che le garbano: con principi, marchesi e persino con gli abati che bazzicano spesso nei dintorni della casa.
La chiusa della farsa è a lieto fine. Il padre, convinto dalle argomentazioni di Zeza, acconsente alle nozze riparatrici. In fondo, imparentarsi con chi frequenta la Vicaria significa risolvere in modo indolore i pressanti problemi economici della famiglia. Resta il dubbio se sia stata tutta una messa in scena per costringere il giovane al matrimonio riparatore. L’ipotesi viene avvalorata considerando la resa del padre. Nella Zeza solofrana Pulcinella si arrende solo quando il giovane gli consegna un capace portafoglio. Nella Zeza di Peschici il motivo della resa del padre è diverso: non è solo la paura del fucile o del fucilone imbracciati dal giovane don Nicola che minaccia di scaricargli una schioppettata tra le gambe per togliergli la sua virilità a costringerlo ad arrendersi. E’ Vincenzella che scioglie l’intreccio, interponendosi tra i due e inducendoli alla ragione, con argomentazioni forti: “ Mio caro Don Nicola non ammazzare mio padre, non farmi ricordare per sempre questa giornata! Ti dico di lasciarlo andare, di lasciarlo stare. Lui, per forza, deve darmi a te!”.
La ragazza si rivolge con toni irati verso il genitore: “Che hai signor padre? Perché non vuoi farmi sposare? Dopo ti farò vedere io cosa ti combino!”.
Il padre, offeso dal suo parteggiare per chi sembra averla plagiata come un diavolo tentatore, arriva a minacciarla di morte insieme al suo amante. Ma l’amore, alla fine, vincerà e Don Nicola potrà sposare liberamente la sua Vincenzella. Il giovane invita tutti alla festa: “E adesso faccio un invito a tutti questi signori, perché a casa di Don Nicola si mangiano i maccheroni, anche quello lungo (cannaruto) oinè!”.
Ricordiamo che a Peschici, il giorno del martedì grasso, il menu prevedeva i maccheroni fatti in casa, “tirati” dalle massaie con un ferro a sezione quadrangolare. Li si condiva con il sugo di carne per i ricchi e con il sugo di polpette e ventresca per poveri. Era usanza stendere un maccherone più lungo degli altri. Poiché si usava un unico piatto, chi, per sorte, mangiava questo maccherone, veniva canzonato come cannaròute, cioè il “goloso” della famiglia.
Evidenti concordanze con la Zeza Zeza di Peschici si trovano nelle versioni di alcuni centri della pianura irpina come San Potito, in provincia di Salerno e Galluccio, in provincia di Caserta. I nomi dei personaggi sono gli stessi con qualche piccola variante. Don Nicola si chiama “’0 si’ Ronnicola (il signor don Nicola)”.
Questa antica farsa popolare è oggi rappresentata a Solofra, elaborata e fatta propria dal popolo irpino con il titolo “Canzone di Zeza”. Durante il Carnevale viene presentata da vari gruppi che la cantano nelle vie della città, accompagnandosi con nacchere, triccheballacche e tamburelli. Segue l’immancabile tarantella cui partecipano tutti gli spettatori. La Zeza è interpretata solo da attori uomini poiché alle donne, come nell’antica commedia, l’esposizione al pubblico è vietata. C’è un capozeza-regista che guida la presentazione, dialoga con il pubblico e dà inizio alla sfrenata tarantella finale.
E’ presumibile che anche le modalità di presentazione, gli strumenti musicali d’accompagnamento e il ballo di chiusura fossero gli stessi anche a Peschici.
La Zeza Zeza ormai da un trentennio non si rappresentava più a Peschici, ma il testo della farsa, ricostruito nel 1987 grazie alla testimonianza orale di Giulio D’Errico, è stato riproposto negli ultimi anni, durante i convegni del Centro Studi Martella, dagli alunni dell’Omnicomprensivo “Libetta” di Peschici, preparati dalla prof.ssa Lucrezia d’Errico (nipote del vecchio cantore della Zeza) e da Stefano Biscotti.
La Zeza potrebbe ritornare a essere rappresentata, oltre che dagli studenti, dagli amanti delle tradizioni locali della compagnia “Ars Nova” durante le sfilate del “Carnual” di Peschici. Inserita nel repertorio dei gruppi di musica popolare del Gargano, potrebbe essere proposta come “borgo narrante” all’attenzione dei turisti che visitano il Promontorio.