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Microstorie

L’industria del freddo in Capitanata


Archivio del Centro Studi di Storia e Cultura di Turi (BA): resti di una neviera

L’approvvigionamento della neve, ed il conseguente utilizzo delle neviere per la conservazione di questo prezioso bene, in passato ha rappresentato per l’uomo un’esigenza di assoluta importanza.

Sin dall’antichità la neve era largamente utilizzata. Testimonianze architettoniche di questi manufatti sono riscontrabili presso i vari siti archeologici, mentre per quelle storicamente più recenti l’utilizzo si è protratto sino ai primi anni del ‘900.

In Capitanata, le prime notizie documentali sulle neviere, sulla vendita della neve e sulla regolamentazione legislativa si hanno a partire dalla fine del 1600 per la città di Foggia, e dai primi anni del 1800 per gli altri centri. In particolare, dallo studio sono emerse notizie interessanti sulla presenza di neviere disposte soprattutto nell’arco del Subappennino Dauno e del Gargano, i cui centri erano i maggiori fornitori del prodotto, ma non è stato neanche trascurato lo studio sulla presenza e sulla tipologia delle neviere situate in pianura, in particolare nell’alto e basso Tavoliere; un’ampia trattazione che in definitiva ha riguardato tutti i centri della Capitanata.

Se dal punto di vista documentale la ricerca è stata abbastanza esaustiva, del manufatto architettonico di epoca più recente, purtroppo, ci sono pervenute pochissime testimonianze perché, nel tempo, molte neviere sono state destinate ad altri usi o interrate, pertanto, di alcune si è persa ogni traccia.

Ciò che si può affermare è che ogni centro, piccolo o grande che fosse, poteva vantarne il possesso.

Alla luce di tutto ciò, il presente studio ha lo scopo di riportare alla memoria di tutti una parte di storia, ormai dimenticata anche dagli anziani e sconosciuta alle nuove generazioni.

Da sempre l’uomo ha avuto l’esigenza di trovare refrigerio, specie durante la stagione estiva, attraverso l’assunzione di cibi e bevande fredde.

Oggi la tecnologia consente la produzione del ghiaccio artificiale in ogni casa, con frigoriferi, congelatori ecc., ma non sempre è stato così.

In passato l’uomo, per poter godere del privilegio di avere bevande e cibi freddi durante i mesi torridi, si ingegnò utilizzando ciò che la natura gli metteva a disposizione: la neve.

Questo prodotto, formato da microscopici cristalli di varie forme più o meno regolari, di acqua solidificata, spesso uniti in falde o fiocchi, si forma quando la temperatura dell’aria è inferiore a 0° C.

Essa, in passato, era merce preziosa ed un’abbondante nevicata era considerata una benedizione.

Con ogni mezzo l’uomo cercò di utilizzare questo prezioso genere anche quando madre natura non lo forniva, ossia durante la stagione estiva.

Nei paesi a clima temperato, l’utilizzo della neve era consuetudine sia per l’uso alimentare sia per quello medico: serviva per preparare sorbetti e bevande, per conservare i cibi, come riserva di acqua potabile per i periodi di siccità, ma era usata anche per curare febbri, ascessi, contusioni, ecc.

La neve veniva raccolta in luoghi esposti a nord, freschi ed umidi, quali sotterranei, grotte, scantinati e fosse oppure in costruzioni apposite, chiamate neviere [1].

Esse assunsero forme e tipologie diverse in funzione della zona geografica in cui si trovavano ed a seconda delle necessità locali.

In talune zone dell’Appennino, le neviere erano delle semplici buche nel terreno, pressoché circolari, con diametro di 5-10 m. e profonde altrettanto, con pareti di rivestimento in pietra in cui veniva conservato il ghiaccio [2].

In altre zone, specie nell’arco alpino ma anche in molte zone appenniniche, erano delle vere e proprie costruzioni in muratura, con il tetto a due e a quattro falde, senza finestre e con la sola porta di accesso.

Quando la profondità della neviera lo consentiva, si formavano più strati di neve intervallati da strati di frasche e foglie secche, che avevano funzione isolante. Questo sistema consentiva di mantenere freddo lo strato più profondo, anche quando si estraeva la neve dagli strati più superficiali.

Per il trasporto della neve nei luoghi di utilizzo erano adottati vari sistemi: talvolta sul dorso di muli, altre volte, quando le vie lo consentivano, in carretti o slitte.

Sul monte Faito, verso la fine del secolo scorso, si costruì una funivia con vagoncini per trasportare il ghiaccio dalle neviere montane agli abitanti di Castellammare.

Lungo l’arco alpino, ogni malga aveva la propria neviera: serviva per conservare meglio il latte, in attesa dell’accumulo di una quantità sufficiente per l’avvio della lavorazione del formaggio [3].

Nelle zone vulcaniche le neviere consistevano in un cilindro, scavato nel terreno, con una sola apertura per il carico di neve fresca e per il prelievo del ghiaccio; per garantire un sufficiente isolamento termico la costruzione era ricoperta da un grosso cumulo di terreno. Esse avevano l’ingresso rivolto verso Nord, per ridurre l’irraggiamento solare diretto verso l’interno. Anche la porta d’ingresso era schermata da una fitta copertura di frasche [4].

In Sicilia fino agli inizi del ‘900, nei mesi invernali più rigidi quando la neve cadeva copiosa, molti contadini di Piana salivano sulla Pizzuta a lavorare nelle neviere di proprietà del comune di Palermo, poste all’inizio del versante occidentale della montagna. La neve, raccolta in buche scavate ad imbuto, era compressa su vari livelli in corrispondenza dei quali veniva inserito uno strato di paglia [5].

A Catania era molto diffuso il commercio della neve dell’Etna; pertanto, le neviere si trovavano nelle cavità naturali della montagna. La neve veniva trasportata in città e nei paesi limitrofi con carretti coibentati in maniera rudimentale; infatti, per evitarne lo scioglimento i venditori cospargevano il fondo del carro con uno strato di carbonella ricoperto a sua volta di felci; al di sopra di queste ultime si disponeva la neve avvolta in un telo di canapa protetto superiormente da un altro strato di felci [6].

In Val Mugone, le neviere erano profonde circa 57 metri ed avevano l’ingresso con uno scivolo inclinato che portava direttamente alla cavità, alla cui base era depositata un’enorme quantità di ghiaccio [7].

Nell’Appennino Umbro-Marchigiano, le neviere erano delle strette depressioni esposte a nord, spesso a ridosso di pareti rocciose ed impervie. A Secinaro, vicino alla maestosa catena del Sirente, i nevaroli sin dal ‘500 erano soliti risalire il monte, fino alla neviera, dove si calavano con scale e corde per tagliare i blocchi di ghiaccio e riportarli a valle in gerle di vimini, avvolte in foglie secche isolanti, sul dorso di asini e muli [8].

Nell’Altopiano delle Murge le neviere erano distribuite soprattutto presso le masserie e nei declivi dei campi; avevano la forma di un parallelogramma con volta a botte ed un piano di calpestio formato da terriccio ricoprente le lastre adagiate sulla volta per neutralizzare il calore in maniera uniforme. Esse avevano, inoltre, una o due aperture laterali murate o chiuse con porte di legno che servivano per prelevare il ghiaccio mentre la neve veniva infilata dalla bocca posta alla sommità della volta. Sul fondo, all’interno, si deponevano dei fasci di sarmenti il cui scopo era quello di evitare che le neve venisse a contatto con il suolo e potesse sciogliersi o inquinarsi.

La neve appena caduta veniva raccolta e, ancora fresca, veniva trasportata sui vaiardi [9] perché i traini erano ingombranti e non potevano entrare negli erbaggi senza provocare danni; oppure, si formavano grosse palle di neve e si lasciavano rotolare dall’alto verso il fondo della valle dove erano collocate le neviere. Solo la neve raccolta lontano dalle neviere era trasportata sui traini.

La neve raccolta veniva immessa nella neviera dall’apertura sulla volta mentre le porte laterali restavano chiuse sino al prelievo del ghiaccio. I fasci di sarmenti isolavano la neve dal fondo su cui si lasciava cadere un tubo che serviva per pompare l’acqua che lentamente si accumulava.

La neve veniva compressa affinché la neviera potesse contenerne grandi quantità.

Il commercio del prodotto era destinato soprattutto all’esportazione, fuori dall’Alta Murgia, verso i paesi costieri. Altamura, Minervivo, Santeramo, Locorotondo ed altri comuni erano i maggiori esportatori di neve [10].

Per meglio regolamentare i traffici commerciali della neve furono varate delle leggi apposite che regolavano, attraverso una serie di norme e consuetudini, la fornitura e la vendita del prodotto.

Fu quindi istituita la gabella della neve: un unico appaltatore aveva l’esclusiva della vendita della neve, egli però era obbligato a fornirla alle città a prescindere dalle condizioni climatiche.

Il prodotto, consolidato in ghiaccio, era tagliato in blocchi e trasportato dagli appaltatori verso i comuni per essere destinato alla vendita al minuto.

In Capitanata, le neviere solitamente venivano costruite dagli appaltatori, i quali stipulavano i contratti di appalto, con privativa [11]. Le modalità erano stabilite anno per anno sia dai comuni stessi sia dall’Intendenza di Capitanata.

La neve venduta era di due tipi: quella bianca, per uso alimentare e medico, e quella grezza o nera destinata ad altri usi.

Il prezzo variava a seconda della provenienza e non poteva essere superiore a tre grana per rotolo; a volte il prezzo di vendita era comprensivo della gabella che l’appaltatore doveva versare al comune. Spesso la gabella era comprensiva di una somma che l’appaltatore doveva versare alla chiesa Matrice del comune interessato per la festa dei SS. Patroni o per il viatico, come succedeva per il comune di Foggia. Tra le curiosità, dalla ricerca emerge che ancora oggi nel capoluogo della Capitanata esiste una via intitolata a S. Maria della Neve [12], protettrice di questo prodotto.

Tra le altre condizioni, inoltre, nei contratti si stabiliva la durata dell’appalto che poteva essere di un solo anno ma poteva protrarsi per un periodo più lungo e durare anche vari anni.

Le gare si bandivano attraverso l’affissione di manifesti. In base alle offerte presentate si procedeva alle subaste, l’aggiudicazione definitiva avveniva ad estinzione di candela in grado di sesta o di decima [13].

Gli appaltatori dovevano sempre essere garantiti, solidalmente, da una persona del posto di indubbia moralità. Tra le condizioni dell’appalto si stabiliva che la neve doveva essere fornita solo dagli appaltatori aggiudicatari e venduta dai dettaglianti scelti dal Comune, ma di concerto con gli appaltatori stessi. In caso di mancanza della neve l’appaltatore era soggetto al pagamento di una multa ed in caso di recidiva anche all’arresto personale.

Del manufatto architettonico, un tempo esistente nel nostro territorio, si hanno poche notizie certe; secondo alcune testimonianze orali, le neviere montane, per struttura e morfologia, erano diverse da quelle delle zone pianeggianti. Le prime erano scavate sia nella roccia sia nel terreno, le seconde erano scavate solo nel terreno; quelle collinari presentavano la stessa morfologia delle neviere montane.

A tale riguardo, Alfonso la Cava, a proposito delle neviere di Monte Sant’Angelo, piccolo centro del Gargano, parlando del clima garganico asserisce che il paese aveva un clima intensamente rigido nei mesi invernali, in cui la neve cadeva abbondante; gli sbalzi di temperatura, con frequenti temporali, specie quelli causati dal libeccio, erano improvvisi e di forte intensità.

Ma il paese era anche soggetto a periodi di intensa siccità, tanto che nel 1920 il Comune fece costruire delle grandi botti per il trasporto dell’acqua dalle navi cisterne in paese.

Ai periodi di siccità si contrapponevano le intense nevicate.

Le neviere di Monte Sant’Angelo si trovavano intorno al castello, e furono fatte interrare nel 1937 dall’avvocato Matteo Gatta per effettuare il rimboschimento dell’area.

La neve era raccolta in grossi blocchi provvisti di un foro centrale nel quale gli operai ponevano un bastone lungo e robusto che poggiava sulla spalla del portatore; in seguito, furono utilizzate le ceste di vimini che i contadini mettevano sulla testa o sulle spalle; la neve veniva deposta all’interno delle ceste, tra la paglia [14].

Poi, dalle zone di raccolta, la neve veniva trasportata con i Traini per mezzo di persone addette al compito, che solitamente erano scelte dallo stesso appaltatore del luogo in cui era stato aggiudicato l’appalto per l’anno della fornitura.

Le neviere delle zone pianeggianti erano grotte coniche a doppia fodera, profonde circa 12 o 15 metri; questi impianti produttivi oggi sono difficilmente riconoscibili, sia perché destinati ad altri usi, sia perché degradati a tal punto da poter individuare solo le cavità a cielo aperto [15].

Le neviere di Vico del Gargano erano per tipologia formate da una fossa di grandi dimensioni scavata nel terreno, a volte solo in parte nella roccia, solitamente erano situate nella zona più fresca ed ombrosa dove la neve si accumulava in grande quantità. I proprietari delle neviere erano soliti assumere una squadra formata da dieci o quindici operai che, muniti di pale, dopo aver eliminato lo strato superficiale di neve, la caricavano sui Traini e la trasportavano nei depositi per la conservazione.

La neviera era stata pulita in precedenza e, sul fondo, era stato depositato uno strato di paglia.

Al suo interno operavano gli Insaccaneve che calzavano sopra le scarpe e pantaloni dei sacchi di canapa legati all’altezza delle cosce per evitare di sporcare il prodotto durante il lavoro.

Questi erano muniti di appositi attrezzi di legno detti Paravisi aventi una forma rettangolare, con uno spessore di circa 40 cm., una larghezza di 30 cm. ed una lunghezza di 50 cm., molto pesanti con un manico alto circa un metro infisso al centro, cominciavano a comprimere la neve depositata; dopo il primo strato alto circa 40 o 50 cm., nella parte laterale delle pareti veniva deposta la paglia per isolare il prodotto dalla terra. Poi, la neve era coperta da uno strato di paglia avente una qualità diversa dalla prima, essa era detta Cama, e derivava direttamente dalla frantumazione della spiga del grano; mentre la paglia vera e propria era ricavata dallo stelo della spiga.

In questo modo, sotto il controllo del proprietario, dopo aver messo di lato la paglia per gli altri strati successivi si riempiva la neviera fino al raggiungimento del bordo superiore. Qui l’ultimo strato di paglia era più abbondante. Infine, si ponevano molti sacchi di canapa, uno strato di terra, delle tavole pesanti che premevano sulla neve sottostante coperte da ampi teloni si sovrapponevano le ramaglie di ginestre che fungevano da camera d’aria: il tutto era ricoperto da altre tavole.

Per evitare lo scioglimento del prodotto durante il trasporto si era soliti deporre la neve in sacchi di canapa contenenti paglia pulita, si caricavano sugli asini o sui carretti e si procedeva alla consegna per la vendita al minuto [16].

U’ Grattamariann’

Dalla documentazione archivistica si evince che nelle zone pianeggianti la neve era fornita da vari paesi del Gargano, del Subappennino, della Lucania, dell’Abruzzo e delle Murge; i prezzi della fornitura variavano da periodo a periodo e per questo furono molte le situazioni controverse che si crearono fra appaltatori e Comuni.

Prima del 1800, a Foggia i contratti tra il Comune e gli Appaltatori erano stipulati dai notai attraverso le Obbliganze [17]. Nessuna notizia, invece, è giunta per il periodo anteriore al 1800 circa le condizioni di vendita della neve negli altri centri della Capitanata.

Prima dell’unità d’Italia, ove non specificato, nei contratti si faceva riferimento alla Legge n. 77 del 12 dicembre 1816 [18], che attraverso alcuni articoli, fissava le condizioni di appalto per la vendita della neve.

L’art. 206 stabiliva che le privative volontarie riguardavano solo la preparazione e la vendita dei beni commestibili. Esse erano temporanee e ad esclusivo vantaggio del Comune.

L’art. 208 della stessa legge stabiliva che le privative volontarie dovevano essere date in appalto a mezzo di asta pubblica. La loro durata ordinaria non doveva essere superiore ad un anno, inoltre solo quando le circostanze e le esigenze di un Comune richiedevano una durata maggiore, l’appalto poteva essere prolungato, ma non avrebbe potuto superare i tre anni.

L’art. 235, titolo IX- Capo I, stabiliva che le subaste [19] dovevano essere precedute da due manifesti da pubblicarsi ed affiggersi nell’intervallo di tre giorni l’uno dall’altro. Tra questi uno doveva essere affisso la domenica nei luoghi consueti del Comune; inoltre le subaste non potevano cominciare prima di otto giorni dalla pubblicazione del primo manifesto.

L’art. 236 stabiliva una seconda subasta cinque giorni dopo la prima, in seguito all’affissione di un altro manifesto pubblicato a norma dell’art. 235. Solo con questa i partecipanti  avrebbero avuto l’aggiudicazione definitiva in grado di sesta o di decima.

Stabiliti i criteri dell’appalto, attraverso i verbali decurionali, i Comuni facevano affiggere i manifesti in luoghi diversi e, dopo aver esaminato le prime offerte, procedevano alle subaste.

Per meglio comprendere le modalità e le condizioni degli appalti si trascrive un contratto tipo.

I contratti di appalto, sia pure con qualche variazione, in genere erano identici per ogni Comune; solitamente, per le norme generali, si rimandava alla legge n. 77.

Si trascrive il contratto di appalto del Comune di Campomarino, riportato nel verbale del 23 maggio 1807, estratto dal libro delle Obbliganze penes acta della Regia Corte [20].

«A dì ventitré Maggio milleottocento sette in Campomarino e presso gli atti della Regia Corte.

Costituiti personalmente presso gli atti di questa Regia Corte ed in presenza nostra, e de’ sottoscritti testimoni il sig. Domenico Antonio Noventa Sindaco di questa Comune interviene per se e suoi successori Sindaci in nome e parte di questa Comune alle cose infra[scri]tte.

E Pasquale Russo di Montorio, al presente in questa Terra, interveniente per se e suoi eredi e successori dall’altra parte.

I detti sig. Sindaco e Pasquale Russo con giuramento, toccate le scritture, hanno asserito, che sono venuti a Convenzione di dover d[etto] Pasquale Russo provvedere questa Comune della neve, che gli bisogna ne’ mesi estivi, cominciando dal primo Maggio a tutto li quindici di Ottobre colle seguenti condizioni.

1° – che debba d[etto] Russo a sue proprie spese, e conto fissare qui un venditore di neve a minuto, il quale deve dispensare la neve a chiunque n’avrà bisogno a giusto peso, e misura, senza far mai mancare detto genere dal primo Maggio a tutte li quindici Ottobre senz’interruzione alcuna; nel qual caso di mancanza, niun caso escluso, incorre d[etto] Russo nella pena di Docati sei in beneficio dell’università, qualora d[etta] mancanza succede per lo spazio d’una sola ora.

2° – che d[etto] obbligo di provvista di neve s’intenda a decorrere per quest’anno, e per altri anni nove successivi a tutto li quindici ottobre milleottocentosedici; col patto però espresso, che mancando o nel sud[detto] tempo la neve in Montorio, perché non caduta dal cielo, debba, e possa essere in quell’anno escluso il d[etto] Russo dal partito, che contra e, per quell’annata; ben inteso, che ciò s’intenda qualora effettivam[en]te d[etto] Russo non abbia neve di sorta alcuna nella sua neviera, ne ve ne sia in Montorio, nel qual caso deve d[etto] Russo deve prevenire gli Amministratori di questa Uni[versi]tà per tutto li quindici d’aprile di quell’anno, perché se ne posseggono altrove.

3° – che d[etta] vendita di neve al minuto debba farsi dal d[etto] Russo ne’ tempi convenuti al prezzo stabilito e fisso di grana uno e cavalli sei per ogni rotolo di giusto peso in tutto il suddetto decennio senzacchè possa alterarsi in modo alcuno il d[etto] prezzo; e per la giustezza del peso si obbliga a soggiacere alle pene comunali ogni qualvolta sia trovato in frode.

4° – che per la validità della presente convenzione l’obbliga d[etto] sig. Sindaco d’ottenere il permesso, ed assenso dell’Intend[en]za Provinciale, ed esso Pasquale Russo da per le sue mancanze e per la sicurezza del partito per plaggio il sig. Giuseppe Corriero qui presente, ed accettante; il quale si assume di rispondere per d[etto] Russo nella forma più ampia, e più legale.

