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CHI SAREBBE OGGI GIOLITTI PER SALVEMINI?

I politici dell’Autonomia Differenziata giudicati dal meridionalismo storico. Una conversazione insolita tra storia e attualità con il meridionalista Michele Eugenio Di Carlo, che sta ristudiando e “interrogando” le più rilevanti figure del meridionalismo storico, da Giustino Fortunato a Gaetano Salvemini, ad Antonio Gramsci…

Un viaggio nella storia per agire nel presente.

Diretta Facebook settimanale culturale “TEMPI” di Futuro Meridiano◽️Passato Presente Futuro

con MICHELE EUGENIO DI CARLO (Meridionalista, autore di saggi storici), LAURA SPOSATO (Redazione Futuro Meridiano). Conduce ASSUNTA PAVONE (Responsabile Comunicazione Futuro Meridiano)

◽️

Michele Eugenio di Carlo su Meridionalismo storico e Autonomia differenziata

📚 DIRETTA

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Salviamo le Torri di Varano – i tesori del Gargano che stanno crollando

Petizione diretta a Giorgia Meloni (Presidente del Consiglio), a Michele Emiliano (Presidente Regione Puglia), Rosa Barone (Assessore Welfare Regione Puglia); Giuseppe Nobiletti (Presidente Amministrazione Provinciale di Foggia); Raffaele Piemontese (Vicepresidente Regione Puglia); Alessandro Nobiletti (Sindaco Comune di Ischitella (FG); Pasquale Pazienza (Presidente Parco del Gargano); Ludovico Vaccaro (Procuratore Capo di Foggia); Arma dei Carabinieri – Nucleo CC Tutela Patrimonio Culturale di Bari; Anita Guarnieri (Soprintendente – Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e paesaggio per Foggia e BAT); Gennaro Sangiuliano (Ministro della Cultura)

La petizione è stata lanciata l’ 11 febbraio 2024 su change.org 

da Alessandro Rota.

Ecco il testo

“La Storia è la memoria di un popolo, e senza una memoria, l’uomo è ridotto al rango di animale inferiore” Malcom X

Esprimiamo la grande preoccupazione per il Patrimonio Storico e Culturale del Comune di Ischitella (FG), rappresentato dalle due Torri medievali di Varano (grande e piccola) che versano in uno stato di totale degrado e abbandono ormai da decenni. I recenti episodi di cedimento della Torre Grande sono l’ennesima manifestazione di tale situazione, e le enormi crepe e buchi presenti nella Torre Piccola presagiscono un imminente crollo.

                                                

Le due Torri di Varano, site nella frazione “Foce Varano”, costituiscono i monumenti più importanti e significativi del territorio del Comune di Ischitella (prov. Foggia). La loro costruzione è risalente al XIII secolo e nei secoli più recenti sono passate in mano ai proprietari dei “feudi” della zona del Lago di Varano. Sono gli esempi più antichi di Torri di epoca medievale presenti sulle coste del Gargano.

                                                  

Esse costituiscono non solo due edifici di rilevanza storica, ma sono un grande patrimonio della memoria, della cultura e delle tradizioni locali.

Arrivando alla storia più recente, fino agli anni 1960/1970 le due Torri vengono utilizzate quotidianamente e mantenute con cura dalla gente del posto, dopodiché lo spopolamento della zona e la conseguente incuria ne determinano il primo abbandono.

                                             

Pur essendo beni di rilevanza storica e culturale, non vi sono stati interventi per la messa in sicurezza fino al 1987, anno in cui la Torre Grande è crollata rovinosamente per metà, fortunatamente senza causare vittime.

                                                 

Dopo la messa in sicurezza della parte rimasta in piedi, da quel momento le due Torri, anziché essere tenute sotto controllo e periodicamente curate, vengono sempre più abbandonate.

Inoltre, negli anni ‘90 l’edificio storico posto di fianco alla Torre Piccola viene demolito per costruire una casa moderna che a tutt’oggi (2024) risulta incompleta e ovviamente disabitata.

A partire dal 2010 le due Torri vengono attenzionate da alcuni abitanti del luogo e da appassionati di storia e cultura locali. I segni del degrado si fanno sempre più evidenti:

– nella Torre Grande la scalinata risulta invasa dalle piante selvatiche e vi sono numerose crepe, oltre a crolli evidenti di porzioni di facciata

– nella Torre Piccola, in corrispondenza di quella che era una finestra, si apre un enorme buco e le evidenti crepe giungono fino alle merlature. Le piante selvatiche invadono il suo interno, già pieno di detriti (pietre e travi).

In entrambe le Torri, la situazione appare gravissima e minaccia crolli importanti che potrebbero creare anche incidenti e vittime in quanto la loro posizione è prospiciente la strada.

La proprietà delle due Torri risulta privata, ma ad oggi i diversi titolari non hanno effettuato la necessaria manutenzione per far sì che tali beni storici vengano preservati, con i risultati di ROVINA che purtroppo ci ritroviamo a constatare. Le Istituzioni locali e nazionali che dovrebbero vigilare su questi beni costituenti il patrimonio storico e culturale italiano, fino a Gennaio 2024 non sono intervenute in maniera efficace.

Negli anni, sono state fatte molte segnalazioni e numerose sono state le iniziative di sensibilizzazione promosse proprio da chi ha a cuore la situazione e che promuove tale iniziativa di sensibilizzazione a interventi che ormai sono divenuti urgenti. Purtroppo, il degrado ha continuato ad avanzare.

                                    

Successivamente al nuovo rovinoso crollo della scalinata della Torre Grande avvenuto il 13 Gennaio 2024 abbiamo mandato una segnalazione direttamente al Segretario Generale del Ministero della Cultura, Dott. Mario Turetta, che ha prontamente risposto inoltrando la segnalazione direttamente alla Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio BAT e Foggia.

Da quel momento, sono intercorsi i primi dialoghi tra la Soprintendenza e il Comune di Ischitella, seguiti da un sopralluogo della Soprintendente BAT e Foggia Anita Guarnieri il 5 Febbraio 2024.

L’obiettivo dei firmatari è rendere noto alla popolazione quanto accaduto fino ad oggi, e di quanto sta accadendo, con la finalità di attivare finalmente le azioni e gli interventi necessari ed estremamente urgenti per salvare le due Torri di Varano.

In conclusione, dopo tali considerazioni e dati di fatto, con tale lettera

                                                                       RICHIEDIAMO

– che il Ministero dei beni culturali attivi direttamente, per i due Beni Culturali in oggetto, le due Torri di Varano, la procedura di Esproprio per pubblica utilità a fini di tutela, fruizione pubblica e ricerca, corrispondendo un’indennità ai proprietari, secondo la normativa vigente:

• D.P.R. 8 giugno 2001, n. 327, “Testo Unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di pubblica utilità”, in particolare D.L.gs 27.12.2002, n. 302, e successive integrazioni e modificazioni;

• D.L.gs 22.01.04, n. 42, “Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio”, artt. 95-100.

CHIEDIAMO INOLTRE

– che venga URGENTEMENTE analizzata la situazione dagli organi competenti, attuando tutte le azioni possibili finalizzate alla tutela di questi due beni del patrimonio storico-culturale del territorio di Ischitella, condividendo con la cittadinanza un progetto di restauro urgente e valorizzazione.

Il fine di tale richiesta è che le due Torri di Varano possano tornare ad essere due significative attrattive storico-culturali e turistiche del territorio del Gargano, che potranno essere valorizzate, una volta restaurate, attraverso la costituzione di una rete di collaborazione tra Istituzioni e Associazioni locali che potranno gestire, anche tramite la richiesta di appositi fondi, la promozione e le visite nei siti.

LE TORRI DI VARANO NON DEVONO MORIRE: non c’è più tempo, salviamole insieme!

Alessandro Rota

presidente Associazione Culturale Officine Ianós ed ex-bambino che tutte le estati giocava alle due Torri di Varano, immaginando che fossero eterne e indistruttibili come i castelli delle fiabe

Teresa Maria Rauzino

presidente Sezione Gargano Nord della Società Storia Patria per la Puglia

Associazione “il Quadrato Magico”

Potete firmare la petizione “Salviamo le Torri di Varano – i tesori del Gargano che stanno crollando”

su change.org al seguente link: 

https://chng.it/hTY7ZBk8DF

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    Arthur Miller a Monte Sant’Angelo… alla ricerca delle sue radici ebraiche

    Per il drammaturgo americano, il viaggio a Monte Sant’Angelo diventa un pretesto per riscoprire la sua identità

    Monte Sant’Angelo in un quadro del pittore Luigi Schingo

    Molte suggestioni vengono ispirate dai viaggi, che per il narratore diventano pretesto di scrittura. Nel 1948, nel Mezzogiorno poverissimo di un’Italia appena uscita dalla seconda guerra mondiale, su una piccola Fiat rumorosa, viaggia un newyorkese di origine ebraica: Arthur Miller (1915-2000), uno degli intellettuali più impegnati del Novecento, che balzerà agli onori della cronaca dopo il matrimonio con  Marilyn Monroe.

    Il giovane scrittore è in compagnia dell’amico italo-americano Vincent Longhi e visita Monte Sant’Angelo, un “nido d’aquila turrito” denso di memorie medievali.  Quell’angolo di Puglia lascia un’impronta indelebile nell’animo di Miller, che l’anno dopo pubblicherà il capolavoro che gli valse il Premio Pulitzer: “Morte di un commesso viaggiatore (1949)”.

    Il racconto “garganico” appare nel 1951 sull’autorevole rivista “Harper’s Magazine”. Tradotto in italiano dalla Rizzoli nel 1970, è stato ripubblicato da Davide Grittani nell’antologia “Verso Sud” (ed. Grenzi).

    Monte Sant’Angelo diventa il luogo dove Miller va alla ricerca del tempo perduto, riscopre la propria identità. L’autore ritrova nella luce tersa del Sacro Monte tutta la sua essenza. L’ambiente e le persone destano in lui strane suggestioni, facendogli riconoscere, in alcuni gesti e situazioni, una componente etnica latente: l’ebraismo.

    Miller, che nella finzione del racconto è l’ebreo Bernstein, resta colpito dall’asprezza del paesaggio e del contesto; vorrebbe ritornare a casa. Ma Vinny Appello (Longhi), l’amico d’origini italiane, che prima a Lucera, poi a Monte Sant’Angelo sta ricercando le proprie radici presso una zia e nel santuario di San Michele, gli comunica il desiderio che guida il suo viaggio: “appartenere a una storia”.

