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Papa Celestino III

Celestino III, nato Giacinto Bobone Orsini (ca. 1106 – 8 gennaio 1198), fu Papa dal 1191 al 1198.

Celestino nacque nella nobile famiglia degli Orsini, e venne eletto Papa il 30 marzo 1191, quando era solo un diacono. Ricevette l’ordine sacerdotale il 13 aprile e governò la Chiesa per sei anni, nove mesi e nove giorni (anche se si ritiene che avesse 90 anni al momento dell’elezione) e morì l’8 gennaio 1198. Venne seppellito in Laterano. Il giorno seguente la sua elezione Celestino incoronò l’imperatore Enrico VI, con una cerimonia che simboleggiava la supremazia assoluta di quest’ultimo.

Enrico VI e Celestino III – contenuta nel Liber ad honorem Augusti di Pietro da Eboli
(1196, Biblioteca della Borghesia di Berna).

Questo secondo quanto descritto da Roger Hoveden, cui da credito Baronius, ma non Natalis Alexander. Quando Enrico VI fece uccidere il vescovo di Liegi Alberto di Lovanio il papa non osò protestare e quando, sempre Enrico VI, fece prigioniero Riccardo Cuor di Leone, costringendolo a sborsare un favoloso riscatto, Celestino III non utilizzò l’arma della scomunica nei confronti dell’imperatore, si dice per paura, mentre scomunicò il duca Leopoldo d’Austria, che aveva in custodia il Cuor di Leone. Nel 1192 Celestino III confermò lo statuto dell’Ordine dei Cavalieri Teutonici. Poco prima di morire espresse l’intenzione di abdicare indicando un successore ma i cardinali non glielo permisero.

Bibliografia:

John W. O’Malley – Storia dei papi – Campo dei Fiori. 17-11-2011

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Filippo di Svevia

Filippo di Hohenstaufen (Italia del nord, agosto 1177 – Bamberga, 21 giugno 1208) era l’ultimogenito di Federico Barbarossa e Beatrice di Borgogna (figlia di Rinaldo III di Borgogna, conte dell’Alta Borgogna) e fratello dell’imperatore Enrico VI.

Il giovane Filippo ebbe come precettore il celebre Archipoetaun di Colonia, che si occupò della sua educazione. Da subito fu indirizzato alla vita ecclesiastica e divenne prevosto di Aix-la-Chapelle. Nel 1191 venne nominato Vescovo di Würzburg, ma questa elezione fu palesemente contrastata a causa della sua giovane età.

A Filippo, in realtà, fu imposto, per motivi dinastici, di rinunciare alla carriera ecclesiastica perché dall’unione di suo fratello Enrico VI con Costanza d’Altavilla si temeva non potessero nascere eredi, a causa dell’età di Costanza.Filippo, abbandonata la vita ecclesiastica, nel 1195, venne nominato Duca di Toscana, ricevendo in dotazione i territori che erano appartenuti a Matilde di Canossa. Nel 1196, alla morte del fratello Corrado, divenne Duca di Svevia e l’anno successivo sposò Irene Angelo, figlia dell’imperatore bizantino Isacco II, la quale assunse per sé il nome di Maria. Si trattava di una donna bellissima che venne descritta da Walther von der Vogelweide come una “Rosa senza spine, colomba senza inganno”.

Dalla loro unione nacquero solo figlie (vedi nota 1)

Dopo l’improvvisa morte del fratello Enrico VI, che lasciava come erede al trono germanico il giovane Federico di soli tre anni, scoppiarono notevoli disordini fra coloro che disapprovavano un re non ancora maggiorenne. Va ricordato, inoltre, che nel 1197 Filippo ebbe incarico di prelevare il piccolo Federico II a Foligno, ove era ospite di Corrado di Urslingen, e di condurlo ad Aquisgrana per l’incoronazione, tale missione non gli riuscì a causa delle ribellioni contro il dominio tedesco scoppiate nel nord Italia, e con grandi difficoltà Filippo riuscì a tornare in Germania. Per difendere gli interessi della casata sveva, Filippo acconsentì ad essere eletto re e venne incoronato l’8 settembre 1198, divenendo così il nuovo punto di riferimento dei ghibellini. Il partito guelfo aveva sostenuto, senza successo, la candidatura di Ottone, secondo figlio di Enrico il Leone, duca di Sassonia. 

Filippo, dopo la morte di Costanza D’Altavilla il 28 novembre 1198, si considerò tutore di Federico rivendicando la reggenza nel Regno di Sicilia, per realizzare la volontà espressa da Enrico VI di unire il regno di Sicilia all’Impero, ma ciò lo portò in conflitto con papa Innocenzo III. 

Filippo di Svevia

Nella guerra scatenatasi in seguito all’incoronazione, Filippo si schierò a suo favore il re di Francia, Filippo II, mentre vi si oppose la monarchia inglese che era, invece, imparentata con Ottone (vedi nota 2). 

Papa Innocenzo III si schierò a favore della fazione guelfa che venne però definitivamente sconfitta il 27 luglio 1206 nella battaglia di Wassenberg. Quando anche l’Arcivescovo di Colonia Adolfo, che fino ad allora aveva sostenuto la causa guelfa, passò dalla sua parte, Filippo fu nuovamente e definitivamente incoronato.

Il 21 giugno 1208 Filippo morì assassinato a Bamberga, pugnalato dal conte Otto von Wittelsbach, un nipote del Duca Ottone I di Baviera, forse per motivi personali.

Con Ottone, unico monarca eletto, Papa Innocenzo III – che aveva inizialmente sostenuto i Guelfi – arrivò a schierarsi in favore del giovane Federico II e del suo alleato, il re Filippo II di Francia, che sconfisse Ottone IV nel 1214, nella celebre battaglia di Bouvines.
Federico, tornato in Germania nel 1212 dalla Sicilia, fu eletto re nel 1215.