Obbligandosi a tale effetto vicendevolm[en]te esse Parti, l’una all’altra, in tutte sud[dette] cose anche a modo delle prigioni di Napoli, e de’ riti della G. C. potendosi incusare la presente convenzione contro del controventore di ogni luogo, Corte o foro colla clausola del Costituto precario, sotto pena d[detta] homo giurato e si sono obbligati in forma.

Segno di croce di Pasquale Russo, che si obbliga come sopra = segno di croce di Giuseppe Corriero, che si obbliga e plaggia come sopra = Domenicantonio Noventa Sindaco = Donato Manes Testimonio = Diego Sportelli Testimonio = Giandom[eni]co Gianni Testimonio = Isidoro De Laureto Supp[len]te.

La presente Copia è stata estratta dal libro delle Obbliganze penes acta di questa Corte di Campomarino, principiato in Agosto 1807, in avanti si stente al foglio 49, col quale sulla collazione concorda, in fede Isidoro De Laureto supplente». 

Analizzando i vari punti del contratto trascritto, si potrà notare che l’appaltatore doveva provvedere anche alla vendita al minuto della neve, cosa che in genere spettava ad altre persone scelte dai decurioni come avveniva in altri centri della Capitanata e, in caso di mancata fornitura del prodotto, l’appaltatore, come previsto, pagava una multa a beneficio del Comune interessato.

In questo caso il contratto di appalto aveva una durata di dieci anni. Come si è visto, con la Legge n. 77 furono stabilite condizioni diverse e, la durata dell’appalto non poteva superare i tre anni. Tra le altre condizioni, il contratto prevedeva che nel caso in cui la neve non fosse caduta e l’appaltatore fosse stato impossibilitato a fornirla in tempo utile, solo per quell’anno, era esonerato dalla fornitura del prodotto senza pagare ammende, a patto che avesse avvertito il Comune interessato.

Dopo aver stabilito il prezzo, l’appaltatore era obbligato a vendere la neve a peso giusto, senza frode. Nel caso fosse stato scoperto in flagranza di reato, sarebbe stato multato dal Comune.

Tra le clausole finali si apprende che, per l’approvazione definitiva dell’appalto, il Comune si rimetteva all’espresso assenso dell’Intendenza Provinciale. Nel caso l’appaltatore fosse venuto meno agli obblighi contrattuali, sarebbe subentrato il garante solidale, che all’atto della stipula del contratto assicurava l’osservanza delle norme contrattuali sia sotto l’aspetto amministrativo sia legale, rispondendone personalmente e solidalmente in caso di inadempienza.

Solitamente, le clausole esaminate nel contratto di appalto relativo al Comune di Campomarino si presentano identiche anche per gli altri centri della Capitanata; qualche piccola variazione sarà sottoposta all’attenzione del lettore nell’analisi dei singoli contratti. Il repertorio archivistico oggetto della presente pubblicazione esplicita con maggiore chiarezza sia i luoghi di provenienza della neve, sia le modalità degli appalti per il periodo che intercorre tra il 1696 ed il 1800.

Dai primi anni del 1900 la fornitura di neve è soppiantata dalla produzione di ghiaccio industriale che viene venduto fino a tempi recentissimi, ovvero fino a quando non entra nelle case il frigorifero. Si conclude così un’era di tradizioni e folclore lasciando spazio solo ai ricordi.  

CURIOSITÀ

U’ Grattamariann’

La tradizione narra che in molti paesi della Capitanata durante il periodo estivo nelle cantine e nei caffè si vendeva la neve ai clienti abituali tagliandola a pezzi per preparare sorbetti.

La domenica, dopo le celebrazioni religiose, la gente del posto dopo la passeggiata, ù strusc’, si recava in questi posti per acquistare il prodotto che, doveva refrigerare e deliziare i palati dei buongustai più esigenti che, dopo il luculliano pranzo festivo, erano soliti preparare le refrigeranti bibite.

Nei paesi del Gargano, l’acqua fresca delle sorgenti veniva trasportata nei Cic’nGiarr e Quartèr, appositi recipienti di creta di capacità differenti. I gestori dei caffè e cantine specie nei giorni festivi, su richiesta dei clienti preparavano le granite con caffè o altre essenze usando un coltello per raschiare la neve oppure era usato un attrezzo simile ad una piccola pialla munita di una lama affilata di acciaio posta di traverso nella parte di sotto che sfregata su un pezzo di ghiaccio lo sbriciolava minuziosamente fino a raggiungere la quantità occorrente per far le granite richieste.

Tale attrezzo era meglio conosciuto con il nome di Grattamariann’ [21].

IL NEVIERAIO “IL NEVIAIOLO”

Quasi all’ingresso della vecchia Vico (FG), percorrendo Via di Vagno si perviene alla piccola Piazza denominata della Misericordia, che prende il nome dalla chiesa lì situata. In questa viene venerata la “Madonna della Neve” che viene festeggiata annualmente nei primi del mese di agosto.

È rappresentata con il bambino Gesù sul braccio sinistro; con la mano destra ostenta verso i devoti un fiocco di neve. Verso la fine del 1800, il priore di quella confraternita era tal Azzarone Michelantonio, il quale era proprietario di vastissimi agrumeti ubicati in località “Murge nere”.

All’epoca non esistevano attrezzature per la confezione di gelati, granite e altro, che si vendevano specialmente durante i periodi estivi. All’epoca, la neve cadeva abbondantissima ed alle volte, specialmente a dicembre che era il mese maggiormente nevoso, arrivava fino agli architravi delle porte di casa. Altrimenti era un’invernata abbastanza calda e senza neve. Nei pressi dell’attuale piazza “San Francesco” vi erano delle neviere, costituite da ampi fossati nei quali i “nevierai” facevano raccogliere la neve a strati, calcati con i piedi e ricoperti di paglia, per prelevarla d’estate a piccoli cubetti e venderla per i rinfreschi. Ciò è avvenuto fino al 1925 quando Nicola De Petris, ex coadiutore del notar Saverio Girlanda, divenuto industriale, fece impiantare la macchina per la costruzione di blocchi di ghiaccio. Occorre inoltre precisare che le arance specialmente quelle toste (durette) maturavano più o meno nel periodo natalizio.

In dicembre, mese al quale si riferisce l’accaduto, non s’era ancora visto un fiocco di neve. Il povero nevieraio, preoccupandosi che ai suoi pargoletti durante l’estate sarebbero mancati i più indispensabili mezzi di vita, si recò presso la balaustra dell’altare della Madonna sua protettrice, e battendosi in petto e senza alcun rispetto umano cominciò a implorare la grazia di abbondanti nevicate senza preoccuparsi, nella disperazione della sua richiesta, se vi fossero persone presenti. Supplicò: «Madonna mia, fai nevicare!».

Il Michelantonio, che stava nell’adiacente sacrestia e che proprio in quell’anno aveva un’abbondanza di arance, temendo che un eventuale gelo danneggiasse il prodotto del suo latifondo, uscì dalla sacrestia e volgendosi al nevieraio lo apostrofò duramente: «E tu, cosa stai dicendo?».

E il nevieraio, in risposta: «E tu cosa vuoi da me? Non sai che danno subirei io con la mia famiglia se non nevicasse? Ai figli miei chi darebbe un tozzo di pane durante l’estate? Del resto, fammi pregare la Madonna mia e tu vai a pregarti san Valentino che è il patrono degli aranceti.

A tali parole l’alterco ebbe fine…


FONTI DOCUMENTARIE

Archivio di Stato di Foggia:

–         Intendenza e Governo di Capitanata, Affari Comunali s. I e s. II;

–         Intendenza e Governo di Capitanata, Carte varie, Corrispondenza Amministrativa;

–         Consiglio d’Intendenza, di Governo e Prefettura di Capitanata, 1^ Camera, Processi;

–         Intendenza e Governo di Capitanata, Affari Comunali, s. I e s. II, Appendice I e II;

–         Intendenza, Governo e Prefettura di Capitanata, s. II, Appendice I e II;

–         Intendenza di Capitanata, Atti vari;

–         Intendenza di Capitanata, Amministrazione Finanziaria, s. II;

–         Catasto Onciario di Sant’Agata di Puglia;

–         Archivio Storico del Comune di Foggia, Obblighanze Penes Acta, Parte I e Parte II;

–         Archivio Storico del Comune di Foggia, Appendice;

–         Dogana s IX, processi;

–         Dogana s. II, Atti Civili;

–         Intendenza di Capitanata, Prefettura di Foggia, s. II, Tratturi;

–         Collezioni delle Leggi e Decreti Reali, vol. 4;

–         Prefettura, Affari Speciali del Comune, s. II;

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TANCREDI G., Folclore Garganico, rist. anast. del 1938 a cura del Centro Studi Garganici per la Banca Popolare di Apricena.

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VILLANI M. – SOCCIO G., Le Vie e la memoria dei Padri, Santuari e percorsi devoti in Capitanata, Amministrazione Provinciale di Foggia, Foggia 1999.

BIBLIOGRAFIA TELEMATICA

http://212.77.69.144/sportello/mestieri/neviera.htm

http://www.parks.it/grandi.itinerari/altavia/altavia23-24/altavia23-24.html

http://www.geocities.com/Yosemite/Forest/5244/CAM/Roccamonfina.html

http://trevico.terrashare.com/cultura.html

http://www.asicilia.it/cultura/storie/21.htm

http://www.comune.gioiadeimarsi.aq.il/gioia_pna_geologia.htm

http://sirente.net/it/paesi/secinaro/neviera.htm



NOTE

1 http://212.77.69.144/sportello/mestieri/neviera.htm

2 http://www.parks.it/grandi.itinerari/altavia/altavia23-24/altavia23-24.html

3 http://www.geocities.com/Yosemite/Forest/5244/CAM/Roccamonfina.html

4 http://www.geocities.com/Yosemite/Forest/5244/CAM/Roccamonfina.html

5 http://trevico.terrashare.com/cultura.html

6 http://www.asicilia.it/cultura/storie/21.htm

7 http://www.comune.gioiadeimarsi.aq.il/gioia_pna_geologia.htm

8 http://sirente.net/it/paesi/secinaro/neviera.htm

9 Specie di portantine in legno a quattro mani.

10 P. CASTORO, Le neviere, in Villaggio Globale, anno 1, n. 2, giugno 1998, a cura del Centro Studi Torre di Nebbia. Sulle neviere di Locorotondo ed Altamura si veda pure: G. GUARELLA, Niviere e vendita della neve nelle carte del passato, in Umanesimo della pietra, 1988, pp. 117 e ss.

11 Contratto con cui l’appaltatore si assicurava il monopolio sulla vendita del prodotto.

12 G. SPIRITO, La Storia di Foggia attraverso la toponomastica, Bastogi, Foggia 1998, p. 196. La strada prende il nome da un’antica chiesa sotto il titolo di Sant’Elena, ubicata nell’attuale Piazza Giordano; nel 1078, l’eremita Carlo Ferrucci, rettore della chiesa e dell’abbazia di Sant’Elena, voleva installare una lampada ad olio sotto il quadro che raffigurava Sant’Elena. Nel conficcare il chiodo al muro l’intonaco si scrostò ed apparve l’occhio di un affresco più antico, raffigurante la Madonna con Bambino con le mani incrociate, era il 5 agosto ed in quella data si festeggiava la ricorrenza della Madonna della Neve. Così, la chiesa da allora fu intitolata alla Madonna della Croce, ma fu anche detta della Madonna della Neve. La chiesa fu demolita nel 1930,  per far spazio all’attuale Palazzo degli Uffici Statali.

13 Per sesta si intenda il sesto giorno di asta e per decima il decimo giorno.

14 G. TANCREDI, Folclore Garganico,rist. anast. del 1938, a cura del Centro Studi Garganici per la Banca Popolare di Apricena, pp. 367 e 368. L’indicazione è stata cortesemente fornita dalla prof.ssa Teresa Maria Rauzino.

15 Cfr. L’antica civiltà…  sito internet cit.

16 Cfr. N. M. BASSO, L’industria del freddo fra ‘800 e ‘900, Parte descrittiva, in Il Gargano Nuovo, anno IX, nn. 1 e 2 gennaio-febbraio 1983, p. 3.

17 Contratti brevi contenenti tutte le condizioni di appalto.

18 ASFG, Collezione delle Leggi e  Decreti Reali, anno 1816, vol. 4 – 15777, p. 423.

19 Forma di aggiudicazione all’incanto dell’appalto.

20 ASFG, Intendenza e Governo di Capitanata, Corrispondenza Amministrativa, Carte varie, b. 41, fasc. 3321.

21 N. M. BASSO, L’industria del freddo fra ‘800 e ‘900, Parte descrittiva, in Il Gargano Nuovo, anno IX, nn. 1 e 2, gennaio-febbraio 1983, p. 2.

©2004 Lucia Lopriore. Queste pagine sono tratte dal volume di L. LOPRIORE, Le neviere in Capitanata : affitti, appalti e legislazione, Edizioni del Rosone, Foggia 2003.

 

©2004 Lucia Lopriore. Queste pagine sono tratte dal volume di L. Lopriore, Le neviere in Capitanata : affitti, appalti e legislazione, Edizioni del Rosone, Foggia 2003.

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Microstorie

Pellegrinaggi mariani in Capitanata

Tre Madonne: da sinistra, di Ripalta sull’Ofanto; dell’Incoronata; di Loreto in Peschici.

La devozione mariana in Capitanata, attraverso i pellegrinaggi, è stata riproposta analizzando il fenomeno da cui si evince la presenza di una religiosità popolare sentita in modo pregnante.

Importante è accertare la provenienza storica, religiosa e culturale di tale devozione che, generalmente, è fatta rientrare tra le pratiche più direttamente connesse a contesti di riferimento popolare [1].

Dall’analisi delle presenze umane sul territorio, dovute in massima parte alla transumanza, emerge lo stimolo per esaminare attentamente il fenomeno dei pellegrinaggi mariani [2].

In Capitanata tale fenomeno si è esteso attraverso i percorsi devozionali che i pellegrini solevano seguire manifestando la loro fede: era consuetudine recitare litanie, preghiere e canti religiosi per chiedere e ricevere grazie.

Principalmente partendo dal culto per l’Arcangelo Michele seguendo il percorso della Via Sacra Langobardorum si raggiungevano altri centri della Capitanata, per venerare Madonne e Santi che si trovavano lungo il cammino.

In tale percorso devozionale è compreso il santuario della Madonna di Loreto, protettrice di Peschici, la cui chiesa si trova a circa un chilometro dal paese.

Il culto nasce da un episodio che lega la Madonna ai marinai del posto. Si racconta che un giorno, durante una terribile tempesta, essi scorsero in lontananza una luce che proveniva dalla lampada ad olio che i fedeli, per devozione accendevano davanti all’immagine della Madonna di Loreto situata in una piccola grotta. Essendo in pericolo, a gran voce invocarono l’aiuto della Madonna alla quale in cambio della vita promisero di edificare una chiesa delle stesse dimensioni della nave. D’un tratto il mare si calmò e tutti i marinai riuscirono a salvarsi: la promessa fu mantenuta e la chiesa fu costruita proprio sulla grotta dove ardeva la lampada.

Molte da allora sono state le grazie concesse dalla Madonna e testimoniate dagli ex voto. Chi otteneva la grazia si recava in pellegrinaggio per rendere omaggio alla Madonna a piedi nudi percorrendo la polverosa strada che conduce da Peschici al santuario. La festa della Madonna di Loreto si celebra otto giorni dopo la Pasquetta con festeggiamenti, pellegrinaggi, processioni, celebrazioni religiose ecc. ma non mancano anche le tradizionali specialità gastronomiche che da sempre fanno di questo piccolo centro la culla delle tradizioni [3].

Il culto mariano a Peschici si estende anche alla Madonna di Kàlena. La Sua ricorrenza cade l’8 settembre di ogni anno; gli abitanti di Peschici celebrano tale evento recandosi in pellegrinaggio fino all’antica abbazia, oggi diruta. La chiesa di Kàlena, oggetto di attenzione da parte di cultori e studiosi, avrebbe bisogno di un immediato restauro e si spera che ciò possa avvenire al più presto. Molti in passato si recavano in pellegrinaggio presso la chiesa della Madonna per chiedere le grazie o semplicemente per devozione. La tradizione vuole che i bambini in tale occasione portassero le loro noci raccolte in un fazzoletto ed appese al braccio della ròcile questo attrezzo consisteva in una rudimentale rotellina applicata all’estremità di una mazza di scopa che, appoggiata alla spalla del bimbo, era tenuta con due mani per mezzo di una mazza incrociata. Tra rumori, schiamazzi e qualche chiacchierata si arrivava alla chiesa della Madonna delle Grazie, adiacente all’abbazia di Kàlena, che i proprietari facevano trovare aperta per l’occasione. Verso il tramonto alla spicciolata si faceva ritorno alle proprie abitazioni tra la paura delle leggende legate al luogo raccontate dagli anziani e le curiosità che il posto suscitava.

Una delle leggende che ancora oggi si ricordano è legata al cunicolo che, partendo dalla chiesa, arriva sulla spiaggia del Jalillo, ottima via d’uscita in caso di pericolo. Seguendo il cunicolo ci si trovava direttamente in mare, dove era attraccata una barca sempre pronta per la fuga. Questa e tante altre sono le leggende legate all’abbazia di Kàlena, posto misterioso ed affascinante nello stesso tempo [4].

Nel percorso della Via Sacra dei Longobardi è inserita la cittadina di Monte Sant’Angelo, nota per il santuario di San Michele Arcangelo presso il quale i pellegrini, giunti da ogni parte d’Italia e non solo, si recano ogni anno in segno di fede. Proprio qui vi è un altro importante santuario: quello della Madonna di Pulsano.

Secondo la tradizione esso deve la sua fondazione a San Giovanni da Matera; si narra che in quel luogo esistesse già un monastero edificato dal duca Tulliano di Siponto con le rendite dei genitori che erano ricchi patrizi romani, e anche sul suo etimo molte sono le asserzioni anche discordanti: c’è chi sostiene che il nome derivi da una località nel pressi di Taranto, chiamata Pulsano, dove San Giovanni ha soggiornato, mentre c’è chi fa derivare il nome dal fatto che la Vergine avrebbe guarito il Santo, febbricitante, prendendogli il polso, per cui il nome deriverebbe da polso sano. Quest’ultima versione è quella che più frequentemente si trova nei racconti leggendari e nei canti dei pellegrini. Di certo è noto che a partire dal 1129 attorno a San Giovanni da Matera, vi erano sei discepoli che nel giro di pochi mesi si accrebbero nel numero tanto da diventare sessanta. Costoro ben presto costruirono un grande monastero. Nei dintorni, specie nel vallone dei romitori, i monaci edificarono molte piccole abitazioni addossate alle aspre pareti della montagna dove trascorrevano lunghi periodi in meditazione. La comunità seguiva la Regola di San Benedetto ma si dedicava anche ad un’intensa attività di apostolato tra i contadini e, soprattutto, tra i pellegrini provenienti dalla Grotta di San Michele e diretti al santuario di San Leonardo di Siponto. Ben presto si diffuse la fama di questa comunità, grazie anche agli abati Giordano e Gioele, che continuarono l’opera del fondatore, fino al punto che essa diventò il primo nucleo di un vero e proprio ordine monastico, la Congregazione benedettina dei Pulsanesi. La nuova congregazione ebbe case fino in Toscana, come San Michele di Guamo presso Lucca e San Michele di Orticara presso Pisa, nella pianura Padana come a Quartazzola sul Trebbia presso Piacenza. Della congregazione pulsanese facevano parte anche case femminili come il monastero di Santa Cecilia in Foggia. Giovanni da Matera morì in Foggia, nel monastero pulsanese di San Giacomo il 20 giugno 1139. Il suo corpo fu deposto sotto l’altare maggiore del monastero di Pulsano e, nel 1830 fu trasferito nella cattedrale di Matera.

