L’artista italo-tedesco Bortoluzzi scelse Peschici come buen retiro
Un teorema urbanistico risolto in chiave di scenografia funzionale: quinte di case inverosimili, strette ed alte come torri, oppure a un solo piano, senza tegole, con tetto a cupola rivestito d’intonaco e i margini voltati ad onda per convogliare le piogge entro le cisterne sottostanti alle grondaie. Case scialbate a calce, o dal colore grigio- rosato dei muri antichi. Bianchi e azzurri che richiamano un’isola greca, il villaggio di Oia, a Santorini, nelle elleniche Cicladi. Scoprono improvvisi scorci luminosi aperti tra valli e mare.
Così si presentò Peschici per la prima volta ad Alfredo Bortoluzzi, in viaggio nel 1953 verso l’isolato selvaggio, mitico Gargano. Secondo il critico Carlo Munari, che andò a trovare Bortoluzzi a Peschici dopo aver curato una sua mostra nel 1967, la luce e i colori “italiani” di Peschici giovarono alla pittura di Bortoluzzi, per le sottili, segrete corrispondences interiori che riuscirono ad evocargli. Per l’artista il Gargano rappresentò l’incontro con la mediterraneità. Fu la Magna Grecia ad affascinarlo, così come aveva affascinato i voyageurs del Grand Tour che provenivano dal Nord Europa. Sbaglierebbe chi credesse Bortoluzzi un semplice “vedutista”: Peschici, i monti, le valli ed il mare sono soltanto pretesti per evocare la Stimmung della solarità. Un tentativo continua Munari – di sfuggire all’incanto opposto, della selva e delle saghe, del culto della Luna, del romantico chiuso e disperato della Kultur.
Una Kultur che Bortoluzzi non riconosceva più come sua: aveva prodotto il buio della chiusura della Bahuaus, la scuola in cui aveva imparato tutto; aveva causato la distruzione dei suoi quadri, di quelli di Klee e di Kandinsky, reputati arte degenerata “dall’artista fallito Hitler”.
Una Kultur che aveva prodotto il buio dei pogrom.
Nato a Karlsruhe nel 1905 da genitori italiani, figlio di artigiani, il padre mosaicista e la madre stilista, Bortoluzzi non intraprese la carriera universitaria come il padre avrebbe desiderato, ma quella artistica. Frequentò dapprima l’Accademia di Karlsruhe e in seguito, a partire dal 1927, il Bauhaus dove sarà allievo di Albers, di Kandinsky, di Schlemmer e soprattutto di Klee, che lascerà un’impronta inconfondibile nella sua opera grafica e pittorica.
Quando nel 1933 il nazismo trionfante ordinò la chiusura dell’istituto di Dessau, Bortoluzzi non seguì nella diaspora verso l’America gli artisti della sua scuola, né il suo grande maestro Paul Klee in Svizzera: riparò a Parigi. Su suggerimento della madre, mise a frutto l’esperienza teatrale fatta alla Bauhaus, perfezionandosi all’Ecole de danse di madame Egorova. Di lì a poco diventò primo ballerino nel balletto russo di Serge Lifar all’Opéra di Parigi.
Girò molti teatri d’Europa a fianco di future grandi personalità. Ad Aquisgrana lavorò con Herbert von Karajan, che gli lasciò un ricordo negativo: «Von Karajan, che era all’inizio della carriera, lavorava molto, ma era senza cuore, forse perché il mondo del teatro era a quel tempo pieno di così tanti intrighi. Finì che mandarono via il mio intendente ed io andai via con lui. Erano gli anni della guerra e, se ricordo bene, era il periodo in cui l’Italia tradì la Germania… e ci fecero prigionieri».
Bortoluzzi fu catturato nei pressi di Auschwitz. La testimonianza di Alfredo è drammatica: «Di giorno facevamo trincee e di sera dovevo ballare con i miei ballerini per i soldati tedeschi. Il mio intendente, vedendo che non ne potevo più, mi fece spostare e mi mandarono a stirare le divise in una fabbrica.
Di lì a poco giunsero i russi nelle vicinanze della città: Fritz Lang (un filosofo e tenore che poi seguì Bortoluzzi a Peschici, ndr ) con documenti falsi, sfruttando il mio doppio nome, si procurò due biglietti per Karlsruhe. C’era tanta neve, la gente fuggiva per le strade… e la mia casa non c’era più. Andai da mio fratello e anche qui sembrava tutto distrutto ma, avvicinandomi vidi un tubo di un camino fumante … Lui era rifugiato di sotto…
Arrivarono prima i francesi, poi gli americani e così diventai coreografo della VII Armata Americana per i festeggiamenti e i loro show».
Queste testimonianze di Alfredo Bortoluzzi emergono da una tesi di laurea discussa presso l’Università di Siena nell’anno accademico 1997-98 da Anna Maria Mazzone, che ha raccolto altresì la documentazione e le “carte” che vanno dal periodo 1905 al 1995 nell’archivio privato donato dall’artista al fratello, il pittore Domenico Mazzone, erede universale di Bortoluzzi.
La tesi della Mazzone è inedita: oltre a contenere fitti carteggi in tedesco tratti dalle corrispondenze di Bortoluzzi con i suoi amici rimasti in Germania, è ricca dei bozzetti e degli studi scenografici che l’artista, mettendo a frutto gli insegnamenti di Schlemmer, realizzò durante il lungo periodo (1933-58) in cui abbandonò pennelli e monotipia per dedicarsi al balletto classico. Questi schizzi e disegni sono stati esposti per la prima volta esposti al pubblico in occasione di una retrospettiva inaugurata il 13 Novembre 2004 alla “Galleria provinciale di arte moderna e contemporanea” di Palazzo Dogana a Foggia. L’importante mostra ha ospitato circa 80 lavori di Bortoluzzi ed una ricca collezione di materiali riguardanti i rapporti con la Bauhaus e la sua attività di ballerino.
Attualmente la Galleria foggiana ha una saletta che ospita alcuni dipinti di Bortoluzzi.
IL RICORDO DI ALFREDO BORTOLUZZIAdesso sono diventato meridionale«Sono arrivato a Peschici nel 1953 per la prima volta, era in febbraio… Il mio critico d’arte Egon Vietta mi aveva raccontato del Gargano… molto bello, verde e selvaggio e così mi sono messo in viaggio fino a Roma. A una agenzia di viaggi ho chiesto come si arriva nel Gargano. Mi hanno detto: “Si può andare fino a San Severo e là non c’è più un mezzo per andare più avanti; prenditi una bicicletta”. Ma abbiam trovato un trenino e un pullman che ci hanno portato fino a Peschici. Siamo andati subito alla spiaggia, era dopo una pioggia, avevano messo le barche ad asciugare e le vele erano tutte dipinte dagli stessi pescatori con colori molto vivaci, anche una Madonna. Era bellissimo, mi ha impressionato molto. La gente aveva una cultura rustica, erano molto gentili. Quello che mi è piaciuto molto a Peschici erano le cupolette delle case, quasi orientali, mi sembrava che le onde e le cupole avevano lo stesso movimento. E mi sono innamorato di Peschici. Adesso sono diventato proprio meridionale e mi sento a casa, qui…». .
Testimonianza raccolta nel documentario La Montagna del sole. Visioni di luce di Maria Maggiano
Tra arte e tradizione popolare i reperti del vasto campionario illustrato in un bel catalogo curato da Anna Maria Tripputi e Rita Mavelli. “Tredici”, “susta”, “pretensosa”,“berlocco”, i magici ori delle intriganti donne del promontorio del Gargano.
Ori del Gargano, catalogo di grande impatto visivo curato da Anna Maria Tripputi e Rita Mavelli, pubblicato dall’editore Claudio Grenzi di Foggia, ci restituisce un aspetto inedito della cultura pugliese: l’oreficeria popolare. Un’arte ritenuta minore. L’artifex in genere non è mai stato elevato al rango di artista, gli è sempre stata negata la dignità di creatore.
A torto, come dimostrano i gioielli del Gargano, che emergono come opere artistiche di rara bellezza, restituendoci le atmosfere del Novecento.
Eppure fin dall’inizio del secolo scorso, l’attenzione degli studiosi di tradizioni popolari intorno a questi reperti era stata molto forte. Nel 1911 la “Mostra di Etnografia italiana”, tenutasi a Roma nel 1911 per celebrare il Cinquantenario dell’Unità d’Italia, offrì una stupenda rassegna dell’artigianato orafo di tutte le regioni italiane. L’intento era quello di “rincuorare e diffondere” un’industria ignorata e sopraffatta dalla “capricciosa imitazione di modelli forestieri”. I materiali relativi alla Puglia provenivano da Monte Sant’Angelo ed erano significativi della fiorente attività delle botteghe orafe del Promontorio del Gargano. Furono raccolti e presentati da Giovanni Tancredi.
Filippo Maria Pugliese ricordò così una visita alla ricca collezione dell’etnografo di Monte: «Giovanni (Tancredi) mi mette in mostra la sua preziosissima bacheca degli ornamenti paesani in oro… Sbarro gli occhi; ammiro; contemplo… Ecco gli orecchini: a navetta; alla pompeiana; a pendagli; a fiocchi, a campana, alla francese; a pallucce… e poi, le suste (collane): a fiori; con la crocetta; a rococò; col pendaglio; col ritrattino in cammeo, poiché la susta, affidata ad ampio nastro vellutato, nero, rosso o blu, è il segno della donna maritata, e, per lo più di agiate condizioni sociali. Ecco le collane d’oro: quella con la crocetta latina; quella col San Michele; quella alla pompeiana; con le palline, con rombetti piccoli, e detta “a specchi”; con grane e bottoni a barilotti; col coretto; quella, girante per due o tre volte intorno al collo, e reggente il “berlocco” che poteva essere anche ridotto nel mezzo dell’ampio petto matronale».
La raccolta degli ori del Gargano proseguì negli anni successivi, sempre a cura di Tancredi, che li fornì anche ad Ester Lojodice, nel 1930, per allestire, nel nascente “Museo di tradizioni popolari di Capitanata”, una sezione con un vasto repertorio di materiali orafi tipici dello Sperone d’Italia.
Il catalogo di Claudio Grenzi parte proprio dai reperti raccolti da Tancredi (Museo etnografico di Monte Sant’Angelo) e dalla Lojodice (Museo Civico di Foggia), che diventano tasselli significativi di una ricognizione che tocca i centri orafi di tutta la Capitanata(da San Marco in Lamis a Lucera, da San Severo a San Nicandro, da Mattinata fino a Vico del Gargano).
Una ricerca minuziosa e problematica per le curatrici della ricerca perché le testimonianze superstiti sono difficilmente rilevabili, a meno che non confluiscano nel “tesoro”di una chiesa, di un santuario oppure in un museo diocesano.
Le collezioni private sono infatti gelosamente custodite negli scrigni di famiglia, si trasmettono di generazione in generazione, rigorosamente per linea femminile.
Gli ori non si vendono e non si scambiano, se non in casi del tutto eccezionali. Gli elenchi dei pegni depositati, ad esempio, al Banco del Monte di Foggia, registrano il deposito di ori da parte di famiglie passate da condizioni floride allo stato di povertà.
Le due ricercatrici, nel loro lavoro di reperimento degli ori, hanno dovuto adottare approcci mediati e non invasivi per rendere possibile la comunicazione con i possessori o i portatori di questa preziosa cultura materiale. I superstiti maestri orafi, depositari di questa antica tradizione artistica, una volta convintisi dell’importanza dello studio, si sono rivelati fonti essenziali per la ricerca.
Le notizie emerse dal loro narrato, il riscontro con le fonti d’archivio e con la bibliografia tematica hanno permesso alla Tripputi e alla Mavelli di tracciare una mappa dell’attività orafa del territorio, il loro simbolismo, la storia della trasmissione e la tipologia dei gioielli prevalenti, di ricostruire i significati d’uso.
Emerge un dato significativo: il Gargano non è affatto un’isola culturale chiusa e inaccessibile, ma estremamente aperta a tutti gli influssi esterni. Le vie dei pellegrinaggi, della transumanza e il contatto giornaliero con le sponde balcaniche spiegano la circolazione di modelli orafi provenienti dalla Campania, dall’Abruzzo e addirittura dalla costa dalmata.
Certamente ci sono delle varianti rispetto ai modelli base, come si evince dalla terminologia linguistica utilizzata dai garganici per denominare i vari gioielli. «Le tipologie di collane, di orecchini e di pendenti – sottolinea Anna Maria Tripputi – hanno una straordinaria pregnanza linguistica, oserei dire onomatopeica».
Lo storico Michele Vocino mise in evidenza la quasi naturale predisposizione delle donne del Gargano all’esibizione dei gioielli: «La mania degli ori e dei monili è più di tutto accentuata a San Giovanni e a Monte sant’Angelo, dove sono in uso grandi spilloni artistici per i capelli e orecchini esageratamente grossi e pesanti da sembrare perfino impossibile che possano essere sostenuti da piccole orecchie».
Ori da esibire, dunque, ma – ci avverte Anna Maria Tripputi – anche da indossare in particolari momenti di passaggio della vita: il battesimo, la cresima, il fidanzamento, il matrimonio, la morte.
Il gioiello, in realtà, è un indicatore, un segno particolarmente efficace dell’orizzonte mitico-culturale di un territorio e soprattutto del popolo che lo abita. Connota le testimonianze di cultura materiale con la sua unicità.
ANNA MARIA TRIPPUTI, RITA MAVELLI, Ori del Gargano, Claudio Grenzi Editore, Foggia.
Khair ad-din, il mitico corsaro del Saladino, assaltò l’abbazia di Kàlena
«Is Morus! Is Morus! Li turchi Li turchi».
Così gridavano i torrieri del mar Tirreno e dell’Adriatico quando avvistavano le navi dei pirati all’orizzonte. E gli abitanti dei paesi costieri fuggivano verso l’interno, cercando di salvare il salvabile… Niente di nuovo sotto il sole. La pirateria era praticata sin dall’antichità dai «popoli del mare»: i Cretesi, i Fenici, i Greci e gli Etruschi, forti della loro talassocrazia, attaccavano le navi nemiche per impossessarsi di merci e uomini. I Romani, non riuscendo a debellare il fenomeno, avevano varato un’apposita legge, la “Lex Gabinia de piratis persequendis” (67 a.C.), che diede a Pompeo i pieni poteri. Ci fu una tregua, ma a partire da VII sec. d.C. il Mediterraneo tornò ad essere “infestato” dai pirati, questa volta musulmani: la “Gihàd” islamica (lotta contro gli infedeli) si tradusse in attacchi alle navi cristiane, costrette a ridurre i traffici nel Mediterraneo. Il Gargano e le Tremiti furono più volte oggetto di questo assalto. L’abbazia di Santa Maria di Kàlena fu assalita da Khair ad- din. Raccontiamo qui brevemente la storia di questo mitico corsaro del Saladino.
Dopo il 1492 le isole e le coste del Mediterraneo divennero il rifugio di centinaia di migliaia di mori, cacciati dopo l’unificazione della Spagna da Ferdinando il Cattolico e Isabella di Castiglia. La politica spietata dei “re cattolicissimi” contro i moriscos contribuì alla fondazione di veri e propri stati barbareschi, che trovarono nei pirati e corsari dei leader spregiudicati e intelligenti, strenui oppositori degli spagnoli.
Essi si spinsero nel Mediterraneo, effettuando sbarchi e saccheggi lungo le sue coste. I nomi dei pirati che terrorizzavano le popolazioni del Gargano sono ancora vivi nell’immaginario collettivo dei paesi di mare. Fra i più noti vi fu Kair ad-Din (1475–1546), detto il Barbarossa [1].
Non mancano suggestioni e leggende legate a questo famoso corsaro, riferibili a un luogo-simbolo dell’immaginario collettivo di Peschici. Dall’abbazia benedettina di Santa Maria di Kàlena, un camminamento sotterraneo portava alla “caletta” del Jalillo: serviva ai frati per sfuggire alle frequenti scorribande saracene. Si racconta di un antico tesoro di Kair ad-Din: un vitello d’oro posto come cuscino a una fanciulla morta e seppellita nella cripta nell’abbazia di Peschici (probabilmente la giovane moglie del corsaro). Denominato il Barbarossa [2], questi fu al servizio del sultano Solimano (1520-1566), che gli affidò il comando supremo della flotta ottomana.