    Quando scendono nella cripta del santuario, il pavimento di pietra è bagnato dallo stillicidio della grotta carsica. Lungo le pareti e ai lati dei tortuosi corridoi che si diramano da una sala centrale a volta, vi sono delle tombe antiche, con iscrizioni illeggibili. Il prete ricorda vagamente una nicchia degli Appello, ma non ha idea della sua ubicazione. Appello passa da una cripta all’altra, facendosi luce con una candela. Si curva, sembra un monaco, o un archeologo, scompare poco a poco nella lunga oscurità dei tempi, in cerca del suo nome su una pietra.

    Bernstein (Miller) ne è fortemente turbato. Ricorda i racconti di suo padre sul paese d’origine in Europa, la tinozza dove tutti attingevano l’acqua, lo scemo del villaggio, il barone del luogo. Nessun motivo di orgoglio in tutto questo, niente. E del resto, ora non è un americano a tutti gli effetti?

    Trovano un ristorante, sul precipizio al margine opposto della città; un grande, unico locale con quindici o venti tavoli; sulla parete di fondo una fila di finestre si affaccia sulla piana sottostante. Fa freddo. Il vento imperversa.

    Una ragazza, la figlia del padrone, arriva dalla cucina, e Appello le chiede cosa c’è da mangiare.

    La porta si apre ed entra un uomo. Guardandolo, Bernstein prova un’immediata impressione di familiarità, di cui non sa trovare la ragione. Si chiama Mauro di Benedetto, porta un cappello nero, insolito da quelle parti, dove tutti portano il berretto: «Vendo stoffe, qui, alla gente, e ai negozi, se così si possono chiamare» dice. Il suo sguardo non ha l’innocenza contadina degli uomini del paese. Dopo aver mangiato, beve un’ultima, lunga sorsata di vino, si alza e comincia a rivestirsi. Prende il suo fagotto posato su un tavolo e comincia a disfarlo.

    Bernstein lo osserva leggermente curvo sopra il fagotto. Vede le sue mani occupate a disfare il nodo. Ora l’uomo sta togliendo la carta che avvolge due pezze di stoffa, ne spiana con cura le grinze. La cameriera porta un’enorme pagnotta rotonda di almeno mezzo metro di diametro. Gliela offre, e lui la mette in cima alla pila di scampoli.

    A quel gesto, un’ombra di sorriso increspa le labbra di Bernstein (Miller). Ora l’uomo riavvolge con attenzione il fagotto, lo chiude con un laccio e lo riannoda. Bernstein ride, sollevato, dicendo ad Appello: « È esattamente il modo in cui faceva un fagotto mio padre… e mio nonno. Tutta la nostra storia è far fagotto e andar via. Solo un israelita sa legare un fagotto così!».

    Perché tanta fretta di arrivare a casa? L’uomo scrolla le spalle: «Non so. Per tutta la vita sono tornato a casa per l’ora di cena, il venerdì sera, e mi piace arrivare prima del tramonto. E mio padre il venerdì sera è sempre tornato a casa prima del tramonto».

    «Porta a casa il pane fresco per il Sabbath, che comincia al tramonto del venerdì – dice Bernstein all’amico – E’ un ebreo, ti dico. Domandaglielo, per piacere».

    Alla domanda di Appello, l’uomo scuote la testa, in segno di diniego. Quindi va via, ma Bernstein è felice lo stesso. Si sente finalmente a proprio agio. Ridiscende nella cripta e mentre l’amico continua a cercare la tomba dei monaci medievali suoi avi, egli non si muove, cercando dentro di sé il perché di quello che è accaduto. Vede quell’uomo cortese scendere giù per la montagna, camminare attraverso la piana, per strade segnate da generazioni di uomini, un viandante senza nome che porta a casa una pagnotta ancora calda il venerdì sera… e che si inginocchia in una chiesa la domenica.

    Un’ironia indescrivibile: sotto l’insensato impulso della storia, un ebreo è segretamente sopravvissuto. Pur spogliato della sua coscienza, osserva il Sabbath in un paese cattolico. La sua stessa inconsapevolezza finisce per essere una muta prova di un passato ancora vivo.

    «Un passato anche per me» pensa Bernstein, attonito nel sentire quanta importanza abbia questa cosa per lui. Per lui che non ha mai avuto una religione, e nemmeno una storia.

    Finalmente Appello ritrova la tomba tanto cercata. Anche lui è felice di aver ritrovato l’identità perduta. Quando risalgono su, il paese è deserto. L’aria odora di carbone di legna e di olio d’oliva. Qualche pallida stella è apparsa nel cielo.

    Bernstein (Miller) pensa a Mauro di Benedetto che sta scendendo per la strada sassosa e serpeggiante, affrettandosi per arrivare a casa, prima del calar del sole…

    @Teresa Maria Rauzino

    sul Corriere del mezzogiorno agosto 2008

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    Rodiani e molfettesi emigrati a Hoboken festeggiano le sante patrone delle città di origine

    Rodiani e molfettesi hanno fatto di Hoboken, la città di Frank Sinatra, affacciata sul fiume di fronte a New York, un pezzo di Puglia.

    Manifesto contributo rodiani residenti in America (fra cui Andrea e Michele Guglielmelli) per la festa della Madonna della Libera.

    Nella popolosa Hoboken, la più metropolitana e cosmopolita città del New Jersey, sita sulla sponda destra del fiume Hudson che la separa dall’isola di Manhattan, il 12 dicembre di 87 anni fa nasceva Frank Sinatra, l’italoamericano dagli occhi azzurri che avrebbe incantato, con la sua voce suadente e vellutata, gli innamorati di tutto il mondo.

    Hoboken celebra ogni anno la sua nascita e gli ha dedicato un parco ed una viuzza, che s’affacciano sull’Hudson; meta di conoscenti e vicini di casa, che in ricordo del loro beniamino vi depongono i mazzi di fiori coltivati nei loro giardini. Ad Hoboken risiedono molte famiglie provenienti da tutte le regioni italiane ed anche i discendenti di molti immigrati pugliesi. 

    Anche Rodi Garganico pagò il suo tributo all’emigrazione verso le Americhe, concentrando le sue speranze di riscatto economico oltreoceano, proprio in questa area suburbana di New York.

    Molti rodiani abbandonarono le attività agrumarie che registravano in quegli anni una preoccupante involuzione dovuta alle frequenti gelate, e lasciarono l’Italia tra la fine dell’Ottocento e il primo decennio del secolo scorso. I primi arrivati si fecero raggiungere dai propri familiari, ma anche dagli amici e dai conoscenti. Hoboken diventò la seconda patria di questa gente di mare che si portava dentro il ricordo della Madonna della Libera, l’eco dei rintocchi serali della campana del santuario mariano.

    Lo ha documentato lo storico Filippo Fiorentino, che nell’articolo I rodiani di Hoboken (pubblicato nel 2001 su «Frontiere», bollettino semestrale del Centro di documentazione sulla Storia e la Letteratura dell’Emigrazione della Capitanata) scriveva: «Da Hoboken nel New Jersey, alcuni anni fa, i coniugi Guglielmelli fecero giungere al Santuario della Libera di Rodi Garganico un labaro finemente ricamato, vessillo della Società Madonna della Libera Ladies Auxiliary, che porta riprodotto nella parte centrale la tradizionale sacra effigie.

    Significativo il gesto di affidare alla chiesa, che è memoria lontana della fede mariana mantenuta viva anche sulle sponde del fiume Hudson, il simbolo della devozione delle donne rodiane emigrate con le loro famiglie negli Stati Uniti d’America. Il 2 luglio di ogni anno, le strade di quella industriosa cittadina nordamericana erano percorse da un’insopprimibile volontà di testimoniare una fede popolare e antica.

    E, quasi a richiamare la tradizione che vuole le donne di Rodi portatrici del Sacro Quadro nel tratto terminale della processione, le “ausiliatrici” di Hoboken portavano con altrettanta emozione quel vessillo di raso, che ricongiunge ora nel Santuario le generazioni di ieri a quelle del presente, gli affetti dolenti d’oltreoceano al bisogno di affidamento cristiano della vita nei luoghi nativi».  

    A sostenere lo spirito di solidarietà tra emigrati, era attiva a Hoboken già nel 1911 la Promontorio Garganico Società di Mutuo Soccorso. Dal libretto-statuto si evince che la Società mirava a promuovere «l’istruzione, la moralità ed il benessere collettivo». Il sodalizio si proponeva tra l’altro di creare una cooperativa di consumo tra i soci. Il mutuo soccorso si ispirava a logiche sociali di tutela della manodopera italiana e, in occasione di malattie o di inabilità al lavoro dei soci, si concretizzava in sussidi pecuniari.

    I «Molfettesi» di Hoboken

    Attualmente lo scopo delle associazioni presenti ad Hoboken come quella dei «Molfettesi» (nel 1929 Gaetano Salvemini parlò di una colonia di 3000 immigrati) è di mantenere i soci legati alle loro radici. Anno dopo anno, il loro impegno per mantenere viva la loro identità è facilitato dai nuovi mezzi di comunicazione sociale.

    Gli italoamericani infatti seguono continuamente i telegiornali e tanti altri programmi della radiotelevisione italiana, che incentivano i rapporti con la cultura legata all’Italia. Particolare l’attenzione verso i giovani. Nati e integrati in una nazione come gli Stati Uniti d’America, è infatti difficile mantenerli uniti e interessarli alle attività dei più anziani. Ma quasi tutti parlano l’italiano, oltre al dialetto d’origine delle loro famiglie.

    La processione della Madonna dei Martiri di Molfetta ad Hoboken.

     

    Nei club dei rodiani, dei molfettesi e delle altre comunità pugliesi tutto parla della Puglia: le stampe che riproducono le vie delle città d’origine delle varie comunità, le chiese, le foto storiche e quelle sugli eventi più significativi. È qui che oggi si svolgono gli incontri associativi, i ricevimenti, i banchetti e i picnic per le famiglie dei soci e dei paesani; ma è anche qui che ogni giorno, chi vuole bere un buon caffé italiano, va a trovarli, respirando aria di casa.

    Occasioni di aggregazione e di gioia comunitaria sono le feste dei santi patroni dei paesi d’origine. Ogni 25 e 26 luglio le varie comunità partecipano sempre più numerose alle feste di Sant’Anna e di San Giacomo e, in ottobre, al Dinnerfest, a cui sono invitati i membri dei club della Comunità montana del Vallo di Diano (SA) residenti nel New Jersey e a New York. Ma la festa più importante è senz’altro l’Hoboken Italian Festival, organizzato dal 9 al 12 Settembre di ogni anno dalla «Society Madonna dei Martiri» dell’omonima comunità originaria di Molfetta.