Bibliografia:
• BBernd Schütte, Filippo di Svevia, Re di Germania, Enciclopedia Federiciana Treccani.
• Errico Cuozzo, Normanni e Svevi nel Mezzogiorno d’Italia.
• Eberhard Horst, Federico II di Svevia.

nota 1: Maria, che sposò il duca Enrico II di Brabante; Beatrice, moglie di re Ottone IV; Cunegonda, che si unì in matrimonio con re Venceslao I di Boemia; e un’altra Beatrice, moglie di re Ferdinando III di Castiglia.
nota 2: Ottone era figlio di Enrico il Leone e di Matilde figlia del re Plantageneto Enrico II d’Inghilterra.

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Enrico VI di Svevia

Enrico, nacque alla fine dell’anno 1165 a Nimega (ora Nijmegen in territorio olandese), dell’imponente Federico I Barbarossa e Beatrice di Borgogna, fu presto incoronato re dei tedeschi dall’arcivescovo di Colonia ad Aquisgrana nell’agosto del 1170 e dopo la morte del padre imperatore (del 1191). 

Il giovane Enrico fu bene istruito, conosceva bene il latino, aveva ben appreso il diritto romano e il diritto canonico, era interessato all’arte e alle scienze. Secondo alcune fonti furono suoi precettori Konrad von Querfurt e Goffredo da Viterbo. 

Molti storici ritengono che la chiave per le sue ambizioni espansionistiche fu il Regno di Sicilia, che poi comprendeva tutta l’Italia a sud di Roma e alcune aree costiere del Mediterraneo nei Balcani e Nord Africa; gran parte dell’Italia del nord faceva già parte dell’impero.

Il 29 ottobre 1184 ad Augusta fu reso noto l’accordo tra Federico I ed il re di Sicilia Guglielmo II relativo al fidanzamento di Enrico con Costanza d’Altavilla figlia postuma di Ruggero II di Sicilia. 

Nell’estate 1185 Costanza, accompagnata da uno stuolo di principi e baroni, partì da Palermo alla volta di Milano, dove dovevano celebrarsi le nozze.

Le nozze furono celebrate nella chiesa di Sant’Ambrogio, il 27 gennaio del 1186, papa Urbano III non presenziò alla cerimonia.  In quella occasione Enrico fu anche incoronato re d’Italia.

Il matrimonio di Costanza d’Altavilla con Enrico di Svevia, 
miniatura tratta dal codice Chigi.

Il matrimonio di Costanza con Enrico VI è stato fondamentale per l’acquisizione dell’Italia meridionale da parte della Casa sveva. Molto probabilmente se nel 1186 non si fosse celebrato questo matrimonio o se Guglielmo II avesse avuto un erede, l’Impero non avrebbe messo le mani sul Regno di Sicilia. 

Ancora oggi non è chiaro chi sia stato l’artefice principale di questo accordo. Recentemente l’iniziativa è stata attribuita a Guglielmo II, che si sarebbe servito anche della mediazione del re d’Inghilterra. Forse il sovrano di Sicilia vide questo accordo nella prospettiva di dare un erede normanno al trono di Sicilia. Non si può escludere che l’iniziativa sia partita dalla corte sveva, infatti Federico I già in passato aveva tentato un approccio, ma senza successo. 

Dopo aver sposato Costanza d’Altavilla Enrico rivendicò il diritto civile di essere il successore di Guglielmo II di Sicilia, morto senza eredi nel 1189, ma il nipote di Costanza Tancredi (nota 1), con l’appoggio della nobiltà siciliana, si arrogò il diritto al trono di Sicilia. In questo contesto, nel novembre 1189, Tancredi fu incoronato a Palermo Re di Sicilia. Papa Clemente III, che non vedeva di buon occhio un unico sovrano della casata degli Hohenstaufen dalla Germania alla Sicilia, approvò e riconobbe l’elezione. 

Quando Enrico VI successe nel trono al padre (1191), decise subito di riconquistare il Regno di Sicilia, supportato anche dalla flotta della Repubblica pisana, da sempre fedele all’imperatore. Tuttavia, la flotta siciliana riuscì a battere la flotta pisana; l’esercito di Enrico, anche a causa di una serie di eventi sfortunati (fra tutti una pestilenza), fu decimato. Inoltre, Tancredi riuscì a catturare a Salerno la zia Costanza. 

Per il rilascio dell’imperatrice Tancredi pretese che l’imperatore scendesse a patti con un accordo di tregua. Quale gesto di buona volontà, acconsentì a consegnare Costanza a papa Celestino III che si era offerto quale mediatore; durante il viaggio verso Roma, però, il convoglio fu attaccato da una guarnigione imperiale e l’Imperatrice venne liberata. Avendo perso il prezioso ostaggio, la tregua non venne stipulata tra Tancredi ed Enrico.

La spedizione verso la Sicilia per cacciare Tancredi non riuscì anche perché in Germania ci fu una ribellione della nobiltà capeggiata da Enrico il Leone e sostenuta dal sovrano inglese Riccardo Cuor di Leone. Anche per frenare i nobili ribelli Enrico dovette far ritorno in Germania. Complotti a parte, ad Enrico non piacque il fatto che Riccardo Cuor di Leone aveva riconosciuto Tancredi come re di Sicilia.

Nel febbraio 1193, il duca Leopoldo V d’Austria era riuscito a catturare l’insidioso Riccardo Cuor di Leone nei pressi di Vienna, mentre il re inglese ritornava dalla crociata. Il sovrano inglese fu poi consegnato ad Enrico. Papa Celestino III scomunicò Enrico per aver imprigionare un sovrano crociato, ma a seguito del pagamento di un pesante riscatto (nota 2) Riccardo Cuor di Leone fu rilasciato nel mese di febbraio 1194.  