Khair-ad-din e i suoi fratelli Arug e Isac ereditarono lo spirito combattivo e l’amore per il mare dal padre Giacobbe (un giannizzero musulmano che dopo aver partecipato alla spedizione per la conquista dell’isola di Lesbo, stabilita qui la sua residenza, si era trasformato in un marinaio dedito al commercio nell’arcipelago greco); la madre, figlia di un prete copto, inculcò loro una forte religiosità, che si tradusse nello stimolo alla guerra santa (gihad). Al comando di una galea, i fratelli Barbarossa esercitarono il commercio e la pirateria al largo di Rodi. In seguito ad un attacco dei Cavalieri di Malta (irriducibili nemici dei musulmani), Isaac morì; Arug e gli uomini dell’equipaggio furono catturati. Incatenati ai banchi di voga delle galee, per un paio d’anni, remarono a suon di scudisciate come tutti i “galeotti” di quel tempo.
Arug, liberato dopo il pagamento di un riscatto, si diede alla pirateria con i fratelli, concludendo un accordo con il sultano di Tunisi: in cambio di un decimo del bottino, trovò un sicuro rifugio in quel porto. Il commercio cristiano subì perdite considerevoli.
I fratelli Barbarossa spadroneggiavano sul tratto di costa da Tripoli a Tangeri. Arug si proclamò re di Algeri. Quando questi fu sconfitto e ucciso con tutti i suoi uomini, fu un momento di tragedia e di lutto per la sua famiglia. Khair ad-din dopo averlo atteso invano ad Algeri, assunse il comando della flotta. Selim I, sultano di Costantinopoli ricevette la notizia della morte di Arug da una galea inviata da Khair ad-din alla “Sublime Porta”, che gli donò le province del nord Africa da lui conquistate. Il Barbarossa sapeva che il sultano era impegnato nella conquista della Siria e dell’Egitto, e non poteva occuparsi di questi territori. Selim, infatti, lo ringraziò e lo nominò suo “Beylebey” vale a dire governatore. Khair ad-din ottenne così la protezione della potenza ottomana, e, di fatto, il riconoscimento del governo personale su queste terre.
Carlo V di Spagna corse ai ripari: nel 1519 incaricò l’ammiraglio Ugo de Moncada di procedere alla riconquista d’Algeri, ma la sua flotta fu distrutta da una violenta tempesta. Khair ad-din consolidò il suo potere conquistando, tra gli anni 1520 al 1529, tutta la costa africana. Organizzò una flotta potente, che operò nel Mediterraneo con azioni mirate, seguendo un piano generale, e attaccando le navi cristiane dalle Baleari alla Sicilia, dalla Sardegna al Lazio e alle coste spagnole. Con lui vi erano i migliori marinai musulmani: Draguth; Sinam (“l’ebreo di Smirne”); Aydin (cristiano rinnegato detto il “terrore del diavolo”) e molti altri. Tutte le navi che incapparono nella potente flotta dei luogotenenti di Khair ad-din furono saccheggiate e gli uomini dell’equipaggio schiavizzati.
Nel 1533 Solimano invitò a corte Khair ad-din, affidandogli un incarico importante: la ricostruzione e l’organizzazione della flotta ottomana. Il Barbarossa si gettò con entusiasmo in questa nuova impresa. Gli arsenali della Sublime Porta lavorarono a ritmo serrato per tutto l’inverno del 1534: in primavera più di 80 navi furono pronte agli ordini del nuovo ammiraglio. Quando Khair ad-din lasciò il “Corno d’Oro”, accompagnato dall’ammirazione dei figli di Maometto, il terrore corse lungo le isole cristiane dell’Egeo, e si propagò man mano sui lidi più lontani dove, dalle torri di guardia, vedette timorose scrutavano il mare. Le acque azzurre dello Ionio furono rotte dalla voga ritmata dei turchi, il Barbarossa si diresse a nord, mise a sacco le coste italiane, attaccò Sperlonga. A Fondi (in provincia di Latina) cercò di rapire Giulia Gonzaga, augusta preda destinata a Solimano, che riuscì a fuggire nella notte.
La Tunisiain mano del Barbarossa era una minaccia talmente grave per i possedimenti spagnoli di Sicilia e dell’Italia meridionale che Carlo V ordinò un attacco decisivo. Una spedizione al comando di Andrea Doria investì La Goletta: il 14 giugno del 1535, navi spagnole, del papa, del vicerè di Napoli e dei cavalieri di San Giovanni, sbarcarono uomini e cannoni. Una sommossa interna di schiavi cristiani accelerò la caduta di Tunisi. In Europa un sospiro di sollievo salutò questa vittoria cristiana. A Bona, dove si era ritirato, il Barbarossa armò prontamente 26 galeotte e prese il mare, arrivò alle Baleari. Il saccheggio fu spietato, uomini e donne trasportati ad Algeri, furono rivenduti come schiavi.
Il Doria e il Barbarossa non si scontrarono mai direttamente: ora è Andrea Doria che cattura navi turche nello Jonio, ora è il Barbarossa che infierisce sulle coste pugliesi.
Nel 1537 i turchi cinsero d’assedio Corfù con un grande spiegamento di forze, 100 galee e 25.000 uomini, i cristiani resistettero. Nel 1538 una nutrita flotta di navi venete, genovesi, spagnole e pontificie si concentrò nei pressi dell’isola, e attese Andrea Doria con i suoi 50 galeoni. Khair ad-din aveva già schierato le proprie navi, 150 galee nel golfo di Arta, su una linea a mezzaluna che consentiva di concentrare il fuoco di tutti i cannoni sullo stretto canale d’ingresso. Gli avversari studiarono le rispettive mosse: Andrea Doria si diresse verso sud con l’intenzione di attaccare i possedimenti del sultano, Kair ad-Din salpò e inseguì la flotta cristiana, che per il cattivo tempo si disperse lungo le coste.
Solo a Lepanto ci sarà la riscossa cristiana. Il 19 ottobre del 1540, 200 galeoni, 50 galee, 25.000 uomini al comando di Andrea Doria circondarono la città. Barbarossa era assente: il suo vice Hasan assunse la difesa, le navi spagnole furono disperse da un’improvvisa tempesta. Carlo V non aveva seguito i consigli di chi riteneva la stagione inadatta alla spedizione, e si ripetè il disastro della spedizione di Moncada: il vento di burrasca distrusse 140 navi. Gli equipaggi spagnoli furono decimati dai turchi. I Cavalieri di Malta furono gli ultimi a lasciare il campo, coprendo la ritirata. Ancora oggi quel luogo è chiamato “sepolcro dei cavalieri”.
Un fatto nuovo portò la costernazione nel mondo cristiano, Kair ad-Din si alleò, per conto del Sultano, con la cattolicissima Francia di Francesco I: nel 1543, 100 galee turche aiutarono i francesi contro Carlo V.
Mentre navigava alla volta di Marsiglia, Khair ad-din assalì Reggio Calabria dove rapì un’avvenente fanciulla diciottenne, Dona Maria, figlia di un governatore spagnolo, e la sposò. Assalì poi Gaeta e Nizza. Nella primavera del 1544 saccheggiò le isole d’Elba, di Ischia e Procida, e impose dei tributi alle isole Lipari. Il suo rientro a Costantinopoli fu un vero trionfo: venne acclamato “re del mare”. Per merito suo, la potenza ottomana si impose su tutto il Mediterraneo. Nel luglio del 1546, una violenta febbre lo uccise, all’età di 63 anni. Ancora oggi i Turchi ne ricordano le gesta. Nelle vicinanze di Galata, ad Istanbul, una maestosa cupola ricopre la tomba del protettore dell’Islam: il suo spirito indomito aleggia ancora sul Mediterraneo.
Le scelte che resero irresistibili le réclame delle ditte agrumarie
Anni fa il Parco Nazionale del Gargano, Italia Nostra e il Consorzio “Gargano Agrumi” ottennero il marchio IGP, oltre che per il limone “Femminello”, anche per “l’Arancia del Gargano” nelle varietà “bionda” e “duretta” tipiche dell’Oasi Agrumaria di Rodi, Vico e Ischitella.
A convincere la Commissione Agricoltura della Camera dei Deputati alla stesura del primo disciplinare IGP fu la visione di un dossier che aveva il suo punto di forza nell’album fotografico bilingue (in italiano-inglese): Rodi Garganico. Splendori di un passato, curato dal prof. Filippo Fiorentino e don Matteo Troiano. Illustrava le pubblicità delle Società Agrumarie operanti a Rodi Garganico nel primo Novecento.
Da una prima lettura dei manifesti, bigliettini, incarti, presenti nell’album suddetto, si evidenziano i filoni ricorrenti, le scelte iconografiche del prodotto pubblicizzato. I temi preferiti dai creativi delle Società Agrumarie rodiane spaziano a 360 gradi. I più frequenti fanno perno su immagini simboliche (The Fortunesi incarna in una bellissima donna discinta, rincorsa dalla Morte e da un cavaliere che travolgono nella loro folle corsa chiunque si trovi sulla loro strada) e mitiche (Il Colosso di Rodi-Atlante regge il mondo; Nettuno-Sirene-Aquila reale sono abbinati a strumenti essenziali per la navigazione come la bussola, il timone e l’ancora).
Dall’analisi iconografica si desumono informazioni sul periodo storico di realizzazione dei manifesti: fine Ottocento, Belle Époque, Ventennio fascista. Le immagini fanno riferimento alla Regina Margherita; alla Lupa con Romolo e Remo; alle Repubbliche marinare (Pisa, Genova, Amalfi e Venezia); alle sfilate oceanico-coreografiche di Villa Borghese. Quelle interculturali mostrano nazioni solidali (Italia e America impersonate da due floride ragazze in costumi tipici che si stringono una mano, in segno di amicizia, tenendo in pugno saldamente, nell’altra mano, le rispettive bandiere) ed immagini esotiche (la diversità del Giappone con i paesi occidentali è marcata dall’abbigliamento femminile e dai modi dell’abitare).
I testimonial sono personaggi storici del Nuovo Mondo: Cristoforo Colombo, George Washington, le Indios del Far West.
Osservando i paesaggi, le figure umane ed i caratteri di scrittura utilizzati dai grafici pubblicitari, cui le ditte rodiane affidarono la creazione dei “logo”, si evincono altre particolarità.
Le locandine della Società Agrumaria De Felice differiscono dalle altre sia per le visioni paesaggistiche, sia per i caratteri grafici utilizzati. I temi pubblicitari sono riferibili ad un topos paesaggistico-romantico estremamente rarefatti, che supera la contingenza reale. I colori sfumati visualizzano elementi tendenti a creare suggestioni (i tramonti; la luna; la laguna; il porto; scenari di divertissement alto-borghesi con signore e signori elegantemente vestiti secondo la moda Belle Époque, che si divertono a tirare con l’arco, in un paesaggio stilizzato). Si avverte la finalità della Ditta De Felice di assumere una dimensione planetaria, internazionale; la sua tensione (sottesa alle scelte grafiche) di distaccarsi il più possibile dal contesto locale.
Le pubblicità della Società Agrumaria Vincenzo Russo focalizzano, al contrario, scorci di vita reale, tradizioni popolari sinonimo di genuinità. Esplicito il riferimento alle tipiche attività delle donne del Gargano. Merletti e carte pizzo testimoniano la consuetudine femminile dell’arte del merletto: la sensibilità muliebre si esprime nei ricami del corredo. Si nota la cura nella presentazione del prodotto agrumario, l’attenzione per il lavoro di confezionamento. Riguardo ai caratteri scrittori utilizzati nei testi, l’uso è variegato. Si va dalla scrittura in corsivo al gotico più ricercato, con presenza di elementi decorativi decisamente elaborati.
Nei manifesti della Società Agrumaria Ciampa & Sons ci sorridono prosperose figure femminili e una venditrice di arance e limoni in abiti d’epoca. Affianco si intravedono cassette di legno di faggio, su cui è impressa la stessa immagine pubblicitaria. I tipi di bellezza muliebre sono riferibili soprattutto alla tradizione garganica, napoletana e siciliana, ma anche a tutte le altre regioni dell’Italia (in un ampio ventaglio appaiono ragazze con i costumi tipici delle varie province). Emergono i canoni estetici del tempo, che esprimono il massimo nelle gote colorate e nei seni prorompenti. La simbologia della fecondità è ripresa dalla presenza di arance giganti poste vicino alle donne. Sullo sfondo di una carta-sipario, appare la collina verdeggiante di Rodi Garganico, con gli agrumeti ed frangivento; lungo la spiaggia si nota la presenza dei “baracconi”, gli stabilimenti di lavorazione e di confezionamento delle varie ditte (in primo piano quello con la dicitura Ciampa & Sons). Il porto è caratterizzato dalla presenza di numerosi barconi a vela e di “trabaccoli”.
In altre locandine campeggiano, con una frase-spot riferibile alla qualità/sicurezza organolettica delle arance rodiane, altre figure-simbolo: un tamburino batte a fatica il suo strumento (Drummerboy hard to beat – dura da battere!); in un manifesto della Società Agrumaria preparato per l’esposizione di Parigi del 1889 una bimba protegge le cassette di agrumi dall’assalto delle mosche, facendo scudo con il suo corpo (There are no flues on me– non ci sono mosche su di me!); un raccoglitore di agrumi in abito tipico (molto simile alla maschera napoletana di Pulcinella) mostra una bella arancia (Good all the year round – buona tutto l’anno!), evidenziando il suo punto di forza: la presenza del prodotto sul mercato mondiale per dodici mesi all’anno. mentre le arance provenienti dalla penisola sorrentina o dalla Sicilia maturano soltanto in determinati periodi.
Riguardo agli sfondi utilizzati nelle locandine, la Società Ciampa & Sons presenta il Golfo di Napoli con il Vesuvio lumeggiante sullo sfondo. I colori sono forti e appariscenti: rosso, ocra, verde, blu di Prussia, giallo; la Ditta De Felice utilizza colori evanescenti sul grigio azzurro, verde tenue, a simboleggiare una sorta di rarefazione del dato contingente, la mirata proiezione del prodotto agrumario sul mercato planetario. Gli agrumi sono assenti. La pubblicizzazione tende a staccarli dalla banalità utilitaristica del commercio. C’è la ricerca di un target di mercato diverso.
Gli slogan della Ditta Ciampa & Sons fanno perno su similitudini ovvie come frutta-salute, frutta-abbondanza, ma anche su abbinamenti inediti come frutta-felicità e frutta-pace.
È ampio l’uso del linguaggio figurato: le figure retoriche spaziano dall’allegoria al paradosso, alla metafora. Alcune richiamano il doppio senso: «The Triump of Neptune» (Il trionfo di Nettuno), indica il primato marittimo dei “trabaccoli” rodiani che trasportano il prodotto agli imbarchi mitteleuropei o alle stazioni ferroviarie dirette a Napoli per l’imbarco sui bastimenti americani; «The Pride of Rodi» (L’orgoglio di Rodi) fa leva sull’ambiguità della donna/arancia; il riferimento ad una delle Sette Meraviglie del mondo antico, il Colosso di Rodi, attesta la duratura potenza commerciale delle Società Agrumarie rodiane («Rodi For Ever». Rodi per sempre).
Parole chiave dell’economia rodiana, fatte proprie dalla Società Agrumaria Ricucci, sono commercio, navigazione, industria. Sopra il globo terrestre, sovrastato da un’aquila con gli agrumi tra gli artigli, campeggia il cartiglio con la scritta «L’union fait la force».
Slogan che potrebbero ispirare i grafici del Terzo millennio, con le tecniche della moderna comunicazione visiva, a produrre pubblicità efficaci per il rilancio degli agrumi del Gargano, nel solco della tradizione delle ditte rodiane che lanciarono il loro prodotto nelle fiere di Londra e Parigi….
Per contrastare i pirati e i corsari, l’imperatore Carlo V, a partire dal 1537, dette l’avvio alla costruzione di numerose torri lungo tutte le coste del vicereame di Napoli. Il sistema delle torri era funzionale all’avvistamento degli invasori che giungevano dal mare. Il principio difensivo di proteggersi mediante torri di avvistamento, adottato già dall’epoca romana, continuava ad essere ancora validissimo: alcune furono ricostruite negli stessi luoghi occupati un tempo da torri romane, bizantine, sveve o angioine. Il piano difensivo, ideato dal vicerè Pedro di Toledo, fu attuato da don Pedro Afan de Ribera. Per una difesa efficiente della costa della Capitanata ravvisò la necessità di costruire dieci torri sui litorali dal Fortore a Manfredonia. Accanto alle torri cilindriche ne comparvero di quadrate, specie nei punti nevralgici e maggiormente esposti della costa.