    DOCUMENTI
    I nomi dei rodiani che si rincorrono a Ellis Island
    .

    Scorrendo le liste degli emigranti sbarcati ad Ellis Island,  postate sul sito www.ellisisland.org, si leggono i nominativi di alcuni membri della famiglia Guglielmelli, partiti da Rodi Garganico per raggiungere Hoboken nel primo Novecento.

    L’11 Settembre 1906 il diciassettenne Michele Guglielmelli si imbarcò da Napoli sul «Manuel Calvo», un bastimento a vapore battente bandiera spagnola e impegnato per anni sulla rotta Barcellona-New York-Caraibi.

    La nave, costruita nel 1892 dalla ditta Armstrong, Mitchell & Company, a Newcastle, con il nome di «Lucania» per il Lloyd germanico aveva una stazza di 5.617 tonnellate; misurava 128 metri di lunghezza per 14 di larghezza e poteva raggiungere una velocità di servizio di 13,5 nodi. La sua capienza massima era di 1.116 passeggeri (84 posti di prima classe, 32 di seconda, 1.000 di terza classe).

    Lista d’imbarco dei Guglielmelli.


    Il 3 Settembre 1909, fu una ragazza, la diciassettenne Rosa Guglielmelli, ad imbarcarsi a Napoli sul «Calabria», un bastimento che sotto bandiera britannica fu impegnato per più di venti anni sulla linea Mediterraneo-New York e Glasgow-New York.

    Un altro membro della famiglia Guglielmelli, il diciassettenne Michele, diretto a Hoboken, risulta iscritto e cancellato nella lista dei passeggeri del bastimento «The Berlin», salpato il 19 Novembre 1913 da Napoli (che sbarcò ad Ellis Island i rodiani Zicolella Giuseppe di anni 17, Sangillo Michele di anni 18, Sangillo Angelina di anni 24 e Miucci Maria Vincenza di anni 24).

    Non risulta il motivo per cui il ragazzo preferì imbarcarsi oltre un mese dopo, esattamente il 26 dicembre 1913, insieme ad altri due rodiani (Di Lella Matteo di anni 17 e Carbone Vittoria di anni 48, diretti a Rochester) sul «Franconia», una nave molto più grande (18.150 tonnellate, 190 metri di lunghezza per 21 di larghezza; velocità di servizio di 17 nodi; 2.850 passeggeri (300 in prima classe, 350 in seconda, 2.200 in terza), di proprietà della compagnia britannica Cunard, una delle principali del mondo.

    ©2005 Teresa Maria Rauzino, articolo pubblicato su «Corriere della sera – Corriere del Mezzogiorno» del 14/04/2005. Le liste di imbarco dei Guglielmelli sono tratte dal sito www.ellisisland.org; la foto della processione dal sito http://www.hobokenitalianfestival.com/. Il manifesto dei contributi degli emigranti americani per la festa della Madonna della Libera di Rodi è tratto dall’album fotografico a cura di don Matteo Troiano, Rodi Garganico. Splendori di un passato, Edizioni Parrocchia San Nicola, Stampa Più Grafica Bologna, 1999.

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    1527. I lanzichenecchi a Roma

    Andrea Moneti, collaboratore del sito www.storiamedievale.net, vince il Premio Michelangelo 2005 con un romanzo edito nella collana “Eretica” di Stampa Alternativa.

    Il primo posto della X edizione del Premio letterario nazionale “Michelangelo” quest’anno è toccato ad  Andrea Moneti, autore del romanzo 1527. I Lanzichenecchi a Roma (Stampa Alternativa, Eretica, 2005, pp. 297). 

    La giuria, memore che il primo romanzo di Moneti, Eretica pravità, uscito per i tipi della Firenze Libri, e vincitore della passata edizione,  è stato premiato con ben 11 premi letterari (fra cui il Mario Soldati e, ultimo in ordine temporale, il Premio Italia Medievale 2005 per l’editoria) augura al «bravissimo scrittore» una splendida carriera e altrettanti meritati successi.

    Dalle motivazioni del Premio “Michelangelo” si rileva come 1527 sia «un romanzo storico, ottimamente scritto, di facile lettura pur nella complessità, narrazione molto aderente alla realtà dei fatti citati, con avvenimenti, località e date in perfetto ordine cronologico. Cattura l’attenzione del lettore, portandolo a rivivere le vicende del passato in un emozionante susseguirsi di immagini».

    Leggendo il libro di Moneti, in effetti, si resta colpiti dalla “levità” con cui l’Autore ha saputo tradurre una vicenda rigorosamente storica, il sacco di Roma, in un testo di ampio respiro narrativo. Ma se è la storia  a connotare la tipologia testuale prevalente,  1527  vede confluire in sé il ritmo del romanzo d’avventura, la suspance del thriller, i temi psicologici del romanzo di formazione. Un mixage di generi narrativi sapientemente dosati dall’Autore, che trascina il lettore in una lettura coinvolgente, nel segno dei migliori romanzi che sanno convincere ed avvincere dalla prima all’ultima pagina.

    L’intreccio della vicenda parte da una missiva del protagonista Heirich, che sarà la chiave di volta dell’intera vicenda. Il tema è di quelli “impegnati”: la violenza della guerra, peggiore delle sciagure. Cieca e disumana si abbatte come un maglio divino sulla città eterna dove la vita è un’imponente lotteria, dove soltanto i più fortunati o i più furbi vengono baciati dalla sorte, dove la lussuria e l’ipocrisia regnano sovrane nella corte papale.

    Il 6 maggio 1527, l’esercito di Carlo V tiene in scacco Roma, mettendola a ferro e fuoco per nove lunghi mesi. Fra i 30mila o forse 35mila soldati, vi sono 12mila mercenari che si battono contro la corruzione della Sacra Romana Chiesa in nome di una nuova fede: il luteranesimo.

    A nulla servono le parole di Clemente VII che sprona i suoi prodi a fermare gli invasori in nome di Dio. Ben presto il pontefice capirà, nel chiuso della prigione di Castel Sant’Angelo,  che Dio non segue alcuna bandiera, nessun esercito. Dio non guarda mai cosa succede sui campi di battaglia. Distoglie lo sguardo e lo volge altrove, lasciando gli uomini a scannarsi tra loro.  

    Roma subisce un’immensa profanazione: i paramenti sacri, gli ori, gli oggetti liturgici vengono rubati o gettati per strada, nel fango e nel letame. Le bolle papali, le lettere e i registri dei conventi e dei monasteri alimentano altissimi, mirati falò. Ovunque, in ogni rione, divampano gli incendi e risuonano le grida delle donne stuprate, il pianto dei bambini strappati alle madri, le urla dei soldati ebbri di furore. Molte fanciulle vengono uccise dai loro stessi parenti per sottrarle all’onta del disonore. Non c’è rispetto per nessuno.

    La mattina del 7 maggio 1527 la città eterna si presenta come una città morta. Non c’è luogo che non sia stato saccheggiato dagli spagnoli e dai lanzichenecchi. I luterani, insieme ai marrani e ai giudei che combattono con i tercieros spagnoli, non hanno risparmiato alcun luogo di culto.

    Oltre all’orrore per la guerra, emblematico degli orrori di tutte le guerre, Andrea Moneti fa vibrare nei suoi personaggi i sentimenti eterni dell’uomo. L’amicizia, la lealtà, l’amore rivivono nei protagonisti, avvicinandoli al lettore, che impara ad amarli e a seguirli fino allo scioglimento della vicenda,  al fatidico “The End”. Un finale che ha un lieto fine, quel lieto fine che spesso è negato nei romanzi contemporanei, e che invece Andrea Moneti riesce a sciogliere nel rispetto dell’evoluzione dei personaggi, e in particolare di Heinrich, protagonista della storia.

    L’io narrante è alterno: passa da quello interno del protagonista a quello del narratore. Un narratore discreto, che muove con abilità la storia, anticipandola o posticipandola con l’uso sapiente della prolessi e del flashback.

    Il punto di vista dell’autore Andrea Moneti, che condanna l’insensatezza di tutte le guerre, viene fuori dalla storia stessa, dai dialoghi e dal flusso libero di coscienza del protagonista Heinrich. Costante tema di fondo è l’inconciliabile contrasto, interno alla stessa Riforma protestante, tra i seguaci dell’ortodossia luterana ed i seguaci di Muntzer, trucidati dalle truppe armate dai principi per stroncare le rivolte contadine scoppiate in tutta la Germania.

    Per stroncare “l’eresia” della comunanza dei beni condannata da Lutero, non ci si ferma neppure davanti al sacro sentimento dell’amicizia. Si tradisce e si uccide, accampando giustificazioni superiori. La ragione della religione, che diventa ragione di stato, prevale sui sentimenti più puri. Heinrich per non tradire un amico d’infanzia che ha preferito Muntzer a Lutero, è costretto, suo malgrado,  a disubbidire ai suoi superiori.  La sua coscienza è lacerata dal dissidio interno della scelta. Considerato un traditore da amici che diventano i suoi occulti nemici, rischia di morire.

    Una brutta fine per le idee innovative della Riforma, che avevano provocato una vera rivoluzione culturale. La predicazione contro le indulgenze,  la sfida aperta al papa in nome della libertà di coscienza, avevano librato sulle ali del vento la fama di Lutero. Il monaco agostiniano non si era fermato qui. Aveva tradotto la Bibbia in tedesco. Aveva insegnato ai fedeli a leggersela da soli, ad essere unici interlocutori di Dio, a sentirsi liberi anche nei confronti dei potenti della terra…

    Il sensibile e problematico Heirich, capitano lanzichenecco sui generis, figlio di un nobile proprietario terriero, si era sentito libero. Aveva messo a frutto l’insegnamento di Lutero. Era andato oltre lo studio della Sacra Bibbia, aveva studiato all’università di Tubinga la lingua ufficiale della “nemica” Santa Romana Chiesa. Una decodifica del latino che aveva affinato il suo gusto, insegnandogli ad apprezzare la poesia di Ovidio e di Orazio.

    Heirich si era convinto, suo malgrado, a ripercorrere le orme del padre, dedicandosi alle sue terre, ma dopo la precoce perdita della giovane sposa (recisa dall’albero della vita da un dio beffardo), per sfuggire all’abisso della solitudine, aveva scelto di dare una svolta alla sua vita. Era diventato capitano di ventura. Una scelta che comincia a pesargli appena è costretto dalla dura legge marziale a stroncare, senza pietà, la prima vita umana.