Le devote visite che i pellegrini facevano alla Madonna di Pulsano per sette sabati consecutivi durante la quaresima sono da relazionare ai sette giorni in cui la chiesa, addossata alla grotta naturale che funge da abside, secondo la leggenda fu costruita. Il quadro della Madonna di Pulsano, trafugato con alcuni arredi liturgici nel 1966, apparterebbe alla scuola dei Ritardatari, fiorente in Puglia ed in Basilicata tra il XII ed il XIII secolo. L’immagine riecheggia le antiche icone bizantine con il volto scuro della Madonna leggermente inclinato, il capo coperto e l’aureola dorata, il Bimbo è rivolto verso chi osserva. Nel complesso richiama la Madonna di Siponto e la Madonna di Ripalta. Già nel XIII secolo il monastero entrò in una fase di decadenza. Il suo ultimo Abate di nome Antonio, eletto nel 1379, pare che si fosse schierato con l’antipapa Clemente VII il quale aveva dato inizio al grande scisma d’Occidente. Il legittimo pontefice Urbano VI, pertanto, pur non destituendolo, ne ridusse il potere sottraendo alla sua giurisdizione il beneficio abbaziale ed affidandolo ad un Abate Commendatario. Alla morte dell’Abate Antonio, gli edifici già degradati a causa degli eventi sismici furono abbandonati. Tra Settecento e Ottocento il monastero ricevette le cure dei Celestini, i quali lo abbandonarono nel XIX secolo in seguito alla soppressione degli Ordini Religiosi voluta da Gioacchino Murat. Partiti i Celestini, la chiesa fu affidata ai cappellani e, uno di questi, Nicola Bisceglia, nel 1842 la acquistò con le sue pertinenze.

Nonostante le vicissitudini dell’abbazia, il culto della Vergine fu tenuto in vita da diversi ordini monastici: Carmelitani, Francescani, Domenicani, fino a giungere ai nostri giorni. Numerose e spiacevoli sono state le vicende che hanno colpito il santuario, tuttavia esso ancora oggi è considerato uno dei più venerabili luoghi della Capitanata dedicati alla Vergine Madre di Dio [5].

Un altro santuario situato lungo il percorso micaelico è quello di Santa Maria Maggiore di Siponto. Esso sorge attiguo alle vestigia di una basilica paleocristiana risalente ai tempi del vescovo Lorenzo. La tradizione locale fa risalire la sua costruzione al I secolo d. C.

Secondo alcuni studiosi l’edificio, a pianta quadrata, fu eretto tra la fine del XI secolo e l’inizio del XII, quando era vescovo Leone ed è legato alle lunghe battaglie sostenute per il riconoscimento della sua autonomia dalla diocesi beneventana. La sua esistenza è testimoniata da un’epigrafe datata al 1039 che documenta la presenza di un ambone monumentale opera dello scultore Acceptus, che ha legato il suo nome a varie opere coeve tra cui si ricordano la cattedra di Canosa e il pulpito di Monte Sant’Angelo, che insieme alle altre dotazioni, sottolinea il ritrovato prestigio dell’antica diocesi pugliese.

Il tempio nel 1117 fu consacrato da Papa Pasquale II; nel 1149 e nel 1067 fu sede di sinodi locali celebrati rispettivamente dai pontefici Leone XI e Alessandro II. Tra il 1223 ed il 1250, a causa degli eventi sismici, la città subì gravi danni; l’interramento del porto chiuse definitivamente la vicenda di Siponto. Il culto della Vergine è legato alle vicende della chiesa e con essa è sopravvissuto per giungere fino ai nostri giorni. Il portale fu commissionato e realizzato intorno al 1060 ed in quell’occasione la chiesa fu dotata dell’icona della Vergine con il Bambino.

L’immagine della Vergine è realizzata su legno di cedro secondo i canoni classici ispirati alla tradizione orientale: la Madonna regge con il braccio sinistro il Bambino mentre questi esibisce il rotolo della Parola di Dio. Oltre a questa sacra immagine la chiesa è dotata anche di una statua straordinariamente bella; per devozione dal popolo è chiamata “la Sipontina” assisa in trono con in grembo il Bimbo benedicente; con gli occhi sbarrati in atteggiamento di doloroso stupore ed il mento coperto da strane macchie biancastre. Per questa immagine la tradizione popolare narra che la Madonna fu testimone di uno stupro da parte di un nipote del vescovo Felice ai danni di Catella, figlia di Evangelio, diacono della chiesa sipontina. La vicenda è raccontata nelle lettere di San Gregorio Magno indirizzate al suddiacono Pietro intorno alla fine del VI secolo, al notaio Pantaleone ed allo stesso vescovo Felice affinché fosse resa giustizia alla ragazza. La leggenda prosegue narrando che le macchie bianche sul mento della Vergine sono dovute al vomito prodotto dalla Madonna a causa di una mareggiata durante la traversata della statua da Costantinopoli a Siponto. Secondo alcuni autori la “Sipontina” fu rapita durante il sacco dei turchi  nel 1620, in tale occasione due dita della mano furono recise. Nonostante ciò, la Vergine tornò indietro rimanendo tra i giunchi della palude. Ella rimase a lungo nelle campagne proteggendo i contadini ed i pastori, tanto che è usanza offrirle le primizie raccolte o i prodotti caseari. Anticamente era tradizione prelevare il sacro tavolo e portarlo in processione fino al duomo di Manfredonia in occasione di avversità o calamità. Man mano questa pratica processionale si è ripetuta fino a trasformarsi in una ricorrenza e in una festa patronale il 30 agosto di ogni anno. Il pellegrinaggio della Madonna di Siponto era una delle tappe obbligate che i pellegrini diretti al santuario micaelico solevano fare. Gli interventi miracolosi della Vergine sono confermati da numerosi attestati di vescovi, ma soprattutto dagli ex voto. L’intervento salvifico della Madonna è registrato nei casi più disparati ma quelli che riguardano i casi di naufragio ed annegamento sono i più numerosi e fanno comprendere come questo santuario sia uno tra i più importanti punti di riferimento della fede e della devozione della gente di mare [6].

Seguendo il percorso dei pellegrinaggi mariani è indispensabile sostare anche in Apricena, dove è molto venerata la Madonna dell’Incoronata.

Secondo la tradizione locale un tale di nome Giacinto Lombardi donò alla cappella intitolata alla Madonna di Loreto una statua lignea rappresentante la Madonna Incoronata venerata a Foggia; in realtà messe a confronto le due statue presentano molte diversità tra loro. Tale culto per la Madonna Incoronata nasce in Apricena intorno alla seconda metà dell’Ottocento grazie proprio alla donazione del Lombardi fatta alla cappella; con la donazione della statua seguirono anche i festeggiamenti che furono curati dallo stesso Lombardi.

L’immagine più antica della Madonna Incoronata di Apricena è quella rappresentata dalla Madonna assisa su un tronco di quercia spoglio di fronde e adornata alla base del tronco da due grossi mazzi di fiori di campo e da quattro putti disposti due all’altezza del capo e gli altri due ai suoi piedi. La Madonna è in atteggiamento orante [7]. Alla Sacra Immagine sono stati più volte attribuiti eventi prodigiosi: il primo nel 1868 si verificò con il movimento degli occhi ed il secondo con un altro movimento degli occhi nel 1908 di fronte alla folla di fedeli. I festeggiamenti della Madonna Incoronata avvengono durante il mese di maggio di ogni anno.

Altra meta di pellegrinaggio in questa cittadina è rappresentata dal santuario della Madonna della Rocca. Anticamente quando la campagna era soggetta a periodi di siccità, il clero e gli abitanti di Apricena solevano recarsi in processione preceduti da giovanette vestite a lutto e coronate da spine, essi si recavano scalzi fino al santuario della Madonna della Rocca invocando la grazia per la pioggia e cantando inni a Lei dedicati. La chiesa costituiva la meta di uno dei pellegrinaggi che gli aprecinesi erano soliti seguire nel corso dell’anno, insieme al santuario di San Nazario e quello di San Michele Arcangelo a Monte Sant’Angelo. Il popolo si recava in pellegrinaggio la seconda domenica dopo Pasqua. Questo rito ha avuto seguito fino al primo conflitto mondiale, quando il santuario per il suo difficile accesso divenne luogo di rifugio per i disertori di guerra che lo devastarono e lo depredarono; l’incuria degli uomini ha completato l’opera e della chiesa dedicata a questa Madonna non ne resta alcuna traccia, se non qualche rudere da recuperare [8].

Proseguendo il cammino è interessante visitare la cittadina di San Marco In Lamis. Qui è venerata la Madonna delle Grazie cui è stata intitolata una chiesa. Ritenuta una tra le più antiche chiese del paese, è stata più volte e nel tempo restaurata. In occasione del Giubileo del 1900 fu completamente rimaneggiata e decorata, ed il 26 settembre 1899 il vescovo, mons. Mola, la riconsacrò dedicandola a Cristo Redentore ed a Maria SS. del Rosario, ma comunemente continua a conservare l’antica denominazione. Adiacente alla chiesa vi era il cimitero del paese che fu momentaneamente chiuso dopo il colera del 1837 e definitivamente nel 1909 con la costruzione di quello nuovo.

Dopo il terremoto del 1837 che danneggiò gravemente la chiesa Collegiata, la Confraternita del SS. Rosario, che aveva sede in questa chiesa si trasferì in quella di Santa Maria delle Grazie.

Per l’incremento demografico e lo sviluppo urbanistico, intorno agli ani ’30 del Novecento mons. Farina, con il consenso del Capitolo della Cattedrale di Foggia e quello della Collegiata di San Marco in Lamis, con Bolla del 15 settembre 1936 eresse la chiesa a sede della nuova parrocchia intitolata a Santa Maria delle Grazie [9].

È interessante osservare come in altri centri della Capitanata, ad esempio Bovino, il culto di Santa Maria di Valleverde fa confluire nella storia della religiosità popolare della città le sue tradizioni.

Santuario della Madonna di Valleverde in Bovino.

Santa Maria di Valleverde è la Protettrice di Bovino insieme a San Marco di Ecana. La tradizione narra che la sua apparizione avvenne intorno all’anno 1266 quando la Madonna apparve, in sogno, ad un onesto e probo uomo di nome Nicolò. Questi, una notte, sognò di andare con i compagni a spaccare la legna nel bosco di Mengaga, distante dall’abitato circa un miglio. Mentre si accingeva a raccogliere la legna, gli apparve una bellissima Signora, vestita di bianco, dall’aspetto stanco che lo pregò di riempirle una brocca di acqua dalla vicina sorgente perché aveva una gran sete.

Nicolò si rifiutò di esaudire la sua richiesta, perché doveva raccogliere la legna altrimenti i suoi compagni lo avrebbero lasciato da solo, ma la Signora gli assicurò che se le avesse riempito la brocca di acqua avrebbe trovato l’asino già carico di legna. Egli allora ubbidì; al suo ritorno rimase meravigliato nel vedere l’asino con la soma carica di legna, così le chiese chi fosse. Ella gli rispose di essere la “Madre del Figliuolo di Dio”, di aver abbandonato il territorio di Valverde in Spagna profanato dalle cattiverie degli uomini e di essere venuta in Puglia per proteggere gli abitanti di Bovino. Raccomandò a Nicolò di recarsi dal Vescovo a raccontargli tutto, di diffondere la voce in tutto il territorio e di far edificare una chiesa in suo onore, sotto il titolo di Santa Maria di Valleverde.

Purtroppo, Nicolò non esaudì il desiderio della Signora, ma raccontò il sogno solo a Lavinia, sua madre. La notte seguente la Beata Vergine gli apparve nuovamente riprendendolo per la sua noncuranza e dicendogli che se non avesse tenuto fede alla richiesta si sarebbe risvegliato con le membra doloranti. Neanche questa volta Nicolò diede ascolto alle richieste della Vergine.

Così, dopo la terza notte, Nicolò si risvegliò dolorante e gonfio tanto da spaventare i suoi familiari. La quarta notte gli apparve ancora la Beata Vergine che lo rimproverò per la sua ostinazione e gli replicò la richiesta, ma lui rispose che essendo malato non poteva eseguire i suoi ordini.

Ella gli intimò di alzarsi e di camminare. Il mattino seguente, Nicolò si alzò in perfetta forma, decise di recarsi dal Vescovo e di raccontargli quanto gli era successo. Il Vescovo, Giovanni Battista, fu commosso dal racconto del giovane tanto che si limitò a chiedergli dove la Vergine voleva fosse eretta la chiesa.

Nicolò, addormentatosi nella notte seguente, sognò di recarsi con la Vergine nel bosco di Mengega, dove ella gli apparve la prima volta, descrisse come voleva che fosse eretta la chiesa legando l’erba ed i fiori con le sue mani.  Il vescovo, udito il racconto del giovane andò subito con il clero ed il popolo in processione nel bosco di Mengaga dove rese grazie a Dio per il portentoso avvenimento. Subito si diede inizio alla costruzione della chiesa. La Beata Vergine aveva detto a Nicolò:

«Io sono la Madre del Figliuolo di Dio, che per insino adesso sono stata nel Territorio di Valleverde e per la puzza, e la mala vita di molti homini di quel paese, mi sono già partita di là, e sono venuta per star qui per la difesa de’ Pugliesi, e particolarmente di quei che abitano in Bovino».

Ogni anno, la prima domenica di maggio, clero, popolo e confraternite, si recano in processione al santuario per celebrare messe ed altre sacre funzioni in onore della Vergine, per ricordare l’apparizione. Al ritorno le congreghe sono precedute da due lunghe file di ragazzi che portano i rami degli alberi rivestiti di tenere foglie[10]. La Madonna di Valleverde si festeggia il 29 agosto.

In Cerignola il culto per la Madonna di Ripalta sull’Ofanto ripropone il tema religioso pagano, dal quale trae origine quello cristiano. La Sua chiesa sorge sulla riva sinistra del fiume ad una distanza di circa 9 Km dal centro abitato. Anticamente in questo luogo si praticavano riti pagani in onore della dea Bona, divinità della pastorizia e dei boschi. I monaci seguaci di San Basilio, venuti probabilmente dall’Oriente, costruirono sia il convento sia la chiesa sulle vestigia del tempio pagano intitolandolo alla Madonna della Misericordia.

I monaci, però, abbandonarono questo luogo intorno al IX secolo forse a causa delle scorrerie da parte degli Arabi che invadendo le terre comprese tra Bari e Napoli causavano stragi e rovine.

La chiesa, in seguito, passò sotto la tenenza del chierico Cicerone quando fu concessa in proprietà a Gundelguifo, figlio di Mimo d’Oria, al quale nel 947 Leone abate di S. Vincenzo al Volturno diede anche alcune terre. Infine, passò alla città di Cerignola che la intitolò a Santa Maria di Ripalta sull’Ofanto, dal luogo in cui si trova, e la Madonna fu venerata come protettrice della città.

Dal 6 al 10 settembre Cerignola festeggia nella consueta e rinomata Kermesse la ricorrenza della Madonna di Ripalta, con gare di fuochi pirotecnici ed altre iniziative religiose e folcloristiche che richiamano turisti ed abitanti dai paesi limitrofi. Il secondo lunedì di ottobre, il quadro della Madonna da Cerignola è riportato nella chiesa sull’Ofanto, dove sosta dal mese di settembre fino al sabato successivo alla Pasqua, in tale occasione la città festeggia l’avvenimento con una processione ed una sagra [11].

In Orta Nova è molto sentita la devozione per la Madonna dell’Altomare che trae origine dal culto sorto nella cittadina di Andria.

Gli avvenimenti che originarono la particolare devozione degli abitanti di Andria verso la Madonna dell’Altomare e la elevazione a santuario della chiesa a Lei intitolata, sono riconducibili al 1588, alla vigilia della Pentecoste quando una bimba di quattro anni scomparve dalla propria abitazione. Dopo lunghe ed estenuanti ricerche condotte senza esito positivo, dopo tre giorni, il martedì di Pentecoste, un contadino mentre si accingeva ad attingere l’acqua da una cisterna posta ad un centinaio di metri fuori dall’abitato, fu attratto dalla voce di una bimba che proveniva dal fondo della stessa cisterna.

Dopo aver dato l’allarme gli abitanti si accinsero a portare fuori il corpo della bimba e, con sorpresa, constatarono che si trattava proprio della bimba scomparsa tre giorni prima. Ai genitori ed alle persone accorse in quel luogo la bimba riferì che il giorno della sua scomparsa era caduta in quella cisterna e che era stata salvata da una bella Signora. Così, svuotata la cisterna, su una parte di essa fu trovata l’immagine della Madonna venerata nel Santuario.

Dai paesi vicini, dopo questo evento, incominciò un pellegrinaggio sempre più intenso; così l’allora vescovo mons. Vincenzo Basso, diede all’Immagine il titolo di Madonna dell’Altomare.

Dopo un periodo di iniziale entusiasmo, la Sacra Immagine fu dimenticata, tanto che durante la peste del 1656 il luogo fu utilizzato come camposanto degli appestati. L’unica a non trascurare la Madonna fu un’anziana devota di nome Angela che ogni giorno accendeva la lampada in quel luogo sacro. Più tardi la Madonna compì un altro prodigio: una giovinetta si era ammalata gravemente, così la devota segnò la fronte della fanciulla con l’olio della lampada della Madonna. Miracolosamente la ragazza guarì. Quest’ultimo miracolo segnò la vera origine del culto per la Madonna dell’Altomare perché da quel momento non solo la Sacra Immagine non fu più dimenticata ma fu eretta una chiesa in Suo onore.

Nella cittadina di Orta Nova, invece, la Madonna dell’Altomare fu portata da una fanciulla di nome Maria Balsamo soprannominata “Marietta”.

Questa ragazza un giorno si recò in pellegrinaggio ad Andria per chiedere alla Madonna la grazia della guarigione in quanto aveva una salute cagionevole e, non avendo nulla, destinò le uniche monete in suo possesso, che non ricordava neppure di avere, all’acquisto del quadro della Madonna. Ritornata ad Orta Nova per Maria le cose andarono meglio, ella guarì completamente e si sposò, ebbe dei figli ed un futuro radioso, anche perché la giovane era rimasta sempre devota alla Madonna.

Con il tempo gli abitanti di Orta Nova stimolati dalla stessa Marietta incominciarono a venerare la Sacra Immagine della Madonna dell’Altomare. In seguito il prodigioso quadro fu spesso portato in processione e, quando Maria e suo marito ebbero la possibilità, con l’obolo dei fedeli fecero erigere una chiesa alla Madonna dell’Altomare. Attualmente la vecchia chiesa ha avuto altra destinazione d’uso mentre verso la fine degli anni Ottanta del Novecento, ne è stata edificata una nuova [12]. I festeggiamenti della Madonna dell’Altomare avvengono durante il mese di agosto di ogni anno.

Nei pellegrinaggi mariani è inserita la cittadina di Panni dove si venera la Madonna Assunta in Cielo. L’antica piccola chiesa Madre del paese risale alla fine dell’ XI secolo e fin d’allora era dedicata a questa Madonna. Poiché il borgo era abitato da pastori in tempi più remoti, si ipotizza che la chiesa sia sorta sulle vestigia di quella più antica dedicata a San Martire di Costanzo, compatrono della città. In seguito all’espansione del borgo la chiesa fu ampliata e dedicata all’Assunta in Cielo.

A causa degli eventi sismici la chiesa fu più volte restaurata fino a quando, intorno alla prima metà dell’800, fu demolita per essere poi ricostruita dall’imprenditore edile foggiano Petrosillo che verso il 1830 su committenza della Confraternita e del Comune di Panni iniziò i lavori. Il costruttore si ispirò grossomodo alla Cattedrale di Troia realizzando la chiesa in uno stile dell’epoca, arricchendo di stucchi decorativi le volte a crociera. Molto del materiale appartenente all’antica chiesa fu reimpiegato ma furono utilizzati anche materiali provenienti dal castello.

La nuova chiesa fu ultimata nel 1842 ed ebbe un costo complessivo di ducati 14,000. A completamento dell’opera fu eretto un campanile a quattro piani. A causa di gravi lesioni e cadute di stucchi provocate dal sisma del 1930 e da quello del 1962 la chiesa fu demolita nella parte interna fatti salvi i muri perimetrali.

L’attuale costruzione mantiene le stesse caratteristiche di quella antica mentre la struttura interna è stata realizzata seguendo i criteri moderni di costruzione. I lavori furono in un primo momento sospesi nel 1972 e ripresi nel 1976; nuovamente interrotti per ragioni varie, furono ultimati nell’85 anno in cui la nuova chiesa fu inaugurata [13].