Il 20 febbraio 1194 Tancredi morì mentre era impegnato in una campagna nella parte peninsulare del regno per ridurre all’obbedienza i suoi vassalli fedeli all’imperatore. Poco tempo dopo, in circostanze non ancora chiare, morì anche il figlio Ruggero. Con la morte di Tancredi arrivò il via libera per una seconda discesa di Enrico e Costanza. 

Enrico VI, col sostegno delle flotte genovesi e pisane capeggiate dal fido Marcovaldo di Anweller, dopo essersi garantito la neutralità dei Comuni lombardi col Trattato di Vercelli del 12 gennaio 1194, riuscì a sottomettere la Sicilia. Nell’autunno del 1194, ricevette a Troia il giuramento di fedeltà dei feudatari rimasti fedeli agli Hauteville. In quella sede l’imperatore nominò Cancelliere del regno di Sicilia e Puglia il vescovo di Troia Gualtiero di Pagliara. 

A reggere il Regno era ancora la Regina vedova Sibilla di Acerra, per il conte di Lecce, il minore Guglielmo, figlio di Tancredi. Giunto nell’isola Enrico VI si fece incoronare re di Sicilia il giorno di Natale del 1194 realizzando così l’unione del regno all’impero.

Incoronazione di Enrico VI di Svevia a Palermo (codice miniato di Pietro da Eboli, il Liber ad honorem Augusti conservato presso la Burgerbobliothek di Berna 1196).
Enrico VI, imperatore dei Romani, attorniato dalle virtù, la ruota della Fortuna con Enrico in auge e Tancredi in rovina, miniatura del Liber ad Honorem Augusti  di Pietro da Eboli, fine XII secolo. Berna Burgerbobliothek.

Nel frattempo la regina Costanza, mentre si recava in Sicilia, fu costretta a fermarsi a Jesi dalla gravidanza che volgeva al termine, così il 26 dicembre del 1194 diede alla luce il futuro Federico II, al quale impose il nome di Federico Ruggero in onore dei due illustri nonni.

Nel frattempo Enrico VI a Palermo fece imprigionare Sibilla e dispose l’accecamento e l’evirazione di Guglielmo III e l’immediato trasferimento di entrambi in Germania. Contemporaneamente dispose che il magnifico tesoro reale fosse confiscato e portato in Germania.

Pur avendo annesso il Regno di Sicilia senza alcun impedimento, Enrico VI accusò di congiura laici ed ecclesiastici, contro di loro fu atroce e crudele. 

Anche il conte Riccardo d’Acerra, zio di Guglielmo, che tornava dalla crociata fu imprigionato e poi ucciso. 

Costanza, dopo aver affidato il neonato Federico alla tutela di Corrado di Urslingen Duca di Spoleto, partì per la Sicilia, senza immaginare che nell’isola avrebbe trovato malcontento, ribellioni e paura, a causa dalle atrocità di Enrico.

Dal 1196 la dinastia Hohenstaufen aveva raggiunto la massima estensione geografica ed economica del suo potere. Sulla carta, l’Inghilterra e la metà della Francia erano stati vassalli, la Danimarca e l’Ungheria riconobbero l’autorità degli Staufen. Inoltre, due terzi d’Italia, in effetti, ma tutto lo Stato Pontificio, era ormai sotto il dominio diretto di Enrico. Più lontano, i re d’Armenia (che a quei tempi si allungavano verso il Mediterraneo) e l’isola di Cipro divennero suoi vassalli.

L’Imperatore introdusse numerosi funzionari e vassalli in Sicilia e portò con sé i Cavalieri Teutonici che si insediarono a Messina e Palermo. I cavalieri Teutonici si rivelarono molto più fedeli di quanto non fossero gli Ospitalieri e i Templari. Enrico VI collocò suoi uomini di fiducia in posizioni chiave, innanzitutto nei castelli sul confine settentrionale, importanti strategicamente, in quanto garantivano il collegamento con l’Italia del nord. Così a Marquardo di Anweller fu affidata la Marca di Ancona, il ducato di Romagna e – dopo la morte di Corrado di Lützelhardt (1197) – la contea di Molise, mentre a suo fratello Filippo, diede la Toscana e l’amministrazione dei feudi di Matilde di Canossa. Cancelliere dell’Impero era sempre Gualtierio di Pagliara il quale aveva passato molti anni in esilio in Germania. Corrado di Urslingen di Spoleto fu nominato Vicario del Re.

Nessuna di queste iniziative era gradita ai baroni normanni e longobardi che si ribellarono. Questa situazione portò, nel 1197, ad una spietata repressione delle rivolte nell’Italia del sud.

Enrico contemplava anche una conquista di Costantinopoli che ebbe inizio quello stesso anno. Guidati da Corrado di Wittelsbach, arcivescovo di Magonza, partì un primo contingente di questa spedizione, ma mentre aveva già conquistato Sidone e Beirut giunse la notizia della morte di Enrico VI a Messina (28 settembre 1197), allora sia il prelato sia i crociati fecero ritorno in Sicilia. Con la morte dell’Imperatore il Regno di Sicilia tornò nuovamente nel caos. 

Ad Enrico succedette il figlio di appena tre anni, il futuro Federico II. La moglie Costanza, che gli sopravvisse poco più di un anno, fu reggente nel Regno.

I principi tedeschi elessero Imperatore Ottone IV di Brunswick.

Enrico è sepolto nella cattedrale di Palermo, la stessa dove venne incoronato. Accanto alla tomba sono della moglie e del figlio Federico II.

Nota 1: Il conte Tancredi di Lecce era figlio naturale di Ruggero III di Puglia (il figlio maggiore di re Ruggero II di Sicilia) e di Emma dei conti di Lecce (figlia di Accardo II), divenne conte di Lecce nel 1149.