    La vita avventurosa, i facili guadagni, i saccheggi, gli amori prezzolati cominciano a stargli stretti. La crisi, già latente, matura durante il sacco di Roma. Heirich, entrato in San Pietro, che l’abbaglia per la sua maestosità, quando posa lo sguardo sul pavimento macchiato di sangue, ha un istintivo moto di disgusto.

    Solo dopo una lunga serie di eventi tragici (riecheggia nel romanzo l’inconfessata preghiera Domine, libera nos a peste, fame et bello), il nostro eroe ritroverà finalmente se stesso. La sua lunga crisi interiore avrà un epilogo. A riconciliarlo con la vita, e forse con il suo Dio perduto, sarà Angelica, una  fanciulla che non ha avuto paura di lui, e lo ha accarezzato con un sorriso durante il suo febbricitante delirio. Per Heirich, l’alba e l’imbrunire ridiventeranno una cosa sola.

    Come la vita e la morte, l’odio e la speranza…

    L’AUTORE

    Andrea Moneti, un ingegnere innamorato della storia, nasce nel 1967 ad Arezzo, dove vive. È un ingegnere gestionale, e si occupa di organizzazione aziendale, logistica industriale, marketing di acquisti, approvvigionamenti, qualità, relazioni industriali, etc. etc.

    Che barba, direte! Non vi si può dar torto, ma è pur sempre meglio che lavorare in miniera – confida Andrea Moneti ai visitatori del sito www.storiamedievale.net – cui collabora con la rubrica sulle eresie medievali.

    Moneti risponde alle eventuali, possibili domande su come un ingegnere possa scrivere e parlare di Medioevo: «Forse l’unica spiegazione di questa bizzarra alchimia è che, essendo nato e vissuto da sempre in una città e in una regione dove il Medioevo lo si respira passo dopo passo – sasso dopo sasso – ne è proprio intriso: con una predilezione per i movimenti ereticali dei secoli XIII e XIV, catari e apostolici in testa».

    La sera, quando torna a casa, Andrea Moneti si sveste dai panni dell’ingegnere, tanto attillati per tutta la giornata. Vede in televisione il deserto, il pressappochismo e il politichese inutile, fastidioso, dei governanti nostrani (governo e opposizione, senza distinzioni). E pensa: «I secoli bui mi sembrano molto meno bui», concludendo come Cecco Angiolieri: «S’i’ fosse fuoco, arderei ‘l mondo… ma le zoppe e vecchie lasserei altrui».

      
               

    ©2005 Teresa Maria Rauzino. Articolo pubblicato il 6 settembre 2005 su www.capitanata.it.

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    Processo a Napoleone per l’eccidio di San Severo

    Il 25 febbraio 1799, 240 sanfedisti di San Severo, dopo aver divelto l’albero della libertà, furono massacrati dai francesi del generale Duhesme inviato da Bonaparte.

    Era legittimo mettere a ferro e fuoco la città di San Severo? Chi dispose l’eccidio del 25 febbraio 1799? Due interrogativi su una pagina oscura della storia di San Severo, che sono stati anche i due capi di imputazione a carico di Napoleone Bonaparte nel processo sui “fatti e misfatti” compiuti dalle truppe francesi inviate a San Severo per reprimere i moti filoborbonici che si è celebrato il 9 marzo 2006 presso l’Istituto tecnico “Minuziano” di San Severo.

    L’evento è stato organizzato dal «Centro di Ricerca e di documentazione per la Storia della Capitanata», con la collaborazione dell’associazione «Beatrice di Tenda» di Binasco (Mi) e vari patrocini istituzionali.

    La rievocazione storica, introdotta dal professor Giuseppe Clemente e da Luigi Minischetti (con letture di pagine di Fraccacreta, La Cecilia, Duhesme, D’Ambrosio e Irmici) è avvenuta grazie alla disponibilità di giudici e avvocati “veri”, in servizio in vari tribunali italiani (presidente del tribunale: Teodoro Rizzi; componenti del Collegio giudicante: Lucia Navazio e Ludovico Vaccaro; difesa: Guido De Rossi. La Parte Civile si è costituita nella persona del dr. Francesco Gatti, in rappresentanza delle persone danneggiate).

    L’interesse del pubblico, che è accorso in massa  per seguire l’evento, è stato enorme, grazie alla presenza di due magistrati di fama nazionale: il personaggio di Napoleone è stato infatti “interpretato” da Giuliano Turone; il pubblico ministero da Gherardo Colombo. Un PM  perfettamente nella parte che ha interrogato prima il teste, lo storico Matteo Fraccacreta, interpretato da Pasquale Corsi, e poi l’imputato, difeso dall’avv. De Rossi.

    Interessante l’intervento finale del prof. Clemente, che si è fatto portavoce del “pentimento” del generale Duhesme. Perché sono stati scomodati tanti giudici per un “processo” al grande condottiero corso? Per ricordare la cronaca di un eccidio ormai dimenticato.

    Un processo che non ha voluto mettere sotto accusa un periodo storico, ha precisato Colombo, ma un episodio specifico, che lascia questo interrogativo: gli ideali di libertà, uguaglianza e fraternità possono trasformarsi in pretesti per vere e proprie stragi? 

    La Corte ha emesso una sentenza con la quale ha dichiarato «Bonaparte Napoleone responsabile dei reati commessi in San Severo in data 25/02/1799 in concorso con il generale Duhesme e le truppe da questi comandate». 

    I giudici hanno ritenuto «di non poter irrogare una pena nei confronti dell’imputato ormai defunto», ma hanno auspicato, a titolo di risarcimento delle sofferenze patite dalla comunità di San Severo, che «resti imperituro il ricordo del sacrificio di tante vite umane e dei tanti abusi perpetrati» chiedendo, di conseguenza, che l’Amministrazione Comunale si faccia portatrice di opportune iniziative in tal senso. 

    Molto soddisfatto della riuscita dell’iniziativa il presidente del Centro di Ricerca, il prof. Giuseppe Clemente, che ha dichiarato: «Ci eravamo prefissati di riproporre la storia in modo originale ed accattivante, di rileggere i fatti di allora e di dare orizzonti più ampi ad un momento tra i più cruenti della nostra vicenda cittadina. Pensiamo di aver centrato pienamente gli obiettivi che ci eravamo dati, anche perché puntavamo a favorire la riflessione e l’approfondimento restando scevri da qualsivoglia forma di revisionismo».

    Nel corso della manifestazione lo stesso Clemente, nei panni del generale Duhesme, ha proposto che il Governo francese, interessato dalla Città di San Severo attraverso i canali diplomatici, voglia erigere nel centro cittadino un cippo commemorativo contro ogni tipo di violenza e a severo monito per tutti i popoli per continuare a vivere in pace e nel rispetto reciproco delle identità e delle differenze.

    Alcuni momenti del Processo a Napoleone svoltosi a San Severo con Collegio giudicante, Gherardo Colombo, Giuliano Turone, Giuseppe Clemente.

    FEBBRAIO 1799. CRONACA DI UNA STRAGE

    Le vicende di San Severo del febbraio 1799 costituiscono una delle pagine più tragiche della storia della città. Intorno a questi fatti molto è stato scritto, a cominciare dal resoconto dell’erudito Matteo Fraccacreta, che ne fu testimone e principale cronista. Il professor Giuseppe Clemente ha portato recentemente questo evento all’attenzione dell’opinione pubblica  nazionale, ripubblicando il saggio Febbraio 1799. Giacobini, sanfedisti e francesi a San Severo. Cronaca di una strage (Esseditrice, San Severo 2005). Il volume, basato sullo spoglio di fonti archivistiche come i registri dei morti delle parrocchie cittadine e gli atti notarili, si apre con una dettagliata descrizione degli eventi di quel periodo. La vicenda sanseverese viene snodata in tutte le sue connessioni e interferenze, senza trascurare le premesse più o meno lontane: dalla mancata modernizzazione del Regno di Napoli agli arruolamenti borbonici per la guerra contro i Francesi.

    Napoleone, impegnato fin dal 1796 nella prima campagna d’Italia, vince ovunque: esige versamenti in denaro e opere d’arte. Nel mese di gennaio 1799 è alle porte di Napoli, dove nasce la Repubblica Partenopea. Le notizie sulla Rivoluzione Francese avevano provocato in Italia contrastanti reazioni: da un lato la borghesia si attendeva il rinnovamento sociale a lungo auspicato, dall’altro l’esasperato anticlericalismo e il Terrore innescarono spiccati sentimenti antifrancesi.

    Anche in Puglia  si erano creati gruppi di patrioti filo-giacobini, contrastati dai lealisti borbonici.

    Possiamo inquadrare i fatti di San Severo intorno a tre date emblematiche:

    –  8 febbraio: i giacobini innalzarono in piazza della Trinità l’albero della libertà, emblema del nuovo governo repubblicano;

    – 10 febbraio: l’albero venne abbattuto dal popolo, che si scatenò in una sanguinosa repressione di coloro che erano sospettati o esplicitamente accusati di simpatie giacobine.

    – 25 febbraio: il cerchio si chiuse con l’arrivo delle truppe francesi agli ordini del generale Duhesme. La resistenza degli insorti venne piegata dopo violenti scontri nelle campagne, cui seguirono violenze e saccheggi in città, e condanne a morte per chi si era maggiormente compromesso, che inasprirono gli animi e generarono sentimenti di odio e propositi di vendetta nei superstiti e nei parenti delle vittime.

    Eppure il generale Championnet, inviato da Napoleone nel regno di Napoli, nelle “Istruzioni ai patrioti” aveva caldamente raccomandato «di rendere la rivoluzione amabile, per farla amare e renderla utile al popolo», sopprimendo titoli nobiliari, fedecommessi, e maggioraschi, primo passo verso l’abolizione della feudalità. Ordinando di piantare in ogni comune l’albero della libertà, e di munirsi di coccarde di tre colori della bandiera cisalpina (giallo-rosso-turchino), aveva raccomandato che i membri delle nuove municipalità fossero scelti tra «cittadini onesti e virtuosi».

    Come sempre accade nei cruciali momenti di “svolta” politica, anche a San Severo ci furono repentini cambiamenti di fronte: i fedeli sudditi borbonici si trasformarono in ferventi giacobini, pronti a ritornare sotto le bianche bandiere gigliate appena la situazione lo avesse richiesto. Trionfò il cameolontismo. Ecco perché la massa popolare lottò contro il nuovo governo filofrancese, con l’aggravante di essere strumentalizzata dai maggiorenti rimasti fuori dai giochi di potere.