Tra le mete dei pellegrini non può mancare la visita al santuario dell’Incoronata di Foggia. Tale titolo è dovuto alla corona che cinge il capo della Madonna. Il culto per la Madonna Incoronata risale all’XI secolo quando la Ella manifestò la Sua presenza su una quercia nel bosco l’ultimo sabato di aprile. Secondo la tradizione Ella apparve al conte di Ariano [14] mentre questi si trovava nella foresta  nei pressi del fiume Cervaro. Durante la notte una luce vivissima attraversò la selva. Il Signore attratto dal chiarore giunse ai piedi di una quercia dalla cui sommità una misteriosa Signora, avvolta in aura sfolgorante e presentatasi con il nome di Maria madre di Dio gli indicava una statua di legno scuro assisa fra i rami dell’albero. Nel contempo un contadino di nome Strazzacappa, che si recava al lavoro con i suoi buoi alla vista della Signora, si inginocchiò, prese il paiolo che gli serviva per il pasto giornaliero, lo svuotò e vi versò l’olio che gli sarebbe servito per l’intero mese e, realizzato un rozzo stoppino, l’accese in onore della Madonna. L’omaggio di Strazzacappa restò per sempre il simbolo del santuario, segno di fede. Il nobile Signore fece edificare una piccola chiesa che divenne poi santuario famoso.

La cura della chiesa fu affidata ad un eremita, ma le comitive di pellegrini e villani sempre più numerose e, soprattutto, quelle dirette al santuario di San Michele Arcangelo determinarono l’esigenza dell’ampliamento del santuario dell’Incoronata di Foggia. La nuova chiesa fu affidata alla cura dei monaci Basiliani che la tennero fino al 1139. In quella data il normanno Ruggero II la donò a San Guglielmo da Vercelli che aveva da poco fondato il monastero di Montevergine presso Avellino.

Dal secolo XIII agli inizi del secolo XVI nel santuario si stabilirono i monaci cistercensi. La loro operosità e la dedizione ai pellegrini fecero del santuario uno dei maggiori centri religiosi della Capitanata. Nella seconda metà del secolo XVI l’intero complesso fu sottratto ai cistercensi e dato in commenda dapprima al nobile Antonio Carafa e poi ad altri dignitari che contribuirono con le loro opere ad accrescere l’importanza del santuario.

Con l’approvazione della legge sull’eversione feudale e la soppressione degli ordini religiosi i beni furono confiscati. Cominciò così un periodo di totale abbandono del santuario fino a quando agli albori del XX secolo l’opera dei vescovi e di alcuni benefattori tra cui i foggiani Perrone e Postiglione provvidero al recupero della struttura. Nel 1950 l’intero complesso fu affidato alle cure dell’Opera di Don Orione e da allora fu incrementato il pellegrinaggio. La vecchia chiesa si rivelò insufficiente ad accogliere i pellegrini e così nella seconda metà del XX secolo fu eretta una nuova basilica su progetto dell’ing. Luigi Vagnetti di Roma.

Tra i segni di devozione popolare degna di nota è senz’altro la Cavalcata degli Angeli che si svolge il venerdì successivo alla vestizione della statua. La statua della Madonna è incoronata, come avvenne durante la notte dell’apparizione, dagli angeli festanti con una triplice corona. Cavalli bardati a festa ornati di lustrini piume e sonagliere, insieme a centinaio di fanciulli vestiti da angeli, da santi e da fraticelli, girano per tre volte intorno al santuario in mezzo alle decine di migliaia di fedeli che accompagnano il corteo con il canti e preghiere.

Anticamente era tradizione che i pellegrini giunti nei pressi del fiume Cervaro o quelli provenienti dalla Basilicata usassero togliersi i calzari e percorrere a piedi nudi gli ultimi due chilometri di strada fino alla chiesa. Era un gesto di umiltà fatto nel ricordo di Mosé a cui sul monte Oreb il Signore comandò di togliersi i sandali per la sacralità del luogo. Oggi i pellegrini compiono ancora il triplice giro intorno al santuario prima di entrarvi. Tra le usanze ricorrenti vi è quella della benedizione con l’olio che ciascun pellegrino riceve; l’olio dell’umile Strazzacappa simbolo di fede, speranza e carità, come recita una preghiera tramandata dai pellegrini di Ripabottoni:

«[…] Ora vi preghiamo di ungere la nostra anima 
con quell’olio che il semplice campagnolo
detto Strazzacappa mise ad
ardere per voi sull’albero.
Perciò fate che nell’anima nostra non manchi
Mai l’olio della fede, l’unzione
della ferma speranza e la fiamma della santa carità» [15].

Alla luce di quanto emerge dagli studi svolti sull’argomento, si può affermare con fondato realismo che in ogni comprensorio urbano dell’Alto e del Basso Tavoliere la presenza del culto mariano espresso sotto le varie forme è vivo e sentito in modo evidente; così i molteplici segni di fede siano essi manifestati attraverso i pellegrinaggi oppure in altro modo, rappresentano il punto essenziale mediante il quale la religiosità popolare raggiunge la massima espressione.


NOTE

1 G. DE VITA, Orta Nova tra storia locale e religiosità popolare, in “ Segni di fede a Orta Nova” (a cura di Rosa Avello), CRSEC – Cerignola,Foggia 2000, pp. 9 e ss.

2 Ibidem.

3 A. CAMPANILE, Peschici nei ricordi, Foggia 2000, p. 59.

4 Ibidem, pp. 65 e 66.

5 M. VILLANI – G. SOCCIO, Le vie e la memoria dei padri, Santuari e percorsi devoti in Capitanata, Foggia 1999, pp. 60 e ss.

6 Ibidem, pp. 47 e ss.

7 G. LO ZITO, L’Incoronata, storie & restauri, Apricena 2003, pp. 15 e ss.

8 G. DI PERNA, Santa Maria di Selva della Rocca – la storia, in “Siti archeologici nel territorio di Apricena, Santa Maria di Selva della Rocca”, a cura di G. Di Perna, V. La Rosa e M. Violano, San Severo 1997, pp 53 e ss.

9 P. SCOPECE, Dalle Origini… comuni e chiese parrocchiali dell’Arcidiocesi Foggia – Bovino, Foggia 1999, p. 257.

10 C.G. NICASTRO, Bovino, storia di popolo, vescovi duchi e briganti, Amministrazione Provinciale di Capitanata, Foggia 1984, pp. 149, 150 e 151.

11 L. ANTONELLIS, Cerignola Guida alla città, Comune di Cerignola, Cerignola 1999,  pp. 96, 97, 99, 100 e 101.

12 V. SANTORO, Orta Nova e il Santuario della Madonna dell’Altomare, storia, cronaca e itinerari turistici, Foggia 1987, pp. 21 e ss.

13Ibidem, pp. 372.

14 Personaggio legato alla sola tradizione religiosa e popolare, indicato come appartenente alla dinastia Guevara. Storicamente questa nobile famiglia giunse dalla Spagna in Italia al seguito di Alfonso d’Aragona nel 1400, per cui non poteva essere in Capitanata in epoca anteriore a quella data. La scarsa documentazione risalente a quel periodo, inoltre, attesta che l’Italia meridionale non era ancora regolata dal sistema feudale.

15 M. VILLANI – G. SOCCIO, Le vie … op. cit., pp. 39 e ss.

 

©2006 Lucia Lopriore

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Microstorie

Il “mistero dell’incarnazione” nel culto mariano

La copertina del volume.

In un’epoca in cui tutto sembra andare a rotoli, dove tra il problema dello stoccaggio dei rifiuti in Campania, l’inquinamento ambientale, i disordini politici, ed altre problematiche che si alternano alle facezie del vissuto quotidiano tanto da diventare oggetto d’interesse dei mass media – si veda il caso Sarkozy-Bruni -, in un mondo dove la cattiveria impera, ecco spuntare all’orizzonte miracolosamente un messaggio di pace e di speranza: quello della fede Cristiana.

A pensarci è stato un noto studioso del nostro territorio esperto di agiografia, il prof. Gilberto Regolo, con l’ultima Sua fatica data recentemente alle stampe per i tipi delle Edizioni del Rosone “Franco Marasca” di Foggia, dal titolo L’uomo, il silenzio di Dio, i dolori della Vergine (pp. 192, ill. b/n e colori, Foggia 2007).

Il volume, diviso in quattrodici capitoli, percorre attraverso un’ampia carrellata di notizie storiche, politiche e religiose il cammino della fede Cristiana, spaziando dagli scismi della Chiesa Primitiva, attraverso la testimonianza di fede di Paolo, al protestantesimo di Martin Lutero, alle esperienze religiose di Santa Caterina Labouré, la cui storia riecheggia nei miei ricordi d’infanzia, quando mia madre era solita recitare nelle preghiere la giagulatoria: “O Maria, concepita senza peccato, pregate per noi che ricorriamo a Voi”.

Il racconto del miracolo dell’apparizione della Madonna a Santa Caterina Labouré, Figlia della Carità, mi veniva ripetuto spesso anche da una zia materna, suora appartenente allo stesso Ordine di Santa Caterina, quando mi recavo a farle visita le poche volte in cui le era concesso ricevere i parenti.

L’Autore racconta, inoltre, le esperienze di Santa Margherita Alacoque e Sant’Alfonso de’Liguori, mentre il Suo spirito cristiano ed ascetico emerge dall’esegesi della “Salve Regina” recitata e commentata nei tratti salienti.

Nel testo non mancano le tematiche filosofiche che l’Autore ritiene fortemente discutibili in quanto in esse tutto è concesso, anche l’improponibile.

Nel racconto del miracolo di Fatima, analizzato sotto i diversi aspetti, l’Autore lancia un grido di speranza che si accentua quando parla delle politiche contrapposte allo spirito cristiano, tematiche, queste ultime, affrontate con estrema durezza concettuale. Tra le tante: il Modernismo, il Laicismo ed il Relativismo sono additate come strumenti di scristianizzazione.

La parte centrale del volume affronta la crisi dell’uomo di oggi, l’aggressione alla famiglia con i falsi modelli culturali, le convivenze, l’amore libero e quanto altro, fino ad inoltrarsi nei flagelli del Terzo Millennio con il turismo sessuale, la droga di massa, il terrorismo, le malattie sessuali ecc. Qui, emerge il tema della spiritualità: l’uomo ovvero il Cristo che risorgere per redimere l’Umanità dai peccati e dalle cattiverie, ed il Mistero dell’Incarnazione: “Dio è il Verbo che viene generato dalla Madre”.

“Maria piena di Grazie Regina del Cielo e della Terra” intercede per l’Umanità attraverso le frequenti e necessarie apparizioni: a Parigi, in Rue du Bac (1830), a La Salette (1846), a Lourdes (1858), a Pont-Main (1871), a Fatima (1917), a Bennaux (1933) fino a quella di Medjiugorye nel 1981. Luoghi che diventano scenario del messaggio mariano.

La Madonna venerata dopo millenni perchè dispensatrice di grazie a testimonianza della speranza che l’Umanità nutre per Sua intercessione. “L’occhio miracoloso della Madre” che segue i Suoi figli accompagna il lettore attento con la Sua presenza in quasi ogni pagina del volume.

La devozione mariana, soprattutto in ambito locale, stabilisce la totale prevalenza tra le scelte coeve dell’immagine della Madonna sotto i diversi titoli, a Foggia tale culto si estende alla Madonna del Carmine, alla Madonna Addolorata, alla Madonna della Croce, all’Immacolata, all’Incoronata, alla Madonna della Pace, alla Madonna della Neve, alla Madonna del Grano, alla Madonna delle Grazie e, per il passato, a Santa Maria in Silvis la cui icona è custodita presso la chiesa delle Croci ed infine, a Santa Maria di Costantinopoli alla quale fu intitolata una chiesa in seguito demolita.

Beato Angelico, Madonna col Bambino e angeli.
Giovanni Bellini, Incoronazione della Madonna (particolare).

Tuttavia, emblematica per il capoluogo daunio è certamente la presenza del culto per la Madonna Iconavetere. Meglio conosciuta come Madonna dei Sette Veli, è un’antica immagine raffigurante la Vergine Kyriotissa Nicopaia.

Secondo la tradizione, le origini della città di Foggia risalgono intorno all’anno Mille con il rinvenimento della tavola raffigurante la Madonna Iconavetere , affiorata sulle acque di un pantano nei pressi del quale era stata occultata, avvolta in drappi o veli, forse per sottrarla alla furia iconoclasta.

La sua provenienza è incerta. L’icona che secondo la tradizione fu dipinta dall’evangelista Luca, cui sono riferite diverse icone mariane, fu portata nel 485 d. C. a Siponto dalla città di Costantinopoli, dove era oggetto di grande venerazione. Sarebbe stata consegnata, in tale circostanza, al vescovo Lorenzo Maiorano, che ne fece dono alla città di Arpi.

Durante la distruzione della città risalente al 600 d. C. circa, il Sacro Tavolo fu posto in salvo da un contadino del luogo che, avvoltolo in drappi, l’avrebbe poi nascosto nel sito del suo rinvenimento.

L’Iconavetere fu ritrovata a Foggia nel luogo oggi denominato piazza del Lago, nei pressi della cattedrale, da alcuni pastori incuriositi alla vista di un bue genuflesso al cospetto di tre fiammelle posate sulle acque del lago; i pastori portarono l’icona nella vicina Taverna del Gufo del bufo, divenuta poi una chiesa rurale, attorno alla quale si formò il primo nucleo abitativo che riunì gli abitanti dell’antica Arpi,dispersi nelle vicinanze dopo la sua distruzione.

Dai paesani e dai forestieri La Taverna del Gufo fu denominata “cappella di Sancta Maria de Focis”, a ricordo della Vergine Santa e delle tre fiammelle apparse sulle acque dello stagno.

Alcuni studiosi ritengono che il Sacro Tavolo dell’Iconavetere raffiguri l’immagine dell’Assunta in cielo. Un gruppo di storici dell’Arte negli anni ’80 del Novecento ha effettuato un restauro sul Tavolo dell’Iconavetere, riconoscendo la Madonna riccamente abbigliata, seduta con il bambino in grembo. In tale occasione, è stato stabilito che, dal profilo dell’aureola che emerge, è possibile collocare l’opera secondo modi diffusi in ambito campano-abruzzese.

Le tracce di lapislazzuli e di oro, gli alveoli destinati ad ospitare pietre dure intorno alle aureole, emersi nel corso di un restauro precedente, risalente agli anni sessanta del Novecento, attestano la preziosità dell’icona, databile tra l’XI ed il XII secolo.

Nel 1080 Roberto il Guiscardo volle che sullo stagno dove era stato rinvenuto il Sacro Tavolo fosse costruita una grande chiesa, che fu ampliata nel 1172 per volere di Guglielmo II di Sicilia detto il Buono. Con la chiesa crebbe anche la città, che divenne una delle più importanti del Regno. La storia del santuario si identificò con quella di Foggia. Diverse volte i principi regnanti scelsero la chiesa di Sancta Maria de Focis per celebrare i loro matrimoni. Carlo I d’Angiò fece del tempio mariano la sua cappella palatina, e qui volle che nel 1274 si celebrassero le nozze tra la terzogenita Beatrice e Filippo di Courtenay. Furono devoti dell’Iconavetere anche Carlo II lo zoppo, Roberto il saggio, Giovanna I, Giovanna II ed il consorte Ladislao, Alfonso I e suo figlio Ferrante I d’Aragona.

Nel 1731 la chiesa fu semidistrutta da un violento terremoto, ed il Sacro Tavolo fu portato nella chiesa di Santa Maria di Costantinopoli dove il volto della Madonna apparve per la prima volta dalla piccola finestra ogivale dell’icona. Era il 22 marzo, giovedì santo, il popolo era raccolto nella partecipazione della Santa Messa quando si verificò il prodigioso evento.

Sant’Alfonso Maria de’Liguori, appresa la notizia, volle recarsi a Foggia per rendere omaggio alla Vergine Santissima. Anche lui ebbe il privilegio di vedere la Madonna che appariva come una giovinetta di 13 o 14 anni con il capo coperto da un velo bianco. Le apparizioni si rinnovarono fino al 1745.

Nel 1767 Maria Carolina d’Asburgo, moglie di Ferdinando IV di Borbone, si recò in pellegrinaggio a Foggia. Più tardi ella volle che le nozze tra suo figlio Francesco I, principe ereditario, e Maria Clementina d’Austria, fossero celebrate a Foggia. Correva l’anno 1797 e per un solo giorno la città fu capitale e l’Iconavetere patrona del Regno.

Nel 1782 la sacra immagine fu incoronata con decreto del Capitolo Vaticano e nel 1806, per volere di Pio VII, la chiesa fu illustrata con il titolo di Basilica Minore.

La corona d’oro fu sottratta da ignoti il 6 marzo 1977. Il popolo foggiano si offrì di provvedere all’acquisto della nuova corona, così la Madonna fu nuovamente incoronata il 22 marzo 1982.

Infine, nel 1855, con l’istituzione della diocesi di Foggia, la chiesa di Sancta Maria de Focis fu elevata a cattedrale della nuova diocesi.

Vennero a Foggia anche Vittorio Emanuele II di Savoia che venerò l’immagine della Madonna nel 1863. Tre anni dopo fu la volta dei principi Umberto ed Amedeo di Savoia, mentre nel 1928 venne anche Vittorio Emanuele III.

Molti furono anche i Santi venuti da lontano per venerare l’immagine della Vergine. La tradizione ricorda i nomi di San Francesco d’Assisi, San Giovanni di Matera, San Tommaso d’Aquino, San Pietro Celestino, San Vincenzo Ferreri, Sant’Antonino, San Gerardo Majella, oltre al già citato Sant’ Alfonso Maria de’ Ligori ed i Santi Guglielmo e Pellegrino di Antiochia.

Per la devozione di questa Sacra Immagine, la Chiesa ed Capitolo di Foggia ebbero alcune rendite annue attraverso una serie di privilegi concessi già in epoca angioina con i vari diritti quali quello sullo scannaggio, la decima sopra il dazio e la bagliva, alcune rendite sopra le gabelle della carne, della neve, della farina e forno, ecc. e tali privilegi furono confermati anche dai Regi successori e fino agli albori del secolo scorso.

Gli ultimi capitoli del prezioso volume sono dedicati all’arte mariana vista da varie angolazioni. Sono chiamati in causa artisti che hanno fatto dell’Arte Sacra “l’ombelico del mondo”. Caravaggio, Michelangelo, il Beato Angelico, solo per fare qualche citazione, emergono attraverso il dovizioso apparato iconografico.

Gli echi delle ultime apparizioni a Medjiugorye, ed i quattro inviti della Vergine: la Pace , la Conversione , il Digiuno, la Preghiera, sembrano voler preannunciare l’attesa di venute escatologiche simili a quelle delle prime comunità cristiane concludendo il bellissimo testo che si inserisce a pieno titolo nella letteratura agiografica costituendo un ulteriore valore aggiunto al prezioso patrimonio bibliografico sulla storia del nostro territorio.

©2008 Lucia Lopriore

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Microstorie

Architetture di Orta Nova tra ‘700 e ‘900

Orta Nova, palazzo di Pasquale Sinisi

Com’è noto la Compagnia di Gesù, battagliera milizia fondata dal Capitano Ignazio Lopez Reclade de Loyola nel 1534 e riconosciuta ufficialmente nel 1540, si imponeva una strenua difesa dei sacri diritti del papato.

Durante il regno napoletano di Carlo III di Borbone, padre Pepe del Gesù Nuovo, Apostolo del secolo XVIII, era spesso convocato a corte dal Sovrano, sia per consigli sia per risolvere le “Faccende” del governo; ciò suscitò le invidie dei politici e di alcuni prelati a danno del suo stesso Ordine: costoro non sopportavano che i religiosi riuscissero ad imporsi per le loro capacità diplomatiche.

I Gesuiti erano potenti ed avevano aderenze dovunque, non era quindi facile, per chi complottava contro di loro, riuscire ad eliminarli.

Furono espulsi anche dagli altri Stati europei a causa della loro ingerenza negli affari di Stato; essi rappresentavano ”l’élite” degli Ordini Religiosi, ed erano pertanto visti come degli “arrampicatori” che sapevano destreggiarsi negli affari di Stato.

Dopo la partenza del sovrano per l’ascesa al trono di Spagna, il governo del regno rimase nelle mani del marchese Bernardo Tanucci per circa vent’anni.

Durante la sua reggenza il ministro, con l’approvazione del sovrano, agì con severità verso alcuni ordini religiosi (fra i quali la Compagnia di Gesù) pensando che sfruttassero la generosità del sovrano stesso.

Inasprì, quindi, la pressione fiscale sui beni della Chiesa iniziata dopo il Concordato del 1741 [1] e cercò di mettere sotto controllo dello Stato tutte le proprietà ecclesiastiche pretendendo l’ingerenza anche sui beni che erano lasciati agli ordini religiosi nei testamenti. In seguito emanò alcuni decreti che gli inimicarono il pontefice.