La distanza tra le torri variava in funzione della morfologia della costa: poteva raggiungere i 30 chilometri, nel caso di zone concave di spiaggia o di coste rocciose senza insenature; ridursi a circa 10 chilometrinel caso di costa frastagliata.
Per uniformare le tipologie e le modalità difensive, ogni opera fortificata doveva essere autorizzata dalla Regia Corte, mentre le torri già esistenti e ritenute idonee furono espropriate. L’ubicazione delle torri avveniva in modo tale che esse costituissero un cordone ininterrotto: ogni torre “guardava a vista” la precedente e la successiva. Salvo casi particolari, le torri furono costruite con grande parsimonia. Quelle costruite in precedenza dai privati oppure dalle varie Università (i Comuni), vennero incamerate dallo Stato, previo rimborso delle spese sostenute per la costruzione. Furono denominate torri “cavallare”, perché poste sotto la guardia di un uomo a cavallo, in grado di allertare rapidamente il più vicino presidio militare.
Le Università dovettero farsi carico del pagamento dei salari dei militi e dei cavallari in servizio presso le torri e, per le torri che ne erano dotate, della «feluca di guardia» (rematori con barca). I lavori di costruzione procedettero con grande lentezza. Nel dicembre 1594 Carlo Gambacorta, marchese di Celenza Valfortore, visitò le torri costiere della Capitanata e compilò delle minuziose schede su ognuna di esse, oggi conservate presso la Biblioteca Nazionaledi Parigi. Ogni scheda, oltre ad una relazione sullo stato di ciascuna torre, ne contiene la pianta, la sezione e la veduta prospettica.
Le torri erano quasi tutte quadrangolari a tronco di piramide. Il coronamento presentava per ogni lato quattro o cinque caditoie, cioè delle botole aperte in successione lungo il cammino di ronda della costruzione difensiva, e da cui era possibile rovesciare sul nemico sottostante ogni tipo di proiettile o oggetto contundente. Per lo più ad un solo vano e con una sola porta, le torri avevano una cisterna per la raccolta delle acque piovane. L’accesso era consentito mediante una scala volante o fissa e un piccolo ponte levatoio collocati entrambi sulla parete a monte. La parete rivolta verso il mare era cieca (dal momento che era la più esposta al pericolo) e le due laterali erano munite di feritoie. Le informazioni venivano trasmesse da una torre all’altra. L’avvistamento di navi sospette veniva annunciato durante il giorno con colonne di fumo, durante la notte con l’accensione di fiaccole: il numero di fuochi era pari al numero delle imbarcazioni nemiche avvistate.
L’habitat del territorio di Montepucci e Peschici
Cessato il pericolo turco, le torri costiere furono mantenute in piedi dignitosamente finché ebbero una funzione specifica: fino al secolo scorso, in qualche caso fino a pochi decenni fa, servivano per avvistare i contrabbandieri. In seguito sono cadute in rovina. L’abbandono è stato totale sia che fossero proprietà di privati sia che appartenessero al Demanio.
Alcune torri (Sfinale, Calalunga, Portonuovo, San Felice, Torre Petra, Monte Pucci) hanno perso il coronamento ed esso è stato sostituito con sovrastrutture più moderne. Altre, come le torri di Sfinale e Calarossa sono ridotte a ruderi. Altre torri, pur restaurate, sono sulla via del degrado: torri poste in una stupenda cornice paesaggistica sono escluse dalla pubblica fruizione in quanto non è stata prevista alcuna valorizzazione: la Torre SanFelice (Vieste), soggetta a continui atti vandalici, è stata letteralmente murata; la torre di Montepucci è chiusa al pubblico. Un vero peccato, visto l’importanza che ebbero un tempo e che potrebbero tornare ad avere come “sentinelle” del mare. Ricordiamo che le torri sono dei monumenti nazionali sottoposti a vincolo come tutti gli edifici storici di un certo valore e di una certa vetustà e dovrebbero essere protette e valorizzate dagli Enti territoriali sotto la cui giurisdizione ricadono. Un compito puntualmente disatteso.
La Soprintendenza ai beni monumentali della Puglia, il Parco del Gargano, la Comunitàmontana del Gargano, la Provinciadi Foggia, la Regione Puglia, e i vari comuni nel cui territorio le varie torri costiere sono ubicate, cosa intendono fare per non farle morire?
Torre Montepucci
TORRE MONTEPUCCI (PESCHICI)
La Torre di Montepucci, in località Peschici, è ubicata su un tratto di costa affacciato direttamente verso nord, per cui è possibile in estate vedere sorgere e tramontare il sole sullo stesso mare. In lontananza, si scorgono le Tremiti e le lontane isole della Dalmazia. Verso Oriente è l’abitato di Peschici, affacciato sulla sua Rupe in una posizione straordinariamente suggestiva. Più vicino, su uno sperone roccioso, si trovano tre trabucchi da pesca. Guardando verso occidente si spazia lungo la costa che, in un susseguirsi di spiagge e falesie, porta a San Menaio, a Rodi Garganico, alla duna che separa il lago di Varano dal mare. Il rilievo di Monte d’Elio chiude l’orizzonte a ovest. Il Monte Pucci, che risale verso sud fino alla Foresta Umbra, è ricoperto da una fitta pineta di pino d’Aleppo, che in queste zone è autoctono; ad esso si accompagnano arbusti di lentisco, fillirea, cisto e varie specie di orchidee di cui il Gargano è particolarmente ricco. La pianta più caratteristica è la campanula garganica.
Intorno agli anni Sessanta, la Torre di Montepucci divenne, per qualche anno, la residenza dell’artista Manlio Guberti che vi aprì un ospitale Club della Tavolozza. Pittore, incisore e poeta, Guberti aveva studiato musica e giurisprudenza, laureandosi nel 1939 all’Università di Bologna. Si diplomò nel 1944 all’Accademia di Belle Arti di Roma. Partecipò alla Biennale di Venezia e ad oltre 50 esposizioni personali in Italia e nel mondo. La città di Yaroslav, a nord di Mosca, ha acquisito molti dipinti e incisioni all’artista per dedicargli una sezione della propria galleria. Guberti amava i luoghi incontaminati e selvaggi, i deserti. All’inizio degli anni Cinquanta trascorse un periodo negli Stati Uniti, nel Far West dove interpretò magistralmente la magia del deserto. Un uomo coltissimo, curioso di tutto, che amava molto la solitudine del selvaggio Gargano, e di Montepucci in particolare. Manlio era capace di contemplare un’onda, intuendo l’ordine nell’apparente disordine e leggendovi armonie “frattali”. Scrive nel suo epistolario dal Monte Orcius: «In questi giorni ho fatto diversi studi di onde, specialmente vedendole dall’alto capisco perché gli antichi aggiogarono al carro di Poséidon i cavalli, che sono forse gli animali più belli della terra…».
SCHEDA TORRE
Denominazione manufatto: Torre di Montepucci
Località: promontorio del Gargano;
Comune: Peschici;
Prov incia: Foggia.
Latitudine: 41° 56’49”20;
Longitudine: 16° 1’0”12
Significato del toponimo: prende il nome dal toponimo della zona, probabilmente Monte Orcius.
Sistema di comunicazione: consisteva in segnalazioni visive dall’una dall’altra torre tramite fumo o fuochi, con
l’uso di campane o corni. Uomini a cavallo (cavallari) perlustravano tutto il territorio circostante.
Proprietà attuale: demanio dello Stato.
Utilizzazione originale: la torre serviva a controllare le incursioni saracene. La sua presenza ricorda periodi in
cui il mare non era una presenza amica, ma un pericoloso varco aperto per pirati e corsari, che
periodicamente razziavano schiavi e raccolti sulle coste del Gargano.
Utilizzazione attuale: nessuna utilizzazione. Da qualche anno è posta sotto sequestro, per evitare un’utilizzazione
impropria da parte degli ultimi concessionari.
Epoca di edificazione: XVI secolo, 1569.
Autore: la torre venne edificata per volontà di Alfonso Salazar che visitò la nostra regione e appaltò la
costruzione di 21 torri a Giovanni Maria della Monica.
Tipologia planimetrica: la struttura è a tronco piramidale senza caditoie in controscarpa e senza cordolo. La
torre è completa nei due piani.
Qualità del mare: le acque del mare di Montepucci confluiscono in quelle della baia di Peschici, che hanno
ottenuto la bandiera blu della FEE. La mancanza di fabbriche industriali e di scarichi fognari ne garantisce
Giuseppe D’Addetta, fin dagli anni Cinquanta, intuì che anche i centri più sperduti del Gargano avrebbero avuto qualcosa di importante da comunicare a chi avesse avuto la curiosità di conoscerli. Una tradizione folklorica ed etnografica intatta, e sorprendentemente attuale, era ancora da valorizzare. Essa attendeva di essere conosciuta da chi, mosso dal desiderio di conoscere ciò che un tempo, in un’altra vita, siamo stati, si fosse spinto per le balze più scoscese della Montagna del sole, alla ricerca di luoghi della memoria ormai dimenticati.
Novelle e leggende della Capitanata, una bella raccolta curata da Giovanni Saitto prende le mosse proprio dall’indimenticabile saggio del d’Addetta. E ne prosegue l’ideale viaggio, alla scoperta di antiche tradizioni etnografiche e narrative.Emergono ricordi altamente suggestivi e poco noti, ed il lettore vi siaccosta con il desiderio di farli rivivere in piena luce. Desiderio che è anche di tutti gli studiosi che, lavorando in team, hanno messo a disposizione materiale raro, edito ed inedito. Il dato interessante è che, accanto alle leggende di Giuseppe d’Addetta, di Armando Petrucci, di Michelantonio Fini, troviamo le delicate illustrazioni di Primiana Nista ed ivalidi testi di alcuni giovani narratori che, partendo da uno spunto ambientale, da un aneddoto, o da una tradizione rigorosamente storica, si sono cimentati nell’invenzione artistica, creando dei nuovi racconti, che resteranno sicuramente impressi nell’immaginario del lettore.
Come Antonio Milonene Il Confessore senza ostie. Protagonisti il giovane imperatore Federico II di Svevia e Matteo, un umile manovale, addetto alla costruzione della fortezza di Apricena. Ambedue presi dallo stesso sogno, dallo stesso identico miraggio: “Angiola, bella come la seta la prima volta, bella come la luna quando si è felici, con quegli occhi di luce nera, con quella pelle che solo un Dio sa e può, quella pelle di petali di rose, di seta e latte, e raggi di sole”… Una notte insonne, parallela, accomuna i due adolescenti. Una notte che, per Federico, è come una malattia, è come “un confessore senza ostie che non può assolvere, né può condannare”. Una notte in cui egli diventa veramente un re…
Nel racconto di Giovambattista Gifuni, La danzatrice di Lucera, il biondo e inquieto Manfredi, e una misteriosa saracena, di nome Semrud, sono i protagonisti di una struggente storia di amore inappagato. Lo scenario è Lucera, e in particolare il castello sormontato da quindici torri, costruito secondo lo stile arabo: tremila colonnine orientali ne circondano il vasto cortile; le porte sono incrostate d’oro; un incantevole giardino di stelle cantanti, di fontane e di rose, circonda l’harem dalle inferriate d’oro. Qui Manfredi conduce Semrud, dopo averla acquistata, spinto dalla subitanea attrazione che ha provato vedendola danzare su una pista dorata. Ma invano ne cerca l’amore. Solo alla vigilia della battaglia di Benevento, che vedrà il tramonto della potenza sveva, Semrud, conscia del fatale destino che incombe sul suo re, gli sarà vicina come non mai…
Dalla raccolta viene, quindi, fuori un mondo di ieri, sorprendente per chi è abituato a vedere la Capitanata, ed il Gargano, con lo sguardo corto dell’oggi e della contemporaneità. La leggenda de Il ponte di cuoio, di Giuseppe d’Addetta, ci riporta al tempo lontano in cui la nostra provincia era terra di conquista di popoli diversi per cultura, consuetudini e tradizioni. Popoli come gli Arabi che, contrariamente ai pregiudizi di oggi, erano un popolo mite, rispettoso delle tradizioni locali e religiose delle genti conquistate. Il protagonista della leggenda, Moham, un valoroso condottiero saraceno, si innamora perdutamente della castellana, bella e bionda come il sole e dolce come la luna, che vive nella rocca dirimpetto, in località Castelpagano. Ma il suo sogno d’amore incontrerà seri ostacoli. Forti pregiudizi etnici, e soprattutto il timore che, sposando un seguace della religione maomettana, possano esserci ripercussioni negative per la propria anima e per i componenti della sua casata, inducono la bella principessa garganica ad avanzare una richiesta decisamente insolita…
Quando l’itinerario de La Montagna del sole tocca Vieste, la sperduta, il D’Addetta rievoca due suggestive leggende. Tragici scenari lo Spacco di Rosinella e il bianco faraglione di Pizzomunno. Qui le perfide sirene, invidiose e gelose dell’amore di due giovani, rapiscono la bellissima fanciulla e la tengono legata ad uno scoglio sommerso. Solo ogni cento anni le concederanno di riemergere, in un giorno di sole, per rivedere il suo fedele amante.
Altre leggende fioriscono sulle rive del Varano. Temi maliosi e mitici, che i pescatori narravano, durante le lunghe attese delle battute di caccia e di pesca. Come la storia di Nunziata, unica superstite all’ira divina che inabissa la città di Uria. Gli Dei le concedono il dono dell’immortalità, ma la sua è una vita segnata dal rimpianto per la perdita dell’innamorato, scomparso insieme a tutti gli abitanti della città. E la sua voce di pianto, ogni sera, è portata dal vento che spira sullo specchio del lago…
La storia di Maddalena, il cui testo è stato ritrovato dal prof. Michele Tortorella fra i registri parrocchiali della collegiata di Vico del Gargano, narra una vicenda seicentesca. Lo sfondo è il castello svevo; protagonisti due inconsapevoli fratelli, portati dai capricci della sorte a un destino infelice. Antagonista il principe Caracciolo, che desideroso di impadronirsi del feudo, sottrae ai marchesi Spinelli, con un sotterfugio, l’unico figlio appena nato. Due anni dopo, la nascita di Maddalena allieta il castello, consolando gli Spinelli della perdita dell’erede maschio… che un giorno, fatalmente, approda nella città natale. Conquista la simpatia dei feudatari, i quali lo invitano a diventare paggio alla loro corte.Maddalena è nel fiore degli anni, “è un bel bocciolo di rosa”, il giovane un gigliobianco e candido come la neve”. Uno sguardo innocente, un voltar di testa, una mossa innocente fatta a caso. “È certo che nel cor gentile l’amore si fa strada”. Maddalena è perduta amante, e lui più di lei. L’amore “proibito” si consuma in un giardino di agrumi di Canneto, dietro ad uno frangivento… ma il finale è degno delle migliori tragedie greche.
Bionde bellezze garganiche, retaggio degli antichi conquistatori normanni e svevi, o di migrazioni di altri popoli italici, sono le eroine degli altri racconti. Ad esse si affiancano le brune: come quelle che appaiono, sui marciapiedi stretti di San Giovanni Rotondo, all’immaginario turista incuriosito di D’Addetta. Donne dalle linee zingaresche con lunghi orecchini d’oro, che dignitose abbozzano un sorriso in segno di saluto, mentre due perfette file di bianchi denti rilucono fra il carminio naturale delle labbra.
Donne brune, come è bruna la bellezza slava di Sinella, protagonista de La pazza, di Michelantonio Fini. La voce argentina e affabulante della ragazza, intenta nella raccolta delle olive nella piana assolata di Càlena ammalia Elia: egli si innamora perdutamente della sua fresca bocca di fragola matura, del profumo delle sue trecce di ebano, dell’ardore dei suoi profondi occhi di fuoco. Ma la bella Sinella non può corrispondere a questo ardente sentimento: da un anno i suoi l’hanno promessa a un altro, emigrato in America, impegnando così il suo onore e la sua fedeltà. L’innamorato, respinto e umiliato, schiavo, suo malgrado, della mentalità del tempo, si sente obbligato a lavare l’offesa agli occhi dell’intero paese…
L’epilogo è ancora più drammatico. Un giorno, dall’alto di un precipizio, sulla grotta dell’acqua calda, dalla Rupe gigantesca, Sinella che, in seguito a varie vicissitudini, ha perso la ragione, credé di poterlo trovare, di poterlo afferrare, il suo sogno, e stringerlo a sé fortemente, per sempre.