    Questi diffusero tra il popolo già in fermento la voce che la successiva domenica, durante il terzo giorno dei festeggiamenti repubblicani, sotto l’albero della libertà ci sarebbero state «danze sfrenate, abbracciamenti e nozze» e che «a’ repubblicani connubi auspice sarebbe stata la statua della Santa Vergine».

    Domenica 10 febbraio 1799, perciò, quando i repubblicani prelevarono il simulacro della Madonna del Soccorso, patrona di San Severo, per portarla accanto al «gran cipresso coronato di alloro, con sulla cima il pileo rosso», la popolana Antonia de Nisi, detta la «scazzosa»,  insieme ad altri sanfedisti, gridò: «Perché, perché la Vergine co’ giacobini sotto l’albero? All’armi, all’armi!». Si scatenò una sanguinosa rivolta contro i giacobini. Questi furono decapitati con le stesse accette con cui fu tagliato l’albero della libertà, e le loro teste seppellite nel fosso del divelto albero, dopo essere state coperte di sputi.  

    Il vescovo Giovanni Gaetano del Muscio, che aveva ordinato ai parroci di predicare la pace nelle piazze, promettendo indulgenze ai penitenti, corse il rischio di essere linciato dalla folla insieme al frate francescano Michelangelo Manicone (illuminista di Vico del Gargano, autore de La Fisica Appula), che in quei giorni stava visitando San Severo ed aveva partecipato alla piantumazione dell’albero della libertà.

    La rivolta antifrancese si diffuse in molti paesi della Capitanata, da dove partirono gruppi di filoborbonici per dar man forte ai sanseveresi. Su San Severo, che non volle patteggiare la resa, si abbattè il 25 febbraio 1799 la tremenda vendetta dei francesi. La città fu messa a sacco. Ci fu una vera e propria strage d’inermi, di donne, di fanciulli.

    Il generale Duhesme il 7 marzo scrisse il seguente rapporto al suo superiore Mac Donald: «Dopo le manovre valorosamente eseguite dalle nostre truppe è stata chiusa la ritirata ai ribelli. Il resto della giornata non è stata che un massacro. (…) Avevo giurato di far incendiare San Severo, ma fui commosso dalla sorte lacrimevole di una popolazione di ventimila anime. Feci cessare il sacco e perdonai».

    Il Colletta parlò di tremila morti. La verifica effettuata dal professor Clemente sui registri delle varie parrocchie della città ha ridimensionato questo numero. In realtà, i morti registrati furono 240 fra i residenti a San Severo, 100 dei paesi vicini e 100 soldati francesi. In totale si contarono quindi 450 vittime. La maggior parte aveva meno di quarant’anni.

    Furono complessivamente 11 le donne vittime della strage, alcune mentre aiutavano i loro uomini impegnati negli scontri, altre massacrate in fuga o mentre cercavano scampo nelle chiese. Angela Giuliani fu uccisa insieme alla figlioletta Antonia Moscatelli, di appena un anno, mentre la stava allattando. Il 17 marzo venne fucilata Antonia de Nisi. Prima della pubblica esecuzione fu trascinata, con un laccio al collo legato alla coda di un cavallo, per le strade di San Severo. 

    L’arciprete Masciocchi, nell’annotare il nome della De Nisi sul registro dei morti della Cattedrale, scrisse: «Sacra poenitentia munita, a Gallis, praecedente  decreto condemnationis, pluribus ictibus ignearum balistarum vulnerata, mortem obiit, prope ianuam majorem Monasterium Patrum Coelestinorum, praecedente, dico, decreto condemnationis, ob crimen sibi imputatum et probatum, commovisse populum ad tumultum ob arborem libertatis in publica platea infixam» («Munita di conforti religiosi, per un precedente decreto di condanna, ferita dai Francesi con numerosi colpi di fucile, trovò la morte vicino alla porta d’ingresso del monastero dei Padri Celestini, per un precedente, ripeto, decreto di condanna, a causa di un crimine a lei imputato e provato: aver spinto al tumulto il popolo, dopo aver divelto l’albero della libertà piantato in pubblica piazza»).

    Ferdinando IV inviò il cardinale Ruffo alla riconquista del suo ex regno. La vittoriosa spedizione dei sanfedisti trovò il sostegno popolare e l’appoggio della flotta inglese di Nelson. Seguì dal giugno 1799 una spietata ritorsione del re contro chi aveva sostenuto la repubblica partenopea. A San Severo vi fu chi, pur avendo sostenuto i giacobini, per evitare ritorsioni, fece attestare da numerosi testimoni di aver tenuto un comportamento “lealista”. Quasi tutti i notai furono impegnati nella redazione di questi documenti “giurati”. Le mogli delle vittime della strage del 1799 chiesero e ottennero un risarcimento per sé e dei maritaggi per le piccole orfane.

    E ogni 25 febbraio fino al 1860, le campane della Croce Santa ricordarono ai sanseveresi, con i loro lenti rintocchi, quel giorno di ordinaria follia.

    PER NAPOLEONE UN PRECEDENTE: IL PROCESSO A BINASCO  
    Il processo a Napoleone svoltosi a San Severo nasce su ispirazione dell’associazione “Beatrice di Tenda”, che nel 2002 ha istruito un processo vero e proprio contro Napoleone e contro i responsabili dell’eccidio di Binasco, importante e ricco centro agricolo fra Milano e Pavia che nel 1796 venne messa a ferro e fuoco dalle truppe di Napoleone, in seguito ad un colpo di fucile partito contro un soldato francese: oltre cento civili furono uccisi, il paese fu distrutto. Questa terribile storia – all’epoca exemplum e monito verso chi poteva resistere alla determinazione napoleonica – era stata letteralmente rimossa dalla memoria locale. Una sola famiglia ricordava vagamente la perdita di un parente in quella data: l’intero episodio, una vera scena madre di distruzione, era stato dimenticato, come un vero shock collettivo, almeno sino al lavoro storiografico, datato circa una decina di anni fa. Anche il processo di Binasco è stato celebrato da protagonisti di primo piano (Virginio Rognoni in veste di presidente, Gherardo Colombo pubblico ministero, Salvatore Marceca nelle vesti di difensore) che hanno offerto numerose occasioni di riflessione: i conti col passato si fanno anche così, e straordinariamente attuali appaiono i termini con cui è stata posta la questione dei portatori di libertà, dei diritti dei civili, del diritto di guerra.     

    ©2006 Teresa Maria Rauzino.

    Foto del processo a Napoleone: @ Teresa Maria Rauzino


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    Microstorie

    L’agonia feudale e la scalata dei galantuomini

    Una ricerca storiografica di Leonarda Crisetti Grimaldi

    Dopo la lettura del libro di Leonarda Crisetti Grimaldi L’agonia feudale e la scalata dei galantuomini, cosa va posto all’attenzione del lettore? Quali i punti di forza della ricerca? Il compito è piuttosto arduo, vista la complessità della tematica. L’impianto temporale è di lunga durata: partendo dal 1750, la Crisetti si sofferma sull’Ottocento e giunge fino al 1914,  con qualche rapida incursione nei secoli passati e in quello attuale per ricostruire gli antefatti e le conseguenze della questione demaniale a Cagnano Varano.

    Uno spaccato storiografico che ci disvela status e modi di vivere delle vecchie classi egemoni, oltre ai meccanismi che connotano la scalata sociale di quelle classi che erano state, fino a quel momento, subalterne. Colpisce l’estrema varietà e ricchezza delle fonti utilizzate per ricostruire il contesto socio-economico: oltre alle Delibere comunali, la Crisetti analizza le Rivele, il Catasto Onciario, il Catasto Murattiano. Anche se redatti a distanza di sei decenni, i due catasti riflettono logiche, strutture e metodi differenti. Le consentono comunque di delineare un profilo attendibile della realtà tendenzialmente dinamica del regime possessorio della terra, oltre agli aspetti socio-economico-demografico-culturali della popolazione.

    L’Autrice non disdegna, per l’analisi delle vicende del Novecento, l’utilizzo delle fonti orali, raccordando la microstoria di Cagnano Varano con gli eventi coevi, con l’intento di dare risposta ad una domanda-chiave: «Chi furono  i  protagonisti della scalata sociale nel primo decennio dell’Ottocento?». Ecco perché scandisce tutti i passaggi che permisero a poche famiglie di appropriarsi illegittimamente dei terreni sottratti ai feudatari o al Comune, “affrancando” gli usi civici per regolarizzare le occupazioni e diventare proprietari. I cosiddetti “emergenti”, nel corso di oltre un secolo si servirono, a questo scopo, della politica e della “nuova” gestione della cosa pubblica.

    Nel 1750, al tempo dell’Onciario, la popolazione di Cagnano, di circa 1850 persone, è concentrata nei quartieri denominati “Entro la Terra”, “Casale” e “Nuovo Casale”. Le famiglie “gentilizie”, quelle che abiteranno nell’Ottocento i palazzi con portali e stemmi ben visibili, sono poco in vista. Non godono di redditi significativi: sono semplici “bracciali” e massari.

    La terra è nelle mani di tre grandi proprietari, esponenti della nobiltà e del clero: il principe-duca Brancaccio, titolare della Terra di Cagnano; il duca Zagaroli, proprietario della Difesa della Regia razza delle Giumente; i Canonici Regolari Lateranensi di Santa Maria di Tremiti, che posseggono San Nicola Imbuti, sul lago di Varano.

    Nel 1741, nella piccola cittadina garganica, c’è quindi un unico possessore di “sangue blu”: Luigi Paolo Brancaccio. Nelle rivele dell’Onciario è denominato “l’Illustre Possessore”. Il duca, di antica nobiltà napoletana, ha 46 anni. Ha rimpinguato il suo blasone sposando la duchessa di Carpino Felicia Vargas, sua coetanea, che gli ha dato sei figli: un maschio e cinque femmine.

    Nel Palazzo baronale di Cagnano, la famiglia dimora con la sua piccola corte, proveniente da località dove i principi Brancaccio gestiscono altri feudi: il segretario è palermitano, i camerieri sono napoletani, il “repostiero” è calabrese; non è specificata la provenienza della nutrice, del maestro di casa, dei due servitori, del cuoco e del sottocuoco, del calessiere e del “volante”, che  probabilmente sono stati assunti sul posto. Il duca Brancaccio esercita di diritto di pesca nei “tre puzzacchi” sul lago; possiede il grande bosco demaniale in località Bagno, una vigna con torre, pozzo d’acqua sorgiva e uliveti a San Rocco; mezzane d’uliveti, olivastri, orni, un orto di fichi, seminativi, diverse “piscine”, la Taverna, tre “trappeti per macinar olive”; animali vari.