Nel 1767, divenendo Ferdinando maggiorenne terminò la sua reggenza; fu costituito quindi un Consiglio di Stato del quale il Tanucci rimase arbitro. Egli riuscì a raggiungere lo scopo che si era prefissato da lungo tempo: quello di espellere dal regno di Napoli la Compagnia di Gesù, provvedimento che era già stato attuato in Spagna, in Portogallo ed in Francia. L’espulsione dei Gesuiti dal regno fu la conseguenza di un movimento anticlericale maturato già dai tempi di Carlo III.

Il ministro Tanucci aveva preparato il terreno per farli espellere dal regno, così il 21 aprile 1767 egli scrisse al Principe della Cattolica, ambasciatore napoletano a Madrid, che a Napoli non il popolo ma la “Voce di Dio” voleva i Gesuiti fuori del regno. Così, si incominciò ad addebitare loro ogni sommossa od attentato.

Nonostante tutto, il papa Clemente XIII protestò, ma lo Stato, che aveva incamerato i beni dell’Ordine, pensò di non tenere conto delle rimostranze del pontefice che aveva anche sottolineato che questo atteggiamento contravveniva al Concordato del 1741; il papa si rivolse anche ad altri governi europei, ma il Tanucci fu irremovibile.

Le potenze borboniche si allearono per ottenere da Clemente XIII la soppressione totale dell’Ordine e quando il pontefice morì, appoggiarono l’elezione di un candidato che non nutriva simpatia per i religiosi: fu eletto papa il cardinale Ganganelli che fu incoronato il 4 giugno 1769 con il nome di Clemente XIV.

La questione si chiuse definitivamente con la pace conclusa tra il nuovo pontefice e le case borboniche di Francia, Spagna, Portogallo e Napoli, previo l’accoglimento della proposta di soppressione totale dell’Ordine Gesutico. Ciò avvenne dopo un’ispezione effettuata nel marzo del 1771 in un Collegio gesuitico irlandese, alla quale seguirono altre visite in diverse case dell’Ordine.

Dopo varie ed intricate vicissitudini, il nuovo Pontefice affidò a monsignor Zelada l’ordine di preparare la Bolla di soppressione. L’Ordine religioso fu soppresso definitivamente il 16 agosto 1773 [2].

Stessa sorte toccò ai Gesuiti della “Casa d’Orta”. Così dopo la loro espulsione dalla Capitanata [3] la Regia Corte nel 1774 divise le terre in appezzamenti ed istituì i Cinque Reali Siti.

Il territorio di Orta fu diviso in 105 lotti [4] ed assegnato in enfiteusi, per 29 anni, alle famiglie concorrenti che ne avevano diritto.

Orta, quindi, dopo l’insediamento dei coloni, cominciò a svilupparsi anche sotto il profilo urbanistico, assumendo l’aspetto di un vero e proprio villaggio; in questa occasione, il “Dottor Fisico Giuseppe Negri, avendo appreso dell’esistenza del nuovo insediamento, nel 1775 inviò una supplica al Sovrano, affinché da Solopaca, paese della Campania, potesse trasferirsi ed esercitarvi la sua professione [5].  

Lo sviluppo urbanistico di Orta, fino al 1775, si estendeva solo intorno al monumentale fabbricato del convento ex gesuitico, una costruzione risalente al 1600 ed edificata dai Gesuiti, come evidenziato dalle planimetrie compilate dal regio compassatore Antonio Michele di Rovere, intorno al 1686, e da Agatangelo Della Croce e Giuseppe Mancino, regi agrimensori nel 1738 [6].

Tra il 1777 ed il 1778 una parte dei censuari, che a causa delle calamità naturali non era riuscita ad assolvere il proprio debito annuale con la Regia Corte, fu espulsa e così le partite libere furono riassegnate a nuovi censuari [7]. Si pensò allora di aiutare gli stessi, concedendo loro soccorsi per la coltivazione dei terreni ed altri piccoli lotti per l’ampliamento delle case rurali e per rendere più comode le loro abitazioni.

A tale riguardo, l’11 febbraio 1775 il Pallante, responsabile della Giunta degli abusi, inviò una lettera al De Dominicis, uditore della Dogana, con la quale garantiva che avrebbe proposto alla Giunta stessa e poi al sovrano la concessione richiesta dai censuari [8].

Solo successivamente, tra il 1798 ed il 1800, Orta si sviluppò tra le vie: Delle Rose, Strada Giovine, Via Ordona, Via Foria, ecc.” e, queste strade, ora periferiche, costituirono un importante asse viario di comunicazione tra il centro del paese ed altri paesi limitrofi.

Con l’abolizione del sistema doganale avvenuta con la Legge del 21 maggio 1806 e successivamente con R. D. del 14 giugno 1806, si concedeva ai censuari il dominio utile dei fondi e la libertà di poterli coltivare secondo le proprie esigenze. Il censuario era tenuto al pagamento del canone annuo e della fondiaria, ed in seguito divenne l’effettivo proprietario dei fondi assegnati, poiché il contratto divenne perpetuo.

Più tardi, con Reale Dispaccio del 22 aprile 1807 [9], alcune terre, proprietà del duca Nicola Maria de’ Sangro [10], furono devolute e cedute al prezzo di 27 carlini la versura, ad altri censuari già in possesso di terreni nel Reale Sito di Orta.

Così, la lungimiranza di alcuni di loro e l’abilità nel condurre i propri affari, consentì agli stessi di estendere il proprio patrimonio dando inizio allo sviluppo economico e sociale del paese. Si formò così una borghesia costituita per lo più da proprietari terrieri, in parte analfabeti, e piccoli commercianti. Solo più tardi, intorno alla metà dell’Ottocento, avendo questi ultimi indirizzato agli studi i propri figli, si contarono nella borghesia i primi “Professionisti Ortesi”; quelli già residenti infatti provenivano da altri paesi. In questo periodo Orta contava la presenza di un regio giudice: Alessandro Ruocco, di un medico: Francesco De Majo, di due farmacisti: Paolo Dembech e Vincenzo Balestrieri, di due notai: Luigi Guadagni e Ciriaco Sciretti, e di un avvocato: Alessandro Carella.

Orta Nova, palazzo Saltarelli, interno.

Le case terranee e rurali già esistenti furono, in massima parte, soprelevate tra il 1798 ed il 1890, e molti proprietari fecero edificare le loro dimore, conferendo ad Orta l’aspetto di un centro urbano moderno e confortevole per quei tempi; ne sono testimonianza diretta le “case palaziate” costruite – come già detto – nei punti nevralgici del paese e sempre adiacenti a strade costituenti un importante punto di comunicazione con altri centri urbani.

Lo sviluppo sociale e quello urbanistico procedevano quindi di pari passo; tale fenomeno è evidenziato anche in un documento del 20 febbraio 1841 [11], quando Don Luigi Tagliazucchi e Donna Marianna Freber, ambedue di Napoli, il primo insegnante di musica e la seconda istitutrice, decisero di aprire nel paese una scuola privata, dando la possibilità ai cittadini più abbienti di potersi istruire senza recarsi altrove. Per questo incontrarono alcuni esponenti della borghesia ortese e con loro stipularono un accordo che stabiliva alcune condizioni essenziali per procedere all’apertura della scuola. La classe borghese, costituita dalle famiglie più abbienti, per oltre un secolo visse contribuendo alla ricchezza economica del paese.

Con il riconoscimento giuridico del Comune di Orta avvenuto con il già citato R.D. del 14 giugno 1806, si ravvisò la necessità di istituire il Catasto Urbano, di cui il paese era sprovvisto, ma, nel verbale redatto dal controllore delle Contribuzioni dirette, Laudati, del 15 marzo 1812, si poneva in evidenza la scarsa volontà dei proprietari delle abitazioni a collaborare ed infatti, solo pochissime furono le “Rivele” [12] consegnate allo stesso controllore per essere stimate e censite, così si pensò di nominare “[…] due probi ed onesti muratori, Lonardo Netti e Gaetano Maggio[…]” perprocedere alla formazione dei catasti provvisori, un lavoro durato dal 1807 al 1812 [13].

©2004 Lucia Lopriore, da L. LOPRIORE, Orta Nova tra ‘700 e ‘900 – Storia, urbanistica ed architettura, Bastogi, Foggia 1999.


*Pagine tratte dal volume: L. LOPRIORE, Orta Nova tra ‘700 e ‘900 – Storia, urbanistica ed architettura, Bastogi, Foggia 1999.

1 V. GLEIJESES, La Storia di Napoli dalle origini ai giorni nostri, Napoli, SEN srl, 1977, pag. 676 e segg. Il Concordato del 1741, poneva fine ai contrasti ideologici sorti durante il regno di Carlo III tra coloro che propugnavano un curialismo “defensor Ecclesiae”, ed altri che invece ravvisavano la necessità della difesa dell’interesse dello Stato e della rivendicazione contro il malcostume di alcune comunità ecclesiastiche che, sentendosi uno Stato nello Stato, rifiutavano di mettere in primo piano l’apostolato. I discepoli dell’abate Genovesi fecero dell’anticurialismo un vessillo da inalberare ai quattro venti, mentre Carlo III, che notoriamente era un sovrano mite, non volle assumere una posizione decisa. Ciò fece sì che si giungesse al Concordato.

Ibidem.

Archivio di Stato di Foggia (da ora in poi AS FG) – Dogana, s. I, b. 739, fasc. 17389, c. 4 r. e segg. – Atti relativi all’espulsione dei PP. Gesuiti del 31 Ottobre 1767.

4 Sezione Archivio di Stato di Lucera, (da ora in poi SASL) – Prot. Not. Rep. n. 241/277 cc. 95 – 96 – 97 r. da nn. 1070 a 1116 – Not. Giuseppe Grassi di Ascoli censuazione del 27 agosto 1774.

5 AS FG – Dogana, s. I, b. 740, fasc. 18180, c. 138 r.

6 Ivi, s. I, Atl. 20 cc. 26 v. e 27 r., e Dogana, s. I, b. 63, fasc. 656 c. 57 r. 

7 Ivi, s. I, b. 740, fasc. 18180 cc. 266 r. e 267 r.

8 Ibidem, c. 108 r.

9 IviTavoliere di Puglia – s. I, b. 20, fasc. 300, c. 137 r., e Amm.ne del Tavoliere – Scritture dell’Ufficio, b. 17, fasc. 4, cc. 6 v. e 8 r.

10 V. SPRETI, Enciclopedia Storico Nobiliare Italiana, Bologna, Forni 1969 (rist. anast. ed. 1928),  vol. III, p. 623 e vol. VI, pp. 88, 89 e ss.

Elenco Ufficiale Nobiliare Italiano, Torino 1922, p. 840, e F. BONAZZI DI SANNICANDRO, Famiglie Nobili e Titolate del Napolitano, Napoli 1902, pp. 214, 215, 216.

Originaria della Casa dei Conti de’ Marsi, la famiglia de’ Sangro ebbe diversi rami nobiliari: quello dei Principi di Viggiano, dei Principi di Fondi, dei Duchi di Vietri, dei duchi di Torremaggiore e principi di San Severo, dei Duchi de’ Sangro. Questi ultimi furono ascritti al Patriziato Napoletano del Seggio del Nido dal 1507, e furono decorati col titolo di Duchi nel 1760. Per successione della Casa Caracciolo di Martina Franca, furono decorati col titolo di Duchi di Martina Franca con l’anzianità di Caggiano dal 1498, di Conti di Brienza e di Conti di Buccino concessi originariamente il primo nel 1428 e l’altro nel 1499, e riconosciuti tutti con Real Rescritto del 22 luglio 1852 e D.M. del 1893. Per questi riconoscimenti Don Nicola de’ Sangro di Domenico di Giovanni Battista, fu ascritto all’Elenco Regionale Napolitano, e fu ammesso all’Ordine di S. Gennaro del Regno di Napoli nel 1797. Si imparentarono con i Guevara-Suardo, Duchi di Bovino, poiché Giuseppe de’ Sangro, Conte di Buccino, sposò Maria Guevara-Suardo, Duchessa di Bovino; dal matrimonio nacque Giuseppe Conte di Buccino, Nobile dei Duchi di Martina Franca e dei Duchi di Brienza, nonché Patrizio Napolitano. ARMA: Partito: a destra,di oro a tre bande di azzurro; a sinistra, di rosso a tre fasce d’argento.

11 AS FG – Atti Privati Registrati  – Locazione ORTA – b. 636, fasc. di Maggio 1841, reg. n. 75 – Scrittura Sinallagmatica.

12 Le Rivele erano delle dichiarazioni giurate, nelle quali i proprietari indicavano i loro dati personali e descrivevano i beni e le rendite di cui godevano.

13 AS FG – Catasti Antichi – Locazione Orta – Vol. 124 ms. c. 3 r. et passim – Rinumerato come Vol. 30 /C Locazione ORTA – STORNARELLA.

©2004 Lucia Lopriore, da L. LOPRIORE, Orta Nova tra ‘700 e ‘900 – Storia, urbanistica ed architettura, Bastogi, Foggia 1999.


   

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Microstorie

Origine dei reali siti. Antica e nuova censuazione

I monumenti più importanti dei cinque “Reali Siti”, Orta, Ordona, Stornara, Stornarella, Carapelle (cartolina antichizzata dell’arch. Emanuele Bisceglie di Foggia).

Sulle origini dei cinque Reali Siti in Capitanata (Orta, Ordona, Stornara, Stornarella e Carapelle) sono stati versati fiumi di inchiostro e, spesso, sono state create leggende metropolitane da chi, ignaro della storia, si è voluto cimentare nel raccontarla a tutti i costi, senza il supporto di una valida documentazione a comprova della tesi sostenuta.

Il documento che si trascrive di seguito, privo di data e della firma del funzionario redattore, è stato rinvenuto tra le numerose carte custodite presso l’Archivio di Stato di Foggia e chiarisce molti punti oscuri sull’antica e nuova censuazione [1]. Esso fa parte di una più corposa documentazione nella quale sono comprese anche le relazioni inviate al Ministero e Real Segreteria di Stato delle Finanze per la concessione delle terre ai censuari dei Reali Siti comprese nella riforma del Tavoliere di Puglia. È emblematico di uno spaccato di vita che vede protagonisti cinque comuni della Daunia. L’intento di renderlo noto ai visitatori di questo sito scaturisce dalla volontà di diffondere la ricerca documentaria, con particolare riguardo alle microstorie di Capitanata. Andare per archivi rappresenta un mezzo per fare nuove esperienze, per confronti che consentano allo studioso nuovi orizzonti di competenza: L’importanza degli archivi è data proprio dalla possibilità di poter rinvenire tra le tante carte, spesso nemmeno inventariate, documenti essenziali per la ricostruzione del passato.

Come questo documento, che forse non sarebbe mai stato portato alla luce. Da una prima analisi del testo emerge che da parte dello Stato vi è la necessità di dotare i cinque centri, fondati dopo l’espulsione dei Gesuiti dalla Capitanata per volere del marchese Bernardo Tanucci, di abitanti dediti all’agricoltura. I cinque villaggi, prima sorti come masserie, assumono una diversa connotazione con il popolamento delle terre. I lotti di terra vengono parcellizzati e concessi in enfiteusi a coloni provenienti da altri paesi, gente povera che giunge in questi luoghi “desolati” in cerca di fortuna, pionieri che colonizzano le terre libere dando origine ai centri urbani.

Dell’antica censuazione, il documento evidenzia con estrema chiarezza sia la quantità di territorio parcellizzato sia le condizioni e le concessioni fatte ai “naturali”, spesso sono definiti in questo modo gli abitanti del luogo. In questo caso per le terre concesse a coltura i censuari devono pagare un canone annuo di diciotto carlini a versura e di venticinque carlini a versura per quelle adibite al pascolo. Nel 1774 sono destinati ai cinque centri 4.100 versure di terra destinate a 410 famiglie: 105 ad Orta, 93 ad Ordona, 83 a Stornara, 73 a Stornarella e 56 a Carapelle.

A ciascuna famiglia vengono assegnate 10 versure di terreno, i buoi, le sementi, gli attrezzi agricoli, la casa rurale, le vettovaglie e quanto altro occorra per la coltivazione dei terreni.

La concessione delle terre viene accordata in enfiteusi a condizione che ciascuna famiglia corrisponda il canone annuo di 18 carlini a versura per le terre destinate alla semina e 25 carlini a versura per le terre destinate al pascolo. Il contratto ha una durata di ventinove anni ed è rinnovabile.

Le “nocchiariche” ovvero le terre a riposo durante il secondo anno di coltivazione, nel 1774 sono date ai Locati di Orta e di Ordona per essere destinate al pascolo.

Nonostante l’impegno ed il lavoro profusi però, le condizioni economiche in cui versano alcuni contadini diventano difficili quando questi, a causa delle cattive annate, sono costretti a contrarre debiti e molti di essi, non riuscendo a far fronte agli impegni assunti, subiscono la confisca dei beni e conseguentemente vengono espulsi.

Le terre devolute, incamerate nuovamente nel Demanio, sono rivendute a privati i quali speculano sulle vendite come accade per Stornara che deve subire le pressioni di un tale di nome Carmignano il quale, avendo acquistato precedentemente a buon prezzo le terre, le rivende con una maggiorazione di cinquemila ducati, costringendo così il Fisco ad un acquisto a prezzo maggiorato; acquisto che inciderà negativamente sul prezzo della relativa vendita delle terre stesse, poiché la Giunta del Tavoliere stabilisce un canone maggiore su di esse per compensare le spese di acquisto sostenute.

Così i censuari non solo sono costretti a subire pressioni dal Fisco ma devono anche far fronte a tutte gli altri soprusi dei nuovi acquirenti.

Con l’entrata in vigore della legge sull’eversione feudale, promulgata il 21 maggio 1806, ai censuari viene concesso il dominio utile delle terre in perpetuo, dietro pagamento del canone di locazione detto “estaglio” e della fondiaria. Solo così, più tardi, i contadini diverranno proprietari assoluti degli appezzamenti loro assegnati.

La riforma del Tavoliere porrà fine ai soprusi regolarizzando la situazione sia dal punto si vista fiscale sia da quello economico.

La Giunta del Tavoliere seguendo la nuova normativa concede altre terre in censuazione perpetua ai coloni e così sono distribuite altre 2.353 versure e 25 catene per un totale complessivo di ducati 6.354,96, che parcellizzati diventano 27 carlini annui a versura.

Interessante è anche notare che il primo impianto vitivinicolo sorge nel 1811 sulle terre destinate al rimboschimento della zona.

Tali terre erano state concesse ai censuari gratuitamente ma, non essendo state mai utilizzate per l’incremento boschivo, sono destinate all’impianto delle viti ed assoggettate al canone di 27 carlini a versura.

Pur con dati imprecisi (nel documento si legge che i rilievi sono stati fatti in maniera impropria dagli agrimensori servendosi del compasso), si può affermare che ai censuari sono destinate altre 4.666 versure e 13 catene di terra, paragonabili a quasi 12.498 moggi napoletani, per i quali viene corrisposto un canone annuo di ducati 11.032, 56 grana, destinate ai cinque centri e divise tra circa novecento coloni.

Le conclusioni della relazione sono rivolte alla buona riuscita dell’iniziativa di colonizzare i centri, nonostante le difficoltà logistiche affrontate da queste popolazioni. Il redattore non trascura di far notare che i “miseri villaggi” erano inizialmente solo delle masserie.

Nonostante l’incapacità da parte dell’Amministrazione di gestire correttamente l’iniziativa, i centri in pochi anni si sono sviluppati e tendono ad ingrandirsi con notevole sacrificio di chi coltiva la terra; essi in pochi anni modificheranno l’aspetto del territorio di Capitanata.