Un mese dopo, allo stesso vertice pietroso, fu visto ergersi un uomo che veniva dalla selva, veniva dalla solitudine, veniva dalla disperazione. I marinai raccontano di aver visto quel fantasma camminare sull’orlo dell’abisso, sfidando la morte… Così i due infelici amanti, forse, trovarono la pace in fondo a quel precipizio, in quel mare tenebroso e immenso come l’animo umano, come l’amore, come il destino, come la morte, come il mistero…
Agli inizi del 1500, numerosi naviganti di popolazioni vicine, lontane e straniere “facevano vela” per le Isole Diomedee e per il porto di Peschici. Vi si fermavano, oltre che per motivi di commercio e di momentanea sosta, anche spinti dalla devozione.
Prima di proseguire il viaggio via mare, oppure via terra per il Santuario dell’Arcangelo del Monte Gargano, si fermavano nel monastero di San Nicola di Tremiti ed in quello di Santa Maria delle Grazie di Kàlena, nella piana di Peschici.
Nei due monasteri, ricostruiti dai Canonici Regolari di Sant’Agostino, adoravano la Beatissima Vergine e la Gloriosa Madre di Dio.
Uomini famosi ed illustri “matrone” avevano offerto alle due prestigiose abbazie, nel corso dei secoli, consistenti “beni solidi”: oltre a numerose chiese con le loro rendite e i relativi diritti, il possesso perpetuo di castelli, terre, pascoli, boschi. Avevano donato, per il vantaggio e il divertimento della pesca, addirittura un lago, i diritti sui fiumi comprensivi dell’impianto dei mulini, e persino delle imbarcazioni per la pesca, il commercio e gli spostamenti in mare aperto.
Erano stati indotti a ciò dalla speranza di redimere, grazie alle preghiere quotidiane dei monaci, i loro peccati, ma molti lo avevano fatto per i più terreni motivi di stretta convenienza “politica”, per salvare le loro proprietà nei momenti delicati di passaggio tra vecchi e nuovi dominanti. Per salvare il salvabile.
I beni venivano “donati”, ma l’usufrutto vita naturaldurante era a favore degli ex proprietari e della loro discendenza. I documenti di ratifica, redatti da scrivani e notai pubblici, erano le cosiddette “tavole antiche”.
Sottoscritte da nobili, principi e re, vennero conservate con quanta più cura possibile negli archivi di Kàlena e di Tremiti. È qui che prima il Cochorella e poi il Mainardi le consultarono, il primo per stilare, nel 1508, la Tremitanae olim Diomedae Insulae accuratissima descriptio [1]; il secondo, nel 1592, per compilare un accurato Regesto in cui si rivendicavano le proprietà delle abbazie di Tremiti e di Peschici usurpate nel corso dei secoli [2].
Per la comprensione di quella che fu la storia dell’abbazia di Kàlena nel corso del Cinquecento e dell’azione dei Canonici Lateranensi che in quel periodo la governarono, analizzeremo proprio questi due fondamentali documenti, integrandoli con le notazioni desunte dal Codice Diplomatico di Armando Petrucci [3].
Benedicto Cochorella e Timoteo Mainardi appartenevano all’ordine dei Canonici Regolari di Sant’Agostino, detti Lateranensi del Salvatore. Questi monacierano subentrati ai Cistercensi alla guida del monastero di Tremiti fin dal 1412.
Papa Eugenio IV incorporò l’Abbazia di Peschici alla venerabile Chiesa di Santa Maria di Tremiti nel 1445. In quell’anno, la rinunzia del Cardinale Pietro Balbo (il futuro papa Paolo II) e la cessione dell’abate Corrado di Capece, monaco di Sorrento (erano gli ultimi abati cui l’abbazia di Peschici era stata affidata in commenda), vennero formalizzate e l’abbazia ritornò sotto l’ala protettiva di quella che un tempo era stata la sua casa madre.
I Canonici Regolari presero effettivo possesso di Kàlena giusto un anno dopo, nel 1446.
Di origine lombardo-veneta, questi monaci esibirono un livello culturale notevolmente alto. I Canonici si adoperarono a ricostruire tutti gli edifici sacri e civili distrutti dagli anni, sia per poterli abitare loro stessi in modo sicuro, sia perché potessero accogliere i pellegrini.
Timoteo Mainardi, conscio della grave crisi economica che travagliava Tremiti e le sue pertinenze in terraferma, espose un suo piano di riforme, un progetto per risanarne le collassate finanze.
Egli consigliò di eliminare, nei territori sotto la giurisdizione tremitense, l’importazione di grano, di carne, di animali, aumentando progressivamente le colture ad orzo e frumento e promuovendo l’allevamento intensivo del bestiame.
L’isola di San Nicola di Tremiti, che a quell’epoca era l’unico porto sicuro dell’Adriatico, d’estate diveniva scalo obbligato di tutte le navi che facevano rotta da Venezia in Puglia e dalla Dalmazia a Manfredonia.
Le galee della flotta veneziana, mentre erano impegnate nella loro campagna di perlustrazione delle coste adriatiche, usavano rifornirsi a Tremiti di biscotto (gallette) e di pane fresco, confezionati con il grano che affluiva al monastero dalle pertinenze in terraferma, che erano soprattutto le terre cerealicole appartenenti a Santa Maria di Kàlena.
TREMITANAE OLIM DIOMEDAE INSULAE ACCURATISSIMA DESCRIPTIO
Il Canonico Regolare Benedetto Cochorella, originario della città di Vercelli, morì nelle isole Tremiti nell’anno 1540. Il “libretto” descrittivo delle Diomedee e soprattutto delle opre dei canonici, da lui scritto nel 1508, fu pubblicato postumo, «per grazia dell’Abate Matteo», suo mecenate e conterraneo, con l’imprimatur di Basilio Sereno, canonico di Santa Maria della Passione a Milano.
In esso il Cochorella aveva descritto con dovizia di particolari, fra i possessi di Tremiti, l’abbazia di Kàlena e tutte le sue pertinenze.
Nel corso del tempo, molti dei favori e dei benefici ecclesiastici erano venuti a mancare all’amministrazione e alla contribuzione tremitense. Ma all’inizio del Cinquecento, epoca in cui Cochorella scrive il suo manoscritto, Tremiti «conservava ancora tranquillamente sotto la sua autorità parecchie chiese apprezzabili istituite in diversi territori e molti altri beni».
Di tutte queste chiese, la prima per valore era l’Abbazia di Kàlena [4]. Cochorella fornì anche le coordinate geografiche per localizzarla: ubicata nella diocesi di Siponto, distava circa 22.000 passi dal monte Gargano e 4 stadi dal mare Adriatico. Era senza dubbio la più antica, «da gran tempo assai famosa per il nome e le ricchezze». Tenuta, fin dalla sua fondazione, in grandissimo onore da molti re famosi e parecchi imperatori, dotata di innumerevoli privilegi, essa era stata oggetto di “incredibile devozione”. A questa Abbazia, un tempo, erano sottoposte molte popolazioni, ville, villaggi, città e una grandissima quantità di boschi, selve, campi e beni immobili.
All’inizio del Cinquecento, Kàlena conservava ancora le vestigia di questo glorioso passato: possedeva diversi terreni, ampi boschi, vari campi, molte vigne e oliveti qua e là: «Sul monte Sant’Angelo (che gli antichi chiamavano Gargano), si trovava un’estensione così lunga e ampia di terre soggette alla sua amministrazione che superava i 40.000 passi sia in larghezza che in lunghezza» [5].
Il Cochorella era rimasto colpito dai secolari uliveti appartenenti all’abbazia di Peschici: «famosissimi per una tale abbondanza di olive e, così cresciuti negli anni, che alcuni di essi suscitano in chi guarda ammirazione e stupore, perché non possono essere cinti neanche da quattro uomini uniti per le braccia» [6].
Un dato che ci lascia perplessi, ma che testimonia la presenza di eccezionali uliveti nelle campagne di Peschici. Gli alberi erano dei veri e propri “patriarchi verdi”, stupivano i Canonici Lateranensi che come il Mainardi provenivano dalle regioni del Nord Italia dove, per ragioni climatiche, l’ulivo non cresceva bene come nel Gargano.
Nel 1508, il tempio di Kàlena, «consacrato alla Gloriosa madre di Dio», è ancora degno di venerazione e «straordinario per l’antichità e per la sua bellezza». Gli altri edifici del Convento sono quasi crollati per l’eccessiva vetustà, tranne quelli che i Canonici hanno avuto cura, con grandissima sensibilità e “dispendio”, di restaurare o di ricostruire ab imis, cioè dalle fondamenta [7].
LE PERTINENZE DI TREMITI NEL GARGANO NORD
Il Cochorella fa una minuziosa ricognizione delle chiese (allora si denominavano con il termine cappelle), che l’abbazia di Kàlena aveva sotto la sua autorità. Un tempo erano tantissime, tuttavia col passare del tempo o per l’avidità di certi principi o per colpa dei predecessori, la maggior parte di esse era stata usurpata oppure era caduta in rovina.
Quelle possedute all’inizio del Cinquecento non erano poche. Erano tutte “prosperamente” passate ai Canonici regolari di Santa Maria di Kàlena (i monaci continuavano a denominarsi col titolo di quella Abbazia).
Due chiese ad essa soggette erano «dedicate al santo sacerdote Nicola». Una di queste, situata ai confini del Monte Negro (Montenero), distava 16 stadi dal villaggio di Vico [8]. Minacciata di rovina a causa della sua vetustà, da parecchi anni (presumibilmente dalla seconda metà del Quattrocento), era stata rinnovata ed ornata dentro e fuori con bellissimi stucchi. Era altresì stata sopraelevata “a volta” con un’elegante impalcatura, «sicché – commenta il Cochorella – uno potrebbe dire che sia stata integralmente ricostruita più che restaurata».
L’abbazia di Montenero era diventata davvero una chiesa “notevole”: aveva edifici eleganti, un doppio chiostro, splendidi giardini e quasi ogni genere di mele e altri frutti. Soprattutto arance, ma anche cedri e limoni molto succosi. Le sorgenti d’acque zampillanti e la dolcezza dell’aria salubre rendevano fruttuose le varie coltivazioni. Possedeva anche parecchie vigne «eccellenti per la qualità del vino prodotto», un mulino col frantoio e parecchi alveari di api.
L’altra chiesa, titolata a San Nicola, era ubicata sulle rive del lago Varano vicino ad un «villaggio distrutto» chiamato Imbuti, non lontano dai castelli di Cagnano e di Carpino [9]. Dominava un’ampia e larga zona pianeggiante, «circondata da monti fitti e ben protetti da grandi boschi e gole», tra i quali spiccava il monte Devio”.
Intorno, un paesaggio caratterizzato dalla presenza di molte selve ed oliveti. Per la natura del luogo, si poteva trarre profitto «dall’uccellagione e dalla caccia alla selvaggina».
Per il piacere ed il vantaggio della pesca, lo stesso grandissimo lago di Varano era alla portata di tutti, e «produceva ottimi pesci» [10]. Alle sue foci, mentre tentavano di passare dall’acqua salata del mare a quella dolce del lago, si catturavano moltissime anguille e, tra le loro varietà, alcune più grosse che chiamano “capitoni”. Di tutto ciò, per antico diritto, era pagata una decima alla chiesa di Imbuti.
Il Cochorella ci fornisce una notizia interessante sulla lavorazione in loco del pescato: «Per salare questi pesci vi sono nelle vicinanze anche parecchi vivai, cioè dei luoghi vicino al mare in un lago stagnante, dove i pesci vengono catturati e subito dopo salati». Viene fuori uno spaccato inedito dell’economia del Varano all’inizio del Cinquecento.
Oltre a notizie sull’ecosistema. Anche allora il lago era il luogo ideale di “svernamento” per molte specie di volatili migratori e stanziali: “D’inverno questo lago nutre varie specie di uccelli, per esempio parecchie anatre selvatiche, uccelli noti del resto a tutti e molto saporiti da mangiare».
Il Cochorella cita, a questo proposito, una frase di Marziale che esalta le peculiarità gastronomiche di alcuni “parti” particolarmente pregiate per i palati sopraffini: «Si porti pure tutta l’intera anatra, ma gustane soltanto il petto e il collo, il resto restituiscilo al cuoco!» [11].
Il Cochorella registra anche la presenza dei cigni, con la seguente notazione: nessun uccello (come si racconta) è più candido di questi; è più grande di un’oca, con una voce acuta e quando sta per morire emette un flebile canto. E cita il noto verso di Ovidio: «Dolci melodie modula con debole voce/il cigno che canta la propria morte» [12].
Il Varano nutre innumerevoli folaghe, uccelli acquatici neri poco più grandi di una colomba e quanto mai gradevoli da mangiare.
In un punto delle terre prospicienti il Varano, vi è una pianura molto estesa sia in lunghezza che in larghezza, graditissima alle pecore per i pascoli più abbondanti; la chiamano “Insula Imbuti”. E’ simile ad un’isola in quanto domina il lago Varano dalla parte più alta, il mare Adriatico da quella più bassa; qui le mandrie di bestiame e le greggi del Monastero tremitano «svernano pascolando» [13].
UN SOLO CORPO, UNA SOLA REGOLA, UNA SOLA CONGREGAZIONE
Il Cochorella, parlando del suo ordine monastico, attesta le preferenze che i papi del tempo avevano ad esso riservato. Eugenio IV aveva concesso e affidato ai Canonici la chiesa del Salvatore in Laterano, di Roma, affinché la restaurassero. Fu questo Papa che decise di chiamarli «Canonici Regolari del Salvatore Lateranense». Li rese famosi, fregiandoli di numerosi straordinari privilegi e favori, confermati dai papi Nicola V e Sisto IV.
Quali insegnamenti di vita, quali le regole etiche erano seguite da questi monaci? Secondo il Cochorella, “il sapientissimo, santissimo padre e dottore Agostino» nella regola dei Canonici non aveva inserito nulla che non potesse essere osservato facilmente da tutti.
Chiunque, il povero e il ricco, il vecchio e il giovane di qualsiasi condizione, «ignobile o nobile» e di qualsiasi altro stato economico, avrebbe potuto impegnarsi senza difficoltà nell’apprendimento della regola; «compiere tutto non in modo difficile ma con letizia e in maniera egregia». Secondo il proprio voto [14].
Tutti i Canonici Regolari del Salvatore Lateranense avevano adottato questo nobile tenore di vita, sebbene li dividesse la diversità dei luoghi, la lontananza delle strade, la separazione delle terre. Essi avevano un solo corpo, una stessa regola, una sola congregazione.
Dal Collegio dell’Ordine provenivano anche tutti i monaci che reggevano con grande prudenza, saggezza e virtù la canonica di Tremiti. «Con incredibile impegno e attenzione, essi avevano reso noto a tutti, per mare e per terra, questo santissimo luogo. Il suo nome era noto fino alle parti più remote del mondo e ai popoli barbari».
Tutti avevano sentito parlare della bellezza e della magnificenza degli edifici e delle costruzioni straordinarie di Tremiti e delle sue abbazie. Secondo il Cochorella ciò era avvenuto per la “grazia divina” ricevuta dai Canonici: «A loro accordò ininterrottamente il favore eterno la Vergine Madre del Salvatore, Maria Beatissima, eccezionale custode e particolarissima protettrice di quel santissimo luogo» [15].
Cochorella esalta, quasi ai limiti dell’agiografia, l’“incredibile umanità” dei Canonici. Contraddicendo i suoi intenti: aveva premesso che in stile, succinto, da gustare (come si dice), con la punta delle labbra, avrebbe scritto poco, piuttosto che tacere del tutto: le lodevoli imprese dei monaci non potevano “passare sotto silenzio”. I Canonici, infatti, erano abituati a produrre spesso, più che vane parole, esempi di vivere virtuoso [16].