Nota 2: Il riscatto per rilasciare Riccardo Cuor di Leone ammontò a 100.000 marchi d’argento (pari a 36 tonnellate d’argento), inoltre Riccardo doveva riconoscere l’imperatore suo signore feudale. 

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Giovanni Senzaterra

Giovanni Senzaterra fu membro del casato dei Plantageneti, che arrivavano dal centro-nord della Francia, originariamente conti d’Angiò, si legarono alla monarchia normanna d’Inghilterra e successivamente ne divennero successori. Giovanni nacque ad Oxford il 24 dicembre del 1167, fu re d’Inghilterra dal 1199 al 1216, è noto soprattutto per aver concesso la Magna Charta.

Figlio ultimogenito del re Enrico II e di Eleonora d’Aquitania, non ricevette dal padre alcuna eredità (da qui il soprannome di “senzaterra”). Nel 1189, si unì al fratello Riccardo I Cuor di Leone nella ribellione contro il padre e, quando Riccardo venne incoronato, ricevette numerosi titoli e proprietà.
Riccardo, dopo aver combattuto in Terra Santa nella Terza crociata, mentre faceva ritorno verso l’Inghilterra fu catturato dal duca Leopoldo d’Austria – che lo consegnò all’imperatore Enrico VI – e fu trattenuto prigioniero in Austria. Giovanni, approfittando di questa situazione, tentò di usurpare la corona.
Riccardo fu liberato nel 1194 dietro il pagamento di un enorme riscatto, così poté fare ritorno in patria appena in tempo per sventare il tentativo del fratello di usurpare la Corona; successivamente i fratelli si riconciliarono.

Giovanni Senzaterra

Alla morte di Riccardo, nel 1199, Giovanni salì al trono, ma dovette affrontare una rivolta dei baroni, che si allearono con il re Filippo II Augusto di Francia. Giovanni dovette cedere a Filippo quasi tutti i suoi possedimenti francesi. Nel 1207 si oppose alla nomina di Stephen Langton ad arcivescovo di Canterbury, ma il papa Innocenzo III lo scomunicò e cominciò a trattare con Filippo II per invadere l’Inghilterra.
Giovanni si piegò e si riconobbe vassallo del papa. Nel 1213 cercò di riconquistare i suoi possedimenti d’oltremanica alleandosi con l’imperatore Ottone IV di Brunswick, in una guerra contro Filippo II Augusto e il giovane Federico II, ma subì una nuova e definitiva sconfitta nella battaglia di Bouvines (1214).

La Magna Charta Libertatum
Approfittando della debolezza del re, i baroni si unirono per costringerlo a rispettare i loro diritti e privilegi, e nel 1215 lo obbligarono a firmare la Magna Charta.

Giovanni Senzaterra concede la Magna Charta il 15 giugno del 1215 – antico disegno.

La Magna Charta libertatum sanciva le «antiche libertà» d’Inghilterra, che il sovrano doveva impegnarsi a non violare.

Tra i documenti più importanti del Medioevo c’è senza ombra di dubbio la Magna Charta Libertatum “Grande Carta delle libertà”. Questo documento, concesso in un momento di debolezza politica di Giovanni Senzaterra, tra i tanti articoli sancisce limiti precisi al potere del sovrano, infatti si stabiliva che anche lui doveva sottostare alla legge.
La Magna Charta è considerata il primo atto sottoscritto a garanzia delle libertà individuali, ancora oggi viene considerata un elemento fondamentale del moderno stato di diritto.
I temi trattati sono innumerevoli e vanno dalla vedovanza alle pene per i vari reati, dalle tasse ai diritti di successione, fino all’impossibilità del re di fare imprigionare gli aristocratici e gli uomini liberi senza un regolare processo.
Alcune clausole di questo documento sono ancora oggi in vigore nel sistema legislativo inglese. Nello stesso documento è sancita la libertà inviolabile della Chiesa conservandone tutti i diritti. Un’altra clausola ancora presente oggi è quella che stabilisce il mantenimento di libertà e consuetudini della città di Londra valide anche per altre città importanti all’epoca, oltre all’indipendenza doganale.

Papa Innocenzo III, al quale Giovanni Senzaterra aveva prestato omaggio feudale per riceverne l’investitura su Inghilterra e Irlanda, annullò con una bolla la Magna Charta in nome della difesa della sovranità della Chiesa, coincidente con quella del sovrano.

Giovanni, dopo aver ottenuto dal papa lo scioglimento dal vincolo del giuramento, entrò in guerra contro i baroni. Morì il 18 ottobre del 1216 nel castello di Newark nel Nottinghamshire, mentre la campagna contro i baroni era ancora in corso: gli succedette il figlio Enrico che aveva ancora 9 anni. La Magna Charta fu promulgata nuovamente nel 1216 da Guglielmo il Maresciallo reggente del giovane Enrico III. Enrico la emanò nuovamente nel 1225 in cambio di nuove tasse; suo figlio, Edoardo I, lo fece nuovamente nel 1297, confermandola come parte della legge statutaria dell’Inghilterra. La carta confluì dunque nella vita politica inglese venendo rinnovata da ogni sovrano.

La Magna Charta libertatum.

Va ricordato che Isabella, figlia di Giovanni Senzaterra, andò in sposa a Federico II di Svevia nel 1235, fu madre di Enrico detto Carlotto, morto in tenera età, e morì a Foggia nel 1241.