***

«Le terre del Tavoliere di Puglia che vengono denominate i cinque Reali Siti, e che sono assegnate in censuazione a’ naturali de’ comuni di Orta, Ordona, Carapelle, Stornara, e Stornarella, appartenevano altra volta in feudo a’ PP. Gesuiti. Coloro che le coltivavano, vi avevano costituito de’ meschini villaggi. Allorché nella soppressione dell’ordine gesuitico nel Regno di Napoli esse divennero delle proprietà fiscali, volle il Governo accorresse al bisogno degl’infelici agricoltori che fin allora le aveano utilizzate, aderendo alle loro dimande, e distribuendole ad essi. Quindi fu che nell’anno 1774 si diedero in censuazione agli abitanti de’ Siti indicati, assegnandosene a ciascuno dieci versure ad uso di semina, una casa rurale, ed un pascolo sulla mezzana delle terre stesse pel nutrimento degli animali necessarj alla coltivazione. Ebbero altresì i nuovi coloni un proporzionato assegnamento di istrumenti rurali di animali e di vettovaglie, a patto di pagarne il prezzo per cinque anni. In questo modo quattromila e cento versure di terra furono assegnate a quattrocento e dieci famiglie, centocinque di Orta, novantatre di Ordona, ottantatre di Stornara, settantatre di Stornarella, e cinquantasei di Carapelle. La concessione delle terre fu accordata a condizione di corrispondere l’annuo canone di diciotto carlini a versura per quelle addette a semina, e carlini venticinque per quelle addette al pascolo. Fu convenuto infine che l’enfiteusi in tal modo stabilita durasse ventinove anni, dopo l’elasso de’quali il contratto dovea rinnovarsi. Quasi due terzi delle terre incamerate al Fisco fecero parte di un simile assegnamento. Il sesto fu conceduto per pascolo a’ locati di Orta e di Ordona.

La sorte de’ coloni de’ Reali Siti dopo aver ottenuto la chiesta censuazione, non corrispose alle benefiche mese(sic) del Governo. O perché il postaggio delle terre non fosse stato eseguito con regolarità e con eguaglianza; o perché delle stagioni inclementi avessero distrutto le speranze di molti agricoltori, varj di essi si videro nel bisogno di contrarre de’ debiti, e molti furono impuntuali al pagamento del peso a cui la concessione ottenuta li aveva assoggettati. L’errore commesso di affidare ad un Governatore l’esazione fiscale, e di far dipendere il di costui stipendio dal maggiore o minore introito di ciò che al Fisco era dovuto, mercé la devoluzione seguitane (1680) mille seicento ottanta versure di terre possedute fino a quel momento da cento sessantotto famiglie di sventurati coltivatori. Il Fisco sentì allora il peso di questa proprietà, e giudicò analogo agl’interessi suoi l’alienare non solo tutte le terre delle quali avea ottenuta la devoluzione, ma anche quelle delle quali conservava ancora il diretto dominio.

La Reale Azienda di Educazione alla quale tali beni erano stati assegnati, procurò di venderli all’asta pubblica, e varj particolari li acquistarono a patto che fossero ad essi trasmessi tutt’i diritti dal Fisco e se la sorte de’ coloni de’ Reali Siti era stata fin allora infelice e perché immaturamente cauzionati, e perché senza pendenza costretti all’adempimento di obblighi, che il tempo, e delle stagioni più propizie li avrebbero posti al caso di compiere, fu infelicissima appena succedé all’interesse del Governo quello de’ particolari speculatori. Cercarono questi ultimi di tirarsi tutti il frutto che potevano dal loro acquisto, e raddoppiando le condizioni a tutt’i mezzi a maggiormente ammiserire gli antichi coltivatori, ottennero nuove devoluzioni a loro danno; per poter disporre anche di quelle terre, che non erano ancora rientrate nell’utile dominio del Fisco. Alle devoluzioni per attrasso di canoni si cumularono quelle che i prepotenti nuovi padroni del dominio diretto fecero pronunziare per difetto di coltivazione, per inadempimenti di patti, e per mancanza di successioni legali nelle antiche famiglie censuarie. Poterono così procedere a formar nuove censuazioni, ed a concedere con novelli contratti le terre a semina con prezzi più forti di quelli che il Fisco aveva originariamente stabilito, ad oggetto di esercitare una benefica influenza su cinque popolazioni nascenti che avevan bisogno di tutta la di lui protezione per sostenersi e per prosperare.

Fu allora che varie di tali terre furono censite a carlini 25, altre a carlini 30, ed altre fino a docati 4 a versura. Neppure il diritto del pascolo conceduto sulla mezzana che si godeva promiscuamente dagli abitanti di Stornarella fu rispettato; e quel canone che que’ poveri abitanti contribuivano nella somma di docati 352,20 venne aumentato da quel momento fino a docati 600.

Il grido della desolazione e della miseria concordemente elevato dalle avvilite popolazioni di Orta, di Ordona, Carapelle, Stornarella, e Stornara, produsse che all’epoca della censuazione generale del Tavoliere di Puglia si risolvesse di richiamare al Reg[io] Erario il dominio diretto delle terre altra volta vendute, e ch’erano state di principio assegnate a quegli sventurati coloni. Quindi con Decreto de’ 14 Giugno 1806 fu ordinato alla Giunta del Tavoliere di compensare i particolari che le avevano acquistate coll’assegnamento di altre terre fiscali e di concederle in censuazione agli abitanti de’ Siti Reali. E poiché malgrado le vessazioni e le sciagure sofferte quelle popolazioni eransi aumentate, ed era in conseguenza seguito il bisogno di avere delle terre a coltivare; fu stabilito che se ne assegnassero anche delle altre, prendendole da quelle che nel 1774 furono concedute per pascolo a’ Locati di Orta e di Ordona, e delle così dette nocchiariche che la Casa Reale possedeva sulla portata di Orta.

(Antica censuazione) I particolari che avevasi comperate le terre delle quali si è fatta menzione riceverono il loro compenso, e quindi i coloni di Orta, Carapelle, Ordona, e Stornara nebbero le antiche censuazioni collo stesso canone che si era altra volta stabilito, cioè di carlini 18 per ogni versura a semina, e di 28 carlini( deve dire carlini 25 ) per ciascuna versura di mezzana. I soli coloni di Stornarella furono meno fortunati. Era specialmente sulle loro terre che il nuovo acquirente Carmignano aveva elevato i canoni, e poiché profittando dell’aumento di vendita aveva rivenduto l’acquisto fatto ad altro proprietario per docati cinquemila più di quello che gli era costato, il Fisco soggiacere al pagamento di questo di più nel riprendersi i fondi, e la Giunta del Tavoliere credé di compensarlo collo stabilire un canone maggiore su di essi. Quindi per Stornarella si fissò il canone di docati tre a versura per le terre che Carmignano avea censite alla stessa ragione, e di carlini trentacinque per ogni versura di mezzana. Tutte le terre in tal modo ricensite agli abitanti de’ Reali Siti nel 1806 ritengono tuttavia il nome di antica censuazione.

(Nuova censuazione) La Giunta del Tavoliere a norma delle disposizioni ricevute dovea pure assegnare delle altre terre in censuazione a que’ coloni. Anche questa nuova distribuzione fu fatta, ed altre versure (2353, cat. 25) duemila trecento cinquantatre e catene venticinque furono concedute al canone di docati 6.354.96. Si volle stabilire su di esse la prestazione di carlini ventisette annui per ciascuna versura sulla considerazione che la legge de’ 21 Maggio 1806 tale valutazione avea data ad un carro di terre di Regia Corte a coltura; quantunque i docati 54 a carro fossero stati posteriormente ridotti a docati 48, poiché si ordinò che i censuarj di terre di Corte riscattassero docati sei di canone per ogni carro con un capitale corrispondente al cinque per cento. Ma poiché gli abitanti de’ Reali Siti non furono assoggettati a simil riscatto, hanno continuato a pagare finora il canone di D[ucati] 54 a carro, a quanto appunto corrisponde quello di carlini ventisette a versura.

Nel concedersi le nuove terre agli abitanti de’ Reali Siti, si vide la necessità di provvederli di legname pel combustibile e per gli attrezzi rurali. Fu perciò stabilito che ciascun sito avesse sessanta versure di terra, senza corrispondere alcun canone fino al 1838; a condizione che vi si piantassero degli alberi, e si riducessero a bosco. Ma questo favore sparì pochi anni dopo; e nel 1811 sotto il pretesto che gli alberi non prosperassero, o che non  fossero stati piantati, si volle che delle 60 versure assegnate a ciascun Sito Reale per bosco, si formassero delle vigne. Così quelle terre ch’erano state concedute gratuitamente sino al 1838 furono assoggettate pure a corrispondere il canone di carlini ventisette a versura. Tutto ciò costituisce la nuova censuazione de’ Siti Reali.

Riassumendo gli elementi dell’antica non meno che della nuova censuazione, si rileva che i coloni censuarj de’ cinque Siti Reali posseggono [2]quattromila seicento sessantasei versure e tredici catene di terra, eguali a quasi 12498 moggi napolitani, per le quali si corrisponde l’annuo canone di docati 11,032,56 grana. Esse son oggi divise in molte quote che saranno particolarmente enumerate e distinte nel quadro di ciascuno de’ Reali Siti ed appartengono a circa novecento coloni. I cinque miseri villaggi, i quali in origine non erano che delle masserie rurali oggi costituiscono due considerevoli Comuni, quello di Orta Ordona e Carapelle, e quello di Stornarella e Stornara, de’ quali il primo comprende meno di tremila abitanti, ed il secondo circa mille ottocento. Se malgrado i difetti di una poco provvida amministrazione, tanto hanno prosperato da pochi anni queste popolazioni nascenti, quali lusinghiere speranze esse non debbono concepire oggi che il benefico loro Monarca, nella riforma del Tavoliere di Puglia, e nella particolare protezione accordata alla pastorizia ed all’agricoltura, chiaramente dimostra di voler ad ogni costo migliorare la sorte de’ sudditi suoi che con tutt’i loro sforzi si adoperano a coltivare le terre fiscali, ed a far cangiare di aspetto alle più feraci terre della Capitanata!”.


1 Archivio di Stato di Foggia, Amm.ne del Tavoliere, Scritture dell’Ufficio s. II, b. 17 fasc. 18 c. 5 r e segg.

2 La misura esatta e geometrica de’ Reali Siti ultimamente eseguita offre un divario dalla riportata estensione; divario che si rileverà partitamente per ciascuno de’ Reali Siti ne’ successivi dettagli che si daranno e che trae la sua origine dall’ampiezza delle strade, non prelevata nelle primissime misure; da altri tratturi chiusi in seguito, ed infine da qualche errore incorso nell’atto delle divisioni eseguite non con metodi esatti e geometrici, ma col compasso da agrimensori forse poco diligenti.

©2004 Lucia Lopriore

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Microstorie

La memoria che resta

Canti popolari e memoria contadina

La memoria che resta: è questo il titolo dato all’interessante volume scritto a quattro mani da Giovanni Rinaldi e Paola Sobrero, edito per i tipi delle Edizioni Aramirè, prefato da Alessandro Piva (pp. 396, ill. b/n e colori, CD di racconti e canzoni, Lecce 2004).

Frutto di un complesso studio svolto dai due autori sul campo nel lontano 1974 e durato fino agli anni ’80 del secolo scorso, il testo affronta per la prima volta un interessante argomento: le lotte contadine a cavallo tra i primi anni del ‘900 e gli anni ’70 dello stesso secolo. Una ricerca difficile anche perché realizzata avvalendosi delle numerosissime testimonianze di vita agreste cerignolana, seguendo un lungo percorso di ricerca pionieristica lontana dai riflettori del dorato mondo accademico.

Con gran coraggio e determinazione, i due ricercatori hanno speso gran parte del loro tempo ad intervistare a raccogliere ed a testimoniare attraverso questo complesso volume, già pubblicato in una prima versione dalla Amministrazione e dalla Biblioteca provinciale di Foggia nel 1981, tematiche sulla difficile vita bracciantile attraverso le lotte, le conquiste e quanto altro occorso per rivendicare i propri diritti.

La figura di Giuseppe Di Vittorio, con lo spaccato di vita quotidiana vissuto a Cerignola e non solo, costituisce la parte centrale del volume oltre al prezioso percorso di ricerca illustrato dagli autori, che funge da corollario ai vari interventi trascritti e documentati preziosi, anche perché molti intervistati sono ormai scomparsi da tempo.

Nomi come quelli di Giuseppe Angione, Francesco e Michele Balducci, Lucia e Savina Barbarossa, Matteo Bellapianta, Antonio Rutigliano, Michele Sacco, solo per fare qualche esempio, rappresentano una sorta di memoria vivente, la “Memoria che resta”, appunto, mettendo “nero su bianco”. Per lungo tempo le cattedre accademiche hanno disdegnato tali argomenti… per troppo tempo si è ignorato, volutamente o casualmente, che la difficile condizione in cui si trovava la “povera gente” era e doveva essere vissuta come un “fenomeno sociale” dell’intera nazione italiana e non come un problema emarginato che riguardasse esclusivamente le “classi meno abbienti” o per meglio dire “il proletariato di massa”.

Il volume, scritto con finalità volte alla divulgazione di uno spaccato di vita contadina, testimonia un metodo alternativo alla ricerca in genere quasi sempre basata solo su documenti archivistici, come in realtà ogni ricercatore che si rispetti è abituato a fare. Un metodo nuovo “pionieristico” per gli anni relativi alla prima ricerca quello utilizzato dagli autori: la fonte orale.

Quella della narrazione diretta dei protagonisti chiamati a svolgere un duplice ruolo, quello di protagonisti e di spettatori o lettori al tempo stesso.

Aldino Monti, quando parla dei braccianti, sostiene essi sono stati: «[…] il primo gruppo sociale a scoprire il significato della politica come strumento di emancipazione e di promozione sociale […]».

Ma perché prendere quale esempio proprio la Capitanata, terra da secoli vessata da profonda crisi? Unicamente perché uno degli autori, Giovanni Rinaldi, è originario di Cerignola. Egli si è reso conto che pochissimo era stato fatto dai suoi predecessori, antropologi, politologi ecc., per diffondere questo spaccato di vita che non rimane solo fine a se stesso ma che, come avviene per le tessere di un puzzle, rappresentando la microstoria, si ricongiunge alla macrostoria, in altre parole alla “Storia Universale”.

Per volersi riallacciare alla teoria di Marc Bloch secondo cui «le ricerche storiche non ammettono l’autarchia […] isolandosi ciascuno capirà a metà persino nel proprio settore d’indagine […] la storia universale è quella data dall’aiuto reciproco […]»il campo d’indagine seguito dagli autori in questo volume (con interventi di altri colleghi fra cui Linda Giuva, Paolo Longo e Franco Caggiola), non deve e non può essere circoscritto alla sola consultazione dei documenti d’archivio che, come in questo caso, sono quasi totalmente frutto di impressioni scritte di getto scaturite dalla penna di scrittori improvvisati, consapevoli dei propri limiti culturali, ma volenterosi di lasciare la loro testimonianza scritta.

Oggi a raccontare ai giovani forse loro non credono di Pasquale Grillo, oppure Le terre vanno tolte ai padroni di Ripalta Buonuomo, dove si parla dei soprusi perpetrati da famiglie nobilitate o nobili come i Pignatelli, i Pavoncelli o i Cirillo Farrusi, che da tempo immemorabile a Cerignola «tenevano i malati in testa», come afferma l’intervistata, quasi a voler dire conducevano il gioco e nessuno si poteva opporre alla loro volontà.

Una sorta di “Gospels” all’italiana sono i canti ed i racconti incisi sui CD multimediali per un totale di 23 racconti e 42 canti, a testimonianza di una “verità con prove provate” che nessuno potrà rinnegare o alterare o cancellare. La “memoria che resta” è anche questo! È mettere nero su bianco tutti gli errori, le sofferenze, le abnegazioni, le ingiustizie subite per secoli e secoli di potere.

Solo la salvifica figura di Giuseppe Di Vittorio, il sindacalista cerignolano che ha lottato per ottenere quella dignità umana che riconosce ogni simile uguale agli altri, interrompe “l’agonia” dei braccianti facendo trionfare la giustizia.

Se facciamo un passo indietro, nella storia nel nostro Mezzogiorno ci sono state alcune tappe importanti legate alle rivolte popolari: 1648 la rivolta di Masaniello; 1799 la Repubblica Partenopea; 1848 i moti carbonari; primi anni del 1900 le lotte bracciantili. Tutte con un comune denominatore: il malcontento e l’indigenza delle masse.

“E ‘na massaria nove”di Angelo Delbono, “So’ quarandasette jurne” di Giuseppe Diploma, “Patrone te la lasse la cunzegn” di Vincenzo Debono, “Mej’ e po’ meje” di Giuseppe Diploma, ed altri sono i canti liberatori in vernacolo dei braccianti.

In totale: 60 narrazioni, 53 canti proposti da più di cento lavoratori agricoli, fanno di questo prezioso lavoro un’antologia utile di agevole lettura.

Il lavoro è impreziosito da 142 immagini a colori ed in bianco e nero, opera di Giovanni Rinaldi, Alberto Vasciaveo e Paolo Longo ed altre raccolte nei vari archivi privati, tra queste anche un ricco corredo iconografico dedicato a Giuseppe Di Vittorio.

Le note bibliografiche sui braccianti di Puglia e Capitanata tra il 1900 ed il 1960 e su Giuseppe Di Vittorio, curate da Linda Giuva, inserite in Appendice, chiudono il bellissimo volume.

©2006 Lucia Lopriore

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Microstorie

Un prezioso rinvenimento documentario in Apricena

Memorie della Chiesa di Apricena 1858 di don Pasquale Torelli, è un volume pubblicato per i tipi delle Arti grafiche Malatesta di Apricena, curato da Gaetano Lo Zito con saggio storico introduttivo di Nazario Barone, e prefato dal sacerdote don Quirino Faienza, parroco della chiesa Matrice di Apricena. (pp. 373, ill., s.i.p. Apricena 2005).

Il lavoro rappresenta un unicum di notizie trascritte e commentate sapientemente dal curatore che, nella Sua introduzione, spiega al lettore in modo esaustivo la metodologia di studio seguita.

Si tratta di un manoscritto rinvenuto tra le carte d’archivio della chiesa Matrice di Apricena, risalente al 1858, scritto dal canonico della chiesa stessa che ebbe dal Capitolo dell’Arcipretura l’incarico di inventariare i beni da essa posseduti. Tale incarico gli fu affidato in quanto egli era il componente più anziano tra i canonici.

Il documento contiene un elenco manoscritto di beni e censi su cui la chiesa aveva diritto di riscossione e di possesso. Un utile e raro documento che consente agli studiosi, e non solo, di poter approfondire aspetti sconosciuti della storia locale aprecinese.

Il periodo trattato ricopre l’arco cronologico che va dal 1731 al 1858, anno in cui viene redatto il manoscritto stesso.

Il documento, delle dimensioni di cm. 20 x 28,5 ca. con uno spessore di cm. 3,00 ca. si compone di 76 fogli per un totale di 152 pagine delle quali solo 135 sono scritte, le rimanenti sono bianche.

Esso si compone di due parti: una prima parte contiene principalmente gli atti dei notai per un numero complessivo di 8, oltre alle notizie inerenti il patrimonio della chiesa di Apricena. Atti e notizie che si riferiscono ad un periodo che ricopre gli anni Trenta del Settecento e fino a tutto detto secolo; la seconda che dà il titolo al manoscritto, riporta le descrizioni delle chiese aperte al culto, le loro priorità e gli inventari fino al 1858.

I beni trascritti ed esaminati nel documento sono identificati o identificabili con la descrizione della loro consistenza, la localizzazione con l’indicazione della via o strada con i confini e con l’orientamento della porta di accesso che offre al lettore la possibilità di individuare la vecchia toponomastica della cittadina.

Una pagina del manoscritto di don Pasquale Torelli.

Dalla lettura della trascrizione della prima parte del manoscritto si ha la possibilità non solo di ricostruire l’assetto urbanistico ma anche di risalire alle abitudini dei cittadini: sono evidenziati usi, costumi e quanto altro possa offrire al lettore notizie utili sulle tradizioni e sul culto aprecinese.

La seconda parte descrive dettagliatamente le chiese aperte al culto nel periodo trattato dal Torelli: egli, oltre a fornire l’elenco delle nove chiese già esistenti, fornisce un altro elenco di chiese che attualmente risultano demolite. Insomma il Torelli descrive nel manoscritto quello che poteva essere il quadro chiaro della situazione ecclesiastica dell’epoca.

L’alto valore storico del documento evidenzia anche la parte contabile con l’elencazione dei movimenti giornalieri di cassa e quanto altro. L’inventario dell’archivio Capitolare completa la prima parte del volume.

La metodologia di studio descritta da Gaetano Lo Zito nella sua introduzione ci dà un’idea delle reali difficoltà incontrate durante la trascrizione dell’opera.

Impreziosisce il volume il saggio introduttivo di Nazario Barone, noto studioso ed esperto di storia del Risorgimento. Egli tratteggia, attraverso un puntuale excursus storico, i principali avvenimenti che caratterizzarono la vita della cittadina nel XIX secolo che, con il profilo biografico di don Pasquale Torelli completato dall’espressione dei suoi maggiori componimenti poetici, proietta il lettore in uno spaccato di vita comune anche ad altre realtà presenti in tutta la Capitanata.