I monaci si danno tanto da fare, oltre che per innata santità, anche per evitare il giudizio malevolo dell’opinione pubblica, solitamente ipercritica nei confronti di chi manovra cotanta ricchezza. Ce lo testimonia il Cochorella, il quale afferma: «Dal momento che la situazione del Convento migliora ogni giorno, i monaci per non dare all’esterno l’impressione di desiderare e interessarsi solo delle ricchezze, si danno anima e corpo a celebrare con più ardore non soltanto i riti divini, ma si impegnano anche a restaurare le rovine del Convento e del tempio e ad abbellirlo» [17].
Emblematica è un’altra sua frase: «I Canonici non smettono di escogitare ogni anno qualcosa di nuovo per costruire edifici a ornamento e decoro di tutta l’isola; e spendono molto denaro come facilmente salta agli occhi di chi guarda» [18].
Esempi virtuosi quasi obbligati, quindi, quasi forzati? No, perché le realizzazioni concrete erano visibili anche agli occhi del visitatore più distratto. I Canonici del Salvatore ricostruirono gli edifici distrutti dagli anni, sia per poterli abitare in modo sicuro, sia perché le foresterie potessero accogliere comodamente i pellegrini.
Anche a Kàlena, prima della loro venuta, le rovine erano talmente evidenti che non era più riconoscibile nessuna forma dell’antico Convento e del tempio. Furono i monaci a fortificare l’abbazia, con mura alte e solide, per difenderla dai pericoli esterni e dai nemici.
LE “RAGGIONI” DI SANTA MARIA DI KÀLENA
Nel corso del tempo, molti dei favori e dei benefici ecclesiastici erano venuti a mancare, per l’avidità di certi principi o per colpa dei monaci predecessori dei Canonici, che non avevano adeguatamente vigilato affinché le proprietà di Tremiti e di Kàlena non venissero usurpate oppure non cadessero in rovina.
Fu il canonico Timoteo Mainardi, bibliotecario dell’abbazia di Tremiti ad assolvere l’arduo compito di effettuare il minuzioso riordino dell’archivio dell’abbazia, e di procedere ad un’attenta ricognizione degli antichi diritti goduti un tempo in terraferma dai Benedettini e dai Cistercensi.
Rispolverò vecchi documenti per dimostrare «le raggioni» della Madonna di Kàlena e le ricostruì confine per confine, chiedendo la reintegra dei termini lapidei, che molto spesso erano stati deliberatamente “spiantati” dagli usurpatori, con metodi violenti e minacce contro chi tentava di impedire queste loro azioni.
Tutti questi documenti furono rimessi in circolo dal Mainardi, per dimostrare le «raggioni», cioè i diritti usurpati, affinché i Canonici li rivendicassero, per riacquistare le terre perdute di Tremiti e di Kàlena [19]. A sostenerlo nelle sue tesi c’era un quadro normativo favorevole, mai applicato: i papi Eugenio IV e Nicolò V avevano emanato, su sollecitazione dei Canonici, due specifiche “bolle” contro gli usurpatori e occupatori, detrattori, malfattori dei beni spettanti ed appartenenti alle chiese abbaziali di Santa Maria di Tremiti e di Càlena.
Papa Giulio II, nell’anno 1504, aveva emanato un’altra bolla contro coloro che si erano impossessati “ingiustamente” dei beni di Tremiti.
Oltre a non rispettare le bolle papali,gli usurpatori di Kàlena contravvenivano agli indulti, agli ordini ed ai privilegi dei re Ruggiero e Guglielmo e di altri sovrani, i quali avevano confermato ed ampliato le donazioni dell’arcivescovo Leone.
Costui aveva donato all’Abbazia di Peschici i territori, i Casali, le terre, i Castelli limitrofi, con boschi e selve tagliati e non tagliati, liberi da ogni gravame, affinché, libera, ne godesse in perpetuo. Perché gli usurpatori avevano continuato, nel frattempo, ad appropriarsi dei beni dell’abbazia?
La risposta del Mainardi è la seguente: «Perché hanno visto che nessuno le cerca tali ragioni, nessuno muove loro lite». Ad esempio, non era consentito, se non su espressa licenza degli Agenti del monastero, andare a caccia di animali «selvadeghi» nei territori di Càlena, nei suoi boschi e nelle sue selve.
Invece accadeva il contrario: i baroni si erano prepotentemente arrogati questo diritto spettante solo al monastero. Erano giunti al punto che non solo li usurpavano per sé, ma addirittura pretendevano che i cacciatori pagassero la ricognizione della quarta parte della caccia direttamente a loro, «se no li mettono in prigione e li fanno pagare quello che vogliono». Essi non si usurpavano soltanto le predette cose, «ma anche la decima delle pescagioni delle sarde ed altri pesci».
Il Mainardi denuncia un altro fatto gravissimo: «I fattori di Kàlena non possono reclamare alla Regia Udienza, perché con scuppette sarebbero ammazzati”. Ecco perché tacciono: ne va della loro vita.
Che fare allora? Conviene che gli “Abbati” di Tremiti e per loro i Procuratori generali che stanno addetti a risolvere le controversie a Napoli e a Roma la denuncia la facciano loro. In alto loco. Essi possono, con una forte azione legale, «farli scomunicare» dal Pontefice, se non restituiranno ogni ragione e giurisdizione della Madonna nel territorio di Peschici.
Dopo aver affermato che tutte le «raggioni» di Tremiti e di Kàlena in questi luoghi e altri sono state smarrite, perse e usurpate, il Mainardi rimprovera duramente la persistente inerzia e la grande incuria di chi era tenuto a vigilare affinché ciò non accadesse: «Voglio dire quattro parole per tale misfatto e ignoranza o negligenza degli agenti e anche degli abati, i quali dovrebbero molto vigilare e cercare di ben considerare e vedere le ragioni e o i confini dei territori della Madonna di Tremiti e Kàlena e dove i trovano i confini o luoghi usurpati, cercare di reintegrarle con la ragione, e rinnovare dappertutto i termini a poco a poco, acciò non siano fatti maggiori usurpazioni. Le “raggioni” della Madonna di Tremiti e di Kàlena sono state affidate alla cura della Congregazione lateranense, non ai signori baroni».
Chi sono gli usurpatori? Il Mainardi li elenca uno ad uno: «Sono i signori Marchesi di Vico e di Ischitella, che godono e usurpano o personalmente, o attraverso l’Università che fa loro capo, tutti i territori. Essi sono soltanto degli usurpatori, vogliono godersi tali beni della Madonna senza alcun scrupolo di coscienza. Gli attuali baroni usurpano i diritti della Madonna peggio dei loro predecessori.
I baroni attuali che ora godono (i baroni Turbolo) pretendono di godere giustamente perché hanno comprato dalla Corte la Baronia di Peschici e d’Ischitella, i quali diritti pretendono che “fossero” del signor Don Ferrante di Sanguine (de Sangro), e lui don Ferrante de Sangro dal suo avo, che fu Giovanni de Sangro e costui ancora dal suo avo, padre di sua madre, che fu il Signor Giovanni Dentice. Furono costoro che cominciarono ad usurpare tali ragioni».
Il Mainardi lancia un forte j’accuse contro questi feudatari garganici che calpestano i diritti delle due abbazie: «Usurpano tutti i territori della Madonna di Tremiti e Kàlena e ne ricavano frutto ed entrata come se fosse loro. Se non sono fittavoli della Madonna né livellari, né censuari, né renditori di cosa alcuna, com’è possibile che sia permesso loro di perseverare in tale ingiustissimo misfatto e possesso? Non è questa una balordaggine troppo grande, non è questa una grandissima sciocchezza degli agenti e dei prelati che lasciano scorrere tale danno senza ricercare i debiti rimedi? E reiteramenti delle ragioni della Madonna, così come sono state lasciate dall’arcivescovo Leone, e dai serenissimi re di Napoli Ruggero, Guglielmo e Vincalmutalljo?».
Nella sua ricognizione archivistica, il Mainardi elenca le numerose vertenze che avevano contraddistinto il conflittuale rapporto dell’abbazia di Tremiti e di Càlena con i baroni.
Nel 1518 c’era stato un accordo tra il monastero di Tremiti, il Magnifico Galeazzo Caracciolo, il magnifico Giovanni di Sangro e madama Adriana Dentice, baroni di Peschici ed Ischitella, per la lite che aveva loro mosso il detto monastero di Tremiti, a causa della decima della pesca ed emolumenti del lago di Varano che per molti anni non avevano pagato all’abbazia di Kàlena [20].
Si giunse alla seguente convenzione: ogni anno i feudatari avrebbero dovuto sborsare:
· una decima di 100 scudi d’oro ovvero 115 ducati;
· 50 capitoni freschi;
· 4 sacchette di anguille;
· 20 paia di avi (polli e galline);
· un numero imprecisato di uova.
Il Mainardi contesta l’entità del risarcimento che, secondo il suo parere, è molto basso: tale rendita arriva appena al pagamento di 200 ducati, mentre la decima dovrebbe fruttare sino a 600 ducati all’anno. I proventi del lago raggiungevano infatti la considerevole cifra di 5.000 ducati.
Un altro reddito fruito al minimo derivava dai numerosi pascoli di proprietà di Tremiti e di Kàlena. Fu ribadito che gli “estranei” che li utilizzavano, dovevano pagare una certa somma.
Anche la Regia Dogana era tenuta a pagare a Tremiti somme variabili a seconda che si trattasse di capo grosso, cioè buoi, vacche, giumente, cavalli, muli e simili o capo piccolo, cioè pecore e capre.
Le somme stabilite, in verità, non venivano rispettate, in quanto Tremiti e Kàlena ne ricevevano soltanto una minima parte. C’era però, da parte della Regia Dogana, il riconoscimento della “proprietà” dei pascoli. Cosa che non facevano i signori baroni, che volevano fruire dei pascoli senza pagare alcunché.
Con quali ragioni? – si chiede il Mainardi – Essi non ne hanno alcuna. Si assiste all’assurdo. Mentre sua Maestà il re Filippo ammette il pagamento della fida alla Madonna, i signori baroni vogliono loro farsi padroni assoluti dei luoghi, boschi e pascoli della Madonna”.
Una copia di una lettera antica, ritrovata l’anno 1584 a Tremiti attestava che i pascoli e gli erbaggi dei territori della Madonna di Tremiti e di Kàlena erano stati usurpati ingiustamente dai Turbolo, baroni di Peschici ed Ischitella nelle seguenti località:
1. Isola dell’Imbuti, sul lago di Varano. Roberto, conte di Lesina, l’aveva venduta al reverendo abate Roberto di Càlena con il castello distrutto e tutte le sue pertinenze. Qui i confini furono posti “in gran danno” della chiesa perché “furono ristretti assai” quando il signor Francesco Maistrillo, commissario deputato del Sacro Regio Consiglio, aveva fatto piantare arbitrariamente i termini lapidei.
2. Lago Pantano e fiume di Varano. I baroni Turbolo dovrebbero pagare l’integral decima, perché l’abate Roberto, abate di Kàlena l’aveva pagati 150 scudi di oro schiffato. Questi due territori li aveva acquistati con tutte le loro pertinenze di terre, selve, boschi, olivi, lago Pantano sino al mare con un corso dell’acqua del lago sino al mare dall’uno e dall’altro lato.
3. Manatec, Montecalena, Circaprete ed altri luoghi della Madonna. Si dovrebbero far pagare agli usurpatori: gli usufrutti, gli alberi tagliati e far loro notificare un Ordine regio di divieto per l’avvenire.
4. Valle, colline del Gravalone e Monte Kàlena, nel luogo detto il Cacciatore. In questi luoghi erano stati usurpati più di quattro e sei carra di territorio in semenze. Lo avevano testimoniato sei periti eletti dal Magnifico e Reverendissimo signor Commissario. Questi uomini “dabbene ed esperti” dichiararono che questi tre luoghi erano tutti di Tremiti e di Càlena, ma i baroni continuavano impunemente a possederli.
Cosa propone Timoteo Mainardi? Che i baroni “devono” restituire tutti i territori usurpati alla Madonna di Tremiti e di Kàlena, Liberamente, senza scandalo, né danno alcuno, ma sotto la pena di scomunica e della perdita dei propri beni. Gli abati presenti e futuri non devono mai più «subire e tenere tali sfrisi in faccia», umiliazioni così cocenti.
Lo sfriso in faccia più eclatante è che, nei luoghi boscosi di Peschici, i signori baroni Turbolo fecero tagliare, e continuano ancora a farlo, tanti legnami da opera che «coglie uno stupore»… Con l’aggravante che anche i “fattori” di Kàlena «fanno anche loro tagliare tanti legnami da opera e ne fanno vendita in modo di mercanzie».
Per Mainardi è un fatto inaccettabile: «È uno scandalo, un vituperio grandissimo che per tre o quattro carlini danno tale legname che a volerlo utilizzare nei luoghi bisognosi di Tremiti e Càlena varrebbero di più di tre o quattro scudi d’oro». E questo accade mentre «la casa di Kàlena sta scoperta e senza solaro, con travi vecchi nudi».
La cosa è talmente eclatante che «i contadini che lavorano nei sopraddetti tre luoghi, e anche tutti gli altri che pagano il terratico a detti signori baroni, si meravigliano e si stupiscono del modo in cui Tremiti e Kàlena sopportino tale ignominia e danno, e che non ne facciano risentimento in Napoli alla giustizia, sicché in ogni modo si provveda a imporre il rispetto delle ragioni, eliminando disordini e danni».
Ad usurpare le «raggioni» di Kàlena non erano soltanto i feudatari, ma anche il Clero di Peschici [21]. La Chiesa di Sant’Elia era officiata da preti “morlacchi”, cioè appartenenti alla comunità slava che all’inizio del Cinquecento aveva rifondato il paese dopo l’assalto dei Turchi.
Questi preti avevano usurpato trecento tomoli di terra, aggiungendoli agli altri trecento tomoli che gli abati di Kàlena avevano loro regolarmente concessi nella località denominata “Coppe Gentili”.
Ne fa fede un documento del Regesto del 1588. Si riferisce di una pietra piana con l’impronta del marchio di Tremiti (che limitava la proprietà) spezzata e spiantata. Gli agenti del monastero di Tremiti e Càlena, con licenza del commissario della Regia Sommaria (esaminatore dei testimoni per parte di Tremiti nella causa di Sfilzi contro i Morlacchi di Peschici), si recarono sul posto per rimettere al posto la pietra predetta, ritrovata vicino alla fondazione di una «fabbrica in piano», vicino circa venti passi dalla Grotta del Fico.
Ma, ad un tratto, per impedire che simile “piantumazione” venisse effettuata si presentò l’arciprete di Peschici con tutta la Corte, armata di tutto punto. Con cotte e campanelle, com’era usanza a quel tempo, l’arciprete slavo gettò una scomunica e minacciò di scomunicare chiunque avesse osato rimettere al suo posto originario il termine lapideo con il marchio di Tremiti e Kàlena.
Lo fece a nome, anzi, come disse, “per ordine” dell’arcivescovo di Manfredonia, il quale, però, interpellato successivamente dagli agenti di Kàlena, smentì categoricamente tale circostanza. Il termine di confine intanto fu portato via e non fu “piantumato”. Il luogo restò sfornito della demarcazione che ne denotava la proprietà, con grave danno per Kàlena.
Per di più, i Morlacchi, istigati da qualche malo spirito e forse come sospetta il Mainardi, proprio dalla Corte di Peschici, continuarono a “levare anche i termini lapidei fatti piantare per ordine di Bahordo Carafa, viceré della Puglia al tempo della controversia tra il venerabile monastero di Tremiti e Kàlena e Giovanni Dentice, barone di Peschici”, quando anche costui aveva usurpato le «raggioni» e i territori di detti monasteri.
Il Mainardi chiude la sua filippica contro chi è inadempiente o usurpatore con un lapidario verrà un giorno: certamente tutti costoro dovranno rendere ragione nell’aldilà di questo loro comportamento così lassista e negligente nei confronti delle sacre proprietà.
A chi? Alla «maestà del Signore Iddio ed alla Madonna».
Per avallare la tesi del divino redde rationem il Mainardi cita un episodio penitenziale, ricordato in una lettera antica del 20 maggio 1471 firmata da Gabriele da Vercelli, abate di Tremiti e di Kàlena [22] .
Vi si racconta di due periti che, insieme ad altri quattro esperti, avevano giurato il falso a danno “evidentissimo” della Chiesa di Tremiti e di Kàlena. Si erano venduti per 10 vili ducati, attestando diritti inesistenti a favore Giovanni Dentice, signore di Peschici e di Ischitella.