DALLA MAGNA CHARTA LIBERTATUM CONCESSA DA RE GIOVANNI SENZATERRA NEL 1215: «[…] La Città di Londra godrà di tutte le antiche libertà e libere consuetudini […]. Un uomo libero non potrà essere colpito da ammenda per un piccolo delitto che proporzionalmente a questo delitto; non potrà esserlo per un grande delitto che proporzionalmente alla gravità di questo delitto, ma senza perdere il suo feudo […]. I conti e i baroni non potranno essere colpiti da ammenda che dai loro pari, e proporzionalmente al delitto commesso […]. Tutti i mercanti potranno, se non ne avranno anteriormente ricevuto pubblico diniego, liberamente e in tutta sicurezza uscire dall’Inghilterra e rientrarvi, soggiornarvi e viaggiarvi […]».

NOTE BIBLIOGRAFICHE ESSENZIALI (CUI SI RIMANDA PER LE INDICAZIONI SULLE FONTI)
• R. Manselli, L’Europa medioevale, Utet, Torino 1979, vol. II, pp. 917-952.
• C. Carozzi, Le monarchie feudali: Francia e Inghilterra, in La Storia. I grandi problemi dal Medioevo all’Età contemporanea, vol. II, Il Medioevo, Utet, Torino 1986-1988.
• G. Duby, La Domenica di Bouvines, trad. it. Einaudi, Torino 1977
• F. Cardini, La politica mediterranea di Federico II, in «Tabulae», 28-29 (2003).
• Jim Bradbury, Philip Augustus and King John: Personality and History, 2007.
• Mario Caravale, Magna carta libertatum, Il mulino 2020


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GUGLIELMO II detto il Buono

Guglielmo II, noto come “Guglielmo il Buono,” nacque nel dicembre del 1153 da Guglielmo I “il Malo”, re di Sicilia figlio di re Ruggero II, e da Margherita di Navarra. Questi soprannomi, che potrebbero essere fuorvianti, probabilmente riflettono il rapporto di questi sovrani con la nobiltà siciliana. Tuttavia, nella Divina Commedia Dante collocò Guglielmo II nel Paradiso. Essendo deceduti i fratelli maggiori Ruggero nel 1161 e Roberto nel 1165, alla morte del padre, avvenuta a Palermo il 7 maggio 1166, Guglielmo salì al trono nel maggio 1166, a soli dodici anni sotto la reggenza della madre Margherita. La regina Margherita è stata coadiuvata da un consiglio di reggenza di tre familiares: il vescovo di Siracusa, Riccardo Palmer, il notaio Matteo d’Aiello e il gaito Pietro. Margherita dopo un pò di tempo, non ritenne più opportuno affidarsi ai funzionari che aveva nominato suo marito, ma chiamò dalla Navarra il fratellastro, Rodrigo Garcés, che nominò conte di Montescaglioso, il cugino, Stefano di Perche, che nominò cancelliere e vescovo di Palermo, ed altri parenti cui affidò il governo del regno. 
Questo comportamento scontentò sia i baroni che i funzionari, italici e saraceni, e portò ad una rivolta capeggiata da Matteo d’Aiello, che in un primo tempo fu imprigionato, ma in seguito riuscì ad avere la meglio e a fare allontanare i navarresi ed i francesi. Margherita era abituata al dissenso, avendo vissuto, con il marito, tali esperienze con la rivolta guidata da Matteo Bonnellis nel 1160, che causò la morte di uno dei suoi figli. Comprensibilmente, lei fu molto protettiva verso Guglielmo, che imparò bene diverse lingue, compreso l’arabo. Furono precettori di Guglielmo prima Gualtiero (per alcuni Gualtiero di Offamil) e poi Pietro di Blois. 
Margherita allora istituì un nuovo consiglio di reggenza costituito da il vescovo di Siracusa Riccardo Palmer, il notaio Matteo d’Aiello, e Gualtiero, Gentile Tuscus vescovo di Agrigento, Romualdo Guarna, Giovanni vescovo di Malta, Ruggero conte di Geraci, Riccardo di Mandra, Enrico conte di Montescaglioso e il Gaito Riccardo.
Le prime cose che il consiglio di reggenza realizzo furono, ancora una volta, all’impronta della conciliazione con la popolazione e con la nobiltà. Vennero concessi condoni anche fiscali, furono infeudate alcune contee vacanti e furono accolti nuovamente nel Regno gli esiliati Tancredi di Lecce e Roberto di Loritello.