    Luigi Paolo Brancaccio ha ceduto all’Università e affittato la portolania e la mastrodattia;  è altresì comproprietario di un “bosco sassoso e macchioso” di querce, cerri e faggi: il Compromesso; possiede la “defensa”  di Santa Marena, dove le università di Cagnano e di Carpino fanno pascolare le loro mandrie di buoi per tutto l’anno, riservando l’erbaggio anche alla Regia Dogana di Foggia per tre mesi all’anno. I pascoli sono sufficienti ad alimentare, oltre alle greggi e alle mandrie locali, circa ventimila pecore che giungono dall’Abruzzo.

    All’epoca dell’Onciario, poche unità, rappresentate da nobiltà e clero, producono il 56% del reddito del paese, mentre i produttori, ossia il 92% della popolazione, il restante 44%. Questi ultimi sono vessati da tasse e prestazioni da corrispondere all’Università, ai nobili e al clero.

    Durante il Decennio francese, i feudatari sono privati della giurisdizione e di alcune prerogative fiscali, ma non di tutti i beni: una parte viene loro assegnata come proprietà privata, un’altra parte è data al Comune, con l’obbligo di ripartirla tra i cittadini che hanno perso gli usi civici. 

    Nel 1806 cessa il sistema della Regia Dogana e nel 1807  gli ordini religiosi sono sciolti. I loro beni, incamerati nel Demanio dello Stato, vengono venduti ai privati. Una Commissione feudale, che opera fino al 1810, ha l’incarico di dirimere le questioni nate prima del 2 agosto 1806 tra Baroni e Università, mentre la quotizzazione è affidata ai commissari ripartitori, che nel 1811 definiscono i confini delle acque del Varano.

    Il Catasto Murattiano del 1813 dà un nuovo profilo delle classi sociali emergenti che producono il 77% dell’imponibile: l’ipotesi del miglioramento delle condizioni di vita dei cittadini di Cagnano è validata dall’aumento dei benestanti i cui nuclei familiari, elencati nel Catasto Onciario del 1750, versavano in condizioni modeste. Sono in mobilità ex massari, allevatori, coltivatori e commercianti. Produttori sono anche medici, avvocati, notai, speziali, funzionari, parenti del clero.

    La proprietà si consolida tramite accorte politiche matrimoniali. Il nuovo ceto, sostituendosi alla vecchia classe dirigente, ne  assume comportamenti e titoli onorifici, non si pone come forza antagonista; decide di mandare i figli a studiare a Napoli, per elevare il loro livello culturale e preparare la loro scalata sociale.

    Cambia la dimensione abitativa di Cagnano. La popolazione arriva a 3820 persone; il totale dei vani è di 1538, di cui 619 siti nella Terravecchia e 919 fuori le mura. Il Comune beneficia delle leggi eversive della feudalità, ampliando il suo patrimonio, entrando in possesso di Parchi e Mezzane, di una parte del Compromesso, delle Terre liquide, della Riseca e del Parco delle Giumente. Ma in queste terre si verificano ben presto occupazioni, dissodamenti e messa a coltura abusivi.

    I demani usurpati, la ricchezza mal distribuita, l’attentato agli usi civici, la fame di terra dei coloni, la precarietà dell’esistenza minacciata dalla malaria e dal colera, sono alla base delle agitazioni di massa dell’ultimo ventennio dell’Ottocento, che mettono in crisi varie amministrazioni comunali, costrette a dimettersi per la loro incapacità a fronteggiare gli eventi.

    È attiva sul Gargano una sezione dell’Internazionale socialista. Qualcosa si muove anche a Cagnano, che nel 1879 conta 18 affiliati al movimento anarchico, il cui leader è Carmelo Palladino, che proprio in quell’anno è arrestato con l’accusa di “cospirazione diretta a distruggere i poteri dello Stato”. La  reclusione dura pochi mesi.  Le autorità di polizia vigilano costantemente su di lui. L’8 maggio 1881 arriva un pacco, intestato a Palladino, contenente un giornale scritto in francese e manifesti incitanti alla rivolta.  

    Palladino, che era stato segretario pro-tempore dell’associazione napoletana internazionale dei lavoratori, continua a collaborare con la stampa anarchica e, alla vigilia del Congresso dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori, che avrà luogo in Svizzera nel 1887, elabora le sue risposte ai 17 quesiti congressuali. Progetta di scrivere un libro. E’ amico di Bakunin, Engels e Marx, con cui corrisponde. La sua fine è tragica: viene assassinato lungo corso Roma davanti alla sua casa, colpito alle spalle. E’ il 19 gennaio del 1896.

    «Il motore della storia – osserva la Crisetti con una punta di amarezza – non è stato la cultura, non è stato la giustizia sociale, non è stato il progresso scientifico. Il cammino verso il riconoscimento dell’uguaglianza dei diritti, della dignità umana in particolare, la riscoperta del valore della cultura e della partecipazione, nel Mezzogiorno era ed è ancora lungo».

    I beneficiari del decennio francese furono pochi. Non ci fu la mobilità sociale auspicata dai legislatori. Il connubio terra-istruzione-potere politico costituì il trampolino di lancio che permise soltanto a poche famiglie di passare dallo status di massaro, “bracciale”, pastore o piccolo proprietario a quello di notaio, avvocato, farmacista, agrimensore, medico, giudice.

    Fu così che a Cagnano nacque e si affermò, nell’arco temporale di un paio di generazioni, la moderna borghesia fondiaria. I nuovi padroni entrarono in possesso delle tenute migliori del demanio comunale e le difesero con tutti i mezzi, avvantaggiati dal fatto di occupare i posti chiave del potere. Quasi tutti i possidenti si alternarono nelle varie amministrazioni comunali, mentre ai contadini preferirono cercare altrove una vita migliore, prendendo la via dell’emigrazione.

    Ma il  paesaggio agrario, descritto dalla Crisetti nel suo libro, è tuttora vivo. Le Difensole, la Riseca, i Parchi, le Mezzane, puntellati da torri, casini, casoni e  mànere, citati dalle fonti come strutture e infrastrutture costruite dai coloni nei i luoghi più impervi del paese prima posseduti dal principe e poco valorizzati, non sono un retaggio storico scomparso nel nulla: esistono ancora in agro di Cagnano.

    L’Autrice, dopo averne trattato le complesse vicende, ce ne offre un suggestivo percorso per immagini. Un percorso inedito, anche per chi vive soltanto a pochi chilometri di distanza. Scopriamo oltre a luoghi intatti, dei bei manufatti ridotti a ruderi dopo l’abbandono da parte di chi li ha abitati.

    Molti agricoltori, pastori, ex emigranti, continuano ancora a praticare l’attività agro-pastorale.

    Nella ricognizione dei luoghi, la Crisetti si è fatta guidare proprio da questi coloni ed allevatori che hanno raccontato il loro disagio di vivere in località così impervie, difficili da raggiungere. Allevatori e agricoltori costretti a svolgere le loro attività agro-silvopastorali come duecento anni fa, nella speranza, finora delusa, che gli Enti preposti forniscano loro almeno i servizi di acqua e luce.

    Una ricognizione cui è sottesa la finalità di fermare l’esodo in atto: con la dipartita degli ultimi anziani che ancora coltivano questi terreni o praticano l’allevamento brado, questa fetta del territorio sarà condannata all’abbandono.  

    Se l’economia della zona resterà  al palo – ci avverte l’Autrice, facendo parlare i diretti protagonisti – questi luoghi del Gargano si spopoleranno sempre più: urgono misure per incentivare i giovani a restare, a non abbandonare questi ultimi presidi che conservano ancora intatti i saperi, i sapori, gli odori, connotanti l’identità di questo sperduto pezzo del Sud Italia. Su questo accorato grido d’allarme non possiamo che concordare. L’esodo è un’amara realtà.

    @Teresa Maria Rauzino

    LEONARDA CRISETTI GRIMALDI, L’agonia feudale e la scalata dei galantuomini. Cagnano Varano: l’Onciario, il Murattiano, le Questioni demaniali (1741-1915), 2 tomi, Edizioni del Rosone, Foggia 2007.

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    Chiesa e religiosità popolare a Peschici

    Copertina volume Chiesa e religiosità popolare a Peschici, a c. di Teresa Maria Rauzino e Liana Bertoldi Lenoci, Centro Studi Martella editore, Vieste 1999.

    Con le feste di S. Elia profeta, della Madonna di Loreto, di San Matteo e con le processioni della Settimana Santa, Peschici celebra i suoi riti religiosi più antichi e coinvolgenti.

    Con il rientro degli emigranti dall’estero, convenuti apposta per l’occasione, si ripetono di anno in anno dei riti che con semplice, ma efficace teatralità, esprimono i destini di questa terra garganica e la sua speranza di prosperità, nel solco di una tradizione secolare.

    Elementi culturali ed etnografici, non sempre avvertibili, concorrono a trasformare queste giornate in eventi religiosi dominati dalla coralità: Peschici, perduta nel mare dell’esistenza senza risposta, acquista soprattutto nel culto antico del santo profeta Elia che libera i suoi poveri, pochissimi abitanti, dalle cavallette, dalla siccità, dalle malattie e dalle incertezze della vita, la speranza di salvezza o quanto meno la speranza consolatrice di un futuro migliore.

    I modelli della società di massa e consumistici non hanno ancora scalfito questa realtà, consolidata da secoli: un modo di fare e di essere collegato, nella sua dimensione più profonda, alla misteriosa ricerca di sé, della propria identità, del minimo di garanzia vitale.

    Peschici, Madonna di Loreto

    La religiosità popolare, secondo il nostro concittadino monsignor Domenico D’Ambrosio, è un mondo misterioso ed affascinante, al quale occorre avvicinarsi con atteggiamento cauto ed interlocutorio, in punta di piedi; vi si accede più facilmente formulando domande, anziché dando risposte. Va compresa nelle sue intenzioni, nel suo linguaggio, nella sua genesi e nelle sue mutazioni storiche. Molti sono i suoi valori, e occorre saper cogliere le sue dimensioni interiori. È innegabile la ricchezza interna, tematica, espressiva e d’ispirazione di questa forma di religiosità. Ma l’atteggiamento nei suoi confronti non può essere basato su approcci rudi, interpretazioni semplificate, accettazioni acritiche, spiantamenti violenti e immotivati.