I due spergiuri, pur essendo sinceramente pentiti di questa loro dissacrante azione, non vennero assolti dal padre predicatore Don Giovanni da Cremona se “primieramente” non avessero chiesto perdono e misericordia ai padri di Tremiti.
I due fedrifaghi, prima di essere perdonati, dovettero sottostare ad una sorta di Canossa garganica. Il priore Gabriele da Vercelli, che si trovava allora Sant’Agata, racconta così la scena del pentimento: «Vennero a noi due uomini di Vico, Pietro di Giorgio e Bartolomeo di Giacomo di Calandra, i quali subito arrivati a noi, inginocchiatosi in terra con una corda al collo pendente a ciascuno di loro, con le lacrime agli occhi, salutandoci, dimandarono con gran pianto, misericordia e perdonanza del loro errore commesso e fatto». Soltanto così furono finalmente assolti.
Ma la vicenda non si concluse senza danno per chi aveva ispirato la nefanda azione dei due periti a sfavore dell’abbazia calenense. Il feudatario Giovanni Dentice ricevette ben presto nel suo castello di Peschici la visita di una delegazione composta dall’abate di Tremiti e da maggiorenti di Rodi Garganico e di Vasto.
Costoro «andarono a parlargli sopra tal fatto, dolendosi assai di un tale inganno che avrebbero posto alla Regia Corte del serenissimo re Ferdinando (d’Aragona), affinché fosse revocata tale sentenza e testimonianza fatta nei beni della Madonna di Tremiti e di Càlena». Giovanni Dentice tentò di giustificarsi, arrampicandosi sugli specchi. Aveva dato sì 60 ducati al suo servitore, ma non sapeva della corruzione da questo operata sui sei periti… e a suo favore.
Non gli cedettero più di tanto se fu comunque costretto a sottoscrivere che «se tutto fosse stato vero, egli si sarebbe ritirato dal possesso dei beni di Kàlena, disposto a farne nuovo istrumento». Come accadde.
Le usurpazioni continuarono, come abbiamo visto, anche con i nuovi feudatari. Col passare degli anni le condizioni di vita sulle isole ed in terraferma divennero sempre più difficili.
I Canonici di Roma, impegnati più a curare gli altri monasteri che ad occuparsi delle lontane isole diomedee, si disinteressarono della sorte delle loro abbazie e della fortezza di Tremiti, che caddero in pessimo stato.
Nel 1763 il comandante del presidio tremitense Tenente Colonnello Carlo Brogli chiese, in una particolareggiata relazione, che si provvedesse ai necessari restauri. Visto che continuarono a non essere effettuati, essi furono decisi d’imperio.
Furono effettuati nel marzo dell’anno seguente, a spese dell’Erario, che si rivalse economicamente sui Canonici che avevano mostrato un palese disinteresse alla sorte di quella loro antica casa. Nel 1782 l’abbazia di Tremiti fu soppressa. I suoi beni, che comprendevano anche quelli dell’abbazia di Kàlena, furono incamerati dal Regio Demanio. Li amministrò un funzionario di nomina regia [23].
Nel corso dell’Ottocento molti demani, un tempo facenti parte delle pertinenze di Càlena, furono usurpati dalle famiglie più in vista di Peschici. Così come avvenne anche in altri luoghi del Gargano. Posta così potrebbe sembrare un’altra storia.
In realtà non è così. Le denunce cinquecentesche del Mainardi rappresentano solo il punto di partenza di incuria da una parte e sopraffazione dall’altra di Tremiti e di Kàlena, quest’ultima oggetto di attenzione oggi. Le sue condizioni testimoniano che lo sfruttamento e l’abbandono durano da cinque secoli. Un po’ troppi in verità.
NOTE
1 B. COCHORELLA, Descrizione accuratissima delle Isole Tremiti, un tempo Isole Diomedee, a cura di G. Radicchio, edito da Palomar, Bari 1998.
2 A.S.V. (Archivio di Stato di Venezia): T. MAINARDI, Raggioni del monastero di S. Maria di Tremiti cavate da diversi Istromenti, donazioni et altre, 1592, manoscritto inedito.
3 A. PETRUCCI, Codice diplomatico del monastero benedettino di S. Maria di Tremiti (1005-1237), Roma 1960.
4 Segnaliamo che, nel testo curato da Radicchio, l’espressione «Abbatia Calen(en)sis» del Cochorella viene tradotta erroneamente in «Abbazia di Calvi» anziché «Abbazia di Càlena».
Saggio tratto dagli Atti del Convegno del Centro Studi Martella: Salviamo Kàlena. Un’agonia di pietra, a cura di Liana Bertoldi Lenoci, Edizioni del Parco, Claudio Grenzi editore, Foggia 2003, pp. 67-81, dal quale sono tratte le due immagini pubblicate in questa pagina.
Dalle testimonianze raccolte da Angela Campanile in Peschici nei ricordi traspare una forte attestazione di religiosità popolare. Una fede che dava conforto e speranza di una vita migliore alle classi subalterne
In Peschici nei ricordi, una scena ci visualizza le donne dei pescatori mentre, dalla Rupe del Castello, lanciano i santini dei santi protettori nei flutti del mare in tempesta. È emblematica della dimensione che il sacro assumeva nella vita quotidiana del primo Novecento. Anche i piccoli legni, simili a gusci di noce, in balia delle onde, presenti nelle tavolette votive donate alla Madonna di Loreto, simboleggiano l’uomo che stenta a trovare la sua strada nelle temperie della vita.
Il rapporto con i santi e con Gesù era diretto, confidenziale.
I fedeli, e come vedremo, i protagonisti dei “cunti”, si rivolgevano ad essi come se fossero loro conoscenti. Il tono era decisamente familiare. I pellegrini dell’Incoronata salutavano la Vergine con un «Statti bene Madonna mia / ci vediamo l’anno prossimo / e se non vi vedremo più, / in Paradiso ci porti tu!».
L’intervento miracoloso era invocato contro la natura, che spesso assumeva le sembianze di un terribile nemico senza volto. Quando scendeva il buio sulla rocca di Peschici, nelle piccole caverne rupestri o nelle casette di venticinque metri quadri, imbiancate di calce viva, prima di addormentarsi, si recitavano alacremente le preghiere della notte.
La paura di non svegliarsi il mattino dopo era una delle costanti della vita. L’incognita dell’aldilà costituiva un forte incentivo ad arrivarci preparati, imparando tutte le preghiere salvifiche, che diventavano un pass-partout ideale per l’eternità:
“Verbe sacce/ e verbe dèiche/ verbe fu nostro Signàure/ che jè misse impassiàune,/ sàupe na cràuce jerte e belle,/ nu vracce nciàile /e n avite nterre./ Alla valle di Giasaffatte,/ allà iàrrimme/ e truàrrimme,/ truàrrimme a San Giuanne/ chi nu libre d’àure mane,/ che liggiàive e che scrivàive/ e che diciàive:/ piccatàure e piccatrìce/ chi sape u verbe di Dei / che ciù dicesse,/ chi no sape/ che ciù mparasse,/ sinnò, quanne jè morte,/ zàuca nfosse,/ spèine granate/ e mazze di ferre jnte a cape!”
«Le parole che so le dico, le parole che parlano di nostro Signore che si è messo “in passione” su di una croce alta e bella, un braccio rivolto il Cielo, ed uno in Terra. Alla Valle di Giosafatte andremo, e troveremo San Giovanni, con un libro d’oro in mano. Egli leggerà, scriverà e dirà: “peccatori e peccatrici, chi sa pregare lo faccia, chi non lo sa fare lo impari, altrimenti, quando morirà, sarà punito”. Con corda bagnata, legno spinoso (spèine granate) e mazza di ferro in testa!».
L’invocazione della protezione divina si materializza nella visione di Dio, nella sua accezione trinitaria, e di tutti i santi più rappresentativi della cristianità.
Il dormiente, oltre ad avere nel cuore Gesù Cristo piccolino, con i riccioli che sono tanti fili d’oro, e la Madonna, vede intorno a sé un eccezionale schieramento di spiriti celesti.
A delimitare il sacro spazio di un sonno tranquillo, ci sono ben tredici angeli, sul letto ce ne sono altri tredici, Gesù adulto è a capo del letto, San Giuseppe è il suo avvocato difensore. «A capo del letto mio – recitava il fervente peschiciano – ci sta l’eterno Dio, sui due lati c’è lo Spirito Santo. Vicino a me c’è l’angelo che gioca, se Maria protegge la casa le disgrazie escono fuori, le cose belle restano dentro».
La protezione diventa planetaria quando, dai quattro angoli (cantoni) della casa, entrano altri super-protettori: san Luca, san Marco, san Matteo, e sant’Angelo Gabriele. Il quale non c’entra nulla con gli Evangelisti, ma è determinante per marcare la prima chiusa.
La preghiera continua ancora, con l’invocazione a «Maria Bambinella, tutta pura e tutta bella». Dovrà fare in modo che finiscano tutti i guai della casa protetta, dovrà farlo per l’amore che porta a Gesù. L’ultimo desiderio è di avere Maria per madre, san Giuseppe per padre, e soprattutto di fare una grossa “cumpagnie”, con Gesù, Giuseppe, sant’Anna, Maria, insieme a tutti gli altri santi del Paradiso.
Nella precarietà dell’esistenza, la morte era un evento da preparare per tempo. Passati i quarant’anni, la donna cuciva il corredo “specifico” per sé e per il proprio compagno, poiché non si poteva mai sapere… «nu cunte, na càuse», meglio evitare di farsi trovare impreparati ed esporsi ai pettegolezzi della gente! Ogni anno, l’insolito corredo veniva lavato durante la “luscìa”: doveva essere sempre bianco e profumato di serpillo. «Nun putesse mai sirvì!»: era questo l’augurio che passava di bocca in bocca, mentre i vari capi di lino e di cotone, impreziositi da orli a giorno e da ricami, venivano lavati ed asciugati.
Ma la morte, ultima avventura della vita, arrivava spesso anzitempo. Sorretti da una gran fede, i parenti dell’infermo speravano in un miracolo: fino all’ultimo momento si accendeva la “lampe” davanti ai santi sottocampana, un “altare” consueto sul comò. Si pregava senza sosta, ma quando si sentiva il canto notturno della “mèruila marèine” era proprio la fine! Il detto era: «quando canta il merlo marino, fortunata la casa dove si posa, sfortunata quella che mira!».
Il Paradiso ad ogni costo
Nella “Settena dei Morti”, che si recitava dal giorno di Tutti i Santi fino al giorno 7 novembre, si fa riferimento ad “alme purganti”, che innalzano mesti lamenti “nel mare del duol”. Esse, sono collocate nel Purgatorio, un carcere, un’oscura prigione, un mare di fuoco, dove l’arsura le brucia. Soffrono le pene dell’Inferno. Ma i morti temono soprattutto l’oblio e la dimenticanza. Le preghiere ed i suffragi da parte dei vivi servono affinché «le anime benedette del Purgatorio si possano rinfrescare (ci putèssine addifriscà)». Il Paradiso è “una bella cosa”. Chi ha la fortuna di arrivarci, dopo una vita di stenti e di duro lavoro, va a riposarsi: «U paravèise / jè na bella càuse / Chi va / ci va a ripàuse».
Nei racconti di Gesù Cristo, viene descritto come un luogo inaccessibile. È delimitato da una porta, a guardia della quale c’è un san Pietro poco disponibile ad aprirla. Non solo a chicchessia, ma anche a chi ha avuto modo di ospitarlo, insieme a Gesù, durante la vita terrena.
Nei “cunti” di Peschici, però, i protagonisti, con la loro arguzia e con la loro intelligenza, riescono a varcare sempre la porta d’oro del Paradiso.
Come Quagghiarelle, che quando muore, va a bussare al Paradiso. A san Pietro, che chiede chi sia, risponde senza timore, dandogli del tu: «Sono Quagghiarelle, mi fai entrare?».
Al rifiuto deciso di san Pietro, egli non demorde. Chiede di poter sbirciare attraverso la porta, vuole vedere almeno com’è fatto il Paradiso. Poi butta la coppola dentro e, con la scusa di riprendersela, entra. E comincia a suonare il suo micidiale fischietto, coinvolgendo, in una sorta di ballo frenetico, molto simile ad una “taranta”, tutti i santi del Paradiso.
Quando Gesù Cristo sente tutto quel rumore, chiama a rapporto san Pietro e lo rimprovera: «Ma che vi siete impazziti oggi?»; «Cos’è tutto questo fracasso (stu ribelle) che fate in Paradiso?».
Risponde san Pietro, sconsolato: «Che vuol essere? È arrivato Quagghiarelle, e vuole stare per forza in Paradiso!». E Gesù: «Pietro, Quagghiarelle a noi ci ha ospitato, e noi “l’amma fa stà o Paravèise!”».
In un altro racconto, il tema del Paradiso “conquistato” si ripete, con delle significative, insolite varianti.
Ntiniucce, il protagonista, in vita ha ospitato Gesù e san Pietro, sorpresi da un temporale presso la sua casella di campagna. Il Maestro, per ringraziarlo, gli concede tre grazie, tra cui quella di poter vincere sempre al gioco delle carte.
Quando l’uomo bussa alla porta del Paradiso, san Pietro non lo fa entrare: «Potevi pure chiedere la grazia del Paradiso! Hai chiesto le “mupie”? Ora vattene all’Inferno!».
Qui egli sfida Lucifero ad una partita a carte: la posta in gioco è il trasferimento al Paradiso. Ntiniucce vince, una ad una, tutte le anime dell’Inferno! Se le mette in un sacco, e ritorna a bussare insistente alla porta d’oro.
San Pietro, per levarselo di torno, accetta di giocare una partita a carte: la posta in gioco è il permesso d’entrare. E fatalmente perde. Quando vede uscire dal sacco tutte quelle anime di peccatori, resta come un fesso! (nu fesse).
E Ntiniucce, senza scomporsi: «Se tu mi avessi fatto entrare prima, ero solo io. Adesso arrangiati!».
Recensione del testo di ANGELA CAMPANILE, Peschici nei ricordi, 2° volume “I luoghi della memoria” Centro Studi Martella, Claudio Grenzi editore, Foggia 2000, Euro 16,52.
Un ex docente del “Lanza” di Foggia, diventato preside al “Manzoni” di Milano, epurò 65 studenti ebrei
Giuseppe Pochettino, preside del Liceo classico Manzoni di Milano, nell’anno scolastico 1938-39 procedette all’epurazione di 65 alunni ebrei. Applicò le leggi «per la difesa della razza nella scuola fascista», promulgate dall’omonimo Regio Decreto del 5 settembre 1938. Il 15 settembre 1938, il preside comunica al Collegio Docenti che «nessun insegnante dell’istituto sarà colpito dal provvedimento che esclude i docenti di razza ebraica», mentre «dovranno essere eliminati (sic) circa 50 alunni, di cui una quindicina di stranieri»; nel verbale del 17 ottobre si fa menzione di libri di testo sostituiti perché di autori ebrei.
Infine, nel verbale del collegio plenario del 3 dicembre, Pochettino informa che «nonostante l’eliminazione degli alunni ebrei», il numero degli iscritti è aumentato. Invita tutti gli insegnanti a voler curare l’aggiornamento dello stato di famiglia, che per molti è in arretrato e incompleto. Tutti dovranno aggiungervi, in particolare, una dichiarazione riguardante la razza.
Dall’interesse suscitato dalla lettura di questi verbali, è nato il dossier Oltre la memoria. La ricerca, effettuata da due docenti e da un gruppo di nove studenti del Liceo-ginnasio Manzoni, ha verificato l’applicazione delle leggi razziali del 1938. In realtà furono circa 65 gli studenti del «Manzoni» cacciati a seguito delle leggi razziste volute dal regime fascista.
La possibilità di accedere all’archivio storico della scuola e di consultare direttamente le fonti dell’epoca, è stata la condizione di base che ha consentito di verificare i dati.
In seguito, attraverso il Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea di Milano, gli studenti hanno contattato due ex -manzoniane “epurate” ancora superstiti: Anna Marcella Falco, che nel 1937/38 aveva frequentato la V Ginnasio C, ed Emma Pontremoli, alunna nello stesso anno della V D.
La loro testimonianza, corredata di documentazione fotografica di quegli anni, ha consentito di ricostruire molti aspetti della vita del “Manzoni” durante il Ventennio, quando la scuola è fortemente “fascistizzata”.