Ritratto di re Guglielmo II


Margherita era una donna forte e coraggiosa, chiese spesso consigli all’Arcivescovo di Canterbury, Thomas Becket, con il quale tenne una fitta corrispondenza. Becket le diede solo un appoggio morale, mentre Margherita lo appoggiò nella controversia che lo opponeva al re d’Inghilterra Enrico II.  Quando Becket fu ucciso nel 1170 la regina di Sicilia concesse rifugio alla famiglia di Thomas Becket. 
Guglielmo trascorse gran parte della sua giovinezza al di fuori Palermo, in castelli come quello di San Marco di Alunzio, raggiunse la maggior età nel 1171. 
Gli intrighi di vescovi e nobili hanno favorirono una lotta di potere a corte, e questo certamente influenzò gli atteggiamenti del sovrano Guglielmo. 
Grazie al nuovo sovrano il regno ritornò agli antichi splendori, Guglielmo tentò di porre rimedio agli errori del padre ed in buona parte vi riuscì. Nominò Vicecancelliere Matteo d’Ajello, ebbe un grande rispetto di tutti i gruppi etnici presenti in città, riaffidò ai musulmani le vecchie cariche sottratte e diede la giusta importanza ai feudatari ai quali affidò moltissime cariche a corte e nell’esercito. 
Il governo passò poi nelle mani di Gualtiero, a cui si deve anche la costruzione della Cattedrale di Palermo. 
Come spesso capita ci furono diversi tentativi per assicurare una consorte al re di Sicilia. Inizialmente si ipotizzo il matrimonio di Guglielmo con la principessa bizantina, Maria, figlia dell’imperatore Manuele I Comneno, ma presto gli accordi per questa unione fallirono. Nel 1173 papa Alessandro III si oppose al matrimonio tra il re normanno e Sofia, figlia di Federico I Barbarossa. Poi nel 1176 fu inviato in Inghilterra l’arcivescovo di Capua Alfano di Camerota ed il vescovo di Troia, Elia.
Questi negoziarono il matrimonio con la figlia di Enrico II d’Inghilterra, per instaurare un’alleanza fra gli Altavilla e i Plantageneti. Questa missione ebbe successo e la principessa fu condotta nell’isola. A Palermo il 13 febbraio 1177 Guglielmo sposò Giovanna Plantageneto (1165-1199), sorella di Riccardo Cuor di Leone. In occasione di questo matrimonio i nobili inglesi raccontarono dello sfarzo e del lusso della corte normanna.
Da questa unione non nacquero figli e ciò spinse Guglielmo, per assicurare un erede al trono di Sicilia, ad acconsentire alle nozze dell’ormai matura zia Costanza (la figlia postuma di Ruggero II) con Enrico di Svevia, figlio di Federico Barbarossa, il futuro Enrico VI.
Ritenuto da molti giusto, indulgente e tollerante, Guglielmo II conquistò l’opinione degli storiografi anche perché seppe proteggere gli intellettuali del tempo, soprattutto i poeti arabi. Con Guglielmo i musulmani mantennero una larga rappresentanza di governo e di religione e a Palermo c’erano anche alcune moschee. 
Il viaggiatore arabo Ibn Giubair lo ha descritto, forse per il suo atteggiamento benevolo verso i mussulmani, come un monarca “quasi-musulmano”.  
Segni visibili del regno di Guglielmo sono ancora oggi il magnifico Duomo di Monreale e l’abbazia benedettina di Monreale, cui seguì la costruzione della Cuba e della Zisa a Palermo.

Mosaico che ritrae Guglielmo che dona il duomo di Monreale alla Vergine Maria – Dedicazione del Duomo di Monreale.

Il Duomo di Monreale, dedicato alla Vergine Maria, fu realizzato per mostrare al mondo che Guglielmo era ormai un re maturo disposto ad esercitare tutto il potere che gli veniva dalla corona. Ciò è testimoniato da un mosaico che raffigura la sua incoronazione fatta direttamente da Cristo a imitazione del mosaico della Chiesa della Martorana che mostra Ruggero II incoronato da Cristo. La costruzione di questa grande chiesa, e la creazione di una diocesi a poche miglia da Palermo, fu una delle sue azioni più importanti.

Mosaico che raffigura Guglielmo incoronato direttamente dal Cristo – Duomo di Monreale

La sua politica interna e politica estera fu ambiziosa, ma Guglielmo raramente si avventurò lontano dalla Sicilia. 
Diresse abili trattative con il Sacro Romano Impero, con i comuni dell’Italia settentrionale, e con i regni dei Balcani e del Mediterraneo orientale, dove le forze siciliane riuscirono a conquistare dei territori. Dopo un lungo periodo di conflitti, fece un trattato di pace con l’imperatore d’Oriente Isacco Angelo Comneno.
Con Guglielmo II detto il Buono l’isola visse un periodo di pace.
Guglielmo morì a Palermo, quando aveva 36 anni, il 18 novembre 1189 senza eredi, venne sepolto ai piedi dell’altare maggiore del Duomo di Monreale, così che chi officiava la Messa doveva inginocchiarsi sulla tomba di Guglielmo. Il cardinale Torres nel 1500 diseppellì il corpo del re e gli fece costruire un sepolcro rinascimentale, accanto a quello del padre Guglielmo I.

Duomo di Monreale – Il sarcofago rinascimentale che conserva le spoglie mortali di Guglielmo II d’Altavilla.

Si può affermare che l’epoca normanna della Sicilia sia finita con lui. Nel giro di pochi anni l’epoca della dinastia degli Hohenstaufen di Svevia arrivò in Sicilia e Federico II ne fu il suo massimo esponente.

Bibliografia:

  • David Abulafia, Federico II. Un imperatore medievale, Enaudi, Torino, 1993.
  • Errico  Cuozzo, Normanni e Svevi nel Mezzogiorno d’Italia.
  • Fulvio Delle Donne, «Gualtiero». In : Dizionario Biografico degli Italiani Vol. LX, Roma: Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 2003, pp. 224–227 (on line).
  • J. M. Martin, Errico Cuozzo, Federico II Le tre capitali del regno Palermo – Foggia – Napoli, Procaccini Editore, Napoli, 1995.

  • Hubert Houben, Normanni tra Nord e Sud. Immigrazione e acculturazione nel Medioevo, Di Renzo Editore, Roma 2003
  • Fulvio Delle Donne – L’elaborazione dell’immagine di Costanza d’Altavilla nel Due e Trecento. Incroci di tradizioni tra cronache meridionali e centro-settentrionali, tra Dante e Boccaccio. Reti Medievali Rivista, 21, 1 (2020).

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Guglielmo I detto il Malo Re di Sicilia.

Quando il 26 febbraio del 1154 Re Ruggero II d’Altavilla morì, gli subentrò Guglielmo (1120-1166): il quarto figlio nato dalla sua unione con di Elvira di Castiglia (circa 1100-1135), dato che gli eredi d’età maggiore erano già tutti defunti.
Nell’immediato, la successione avvenne senza particolari traumi politici e sociali dato che il nuovo, giovane monarca, esercitava già da circa tre anni la coreggenza a fianco del padre.
Come uomo, come governante e come condottiero, Guglielmo I è un personaggio controverso, sul quale gli storici non sono ancora del tutto concordi ma…

…chi era, in realtà, Guglielmo I detto il Malo?