    La religione in cui siamo stati educati alla fede merita da noi il massimo rispetto, per quello che ci ha dato e per quello che ancora può darci, ma soprattutto perché costituisce la saggezza del nostro popolo: è la sua matrice culturale. Offre l’opportunità e l’occasione, talvolta unica, di trasmettere il messaggio del Vangelo, di approfondire la conoscenza della fede, di promuovere la vita religiosa a quelli che, abitualmente, non partecipano mai, o quasi mai, alla vita della Chiesa. Sono “i lontani”.

    È proprio seguendo queste indicazioni che i ricercatori del Centro Studi “G. Martella” hanno elaborato la monografia Chiesa e religiosità popolare a Peschici. Non presumiamo, con questo libro, di aver dato un quadro esaustivo della storia sociale e religiosa. Per un’impresa del genere occorrono approfondimenti metodologici e di scavo archivistico, da cui siamo ancora ben lontani.

    Abbiamo effettuato, per il momento, dei sondaggi su aspetti poco indagati della vita sociale e devozionale, aspetti che rientrano nella storia di vicende collettive anonime, che sfuggono all’analisi politica o economica.

    Per l’indagine, abbiamo utilizzato una serie di archivi periferici, ritrovandovi dei documenti che, nel loro insieme, ci hanno consentito di cogliere la continuità di certi comportamenti religiosi collettivi: i libri parrocchiali.  A queste fonti si sono aggiunti gli atti sinodali, e soprattutto i resoconti ed i diari delle visite pastorali del cardinale V. M. Orsini, una documentazione estremamente preziosa per la sua unicità.

    Ogni tentativo di capire la religiosità della popolazione peschiciana richiede una premessa: la sua area territoriale vive in una situazione di isolamento dal resto dell’Italia, una perifericità confermata ancora oggi da un assetto viario precario. Il Gargano nord non era assolutamente toccato da una rete stradale adeguata.

    Le sue sedi vescovili erano poco ambite. Muoversi in visita pastorale era un’impresa, un rischio, un pericolo vero e proprio. La mancanza di una rete viaria fra diocesi e parrocchie costringeva i vescovi a percorrere itinerari tortuosi; a salire e a scendere impervi e scomodi sentieri sul dorso di un mulo o di un asino, per raggiungere le zone più interne. Questi fattori ne accentuarono l’isolamento.

    Come era Peschici  nel XVII e nel XVIII secolo? Le sue strade rotabili non si spingevano all’interno del promontorio; chi era costretto al viaggio incominciava l’avventura attraverso sentieri esposti a tutte le incertezze del terreno e del clima, la via di comunicazione più comoda era sicuramente quella marittima. Il paese, essendo costiero, era agevolato dal porticciolo, facile via d’accesso; infatti, il cardinale Orsini, in occasione della sua visita pastorale del 1675, raggiungerà Peschici in barca.

    Ma, fino a qualche anno prima, il mare aveva rappresentato più un pericolo che un vantaggio, per le frequenti incursioni dei predoni turchi. Il panorama era sicuramente suggestivo: pensiamo al Recinto Baronale, nucleo del centro storico abbarbicato sulla Rupe e fortificato dalla Rocca Imperiale, attuale Torre del Ponte.

    I boschi circostanti erano rigogliosi di pini d’Aleppo, fonte di reddito per i pegolotti che ne sapevano estrarre la pece. Il clima, a parte quello delle paludose zone pianeggianti, abbastanza salubre. Ma, come vedremo per la fine del Cinquecento e tutto il Seicento, regnavano ancora malattie, fame, insicurezza sociale per le continue scorrerie dei Turchi, ed una certa violenza ambientale.

    Nel Settecento si assiste ad  una forte ripresa demografica, il trend positivo si stabilizzerà alla fine del secolo, ma l’organizzazione assistenziale risulta ancora insufficiente rispetto alle esigenze della popolazione. C’è un monte frumentario, che nel 1725 il vescovo Marco Antonio De Marco porta a 132 tomoli di dotazione, e che dopo un anno aumenta a 142 tomoli, ma manca il monte di pietà che potrebbe essere certamente di aiuto ai poveri. Una confraternita è attiva presso la Chiesa matrice di Sant’Elia profeta: quella del Corpus Christi, poi Santissimo Sacramento.

    Dalle ricerche effettuate, è emersa una struttura della Chiesa molto legata alla storia del territorio. La parrocchia è  una realtà sociale inserita non solo nella vita di pietà, ma anche nella vita materiale delle popolazioni locali: per secoli ne ha rappresentato il più importante punto di riferimento. La Chiesa matrice di Sant’Elia costituì per secoli un fattore di stabilità sociale: attorno alla “massa comune” dei beni della ricettizia – terreni seminativi, vigneti, oliveti e case – gravitava un numero considerevole di censuari e fittavoli.

    I parroci, già a partire dalla seconda metà del Seicento, guidarono spiritualmente impegnativi organismi assistenziali gestiti dai laici, indispensabili alla sopravvivenza dei disagiati: le confraternite e il monte frumentario. Tutto nasceva dalla logica della pietà: le confraternite per seppellire i morti, il monte di pietà del grano per aiutare i contadini nel momento della semina, ma soprattutto «per troncar la  strada al detestabil peccato dell’usura». Infatti, frequentemente i  poveri, non potendo fronteggiare necessità impellenti, «sono sforzati per poco perder molto, ò far ubbligazioni con interessi grauissimi, e le donne non potendosi aiutare, pongono in pericolo il proprio honore».

    Ed è proprio seguendo questi percorsi socio-devozionali che la ricerca chiarisce aspetti inediti della vita socio-religiosa ed economica della cittadina di Peschici, dal secolo XVII ai nostri giorni.

    ©2005 Teresa Maria Rauzino

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    Microstorie

    Vieste, lo Strapaese di Aliota

    Mimmo Aliota, testimone del Novecento, dedica un altro volume di microstoria alla sua Vieste 

    La copertina del volume di Aliota

    Mimmo Aliota ha dedicato a Vieste ben dieci libri che delineano uno spaccato significativo della vita della sua città, dal primo Novecento ad oggi. L’ultimo, fresco di stampa, è Strapaese. Il titolo rispecchia una deliberata scelta dell’autore: uno stile diretto, senza retorica e cerebralismi, accessibile a tutti i lettori. Aliota vuole consegnare, soprattutto alla gente comune, un’immagine strapaesana che, altrimenti, morirebbe con la generazione degli ottantenni che hanno vissuto in prima persona il secondo millennio, e che sono gli ultimi portatori delle microstorie viestane. 

    Microstorie rivissute con lo sguardo disincantato e ironico di chi conosce ormai tutto della vita cittadina, e ne disvela gli aspetti ancora inediti.

    Protagonista è il popolo, inteso nella sua accezione classica, che assurge a un ruolo che non gli era stato assegnato dalla storiografia settecentesca. Vincenzo Giuliani, nelle sue Memorie storiche di Vieste, aveva proposto l’historie evenementielle della cittadina garganica. C’era, in essa, un grande eterno assente: il popolo. Non faceva storia, non era nessuno.

    Quel mitico testo di Giuliani, conosciuto soltanto da pochi eletti, era diventato quasi introvabile a Vieste; pochi esemplari custoditi gelosamente, finché, grazie al gentile prestito di una copia originale, fu ripubblicato prima dal Faro di Vieste, poi dall’Arci e dal Centro Studi Cimaglia, un’associazione culturale che si è sempre identificata con il nome del suo fondatore, Mimmo Aliota, appunto.

    Con la divulgazione del libro di Giuliani – precisa Aliota – cominciò la sua demolizione. Molte notizie furono corrette da chi cominciò a fare i dovuti riscontri, frequentando gli archivi dov’erano custoditi e documenti originali. Fu possibile ricostruire la vera storia del paese, almeno a partire dall’Ottocento. Una nuova storia, sull’esempio della scuola delle «Annales», che ha visto come protagoniste le classi subalterne e non più quelle dominanti.

    Un popolo, quello viestano, schietto e solidale, nonostante una forte povertà lo abbia fortemente attanagliato fino al Ventennio fascista: solo nel secondo dopoguerra e negli anni Settanta, con l’avvento e l’espansione del turismo, le cose cominciarono lentamente a cambiare. 

    Aliota raccoglie dalla viva voce dei portatori, testimoni delle memorie patrie, alcuni episodi di solidarietà che videro protagonista Vieste nei tragici giorni dell’armistizio del 1943. 

    In quei tragici giorni, al porticciolo della sperduta città garganica approdò una piccola nave stracolma di soldati italiani in rotta dalla Jugoslavia occupata dalle truppe tedesche … Erano soldati braccati anche dai partigiani di Tito, ostili agli italiani; avevano bisogno di cibo, di vestiario, di aiuto, di mezzi di trasporto che li conducessero in salvo verso i luoghi di origine.

    La popolazione viestana, incurante della presenza di una guarnigione tedesca che stazionava nei dintorni della città, fece il possibile per rifocillarli, rivestirli di abiti civili. I marinai approntarono i loro pescherecci per portarli lontano, ma un aeroplano di nazionalità non identificata mitragliò le barche appena salpate dal porticciolo e giunte all’altezza della Ripa, subito dopo la punta di San Francesco. Fu uno strazio vedere i profughi e i marinai buttarsi a mare per schivare le mitragliate. 

    Tutte le barche restanti, incuranti del pericolo, corsero a soccorrere i naufraghi, e varie famiglie viestane rifocillarono per la seconda volta i naufraghi recuperati in mare. 

    Passarono gli anni: 37 per l’esattezza. Vieste fu insignita nel 1980 della Medaglia d’oro per benemerenza patriottica dall’Associazione nazionale Reduci che aveva avuto notizia di questo atto solidale. 

    Mimmo Aliota, nel suo libro, ci racconta storie di altri naufragi, sepolti da tempo nel dimenticatoio della memoria collettiva. Affioranti solo grazie a qualche toponimo o nei gesti dei vecchi marinai che, al timone dei barconi turistici, giunti nei pressi di quei luoghi, senza dare nell’occhio, si cavano ancora il berretto in segno di rispetto, e di nascosto, si fanno rapidamente il segno della croce. 

    Un tempo, i marinai che transitavano sui piccoli velieri in rotta verso Vignanotica, presso Cala dei Mongoli, calavano sempre una scialuppa in mare. Un uomo si arrampicava su uno scoglio. Vi lasciava un fanale acceso, un’immagine sacra o dei fiori di campo. Il perché di questo gesto e la relativa storia è stata raccontata ad Aliota da Sante Trimigno e Rollo Croce: quattro pescatori, salvatosi da un naufragio, erano riusciti a raggiungere un piccolo riparo scavato nella roccia lungo la costa. Morirono assiderati dopo venti giorni di tempesta.