Anna Marcella Falco ed Emma Pontremoli (rispettivamente la seconda e la quarta da sinistra)
Le ex allieve hanno raccontato la loro esperienza di studentesse “emarginate” dai compagni quando, insieme a tanti loro coetanei, furono cacciate dalla scuola pubblica. Interessante è la storia della scuola ebraica di via Eupili, che le accolse, retta dal preside Yoseph Colombo.
La ricerca Oltre la memoria, è stata effettuata tra il gennaio 2001 e il giugno 2002. I materiali sono stati raccolti in un fascicolo cartaceo e rielaborati in forma multimediale.
L’ipertesto è postato sul sito web del liceo Manzoni all’indirizzo: www.liceomanzoni.it. Il lavoro è dedicato a Regina Gani, una delle studentesse del Liceo eliminate dal preside Pochettino, morta nel 1945 ad Auschwitz.
IL PROF. POCHETTINO INSEGNÒ AL LANZA DI FOGGIA
Ma chi era il preside che, così cinicamente, annunciò l’espulsione degli studenti ebrei dalla propria scuola?
Il suo nome non ci è nuovo. Lo incontriamo scorrendo gli elenchi dei libri di testo del «Lanza» di Foggia degli anni Trenta.
Ben due libri di storia di questo autore risultano adottati dal liceo classico foggiano; era suo anche il manuale di Elementi diColtura fascista, edito dalla SEI.
Giuseppe Pochettino, nato nel 1880 a Castellazzo Bormida (Alessandria), laureato in Lettere e Filosofia, nel 1908/1909 aveva insegnato anche a Foggia.
Dalla documentazione raccolta dagli studenti del Manzoni, risulta che aveva ottenuto, per concorso, una cattedra di lettere nel Ginnasio inferiore del Lanza.
Trasferitosi in seguito al liceo di Avellino, durante la prima guerra mondiale prestò servizio come capitano di fanteria in zona di operazioni belliche.
Nel 1923 iniziò la carriera di Preside. Fu nominato al «Manzoni» nell’anno scolastico 1932/33, e manterrà la carica sino al collocamento a riposo per motivi di salute nell’aprile 1943.
Varie onorificenze gli furono conferite per l’attività svolta nella scuola e a favore delle iniziative del PNF in ambito scolastico: fu nominato Cavaliere e poi (1940) Commendatore della Corona d’Italia; ricevette la medaglia di bronzo e il diploma di benemerenza della G.I.L.
Scrivono gli studenti del Liceo Manzoni: «All’immagine di Pochettino quale convinto interprete della politica del regime, che emerge dai dati biografici sopra citati o dal ricordo di alcuni ex-allievi, che ne rievocano i discorsi celebrativi in varie cerimonie di regime, tenuti con molta enfasi dal balcone dell’Aula Magna davanti agli studenti schierati nel cortile, si contrappone la testimonianza di altri ex-manzoniani, che lo dipingono come uomo “insignificante”, o comunque mite».
LA «DIFESA DELLA RAZZA» AL PALAZZO DEGLI STUDI
Il Regio Decreto Legge 5 settembre 1938, n. 1390, pubblicato sulla «Gazzetta Ufficiale» n. 209 del 13 dello stesso mese, e convertito senza modifiche nella legge 5 gennaio 1939, n. 99 (GU n. 31, 7 febbraio 1939), riguardante le disposizioni «per la difesa della razza nella scuola fascista», imponeva che: gli alunni «di razza ebraica» non potessero essere iscritti in nessuna scuola statale, parastatale o legalmente riconosciuta di qualsiasi ordine e grado.
Tutti gli insegnanti «di razza ebraica» appartenenti ai vari ruoli dovevano essere sospesi dal servizio, compresi presidi, direttori didattici, personale di vigilanza; gli stessi provvedimenti di sospensione si estendessero al personale docente universitario di ogni grado, a quello delle Accademie, degli Istituti e delle Associazioni di scienze, lettere e arti.
Nell’elenco dei 171 insegnanti di ruolo «di razza ebraica”’ colpiti da tali provvedimenti in tutta Italia abbiamo ritrovato, pubblicato dal Ministero nel 1938, c’è il nominativo di una professoressa che insegnava al Regio Istituto Magistrale «Poerio» di Foggia: si chiamava Maddalena Pacifico.
Nella relazione finale al ministero il preside Flaviano Pilla ignora il fatto. Che fine fece questa docente? Ci sono ex alunni e persone che l’hanno conosciuta e possono aiutarci a ricostruirne la storia?
Nessun altro professore delle altre scuole di Foggia risulta nell’elenco ministeriale. Per il Liceo Lanza abbiamo verificato che nessun docente venne sospeso e dispensato dal servizio per le leggi razziali.
Per quanto riguarda gli studenti espulsi, non è stato possibile rilevare il dato. Mancano, nell’archivio storico della scuola, i verbali del Collegio Docenti o del Consiglio di disciplina del 1938, documentazione che potrebbe illuminarci in proposito.
Bisognerebbe selezionare, come hanno fatto gli studenti del Liceo Manzoni per la loro ricerca Oltre la memoria, i cognomi (paterni e materni), compresi nell’elenco di 9.800 famiglie ebraiche, in appendice ai Protocolli dei Savi Anziani di Sion, 1938, curata da Giovanni Preziosi, e destinata a istituzioni pubbliche e al PNF.
Bisognerebbe esaminare anche i registri delle iscrizioni, scrutini ed esami di tutte le classi del ginnasio e del liceo per gli anni 1937/38 e 1938/39, prendendo nota dei nomi e dei dati – paternità, cognome materno, possibile esonero dall’insegnamento della religione cattolica – degli studenti che hanno frequentato nel 1937/38 e che, indipendentemente dall’esito finale, non compaiono nei registri dell’anno successivo e non risultano trasferiti ad altre scuole.
Ma il nuovo clima “razziale” si respira anche al Lanza di Foggia. Scorrendo i testi acquistati per l’anno scolastico 1938-39 dal preside Guerrieri, vediamo che per la biblioteca dei professori fu comprato, fra gli altri, un libro legato all’attualità del momento storico: Gli ebrei in Italia di Schaert Samuele.
Fra le riviste acquistate per la sala professori spicca La Difesa della Razza. Al Liceo Lanza ci furono alcuni abbonamenti “privati” a questa rivista, sollecitati dal Preside.
Copertina di un numero della rivista «La Difesa della Razza»
Il primo numero del quindicinale, diretto da Telesio Interlandi e voluto dallo stesso Mussolini come strumento di divulgazione e propaganda delle idee razziste, era uscito il 5 agosto 1938.
La tiratura dei primi numeri fu altissima per quei tempi: circa centocinquantamila copie. Il materiale iconografico insiste su illustrazioni di vari “tipi” di ebrei, di cui era messa in rilievo la sgradevolezza fisica e morale.
Il “logo” della rivista riproduce l’immagine di una spada che separava l’ariano dall’ebreo e dal nero. Nel numero del 20 settembre 1938, un’impronta digitale con la stella di Davide deturpa il volto “ariano” di una statua classica.
L’idea che si voleva suggerire era che le “razze” ebraica e nera fossero portatrici di corruzione fisica oltre che morale. Le pubblicazioni procederanno fino al 1943, con minore tiratura.
Nel 1939-40 la scuola foggiana, come tutte le scuole italiane, era ormai pericolosamente avviata verso la «difesa della razza ariana», come testimoniano due pubblicazioni acquisite l’anno successivo per la biblioteca del Liceo Lanza; qui furono acquisiti Inchiesta sulla Razza di Paolo Orano; Razza e razzismo di Gino Sottochiesa.
Il preside Guerrieri comunica allo Spettabile Ministero dell’Educazione Nazionale che sono stati acquistati dagli alunni – tramite il suo Ufficio di Presidenza – 69 copie del Primo Libro del Fascista e 200 copie del Libro del Fascista, in aggiunta alle 300 già acquistate l’anno precedente.
I “libri del fascista”, hanno struttura catechistica, a domanda e risposta e trattano soprattutto il tema della razza. Pubblicati da Mondadori, ad opera del PNF, Il Primo libro del fascista, Il Secondo libro del fascista ed Il Libro del fascista (che li riassume in un volume unico), trattano «la “programmazione” dell’uomo nuovo e dell’italiano di Mussolini».
Sono destinati «alla cultura dei semplici e dei giovani»: «Ogni Italiano deve vivere consapevolmente nel tempo fascista, e l’ignoranza di tali basi della nostra esistenza di Nazione è inammissibile; perciò si è voluto offrire ai Fascisti e ai giovani della G.I.L. questa semplice guida, necessaria per la cultura dello spirito come per i quotidiani rapporti dell’esistenza».
Nella prefazione leggiamo ancora: «Il Libro del Fascista è un manuale a tutti accessibile che contiene quanto è indispensabile conoscere circa la Rivoluzione, il Partito, il Regime, lo Stato mussoliniano».
Vi sono, difatti, riassunti in brevi capitoli, sotto forma di domande e risposte formulate «con tutta praticità e chiarezza», gli aspetti morali, politici, sociali, organizzativi del Fascismo e vi è data notizia dei princìpi, istituti e ordinamenti su cui è basata l’Italia, «nella sua nuova grandezza».
La lettura di queste pagine può “illuminarci”, più di tante parole, sulle nozioni di “pulizia etnica” inculcate dal regime agli studenti dell’epoca. Oltre la memoria…
Erano anticamente molto più suggestive di quelle di oggi. Ce ne accorgiamo leggendo Usi, costumi e feste del popolo pugliese(1930) di Saverio La Sorsa e Folklore garganico (1938) di Giovanni Tancredi, opere fondamentali per gli appassionati di antiche tradizioni popolari pugliesi.
Saverio La Sorsa ci racconta che le prime note del Natale, in alcune città della Puglia, si avvertivano fin dal 6 dicembre. Era la festa di S. Nicola e nelle varie chiese l’organo suonava per la prima volta “la pastorella” o la “ ninna nanna”.
A Ruvo, ed in altri paesi in provincia di Bari, nella cattedrale venivano accese dodici lampade: dal giorno di S. Lucia se ne spegneva una al giorno; l’ultima nel momento in cui nasceva Gesù Bambino.
Anche Giovanni Tancredi ci descrive mirabilmente le dolci atmosfere che precedevano la festa più attesa dalle nostre antiche popolazioni. Verso i primi giorni di dicembre, nella città dell’Arcangelo Michele, come nei più piccoli e sperduti centri del Gargano, l’avvenimento più importante, quasi straordinario, era costituito dall’arrivo dei pifferai con la zampogna e la ciaramella.
Giungevano dall’Abruzzo e dalla Basilicata, in piccoli gruppi di due o tre persone. Erano avvolti nei loro tipici e inseparabili mantelli a ruota (ferraioli).
Accurata è la descrizione che il Tancredi ci fa del costume tradizionale di questi robusti zampognari dal viso abbronzato: cappelli a cono con le fettucce attorcigliate, corpetto di vello di capra, robone bruno (un’ampia veste di drappo pesante aperta dinanzi), camicia aperta sul collo “taurino”, calzoni di velluto marrone o verde abbottonati sotto il ginocchio, calze di lana grossa, lavorate a mano, e cioce che salgono attorno ai polpacci. Il tutto avvolto da un ampio mantellone pesante di lana blu, con due o tre pellegrine (corte mantelline) una sopra l’altra.
I due “mistici” pastori, uno anziano, l’altro molto più giovane, attorniati e seguiti da gruppi di ragazzini festanti, suonavano le loro “allegre novene” innanzi a ogni porta della città; si fermavano dappertutto: davanti alle botteghe, agli angoli delle vie, sulla soglia delle case, dove le famiglie erano raccolte attorno al focolare.
«Il più vecchio, dai capelli bianchi e dalla barba incolta, suonava la classica zampogna di legno di olivo a tre pive, stringendo l’ampio otre gonfiato fra il braccio destro ed il corpo; il ragazzo imbottava il piffero esile e snello fatto di olivo per metà e di ceraso per l’altra metà con la pivetta di canna marina. Ed entrambi accordavano le caratteristiche nenie in onore della Madonna e di Gesù.
Dopo la suonata di ringraziamento, gli zampognari facevano una “scappellata” salutando il capofamiglia con un “addio, sor padrò”, con l’intesa di rivedersi l’anno successivo. Il suono melanconico, dolce della zampogna ed il trillo stridulo ed allegro del piffero – conclude poeticamente il Tancredi – si spandevano per l’aria rigida sotto l’arco limpido del cielo».
La notte di Natale gli zampognari si recavano nella Grotta dell’Arcangelo. Si toglievano per innato senso di devozione il cappello, se lo mettevano sotto il braccio, e suonavano la pastorella, sulle note della bellissima pastorale di Bach.
Questa semplice melodia commuoveva profondamente vecchi e giovani. Toccava soprattutto la sensibilità, e «ogni fibra» delle popolane «brune e fiorenti». «Una cara tradizione, quella degli zampognari, ormai trapassata, che si rimpiange maggiormente col passar degli anni. Ora i bambini non hanno più la gioia di correre presso i ciaramellari e di circondarli di simpatia e di festa».
«Una simpatica usanza che va scomparendo, facendo venir meno la nota romantica del Natale – sospira nostalgicamente anche La Sorsa – ma, per fortuna, è ancora viva un’antica tradizione: dieci giorni prima di Natale, piccole brigate di suonatori, con chitarre e mandolini, insieme a due o tre cantori, rappresentano, di casa in casa, la lunga filastrocca della “Santa allegrezza”. Narrava la vita e la passione di Gesù».
Il fascino di Folklore garganico è proprio nelle belle immagini con cui il Tancredi ci fa rivivere un tipica notte del periodo natalizio, che è uno spaccato di ciò che avveniva in tutti i paesi del Gargano, dove la temperatura era molto più rigida di adesso, e la neve era di casa:
«Il vento fischia fra le alte cime degli alberi; sibila, ùlula fra le colonne della inferriata della Reale Basilica e i fiocchi di neve cadono sui rami nudi, sulla brulla campagna, sulle case bianche». Le filatrici e le tessitrici, «provvide massaie», chiaccherano allegramente tra di loro, non trascurando il lavoro: fanno contemporaneamente frullare gli arcolai (li uinnele) e muovere lestamente le forcelle (li matassere).
Nell’aria gelida, stemperata dal calore degli ampi e neri camini, si sente che qualche cosa sta nascendo: rinascono la fede, la speranza. «Il popolo garganico – sottolinea Tancredi – ha un vero culto per il focolare domestico. Esso rappresenta un’idea di riposo, di pace dopo il lavoro, ed è simbolo della comunione di vita e di affetti tra le persone che si amano.
Anticamente, e la tradizione si conserva ancora oggi in molte case, ogni notte si soleva serbare acceso un tizzone sotto la cenere, per accendere il fuoco la mattina seguente. Nella notte di Natale, però, nelle ampie e patriarcali cucine garganiche, la fiamma del ceppo non deve ardere soltanto sotto la cenere, ma deve brillare sempre gaia e scoppiettante».
Ecco perché, per questa occasione, vengono riservati i tronchi d’albero più grossi e pesanti, in grado di illuminare la casa per tutta la notte. La Sorsa ci spiega il significato di questo rito: il ceppo simboleggia l’albero «causa del peccato originale di Adamo ed Eva. Solo consumandosi la notte di Natale avrebbe annullato la colpa, in quanto proprio in quella notte Gesù scende in mezzo agli uomini, per la nostra salvezza».
Specialmente nelle case di campagna, il fuoco veniva acceso con un rituale quasi religioso. Doveva ardere lentamente per tutta la notte e restare acceso fino al giorno del battesimo di Gesù, cioè sino all’Epifania. Avrebbe così allontanato ogni disgrazia dalla famiglia. La cenere prodotta dal ceppo veniva sparsa nei campi, per propiziare un raccolto abbondante.
I PRESEPI
Una tradizione natalizia antica è la preparazione del presepe. Lo allestivano ricchi e poveri, ognuno secondo le proprie possibilità: poteva occupare una stanza intera, oppure una panchetta in un angolo della casa. Il presepe era contornato dalla frutta più squisita, in attesa di essere gustata dal Bambinello.