Guglielmo I era cresciuto ed era stato educato nell’ambiente mediterraneo di Palermo, subendo l’influenza della cultura araba che ancora pervadeva l’intera isola. Il fatto di essere cresciuto in una Corte importante, tra le più brillanti d’Europa, aveva condizionato il suo carattere conducendolo, in età adulta, a godere il lusso dei suoi palazzi più che ad occuparsi dello Stato. Alcuni affermavano che preferiva affidare la gestione del regno ad un primo ministro, essendo già troppo impegnato a godersi la tranquillità della corte e le imprese militari che maggiormente gradiva.
Di conseguenza, nel suo entourage erano evidenti le caratteristiche proprie degli ambienti arabi, dove era presente un ostentato lusso orientale; anzi, i suoi più aperti detrattori, e non solo questi, mormoravano che avesse addirittura un vero e proprio harem, provocando il disappunto dei più intransigenti ambienti cristiani. A conferma indiretta di queste illazioni, il viaggiatore arabo Ibn Giubayr giunse ad affermare che «le ancelle e le concubine che il Re tiene a palazzo sono tutte musulmane».
Lo storico inglese David Abulafia, nel suo noto libro Federico II Un imperatore medievale, pag. 28, così descrive Guglielmo I: «Guglielmo I (detto il Malo), successore di Ruggero, trascorse la maggior parte del suo periodo di regno in Palermo, e la maggior parte delle sue giornate – come sussurravano le malelingue – nei giardini e negli harem del suo palazzo. La presenza fisica del sovrano in Sicilia consenti perciò l’evolversi di un sistema amministrativo alquanto diverso, impostato su fondamenta ad un tempo arabe e bizantine».

Guglielmo I detto il Malo

Con questo spirito, Guglielmo I avviò la costruzione dello splendido palazzo che ancora oggi ammiriamo, La Zisa, completato dal suo successore.
EL AZIZ in arabo significa nobile, splendido; e certo così l’edificio doveva apparire ai viaggiatori e alle umili popolazioni locali. Guglielmo lo concepì per essere allo stesso tempo stesso un luogo di delizie ed espressione della potenza regale. Ampi spazi erano destinati ai sollazzi del sovrano nei magnifici giardini detti anticamente di Genoard, il Paradiso sulla terra e dove, nelle ore più fresche, i cortigiani si aggiravano tra aranci, cedri e limoni. Guglielmo sposò Margherita, figlia di Garcia IV Ramirez di Navarra, che gli diede quattro figli: Ruggero duca di Abulia, Roberto, Guglielmo che sarà suo successore, ed Enrico, principe di Capua.

la Zisa – Palermo

Tutto sommato, Guglielmo I non può essere considerato un cattivo regnante, nonostante sia noto alla storia come il Malo, contrapposto al figlio e successore Guglielmo II detto il Buono: un appellativo, giova ricordarlo, che gli verrà attribuito solo nel XIV, molto probabilmente dallo Pseudo Ugo Falcando: Storia del Regno di Sicilia (1550).
Al contrario, in relazione ai tempi, fu certamente un sovrano prudente anche se, durante il suo regno, non mancarono le sommosse che stroncò energicamente.

Un difficile regno.
Ad onta della tranquilla successione al trono, il regno di Guglielmo I si apriva in un momento assai critico per la vita dello Stato, gravata da particolari criticità interne ed esterne.
All’interno si assisteva al crescente affermarsi di un forte partito ecclesiastico, alimentato dall’arrivo da tutta Europa di alti prelati e personaggi dell’amministrazione, assieme a numerosi insediamenti monastici. Ciò comportava la diminuzione della tolleranza religiosa verso i Musulmani e i Bizantini che era stata fino a quel momento il collante delle varie etnie sempre in stato di potenziale conflitto.
Sul versante esterno Manuele I Comneno, incoronato Imperatore d’Oriente nel 1143, si stava organizzando in quegli anni per tentare la riconquista dell’Italia normanna. Il progetto era ambizioso e, come immediata conseguenza, contribuiva ad alimentare le tensioni all’interno dal Regno dove i feudatari vedevano nel nuovo Re un elemento di discontinuità che poteva ridurre i loro benefici a favore delle classi produttive emergenti.
Come se ciò non fosse bastato, c’erano poi le crescenti pretese egemoniche della Chiesa e dell’Impero germanico, guidati rispettivamente dall’intransigente Pontefice inglese Adriano IV e da Federico I il Barbarossa, sceso per la prima volta in Italia proprio nel 1154 con l’obiettivo dichiarato di normalizzare una situazione resa ormai rovente.
Certo il giovane monarca si trovava a dover fronteggiare problemi più grandi di lui; tanto più che, fin dai primi interventi pubblici, pur confermando formalmente la tradizionale linea di governo tracciata dal padre, non aveva potuto celare le proprie simpatie per la borghesia, sempre più attiva e combattiva.
C’erano le premesse per giungere rapidamente ad una situazione di generalizzata conflittualità; e la prima occasione giunse di lì a poco, con l’invasione del Regno da parte dell’esercito bizantino che nell’occasione aveva trovato innaturale alleanza nell’apparato bellico pontificio.

1155-56: L’invasione del Regno ad opera dell’esercito bizantino e di quello pontificio.
L’acme della tensione provocata dalle mire espansionistiche di Manuele I Comneno si ebbe nel 1155 quando Guglielmo, dopo aver nominato Maione da Bari ammiratus ammiratorum, – una sorta di primo ministro – cadde in una prolungata malattia, durante la quale si diffuse addirittura la falsa notizia della sua morte.
Era il momento opportuno ai Bizantini per aggredire il Regno; tanto più che l’iniziativa avrebbe trovato terreno favorevole tra la gran parte dei Conti che consideravano i nuovi possibili padroni preferibili ad un Re che aveva chiaramente dimostrato di voler limitare il loro diritti.
Ma l’illusione di Manuele I Comneno e dei suoi durò poco; fino a quando Guglielmo, ristabilitosi completamente dalla malattia, ritornò nell’agone politico e militare più forte e motivato di prima, pronto ad organizzare la controffensiva.