Per citare alcuni esempi: il calare del periodo borbonico, la legislazione ottocentesca introdotta dai francesi e più tardi adottata anche dai sovrani restaurati, l’incalzare delle epidemie causate per lo più dalle condizioni igieniche malsane, fecero sì che fossero varate nuove leggi, come quella sulla costruzione dei camposanti, o la legislazione che regolava la fornitura e la vendita delle derrate alimentari quali: carne, farina, grano, neve ecc.

Non si tralasciano, inoltre, argomenti quali: il brigantaggio, l’unità d’Italia, i trasporti, i collegamenti ed i primi movimenti operai. Tutte tematiche trattate con dovizia di particolari, che offrono al lettore spunti interessanti per ulteriori indagini.

Conclude l’opera una ricca Appendice iconografica con una carrellata di notizie varie tra passato e presente che va dalle chiese aperte al culto, ai lavori di restauro del manoscritto, all’autorizzazione della Soprintendenza al restauro dello stesso, all’indice dei luoghi e cose notevoli.

©2006 Lucia Lopriore

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Microstorie

Un artista a tutto campo: Corrado Terracciano

La copertina del volume.

Bello ed interessante il pregevole volume curato da Gaetano Cristino, noto critico d’arte, dal titolo Corrado Terracciano: la scultura come sfida e come destino (pp. 143, ill. b/n e colori, Foggia 2008), edito da Claudio Grenzi Editore.

Il libro si avvale dei contributi di personaggi appartenenti al mondo dell’arte e della cultura, viventi e non, come Marziano Bernardi, Mario Corfiati, Dario Damato, Giulia de Leo Catalano, Franco Fano, Pasquale Guaragnella, Luciano Luisi, Leon Marino, Émile Marzé, Lia Masi, oltre al curatore dell’opera, tutti in qualche modo legati alla vita del Maestro sia nel capo artistico che nel vissuto quotidiano.

Ognuno di loro racconta in modo personale la propria esperienza con il Maestro facendo emergere le varie sfaccettature dell’artista e dell’uomo, come si evince dalle sue opere.

«Caro Corraado, questa monografia sarebbe monca senza la tua voce […]», così introduce il suo saggio intitolato Intervista il critico d’arte Mario Corfiati, in cui sono contenuti interessanti quesiti rivolti al Maestro, del quale è amico, raccontando la sua spiritualità proiettata nell’arte.

Circa il tratto umano del Maestro Terracciano, possiamo di certo affermare che il volume pone in luce, proprio grazie ai contributi degli amici chiamati in causa, varie situazioni in cui il Maestro si distingue per la sua simpatia e la sua gioia di vivere.

Tra i tanti ci piace riportare quanto affermato dal prof. Pasquale Guaragnella, docente universitario ed amico del Maestro, il quale racconta che spesso, durante le sue frequentazioni, il Maestro lo coinvolgeva narrando gli episodi di cui era stato protagonista che a volte avevano dell’incredibile. Così una volta gli raccontò un episodio di cui era stato “attore”, davvero singolare al punto da suscitare l’incredulità di chi lo ascoltava. Una scena che avrebbe potuto ispirare uno dei registi degli anni della Dolce vita o del più recente periodo in cui fu girato il film Amici miei.

Un giorno in autostrada Corrado Terracciano stava guidando la sua auto; ad un certo punto sulla strada incontrò un camionista che non gli aveva voluto dare spazio. Appena superato il camion, il Maestro lo salutò con l’inequivocabile gesto usato dagli automobilisti inalberati: un bel paio di corna.

Poi, proseguendo il suo viaggio e dimenticandosi dell’accaduto, fece sosta poco dopo presso un autogrill e lì dopo aver parcheggiato la sua auto si diresse al bar per sorbire un caffè. Subito però, proprio in quello stesso autogrill, parcheggiò il suo mezzo anche il camionista insultato che, riconosciuta l’automobile, entrò nel bar e con sguardo minaccioso, a voce alta, chiese a chi appartenesse l’auto in sosta specificandone il tipo e la targa.

Ovviamente nessuno, e men che meno il Maestro, si fece avanti vantandone il possesso. Il camionista allora si recò vicino all’autovettura aspettando minaccioso l’arrivo dell’automobilista. Il Maestro, notata la cosa, gli si avvicinò e, spacciandosi per un ufficiale dei carabinieri, lo convinse ad entrare nel bar perché avrebbe atteso lui il proprietario dell’auto in modo tale da elevargli una bella multa.

Il camionista, convinto, si allontanò seguendo il consiglio del sedicente carabiniere. A questo punto il nostro protagonista salì sulla sua autovettura e, anziché andarsene silenziosamente, come avrebbe fatto chiunque al suo posto, avviò l’automezzo e lo posizionò proprio davanti all’ingresso del bar; subito dopo, con un colpo insistente di clacson, richiamò l’attenzione del camionista che stava sorbendo la sua consumazione, attese che uscisse dal bar e, con naturalezza, gli ripetè il saluto con le corna sgommando immediatamente tra le proteste dello sventurato autista.

Questo racconto evidenzia lo spirito goliardico del Maestro che, come tutti gli artisti, affronta la vita con eccentrica ironia.

Circa la vita professionale, Gaetano Cristino nel saggio La scultura come sfida e come destino, che dà anche il titolo al volume, evidenzia nell’ampia carrellata di opere, commentate con la chiarezza di chi è abituato a comunicare con un linguaggio ecumenico e coinvolgente tale da incuriosire anche il più profano dei lettori, l’arte di Corrado Terracciano che si fonde con la sua personalità e la spiritualità.

Emergenti in sculture come: Deposizione. Non fu solo Giuda a tradirloCallipigia. Fanciulla prostrata in preghieraL’eterno soffio di Dio. La vita oltre la vitaUn dono di Dio. Estasi, solo per citarne alcune.

Nell’opera Pilato non è morto, inoltre, traluce la plasticità della sofferenza umana che suscita a primo acchito disgusto e pietà: il bambino del Biafra, magro, monco, sofferente, con lo sguardo implorante ma dignitoso sembra domandarsi il perché di tanta sofferenza. Ma c’è un discorso molto più profondo che l’artista evidenzia in quell’opera, un discorso che va oltre le semplici esigenze di vita, un discorso che induce il pubblico a domandarsi il perché della sofferenza umana.

Così come ne L’eterno soffio di Dio. La vita oltre la vita, l’artista immortala l’effige della bella moglie Laura, sua compagna e sostenitrice, che spirata torna serena alla casa del Padre mentre, tramite il lungo collo, sottilissimo, si libra in volo con la certezza della resurrezione. Il volto esprime la serenità di chi ha avuto una vita felice e tranquilla.

Nell’opera Callipigia. Fanciulla prostrata in preghiara, l’artista pone in essere il ciclo della vita che se è in continua evoluzione da un lato – secondo Gaetano Cristino – con l’evocazione di Venere rappresentata con il corpo sinuoso in cui sono messi in evidenza i glutei, dall’altro lato la ragazza della scultura è prostrata in disperata preghiera, mentre l’assenza della testa può significare che la mente ed il corpo sono un unico insieme.

Tuttavia non è solo la spiritualità il tema affrontato dal maestro. Anche il mondo sociale ed istituzionale viene “preso in esame”.

A nostro avviso, più di tutte, l’opera maggiormente significativa in tal senso è senz’altro Uomini di potere. Molti ma non tutti. In questa scultura, infatti, che rappresenta una sequenza armoniosa di falli in erezione con relativi attributi, – secondo Cristino – il Maestro pone in evidenza il suo concetto del “potere”, specificando che molti uomini di potere sono pieni di presunzione e di superbia, ne sono talmente pieni da essere paragonati ai falli in erezione altrettanto pieni di niente se non di arroganza, tracotanza e quanto altro.

Ci sentiamo di condividere in pieno questa interpretazione, ma in più, possiamo aggiungere che questa opera sarà sempre attuale, in quanto il potere, come si sa, è sorretto da uomini quasi mai umili. Da uomini piccoli nell’intelletto come nei modi, uomini, appunto, senza testa, pieni di niente, proprio come dei falli. Ma non tutti sono così. Tra i tanti, pochi si distinguono per l’umiltà e l’onestà. In realtà vi sono dei valori nella vita che nessun titolo e nessuna condizione sociale possono dare se non sono già esistenti nell’animo umano.

In buona sostanza Gaetano Cristino in questo volume ha saputo evidenziare le peculiarità dell’Artista e dell’uomo nella sua poliedrica genialità.

Un’ampia carrellata sulle opere di Corrado Terraciano e le schede sulle sue principali mostre, infine, completano il volume che resta sicuramente un libro divertente ed utile per la quantità di notizie fornite che lo rendono indispensabile per chiunque voglia conoscere questo eccentrico e simpatico artista.

      

©2008 Lucia Lopriore

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Microstorie

Sensazionale scoperta nel Lapidario del Museo Civico di Foggia…


L’epigrafe de’ Sangro.

La riapertura delle sezioni del Museo Civico di Foggia, arricchite di nuovi reperti, offre ai visitatori l’opportunità di conoscere aspetti interessanti sulla storia della Daunia dalla Preistoria fino ai nostri giorni.

La novità assoluta per il Museo è rappresentata dall’apertura del Lapidario che arricchisce la cultura della città di nuove testimonianze indispensabili per la conoscenza dei percorsi storici.

Un’inedita e quanto mai utile esposizione, curata egregiamente fin nei particolari dal dott. Francesco Picca storico dell’Arte dello stesso Museo, invita gli studiosi locali ed i cultori della storia ad individuare tali reperti, ed a collocarli nei relativi periodi storici restituendo loro una propria identità che diversamente non avrebbero.

È questo il caso di due splendidi esemplari.

Il primo è rappresentato da un’epigrafe esposta in una delle sale di questa nuova sezione del Museo, rinvenuta sul verso di un pluteo risalente al VI secolo d. C. quest’ultimo quale elemento architettonico parte di una basilica paleocristiana. L’epigrafe commemora l’edificazione e la relativa dotazione della chiesa della SS. Annunziata di Foggia che, sorta come cappella dell’omonima Confraternita nel XV secolo, nel 1665 fu concessa alle Clarisse che vivevano nell’attiguo monastero. Fu poi demolita e fatta ricostruire nel 1690 per merito di mons. Antonio de’Sangro, vescovo di Troia.

Tale elemento marmoreo, studiato da Giuliana Massimo durante la catalogazione dei reperti custoditi nei depositi del Museo, rappresenta una sorta di unicum per la storia della città, non solo per il recto ma anche per il verso dello stesso, in quest’ultimo caso quale testimonianza della presenza dell’aristocrazia napoletana in Capitanata e recita:

D[EO] O[PTIMO] M[AXIMO]
TEMLU[M] HOC MONIALIU[M] S[ANCTAE]  CLARAE D[ive o  ivinae(?)] ANNUNCIAT[AE] DICATUM ANT[ONIUS] CL[ERICUS] REG[ULARIS] EP[ISCOP] US TROIANUS EX C[omitibus (?)] MARSOR[UM] MARCHION[IB]US S[ANCTI] LUCIDI D[OMI]NI D[e] SANGRO, ET ALVINAE EX DIIS PENATI[BUS]… [Frangi]PANORU[M] FAMILIA DE TOLF[a] D[OMINI] [L]UTII FILIUS PROPRIIS SU[M]PTIB[US] A FU[N]DAME[N]TIS EREX[it] [or]NAVIT DOTAVIT AN[N]O SUI PRESULATUS XV IN[DITION]IS

Il secondo reperto è rappresentato dal blasone adottato da mons. de’Sangro nei primi anni del suo ministero. Si tratta di un rarissimo esemplare in pietra, probabilmente proveniente dalla chiesa Collegiata e collocato, forse, su una delle pareti della stessa chiesa in occasione di alcuni interventi di restauro fatti eseguire dal vescovo, ma se ne ignora l’anno preciso.

Tale esemplare, miracolosamente recuperato, era depositato nel Museo tra i reperti da catalogare. Anche dopo la sua catalogazione e relativa  sistemazione nel Lapidario era rimasto privo di attribuzione fino quando è stato riconosciuto da chi scrive in occasione di una recente visita presso la sezione lapidea.

Lo stemma di Antonio de’ Sangro.

Questo pezzo unico, uno scudo partito, riporta a destra i colori di casa di Sangro: di oro a tre bande di azzurro ed a sinistra quelli della famiglia Frangipane della Tolfa: di azzurro alla torre d’argento.

La rarità di questo reperto è dovuta al fatto che il vescovo lo utilizzò quasi certamente  per un periodo limitato del suo ministero.

Resta, pertanto, un blasone ignoto ai più, in quanto sia nella letteratura specialistica (Cronotassi ecc.), sia nelle testimonianze riscontrabili attraverso i manufatti nei vari interventi di restauro fatti eseguire dal vescovo, specie nell’ultimo periodo del suo ministero, presso la chiesa Collegiata di Foggia e la Cattedrale di Troia.

Appare sempre la seconda arme utilizzata da mons. de’Sangro, composta di uno scudo a tutto campo con i soli colori di casa de’Sangro, così come si può notare nei bassorilievi a stucco scolpiti sulle lesene ai lati del Paliotto di tre dei cinque altari minori presenti nella stessa chiesa dell’Annunziata, nonché dal portale della Cattedrale di Troia.

L’attuale difficoltà di poter accedere agli archivi diocesano e capitolare di Troia non ci ha dato la possibilità di riscontrare con prove tangibili  quanto da noi fin qui asserito. Ci riserviamo, pertanto, di essere più precisi dopo aver avuto l’opportunità di accesso agli archivi.

A questo punto ci sembra utile tratteggiare, brevemente, la figura di questo personaggio protagonista della scoperta. Monsignor de’Sangro discendeva da un’illustre casata di stirpe longobarda cui furono assegnati possedimenti nei territori di Roccasecca, Rocca Tre Monti, Rocca Cinquemiglia, Alfedena, Barrea e Castel di Sangro. Per tale ragione i membri della famiglia furono decorati del titolo di conti dei Marsi.

Antonio, appartenuto alla linea dei baroni di Casignano e dei marchesi di San Lucido, era il settimo figlio di Luzio, marchese di San Lucido, ed Alivina Frangipane della Tolfa dei conti di Serino.

Nacque a Napoli nel 1629; seguendo le regole imposte dal Maggiorasco intraprese la carriera ecclesiastica entrando nell’Ordine del Chierici Regolari Teatini; divenne professore di Teologia Sacra e per le sue virtù fu ordinato vescovo di Troia il 16 dicembre 1675 e fu consacrato il 26 gennaio 1676. Il 19 luglio 1682 tenne un Sinodo per regolare i costumi del clero e del popolo.

Nel 1693 partecipò al Sinodo Beneventano celebrato dall’arcivescovo mons. Orsini con il quale collaborò per fissare le norme di disciplina ecclesiastiche.

Morì a Foggia il 24 gennaio 1694 ed ivi fu sepolto nella chiesa Collegiata.

Tale scoperta è senz’altro un motivo in più per essere stimolati a visitare il Museo Civico di Foggia, da sempre culla della cultura e della storia delle nostre radici.

  

©2006 Lucia Lopriore

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Microstorie

Aristocratici napoletani in Capitanata: i Pignatelli

L’arma

Le famiglie nobili del Regno di Napoli [1], formate quasi tutte nel Medioevo, si sono affermate nella capitale distinguendosi nelle alte cariche amministrative loro conferite durante la costituzione dei Seggi.

Questi ultimi, sin da tempi remoti, rappresentavano delle vere e proprie istituzioni politiche; il far parte dei Seggi era importante, in quanto la carica di Cavaliere di Seggio era la denominazione usuale del patriziato che risuonava accompagnata da ammirazione e riverenza.  

A Napoli i Seggi maggiori furono inizialmente due: quello del Nido e quello di Capuana, dove fioriva maggiormente l’elemento cavalleresco. Passati successivamente a sei, nei quali erano incorporati ventitré minori, i seggi presero il nome dal luogo delle loro sedi distinguendosi in: Capuana, Nido o Nilo, Forcella, Montagna, Porto e Portanova. Più tardi, durante il regno degli Angioini, i seggi minori furono soppressi e quello di Forcella fu incorporato in quello di Montagna; questo perché a Napoli, ormai capitale, un sistema amministrativo così decentrato, attraverso i seggi e sottoseggi, era incompatibile con l’assolutismo regio.  

Ai cinque seggi dei nobili vi si aggiunse alla fine del Quattrocento, quello del Popolo che, soppresso da Alfonso d’Aragona, fu ripristinato da Carlo VIII.  

Gli eletti dei sedili nel proprio seno, uno per ogni seggio e due per quello di Montagna, formavano insieme a quello del Popolo la Magistratura del Tribunale di Santa Chiara che provvedeva all’amministrazione cittadina attraverso le deputazioni paragonabili ad assessorati ante litteram.  

I ben noti avvenimenti politici che qui si tralasciano volutamente, fecero sì che i sovrani succeduti nei secoli apportassero cambiamenti radicali nel Regno e, quando fu la volta di Ferdinando IV, questi fu indotto a sopprimere i Sedili nel 1800 a causa del dilagare delle idee giacobine che videro annoverati tra i cospiratori contro lo Stato alcuni nobili che fino ad allora avevano goduto della piena fiducia del sovrano.  

Così la nobiltà fu privata della propria identità culturale: i seggi furono incorporati al demanio, e ridotti in case e botteghe.

Ai nobili rimasti fedeli furono riconosciuti i loro diritti e furono iscritti nel libro d’Oro della Nobiltà Napoletana. Tra questi nobili, se pure con qualche riserva per alcuni membri condannati a morte durante la repubblica partenopea, figurano anche i Pignatelli dei quali, per ragioni commerciali, una linea si stabilì in Capitanata acquisendo il titolo di baroni di Cerignola e duchi di Bisaccia.

Secondo alcuni storici la famiglia ha origini longobarde e deriva dai duchi di Benevento; essa trova il suo capostipite in Landolfo che, combattendo in Oriente per Re Ruggiero, uscì dall’assalto del palazzo imperiale di Costantinopoli con tre vasi d’argento anneriti dal fumo infilzati nella picca.

Altri fanno risalire le origini della casata a Gisulfo, comandante di alcune navi del re normanno, il quale avrebbe riportato una vittoria contro i Greci presso Negroponte, lasciando sui nemici del materiale incandescente racchiuso in pignatte, e da qui l’origine del cognome.  

Con certezza si può affermare che nel 1102 un Lucio Pignatelli fu Contestabile della Repubblica Napoletana, e che le diramazioni della famiglia Pignatelli sono molto articolate, tuttavia nella loro complessità si individua un Riccardo, vivente nel 1250 dal quale discese Tommaso, Governatore di Atri nel 1431, il quale ebbe tra i tanti, tre figli che si distinsero per le loro gesta: Stefano, Carlo e Palamede [2].

Da Stefano nascerà Cesare e da questi Alessandro, che generò i Signori di Orta, nei pressi di Aversa e Turrito, nonché i marchesi di Casalnuovo ed i Principi di Monteroduni, i duchi di San Marco, i conti di Melissa, i duchi di Tolve e di Alliste.

Dal fratello di Alessandro, Giovanni Battista, discesero i principi di Strongoli e dal fratello Annibale i duchi di Montecalvo.

Da Carlo, figlio di Tommaso, nacque Ettore, che originò i duchi di Monteleone, e i conti di Borrello il cui ramo si estinse nel 1664 con Geronima, che sposò il cugino Fabrizio Pignatelli, marchese di Cerchiara e principe di Noja, trasmettendo a quest’ultimo i suoi titoli.

Il titolo di duca di Monteleone fu riconosciuto nel 1851 ai maschi più prossimi cioè ai marchesi di Casalnuovo.

Da Palamede, quartogenito di Tommaso, discese la linea dei principi Pignatelli Aragona Cortés, duchi di Terranova principi di Noja, quella dei principi di Strongoli, quella dei Pignatelli – Fuentes e quella dei principi di Cerchiara, fu inoltre progenitore dei marchesi di Spinazzola, principi di Minervino, principi di Moliterno e di Marsiconovo, duchi di Bisaccia e baroni di Cerignola, marchesi di Lauro, conti di San Valentino, conti di Montagano.