Racconta Tancredi che in molte case, per ricordare la santa grotta e la nascita di Gesù, si fa il presepe «con monti, valli, burroni, strade di carta cenerina o giallognola ben piegata e schizzata di colori e ornata di erbette e di muschi; con alte frasche verdi, fra le quali occhieggiano i corbezzoli rossi e risaltano gli aranci d’oro; con grosse zolle di terra, e con angeli sospesi sull’arco della grotta e osannanti Gloria a Dio nei cieli e pace sulla terra agli uomini di buona volontà.
Non mancano castelli, casupole di pastori, capanne solitarie a cui menano viuzze e sentieri. Il presepe con le candele accese è benedetto dal padre di famiglia».
Singolare è un’usanza di Modugno (Bari), riferita da Saverio La Sorsa. Nelle case dove c’era il presepe, la sera familiari e vicini, dopo la novena, recitavano tre Ave Maria per le camicie del bambino, tre per le cuffie, e tre per le fasce: per ricordare che Gesù nacque in una povera stalla, senza corredino usuale.
Nella nostra Peschici, per tutto il tempo di Natale, le case erano allietate da canzoni sul tema, intonate a varie riprese da tutti i componenti della famiglia, e in particolare dai bambini.
Una nenia, in particolare, riguarda proprio la preparazione del corredino di Gesù, non prima, ma dopo la sua nascita: «Ninna nanna /o Bammnell’/ che Maria vò fatjà/ gli vò fa la camicina/ ninna nanna Gesù bambin’».
Questa strofa era seguita da altre simili, a parte il capo del corredino che variava fino al completamento del cambio del neonato. Alla camicina seguivano le scarpette di lana (i’ scarpitell’), la cuffietta (a’ cuffiett’), il vestitino (u’ vestitin’). La Madonna li confezionava a mano, approfittando dei momenti in cui il suo bambino dormiva.
L’ALBERO DI NATALE
Nelle case dei signori troneggiavano anche i primi alberi di Natale. Erano ornati di arance e mandarini, abbelliti da stelle d’argento, fili d’oro, nastri di seta o piccoli pezzi di ovatta, per dare l’idea della neve. Sui rami, giocattoli, doni, chicche, cioccolatini.
Dopo la benedizione del capofamiglia, venivano distribuiti ai bambini. Poi si cantava, si suonava, si ballava, ed i padroni offrivano vari dolci e rosoli ai convenuti.
PREPARATIVI … IL PANE DELLA FESTA
In ogni famiglia, nel periodo natalizio, si dedicava molto tempo e attenzione alla cucina. Si preparavano dolci e pasti degni dell’evento. Il Tancredi riferisce che, due o tre giorni prima di Natale, quasi tutte le famiglie facevano il pane bianco le ppene suttile (mentre usualmente si mangiava il pane bruno): erano grossissimi pani circolari, convessi, detti uceddete.
Pesavano fino a otto, nove chili. «Uno degli uceddete si conservava, per devozione, fino al giorno di Sant’Antonio Abate, che ricorre il 17 gennaio, per farne pancotto».
Ricordo una canzoncina cantata da mia nonna, originaria di Vico del Gargano. Recitava: «Mò vene Natale/ mò vene Natale/ e vene a’ fest’ di quatràre/ e nà pett’l e nà ‘ranoncke/ mamma li stenne e tate l’acconcke» (Ora viene Natale, ora viene Natale, e viene la festa dei bambini/ e una pettola e una ranocchia/ mamma le stende e papà dà loro forma). La “ranoncke” era un piccolo pane spruzzato di mandorle tritate, confezionato apposta per i bambini in occasione della festa di Natale.
Ci racconta La Sorsa che a Conversano, vari giorni prima di Natale, dopo la mezzanotte i garzoni dei fornai andavano in giro per la città, battendo tegami di rame o di stagno, e gridando: «Alzàteve, femmenèlle,/ Mettite la calddarèlle, / Facite lu pane bel1e,/ Le dolce e le ciambèlle»…
In altri paesi facevano baccano a più non posso con marmitte, campane di bovi, tamburelli e fischietti, gridando per le strade: «Alzàteve megghjere de cafune/ E tembrate pèttele e calzune/ Alzàteve, megghjere d’artiste,/ E tembrate u pane a Criste:/ Alzàteve donne belle / E mettite la calddarèlle».
Invitavano le massaie a servirsi del loro forno per infornare pane, dolci e ciambelle: avrebbero avuto un buon trattamento, e a un prezzo conveniente. Anche allora esisteva la concorrenza.
… DOLCI E FRITTELLE
Molto accurati erano i preparativi per il cenone; anche nelle famiglie povere si preparavano i manicaretti di rito. Ogni paese aveva la sua specialità, e nessuno derogava dalla tradizione.
I dolci hanno un significato simbolico, e ce lo spiega La Sorsa: nella fantasia popolare le “cartellate” rappresentano le lenzuola di Gesù Bambino; i “calzoncicchi” i guanciali su cui Egli posò il capo; i “calzoni di S. Leonardo” simulano la culla; “il latte di mandorle” è evidentemente il latte della Vergine, e i “mostacciuoli” sono i dolci del battesimo.
Sempre il La Sorsa ci documenta che a Peschici le donne fanno le “pettole” lunghe mezzo braccio. In effetti, ancora oggi, la specialità peschiciana sono proprio le “pettole”.
Le massaie sono abilissime nello stendere la massa lievitata di questo dolce. Le frittelle raggiungono lunghezze considerevoli. Un proverbio invitava a non saltare questo rito natalizio per eccellenza: «I pett’le che nun cj fanne à Natale/ nun ce fanne manch’ à Cap’danne» (Le “pettole” che non si fanno a Natale, non si faranno per tutto il resto dell’anno).
Ci racconta La Sorsa che, in alcuni paesi delle Murgie, accorgimenti al limite della superstizione caratterizzano il rito della frittura delle “pettole”.
Le donne debbono impastarle solo dalla mezzanotte all’alba della Vigilia: chi per trascuratezza lo fa in altro momento, deve aspettarsi delle disgrazie.
Le contadine, secondo la tradizione, consigliano di non bere mentre si friggono le frittelle, le cartellate, le pettole, altrimenti assorbiranno troppo olio, che rischia di non bastare.
Dall’ultima pasta da friggersi, tolgono un pezzo, e dopo aver recitato una preghiera, lo buttano nel fuoco del camino in segno di augurio.
La donna intenta a friggere non dovrà assolutamente lodare la frittura senza dire: “Dio la benedica”, pena la cattiva riuscita dei dolci. Nel passare la frittura da un piatto all’altro, dovrà lasciare almeno un dolce, altrimenti gli altri andranno a male.
IL MERCATO DELLA VIGILIA
A Monte Sant’Angelo, nei giorni precedenti la festa, le strade sono più animate del solito, le botteghe offrono insolite leccornie: ciambelle, fichi secchi, pere, mele, nocciole.
«Nella vigilia di Natale, poi, in diversi punti della città, si mettono fuori le bancarelle sule quali fanno bella mostra molte sporte, di varie dimensioni, in cui le anguille sottili, agili e vive serpeggiano, si aggrovigliano, scivolano sul lastricato ed i superbi capitoni, che si pescano nei laghi di Lesina e di Varano, si muovono pesantemente; in altre ceste più eleganti si osservano i cefali, lu pesce bianche dalle squame d’argento e dagli occhi vitrei, le triglie semidorate, i merluzzi cenerini e le alici argentee messi in vendita da una ventina di pescivendoli, ciascuno dei quali a squarciagola vanta la propria merce».
Anche il La Sorsa rileva che sulle bancarelle del mercato della Vigilia si vende ogni ben di Dio: I fruttivendoli ornano «assai bellamente» le ceste delle frutta con nastri, fiori e carte veline di vario colore; altri piantano, innanzi alle loro abitazioni, l’albero del Natale carico di arance e limoni, e attorno al tronco ammucchiano la verdura.
IL CENONE DELLA VIGILIA
Il 24 di dicembre si digiuna a mezzogiorno; un proverbio riferito da La Sorsa recita: «Chi non fasce u desciune de Natale, o è turche, o è cane», comunque alcune famiglie spezzano il digiuno con qualche “pettola” ripiena di alici o di ricotta forte. La sera si fa il cenone, con la famiglia al completo. Dice il proverbio: «Natale e Pasque che le tue, Carnevale a do te trùve».
A Monte Sant’Angelo, la sera di Natale, riuniti i parenti e gli amici più intimi si cena in lieta compagnia, soprattutto per la felicità dei bambini. La cena tradizionale, in tutte le case, viene preparata nell’ampio camino.
Tradizione vuole che le famiglie dei contadini mangino «li laine pli cicere clu sughe dlu baccalà», cioè fettuccine fatte in casa, con i ceci conditi col sugo di baccalà: Il menù dei ricchi “galantuomini” prevede invece spaghetti con le alici, oppure col sugo di pesce e broccoli stufati.
Altri piatti di rito sono il capitone arrostito oppure fritto, marinato e le anguille (1’ancidd). Le più squisite sono le così dette mareteche, che crescono tra la foce del mare ed il lago.
LA NOTTE DI NATALE
A Monte Sant’Angelo la gente si riversava nelle strade, in un continuo via vai; «numerose riunioni si formano nei caffè; i fanciulli suonano la puta puta, i giovanetti l’organetto, gli uomini la chitarra battente e la francese; i pecorai la c’iaramedd e la freschett; molti cantano, altri ballano, tutti gridano, ridono, gesticolano; si sparano piccole batterie, castagnole, razzi, bombe; si accendono bengali, mentre la gente come un fiume va, va, spinta dal desiderio di divertirsi».
Con un certo anticipo sulla funzione sacra a Gesù Bambino, donne e ragazzi, con sedie e sedioline impagliate, che portano sulla testa o sotto il braccio, si avviano verso la Basilica di S. Michele, dove una folla immensa si pigia, urtandosi lungo la scalinata di ottantotto gradini e dietro la Porta del Toro ancora chiusa.
Questa veniva spalancata solo quando «dal vetusto campanile angioino le grosse campane spandevano il loro armonioso suono. La millenaria Grotta in pochi minuti è gremita di gente».
La descrizione del Tancredi ci visualizza benissimo l’idea di quello stare tutti insieme, accalcati nella Sacra Grotta: saltano inevitabilmente gli austeri e puritani tabù di quel tempo, che impediscono ai giovani innamorati di stare a stretto contatto fisico. «In questa Santa Notte, nella Reale Basilica fermentano gli amori in un dolce contatto di fianchi, di braccia, di piedi».
Naturalmente, nell’attesa della funzione, la Grotta dell’Angelo, come tutte le altre chiese, si trasformava in animata sala di conversazione; e si assisteva anche a curiosi scherzi: «I giovani, in questa confusione, cuciono le vesti alle giovanette, alle donne anziane, le quali, all’uscita della chiesa, trovandosi legate, gridano e inveiscono contro i giovani maleducati».
Nel Salento, ad ora inoltrata, anche nelle case si compiva la cerimonia della nascita del Redentore. S’illuminava il presepe con piccole candele, e da una stanza vicina muovevano in corteo i bambini e le bambine presenti; il più piccolo portava il Bambinello di cera o di creta in una culla di coralli, gli altri con candele in mano l’accompagnavano in processione.
Il padrone di casa recitava dei versetti, a cui rispondevano i presenti, delle preghiere, quindi deponeva il Bambinello nella grotta, fra Giuseppe, Maria, il bue e l’asinello. Terminata la cerimonia, si cantava la pastorella, si sparavano razzi e bombe carta, e si tornava a giocare.
ARRIVA IL GIORNO TANTO ATTESO…
Si accorre in chiesa a sentire le tre messe, in ore diverse, con un certo intervallo: la prima a mezzanotte, la seconda all’aurora, la terza a giorno inoltrato. Tutti si vestono a festa: «La notte de Natale/ Se mutene pure le ferrare»(La notte di Natale si cambiano anche i fabbri).
Per le vie ognuno rivolge gli auguri alle persone che incontra. Molte famiglie si scambiano i doni: per le vie è un via vai di servette e di ragazzi che portano, avvolti in bianche salviette, piatti speciali a questa o a quella casa.
CREDENZE E SUPERSTIZIONI
Si pensava che la notte della Vigilia Gesù, accompagnato da schiere di Angeli, scendesse nelle case: portava pace e felicità fra gli uomini. Riferisce La Sorsa: «Le donne ritengono che a mezzanotte la Madonna scenda dal camino, e asciughi al calore del ceppo i pannolini che devono fasciare il Bambino».
Dopo la cena si lascia la tavola imbandita: si ritiene che debbano venire dall’altro mondo le anime dei parenti morti, i quali per gentile concessione divina potranno partecipare, solo per quella notte, alla felicità domestica.
A mezzanotte gli animali, per grazia speciale del Redentore, potranno parlare; ma è vietato osservarli, pena la morte istantanea.
Se si spegne il ceppo, è cattivo augurio: potrebbe morire il padrone di casa. Molte persone conservano i resti del ceppo per esporli in caso di burrasche o temporali. La cenere, posta sul collo dell’ammalato, guarirà il mal di gola; le donne la conservano in una tazza, esprimendo il desiderio di voler vivere un altro anno.
Allo scocco della mezzanotte, i vecchi insegnano ai giovani gli scongiuri per evitare le tempeste, o il “pater noster verde”: allontanerà i tifoni e distruggerà il malocchio.
Se una ragazza la notte del Natale si guarderà allo specchio con i capelli disciolti potrà vedere, invece della sua immagine, quella del suo futuro sposo.
Le donne che impastano la farina la notte della Vigilia, possono fare a meno del lievito: Gesù farà crescere lo stesso il pane.
Nei paesi del Foggiano si crede che chi nasca nel giorno destinato al Bambino, divenuto giovane, sia preso da una forma di pazzia, e diventi “lupo mannaro”. Per guarire tale malattia occorrerà, con coraggio, pungere, con la punta di un coltello, l’ammalato, allo scocco della mezzanotte, per “fargli uscire il cattivo”.
AUSPICI PER UN BUON RACCOLTO
Un grande attenzione è riservata alla campagna. I contadini, terminate le pratiche religiose, vanno in campagna a trarre gli auspici per il nuovo raccolto. Il primo augurio è che il sole regni incontrastato nella volta azzurra.
Se a Natale il cielo è limpido e sereno, ed a Pasqua è oscurato da nubi, il raccolto delle biade sarà sicuro: «Natale sicche,/ massare ricche». In tale giorno si osserva la pianta della fava; se è nata e si mostra ben avviata, è buon presagio per il raccolto delle olive e delle mandorle.
I caprai prevedono il tempo dal modo come in quel giorno le pecore brucano l’erba. Il giorno di Natale è quindi giorno di buon auspicio. Regolerà l’andamento dell’annata, allo stesso modo che il giorno natale d’un bambino determinerà tutta la sua vita.
UNA NUOVA SOLIDARIETÀ… NEL SEGNO DI QUELLA ANTICA
Nel rievocare il clima del tempo che fu, le antiche tradizioni di fine Ottocento, inizi Novecento, perché la memoria dei nostri padri non sia dimenticata, un dato ci colpisce: nonostante le condizioni di vita più precarie di oggi, un senso innato di solidarietà caratterizzava il popolo pugliese.
Come ci racconta Saverio La Sorsa, i contadini amavano invitare nella propria casa i derelitti e gli orfani per offrire loro un buon boccone, per evitare che vadano raminghi e provino stenti in quella notte.
I “poverelli”, ospitati a tavola in quel giorno, facevano le veci delle “anime dei morti”. E se c’era qualche amico, che non aveva potuto raggiungere la propria famiglia lontana, veniva invitato. Gesù Bambino, ospitato a suo tempo in una grotta, sarebbe stato felice di sapere che nessuno, il giorno della sua nascita, era senza tetto e conforto.
Anche adesso, in questi giorni di Natale, c’è un uomo… ci sono uomini, donne, giovani e bambini, che non hanno una casa dove tornare, né un pranzo caldo, né amici o parenti, con cui condividerlo.
Un uomo… tanti uomini… poveri, sfortunati, colpiti da eventi tristi e luttuosi, da tragedie. E noi non possiamo voltare la testa dall’altra parte, non possiamo dire “non mi riguarda”.
Questi uomini senza voce, senza potere, senza speranza, non vogliono essere dimenticati. Per Natale, sforziamoci di non essere distanti! Dimostriamo una nuova solidarietà, una solidarietà concreta, non fatta soltanto di vane parole. Anche un gesto piccolo è importante!