    Tanti soccorritori si erano prodigati per raggiungerli e rifocillarli ma non erano riusciti nel loro intento: il luogo era inaccessibile per via di terra. Nessuno, in seguito, rimosse i resti mortali degli sfortunati naufraghi, che rimasero su quello scoglio, dispersi soltanto dal sole, dal vento e dalle pioggia. Oggi riposano ancora in quel mare, e in quegli anfratti del costone di tufo bianco tanto simile alle scogliere di Dover. 

    Un’altra storia, fra le tante raccontate da Aliota, ci resta impressa nella mente. Correva sempre l’anno 1943. Il 17 settembre Vieste fu invasa da soldati italiani sbandati. I tedeschi cercarono di allontanarsi rapidamente su una camionetta. Dal terrazzo di una casa fu lanciata una bomba a mano. Un tedesco fu ucciso, altri furono feriti. La camionetta proseguì la sua corsa.

    Il giorno dopo, i tedeschi ritornarono in forze per effettuare la rappresaglia sulla popolazione civile; sull’autoblindo portavano un cannone di piccolo calibro.

    Ma i soldati italiani si erano già dileguati nella notte. I militari del castello issarono sul pennone una bandiera bianca in segno di resa, la popolazione cercò scampo nelle campagne, trovando ospitalità presso casini, torri e pagliai.

    Il colonnello austriaco a capo delle truppe tedesche, dopo aver fatto mettere al muro un gruppo di viestani rimasti in paese, a un certo punto ci ripensò. Rinunciò inaspettatamente a farli fucilare. E cosa fece? Andò a sedersi nel salone del barbiere, che lo rase e lo incipriò. Visibilmente soddisfatto, il colonnello estrasse dalla tasca della sahariana una croce di ferro: era una decorazione guadagnata nell’Africa Korp di Rommel. Se l’appuntò con orgoglio sul petto, mostrandola ai viestani esterrefatti, che si lasciarono sfuggire un grido di ammirazione… 

    Negli altri “quadri” strapaesani schizzati da Aliota, i Viestani diventano protagonisti di storie dal vago sapore pirandelliano. Come quella del titolare dell’unica armeria della città, il quale, dopo aver atteso per anni l’agognata pensione (la paga), il giorno fatidico non riesce a reggere l’emozione di cotanta grazia… Alla vista dei bigliettoni, contati uno a uno dal direttore dell’Ufficio postale, il suo cuore lo tradisce…

    Storie particolari, e nello stesso tempo profondamente universali, quelle di Aliota, che restano impresse nella mente del lettore. Come quella di un pescatore, che paga lo scotto dell’invidia per una buona e inattesa pescata, il cui festeggiamento si trasforma quasi in una tragedia. 

    Rapidi colpi di scena si alternano nei racconti, mai banali, mai scontati. Come la ruota della vita… 

    M. ALIOTA, Strapaese. Le nostre storie, Leone Editrice, Foggia 2006.

    ©2006 Teresa Maria Rauzino.

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    Microstorie

    Le Feste dei Morti nel primo Novecento

    Monte Sant’Angelo: campanile della chiesa di San Michele, fatto costruire da Carlo I d’Angiò (II metà XIII secolo).

    Le antiche e suggestive tradizioni garganiche delle Feste dei Morti nel Gargano del Primo Novecento sono state documentate da Giovanni Tancredi e Angela Campanile. Tra gli “scherzetti” dei bimbi e (belle) preghiere...

    Le feste dei Morti a Monte Sant’Angelo

    Giovanni Tancredi, nel volume Folclore garganico, pubblicato nel 1938, dedica una bella pagina alla festa di Ognissanti e al giorno dei Morti. Esordisce dicendo che sulla sommità del Monte Gargano, tutta la natura sembrava partecipare all’evento.

    Un sole smorto e le prime nebbie avvolgevano i monti e la città di Montesant’Angelo, mentre le foglie gialle e rossicce si staccavano dai tronchi e frusciavano sulla terra brulla ai primi soffi di vento gelido.

    Un quadro d’insieme completato dal volo di uno stormo nero di cornacchie, che si alzavano pigramente e si disperdevano nell’aria, emettendo un rauco funebre grido.

    Le donne del popolo “montanaro” il 1 novembre, giorno di Ognissanti, per devozione alle anime dei morti, lessavano nel latte delle piccole quantità di grano e granturco, condendone i chicchi con il vincotto di fichi.

    La festa si connotava per l’attesa dei doni dei morti. Nella notte che precedeva il due novembre, i bambini di sette, otto anni appendevano una calza nella cappa del camino oppure dietro la porta dell’ uscio, le imposte dei balconi e delle finestre.

    Credevano che i morti, tornati dall’oltretomba, dopo aver vagato qualche ora per il mondo, scoccata la mezzanotte, si sarebbero fermati anche nella loro casa per esaudire i loro segreti desideri.

    La credenza era puntualmente confermata dai fatti. Durante la notte, effettivamente, la calzetta si riempiva di ogni ben di Dio: fichi secchi, castagne, noci, ceci arrostiti, mele, melacotogne, e talvolta anche di dolci e giocattoli.

    I morti incutevano ai bambini un po’ di paura, specie prima addormentarsi, pur tuttavia la tetraggine del nome non impediva loro di addentare una mela, di sgranocchiare una cialda, di rompere una noce, anzi. Il senso di mistero accresceva il valore di quei doni.

    La Festa dei Morti si connotava per il clima gioioso che i bambini creavano nelle vie del paese, bussando a piccoli gruppi, di porta in porta, alle case di parenti e amici. Non dicevano, come oggi: «Dolcetto o scherzetto», ma un perentorio «Damme l’anima dli murte», cui di solito si ribatteva: «e sott la cammise che purte» (e sotto la camicia che porti?). «Lu veddiche» (l’ombelico). «E crematine tlu diche» (te lo dirò domani mattina).

    La festa veniva vissuta con partecipazione anche dagli adulti, specie i più poveri. Il due novembre, andavano questuando per le vie e in qualche casa signorile. I benestanti facevano loro distribuire il pane dei morti.

    Un monaco, l’asceta Antonio Ricucci (soprannominato Infernale) quel giorno usciva con la bisaccia bianca ricolma di pane, per distribuirlo ai bisognosi che morivano di fame.

    Tancredi ricorda che spesso i bambini, mai sazi delle inusuali leccornie, mettevano la calza anche la sera del due novembre, però quando il giorno seguente andavano a frugare vi trovavano soltanto cortecce di frutta, miste a carboni. Gli si faceva credere che i morti non amavano i piccoli troppo golosi.

    Man mano che crescevano, i ragazzi più smaliziati perdevano il fascino «dla calezett» quando si accertavano che non erano i morti a visitare le case, ma i regali erano preparati dalla mamma, dal babbo, dai nonni; tuttavia si guardavano bene dal togliere ai fratellini minori la bella illusione in cui avevano creduto anch’essi, cercando di prolungarla il più possibile.

    In effetti, i tempi erano magri, ma non vi era bambino che restasse deluso e senza regalo; tutti i genitori, anche i più poveri, avevano cura di far felici i loro piccoli.

    Tancredi encomia il regime fascista, che ha introdotto la festa della Befana anche al Sud: «Prima ai nostri bambini ricchi e poveri non pensava la Befana, prodiga vecchierella dispensatrice di regali ai bimbi di altre regioni, nella notte del sei gennaio, ma erano le anime dei morti che nella notte ad essi destinata scendevano giù per i fumaiuoli e risalivano per la stessa via nera ed angusta. Ora ai nostri fanciulli poveri pensano molto provvidemente le Opere Assistenziali volute dal Duce».

    Nella città dell’Arcangelo, anticamente, nel giorno dei morti, precisamente nella chiesa della SS. Trinità attigua all’ex convento delle Clarisse, veniva eretto uno scheletro umano dinanzi al quale la gente rimaneva atterrita, avvilita. Lo scheletro era posto a destra dell’entrata ed era uno spauracchio per tutti, specie per i bambini. «La classe predominante – conclude Tancredi – educava così il popolo che passava la vita preoccupato solo del futuro».

    E a Peschici …

    Nel volume Peschici nei ricordi (Grenzi 2000), Angela Campanile (ricercatrice del Centro Studi Martella) ci conferma questo aspetto “monitorio” della festa, vissuto in tutti i paesi del Gargano. Dal giorno di tutti i Santi fino al giorno 7 novembre, nella chiesa del Purgatorio si cantava la “Settena dei Morti”.

    Era una preghiera che le anime dei morti innalzavano con mesti lamenti per farsi ascoltare dai vivi, affinché non smettessero mai di pregare per salvarle: «Siam alme purganti,/straziate sì forte/ch’è peggio di morte/il nostro penar. Immerse nel fuoco/ahi quanto soffriamo!/Soccorso cerchiamo./Aiuto, pietà!».

    Le anime erano collocate nel Purgatorio, un carcere, un’oscura prigione, un mare di fuoco, dove l’arsura le bruciava. Soffrivano le pene dell’Inferno: «Oscura prigione/È nostra dimora / l’arsura tuttora / ci brucia quaggiù».

    Ma i morti temevano soprattutto l’oblio e la dimenticanza: «Che pena crudele / l’oblio soffrir/ Che strazio sentire / del cielo l’amor!».

    Le preghiere ed i suffragi da parte dei vivi servivano affinché le anime benedette del Purgatorio potessero “rinfrescarsi” («ci putèssine addifriscà»): «Amici spezzate/ le dure catene!/ Lenite le pene/ col vostro pregar!».

    L’invocazione era poi rivolta alla Madonna: «O Madre di Grazie,/ deh, prega per noi!/ Salvaci, tu puoi, dal divo rigor!», e agli Angeli: «Alati Messaggeri/ dal Cielo scendeste/ le porte schiudeste/ di nostra prigion!».

    Si scioglieva nella preghiera finale rivolta al «Cuore Sacratissimo di Gesù» affinché le accogliesse in cielo, dove insieme agli sfavillanti cori angelici, avrebbero cantato in suo onore degli inni di lode e di amore. Per l’eternità.

    Infatti il Paradiso era davvero «una bella cosa» recitava un’altra preghiera di Peschici. Chi aveva la fortuna di arrivarci, dopo una vita di stenti e di duro lavoro, andava finalmente a godere il giusto premio:

    «U paravèise / jè na bella càuse / Chi ci va / ci va a ripàuse».    

    ©2007 Teresa Maria Rauzino. L’articolo è stato pubblicato sul quotidiano «L’Attacco» dell’1 novembre 2007.