I Pignatelli furono Signori di Caserta dal 1269, e godettero di nobiltà in Sicilia e a Napoli dove furono ascritti ai Seggi del Nilo e di Capuana, nonché ad Aversa, Benevento, Bari, Venezia, Roma ed in altre città.

Nel 1420 vestirono l’abito di Malta ed ottennero il Grandato di Spagna, l’Ordine del Toson d’Oro ed il titolo del S.R.I.

Nelle chiese napoletane restano tracce dell’edilizia funebre della famiglia: in S. Domenico Maggiore, nel Duomo, nella chiesa della Trinità dei Pellegrini, dei SS. Apostoli, come in chiese di Roma, Palermo, Bari.

Tra i feudi quello di Castelvetere, Falciano, Ferrandino, Maddaloni, Macchia, Santangelo, Monteroduni, Noja, Strongoli con i titoli di principi, duchi, marchesi e conti.

Fu imparentata con famiglie illustri quali gli Acquaviva, gli Aragona, i d’Avalos, i Doria, i Filangieri, i Filomarino, i di Sangro, i di Somma, gli Spinelli, i della Leonessa.

La casata vanta personaggi di rilievo quali il citato Lucio (1102); Rodolfo, consigliere di Guglielmo il Normanno; Gualtiero, finanziatore di parte della crociata di Guglielmo il Buono; Giovanni, maestro dei Cavalieri Templari; Bartolomeo, prima militante per l’imperatore Corrado e dedicatosi poi alla Chiesa, arcivescovo di Cosenza. Inviato del Papa in Francia quale Ambasciatore a Carlo d’Angiò, egli stesso lo accompagnò a Napoli, dove un altro Pignatelli, Pietro, ne offrì le chiavi e prestò, in rappresentanza della città, il giuramento di fedeltà al nuovo sovrano.

Molti dei Pignatrelli si distinsero in campo militare, come Angelo che fu Capitano di Carlo III di Durazzo, che fatto prigioniero nella battaglia di Benevento si guadagnò la stima del d’Angiò per la sua fedeltà alla causa.

Marino fu familiare di Re Ladislao, governatore in Basilicata e Maestro Razionale della Gran Corte della Vicaria. Antonio, nel 1450, restaurò la chiesa di S. Maria de’ Pignatelli, dove ebbe sede il Seggio del Nilo.

Giacomo fu Capitano, Giustiziere di Basilicata e Ambasciatore in Turchia per Federico d’Aragona. Fu inoltre tra i rappresentanti della città nel giuramento di obbedienza a Ferdinando il Cattolico.

Ettore Pignatelli comprò la terra di Monteleone sulla quale ottenne dal re Ferdinando il Cattolico, per i suoi servigi, il titolo di conte; combattendo valorosamente contro i francesi che avevano occupato il Regno di Napoli, fu catturato dal visconte di Lautrec che lo inviò prigioniero in Francia. Si narra che a Parigi avesse ricevuto la visita di San Francesco di Paola, che si trovava lì per assistere il Re Luigi XII che era infermo. Il Santo si adoperò per farlo liberare e gli predisse quanto poi avvenne, cioè che una volta tornato a Napoli, l’imperatore Carlo V l’avrebbe nominato viceré dal 1516 al 1535 e capitano generale in Sicilia conferendogli il titolo di duca di Monteleone.

Ettore fu anche Ambasciatore in Spagna nelle trattative per il matrimonio tra il primogenito di Federico d’Aragona e la figlia di Ferdinando il Cattolico.

Riportata la calma nella Sicilia agitata dai tumulti, Ettore fondò a Palermo due conventi, uno di monache ed uno di frati dell’Ordine di S. Francesco di Paola.

Istituì inoltre una compagnia di Cavalieri per l’assistenza degli infermi dell’Ospedale di S. Bartolomeo ed un convento di domenicani in Rosarno, nonché in Monteleone un monastero di francescani, cui donò dodici statue di alabastro raffiguranti i dodici apostoli e due campane in bronzo prese a Rodi. Oltre al ducato di Monteleone, ebbe il titolo di Grande di Spagna, di Cavaliere del Toson d’Oro.

Fabrizio, morto nel 1577, Priore di Sant’Eufemia dell’Ordine gerosolimitano, luogotenente e vice reggente di tutti i Priorati del Regno, combatté contro i francesi nel 1528 e liberò dai Turchi la Calabria.

Nel 1562 fu inviato dal viceré duca d’Alcalà contro le scorrerie dei briganti, dei quali in breve tempo sgominò la ramificata organizzazione. A Napoli fondò un ospedale per i Pellegrini di passaggio nella città, con relativa chiesa, nel luogo “dove era sita una sua casa di delizie con un giardino” il luogo era chiamato Biancomangiare e si estendeva fino al largo Mercatello, tra la piazza del Gesù e quella della Pignasecca.

Il nipote Camillo, duca di Monteleone, ingrandì l’Ospedale e l’affidò alle cure di una congrega detta dei Pellegrini.

Ancora un Ettore, duca di Monteleone (1572-1622), Gran Contestabile e Grande Ammiraglio del Regno di Sicilia, Grande di Spagna e Cavaliere del Toson d’Oro, Viceré di Barcellona, contribuì a cacciare i Mori da Valenza (1609). Per le sue pregiate opere fu definito “l’Occulto Accademico” e fu chiamato consanguineo di Filippo III di Spagna. Fu inoltre, aio della figlia del Re, Anna d’Austria, che accompagnò sposa in Francia a Luigi XIII.

Giulio Pignatelli, si dedicò ad opere caritatevoli ed assistenziali e fondò a Terranova un convento di Frati di S. Francesco ed a Cerchiara un Albergo di Pellegrini.

Fabrizio, quinto duca di Monteleone, marito di Geronima, fu Grande di Spagna, fu insignito di molti altri titoli, e fu inoltre chiamato consanguineo da Filippo IV. Nella rivolta di Masaniello fu tra quelli che protrassero la Corona armando a proprie spese i suoi soldati. Nel 1654 fu nominato da Filippo IV Viceré e Capitano generale di Aragona.

Ettore, sesto duca di Monteleone e principe del S.R.I. sposò Giovanna, erede della famiglia Tagliavia Aragona Cortés, nei Capitoli Matrimoniali è stabilita la trasmissione dei cognomi materni ai figli. Titolare dei propri e di tutti i feudi della famiglia Tagliavia, Ettore fu uno dei Signori d’Italia più potenti del tempo.

Ascanio figlio di Scipione e Isabella Caracciolo, fu il 1° duca di Bisaccia, il titolo gli fu concesso da Re Filippo II di Spagna per i meriti ed i servigi resi dal defunto padre.

Suo figlio Francesco fu il 2° duca di Bisaccia e conte di Montagano, acquistò dal duca di Monteleone la terra di Cerignola pagandola 200.000 ducati.

Antonio (1615-1700), figlio di Francesco e di Porzia Carafa, divenne Papa con il nome di Innocenzo XII (1691). La sua Bolla contro il nepotismo fu rivolta a migliorare le condizioni del popolo. Per evitare l’accattonaggio per le vie di Roma, egli creò per i poveri della città dei posti di lavoro in Vaticano.

Michele fu vescovo di Lecce, vi istituì un Seminario e fondò, nel 1694, la Congregazione dei Chierici Regolari.

Ferdinando (1689-1767), del ramo Aragona Cortés, Cavaliere del Toson d’Oro, combatté con Eugenio di Savoia contro i Turchi nelle guerre di successione in Ungheria.

Francesco, duca della Rocca, fu nominato Grande di Spagna da Carlo VI; un altro Francesco fu Arcivescovo di Taranto, Cardinale ed Arcivescovo di Napoli e morì in odore di santità nel 1734. 

Figura tra i membri della famiglia San Giuseppe Pignatelli, nato a Saragozza, gesuita (1737-1811), sepolto a Roma nella chiesa del Gesù, fu santificato nel 1954 da Pio XII.

Muzio, citato dal Tasso in diverse opere, fu insigne astrologo, teologo, matematico, architetto e poeta.

Ancora un Francesco, principe di Strongoli (1734-1812), aiutante di campo e vicario di Ferdinando IV a Napoli durante le vicende della Repubblica Partenopea, fu Viceré Generale del Regno e Presidente della Suprema Giunta di guerra fino alla venuta dei francesi, per seguire poi il Re in Sicilia.

Diversamente da lui i suoi quattro nipoti furono a fianco dei repubblicani nella rivoluzione del ’99: Mario (1773-1799) e Ferdinando (1769-1799), già simpatizzanti dell’idea giacobina e costretti alla fuga per la scoperta di una congiura, tornati con le truppe francesi affiancarono i rivoluzionari, pagando entrambi con la vita.

Francesco (1775-1853) riuscì a fuggire prima della resa della Repubblica; combatté con Gioacchino Murat contro gli inglesi, partecipò ai moti del 1820-21 e scrisse, tra l’altro, una pregevole opera dal titolo: Memoria del Regno di Napoli dal 1790 al 1815.

Vincenzo (1777-1837) fu anch’egli esule al ritorno dei Borbone a Napoli, ed anch’egli partecipò ai moti del 1820-21.

Girolamo, principe di Moliterno, armò due reggimenti di Cavalleria contro i francesi, suscitando l’ammirazione dello stesso Bonaparte.

Antonio, principe di Belmonte, Capitano delle guardie del corpo di Carlo di Borbone e poi Tenente Generale di Ferdinando IV, Presidente della Regia Accademia delle Scienze e Consigliere di Stato, inviato a Parigi nel 1796 per concludere il trattato di pace tra la Francia ed il Regno di Napoli, seguì la corte in Sicilia nel 1799, e fu insignito dell’Ordine di S. Ferdinando e del Merito.

Come narra la storia, i Pignatelli si divisero nella vicenda della Repubblica Napoletana tra le due parti avverse: Diego, eletto della città nel 1799, si affiancò ai liberali e solo per l’intercessione del Papa non subì la condanna a morte.

Nel 1806 tornò a Napoli e fu inviato quale ambasciatore a Napoleone da parte di Giuseppe Bonaparte.

Giuseppe, marchese di Castelnuovo, fu Gentiluomo di Camera con esercizio di Ferdinando II, sindaco di Napoli e Soprintendente ai reali Educandati.

Tracce che la famiglia ha lasciato sono riscontrabili non solo attraverso le bellissime opere funerarie, ma anche attraverso le costruzioni: tra le più importanti si ricordano la chiesa di S. Maria Assunta de’ Pignatelli, situata nel largo della Piazzetta del Nilo, fu fatta edificare nel ‘400 da Cesare Pignatelli, Signore di Orta e Turitto su progetto dell’architetto Andrea Ciccione e fu completata da Giovanni Merliano da Nola, autore anche del bellissimo sepolcro di Carlo Pignatelli, posto a destra dell’altare maggiore; la chiesa fu restaurata nel 1736 ed arricchita di stucchi ed altari barocchi [3]. Oggi si presenta in condizioni molto fatiscenti ed è chiusa al culto.

Carogioiello e Biancomangiare erano i nomi di due ampi giardini della Napoli antica, il primo era rinomato nel seicento perché prima di ogni altro giardino, dava grossi e saporiti fichi. Oggi lo spazio residuo di questo giardino si estende alle spalle della chiesa di Monteoliveto.

Biancomangiare, nella parte centrale si estendeva dove ora c’è piazza Sette Settembre, un tempo detta largo dello Spirito Santo, dove si affacciava la basilica che vide incoronato re Gioacchino Murat nel 1808.

Questo Giardino delle delizie apparteneva ai Colonna ai quali fu espropriato per far spazio alla costruzione di via Toledo voluta dal Viceré don Pedro Alvaréz del Toledo (1532-1553), il quale disponendo l’ampliamento delle mura cittadine, fece rientrare nel perimetro della città il giardino. 

La parte del giardino più prossima al palazzo Pignatelli di Monteleone fu anch’essa spianata per far spazio alla strada Rivera, l’attuale via Sant’Anna dei Lombardi con la via del Monteoliveto, così chiamata per volere del viceré Perafàn del Ribera (1558-71) duca d’Alcalà.

Come già accennato, una piazzetta ed un vico del rione Pignasecca sono dedicati a Fabrizio Pignatelli che nel secolo XVI, proprio sull’area del giardino Biancomangiare fondò lo Spedale dei Pellegrini con annessa la chiesa intitolata a Santa Maria Mater Domini, dove oggi si trova il suo busto eseguito dallo scultore Michelangelo Naccherino.

Nella strada della Trinità Maggiore, accanto all’ottocentesco Palazzo Sanfelice di Monforte, vi è quello che appartenne ai Pignatelli di Monteleone, il cui nome è ricordato nel Vico Monteleone che lo fiancheggia, la vicenda della costruzione di questo palazzo è legata al capriccio di una dama.

Nel Seicento, in questa zona compresa tra Monteoliveto, il Gesù e lo Spirito Santo, vi era il grande palazzo del Marchese d’Avalos, il cui rigoglioso orto era chiamato Carogioiello, divenuto in seguito, Palazzo Carafa di Maddaloni.

Questo edificio affacciava su quattro lati, come oggi, dei quali quello migliore, guardava verso il mare, ed era a sud-ovest. Il marchese del Vasto, preferì allestire il suo appartamento privato di fronte al lato ovest, dove aveva la veduta sul giardino chiamato Paradiso, appartenente a donna Girolama Colonna, duchessa di Monteleone perché vedova di Camillo Pignatelli.

Tutto ciò fece insorgere nella dama un acceso risentimento, ella non poteva tollerare che occhi indiscreti la osservassero. Così, per gelosia o per ripicca, fece costruire il palazzo che è situato sul lato destro di via Sant’Anna dei Lombardi.

Molti anni più tardi le case sorte sul giardino Paradiso, furono inglobate in una costruzione a pianta irregolare voluta dal duca Nicola Pignatelli nel 1718, e progettata dall’architetto Ferdinando Sanfelice.

Il palazzo presenta un magnifico portale in piperno e travertino, i cui capitelli sono formati con mascheroni di marmo bianco che con le orecchie di satiro formano le volute.

Al primo piano della Galleria, distrutta in seguito da un incendio, il duca fece dipingere da Paolo De Matteis, le scene più importanti dell’Eneide di Virgilio e della Gerusalemme Liberata del Tasso.

Nel 1760 il palazzo ospitò il celebre avventuriero veneziano Giacomo Casanova, presentato a Don Fabrizio Pignatelli di Monteleone dal suo amico Carlo Carafa.

Tra il 1823 ed il 1832 il palazzo passò dal Pignatelli di Monteleone al francese Renato Ilario Degas, fuggito dalla Francia rivoluzionaria e rifugiatosi a Napoli come agente di cambio, qui accrebbe le sue fortune divenendo banchiere ed imparentandosi con le grandi famiglie del Regno.

Tuttavia il maggiore ricordo della famiglia Pignatelli è senza dubbio la villa neoclassica della Riviera di Chiaia, ora museo statale.

Fu costruita alla fine del Settecento, da un nipote del ministro Acton, sui giardini del vicino palazzo dei Carafa di Belvedere su progetto dell’architetto luganese Pietro Bianchi.

I lavori avanzarono con lentezza fino a quando l’architetto toscano Guglielmo Bechi non portò a compimento l’opera. Attualmente il portico ed i due corpi avanzati sulla strada gli conferiscono una peculiarità che la distingue dalle altre costruzioni.

Pochi anni dopo, la villa fu acquistata dal ricco barone Adolfo Rothschild di Francoforte.

Il grande finanziere ebbe qui casa ed ufficio, dominando il mercato degli olii; ma verso la metà dell’Ottocento il barone dovette subire la concorrenza dei Pavoncelli e insidiato anche nell’alta finanza dai banchieri Arlotta e Minasi preferì lasciare Napoli.

Alla fine dell’Ottocento la villa fu acquistata dai Pignatelli di Monteleone e, donna Rosa Fici (1869-1955), moglie di Diego Pignatelli Aragone Cortés, le diede nuovo splendore, curando anche l’Archivio di Casa Pignatelli [4], importante perché interessa anche le Americhe per la discendenza con Ernand Cortés.

Rimasta vedova, donna Rosa, con testamento pubblico del 10 dicembre 1952, legò alla Stato la sua quota di proprietà e sua figlia Anna Maria, che abitava a Roma, rinunciò anch’ella dopo pochi mesi alla sua quota ereditaria in favore dello Stato a cui donò anche alcune statue di marmo ed importanti pezzi di argenteria. La donazione ha vincolato la villa alla destinazione d’uso museale.

Oggi, il ramo di Monteroduni, derivante da Stefano (sec. XIV) aggiunge al proprio cognome della Leonessa, importante famiglia di origine gotica ascritta al Seggio di Capuana, e trova il suo discendente nel principe Giovanni Pignatelli della Leonessa nato nel 1920.

Del ramo Aragona Cortés dei duchi di Terranova, discendente di Palamede, (sec. XIV) è vivente Don Salvatore Pignatelli Aragona Cortés, nato nel 1945, avvocato, figlio di Don Giuseppe Principe del S.R.I. [5].

Sempre della linea dei duchi di Terranova esistono altri due rami: il primo rappresentato dal Principe Nicola Tagliavia Aragona Pignatelli Cortés, nato nel 1923, ed il secondo ramo, siciliano, è rappresentato dal Principe Mario Pignatelli Aragona Cortés, nato nel 1943.

La linea di Montecalvo è rappresentata dal duca Paolo Pignatelli nato a Washington nel 1949.

La linea primogenita di Strongoli prosegue nella famiglia Ferrara Pignatelli, il cui primogenito è Vincenzo nato nel 1913.

La linea dei Fuentes è estinta e quella di Cerchiara ha oggi quale rappresentante il principe Andrea Pignatelli di Cerchiara nato a Roma nel 1918 [6].

 La linea genealogica dei Pignatelli baroni di Cerignola e duchi di Bisaccia

  L’arma

L’arma è di oro con tre pignatte nere disposte due sopra ed una sotto. Motto: Feliciorem. Lo scudo è coperto da mantello e corona di principe.  


NOTE

1 Queste pagine sono tratte dal saggio dell’autrice dal titolo: I Pignatelli in Capitanata, in «La Capitanata», n. 14/2003, pp. 163 e ss.2 N. DELLA MONICA, Le grandi famiglie di Napoli, Roma 1998, p. 285.

3 L. CATALANI – F. S. DI CANGIANO, Palazzi, chiese e castelli di Napoli, Napoli 1995, p. 114.

4 Attualmente custodito presso l’Archivio di Stato di Napoli, nel fondo: Archivi Privati.

5 A.M. SIENA CHIANESE, La Nobiltà Napoletana Oggi, Incontri, Napoli 1995, pp. 291 e ss.6 N. DELLA MONICA, Le grandi… op. cit., pp. 290 e 291.


FONTI DOCUMENTARIE

    ARCHIVIO DI STATO DI NAPOLI:

    Sezione Diplomatica – Archivi Privati:

– Archivio Pignatelli Museo, (Aragona Cortés).

– Archivio Serra di Gerace.

– Archivio della Commissione Araldica Napoletana.

– Platea delle famiglie nuovamente ascritte al Libro d’Oro.

– Libro d’Oro ed altri registri di nobiltà ed Ordini Cavallereschi.

– Platea delle Famiglie Patrizie Napolitane.

   BIBLIOTECA NAZIONALE DI NAPOLI:

   Sezione Manoscritti e Rari:

– Manoscritto n. XVIII.46.

BIBLIOGRAFIA

CANDIDA GONZAGA B., Memorie delle Famiglie nobili delle Province Meridionali d’Italia, Bologna 1985, rist. anast. dell’edizione del 1875.

«La Capitanata», rivista della Biblioteca Provinciale di Foggia, n. 14, Foggia 2003.

CATALANI L., I palazzi di Napoli, Napoli 1999, rist. anast. dell’edizione del 1845.

CATALANI L. – CANGIANO F. S., Palazzi, chiese e castelli di Napoli, Napoli 1995.

DE LELLIS C., Discorsi della Famiglie del Regno di Napoli, Bologna 1969, rist. anast. dell’edizione del 1654-71.

DELLA MONICA N, Le grandi famiglie di Napoli, Roma 1998.

SIENA CHIANASE A. M., La Nobiltà Napolitana, oggi, Napoli 1995.

SPRETI V., Enciclopedia Storico Nobiliare Italiana, Milano 1928-36.

www.sardimpex.com

©2005 Lucia LoprioreDal saggio dell’autrice dal titolo I Pignatelli in Capitanata, in «La Capitanata», n. 14/2003, pp. 163 e ss.