Le fasi dell’invasione e le linee di difesa.
L’esercito bizantino, comandato da Michele Paleologo e da Giovanni Doukas, aveva iniziato l’invasione del Regno partendo da Ancona, dove era stata prevista una linea di difesa – la prima, fra le tante disseminate in varie aree strategiche dall’accorto Ruggero II – posta nell’insediamento più settentrionale: la Contea di Aprutium, istituita nel 1140.
Qui, alla fine del 1155, il Governatore Conte Roberto de Aprutio combatté strenuamente per garantire l’integrità dei domini normanni. Non così si comportarono parecchi Conti i quali, capeggiati da Roberto III di Loritello, imparentato con la Casa regnante, si ribellarono al legittimo Sovrano, avviando apertamente la defezione.
Il conte Roberto de Aprutio fu tra i pochi Conti rimasti fedeli alla Casa d’Altavilla e con ogni probabilità morì nel tentativo, disperato e vano, di non cedere Teramo alle truppe di invasione. Alcune fonti sostengono che Loritello fu cacciato con l’apporto dei Salernitani.
A sud della contea di Aprutium una seconda linea di difesa era affidata al conte Boemondo di Manoppello che presidiava le valli del Pescara, del Foro e del Sangro; quest’ultima in collaborazione con il conte di Molise, che possedeva Castel del Giudice e Capracotta.
Secondo quanto riferisce il Chronicon Casauriense, il conte di Manoppello non intervenne per ostacolare l’invasione bizantina. Per questo, alla fine del 1156, fu imprigionato in Palermo da Re Guglielmo e fu liberato solo dopo alcuni mesi per morire in Calabria, a Tarsia in Val di Grati, suo paese di origine.
Prima che l’esercito invasore potesse giungere in Capitanata, una terza ed ultima linea di difesa era stata posta nel Molise dove la resistenza durò poco. Il conte di Molise Ugo II infatti, chiamato a presidiare le valli del Trigno, del Biferno e del Fortore, aderendo alla ribellione capeggiata da Roberto III di Loritello, lasciò impunemente passare l’esercito bizantino.
Sul confine nord-occidentale del Regno la difesa armata era affidata al conte di Fondi, che aveva il compito di intervenire nella bassa valle del Liri e nella valle del Garigliano. Ma anche qui Riccardo De Aquila, conte di Fondi, lasciò passare l’esercito pontificio senza opporre resistenza: un tradimento inaudito che, a fine avventura, lo costringerà a morire in esilio, forse nei pressi Roma, accanto a coloro che lo avevano prezzolato.
L’estremo intervento difensivo predisposto da Re Ruggero era rappresentato dall’arrivo dell’esercito regio; o, in alternativa, dalla leva generale di tutti gli uomini liberi. Guglielmo non nutriva dubbi sulla necessità di decretare la massima mobilitazione: ma nel frattempo erano ancora i nobili locali a dover intervenire, se onesti e fedeli, in difesa del Regno.
Quando nel 1156 l’esercito invasore, passato il fiume Fortore, dilagò in Puglia occupando – come affermano fonti bizantini – ben quaranta castelli, il Conte di Andria Riccardo de Lingèvres, un cavaliere originario della Normandia, fu chiamato a svolgere un ruolo importantissimo nella difesa militare dell’Apulia. Per bloccare possibili invasioni dal mare, egli dovette creare una lunghissima barriera protettiva che andava dall’Adriatico allo Ionio. Alla fine, dopo una lotta impari e sanguinosa, combattuta con tutte le sue forze, morì da eroe sotto le mura di Andria.
Fu proprio il suo sacrificio, unito a quello precedente del conte de Aprutio, a rallentare l’invasione e a consentire l’intervento dell’esercito regio malgrado la ribellione dei conti. Il vicecancelliere Ascletino, a capo delle truppe regolari, ebbe il tempo di giungere in Puglia e di ingaggiare le battaglie decisive.
Parallelamente, il Re allertò tutte le forze di popolo disponibili, a cominciare da quelle della penisola Salentina non ancora caduta nelle mani bizantine. Fu bandita così la leva nomine proelii: la leva generale di tutti gli uomini liberi, chiamati al difesa del Regno.

L’assedio e la battaglia di Brindisi.
I coscritti furono posti agli ordini del connestabile Ruggero di Fleming che, sulle prime, tentò senza successo di opporsi all’avanzata nel Salento dell’esercito greco comandato, dopo la morte di Michele Paleologo, dal solo Giovanni Doukas.
Così, il 14 aprile l’esercito invasore si trovò alle porte di Brindisi, pronto a conquistarla, inferendo ai Normanni un colpo forse decisivo. Ma le mura che doveva superare, fortificate all’inizio dell’XI secolo, si dimostravano solidissime; per cui i condottieri, in luogo di utilizzare le tradizionali macchine da guerra, preferirono porre l’assedio, facendo la città segno di un fittissimo lancio di pietre.
Si trattò di un micidiale errore strategico? Certo i tempi lunghi richiesti dall’operazione consentirono a Re Guglielmo di raggiungere personalmente la città a capo del suo grande esercito e di prendere alle spalle gli assalitori. La battaglia si protrasse diversi giorni, con enormi perdite umane da ambo le parti. Finché i Brindisini – militari e civili, uomini e donne – usciti dalla città, parteciparono all’accerchiamento degli assalitori, contribuendo alla chiara vittoria delle armi normanne.

A conclusione della dolorosa avventura, restava il fatto che i nobili del Regno, nonostante fossero doppiamente legati al Re dalla fedeltà vassallatica e dai vincoli di sangue, si erano nella maggioranza dimostrati dei vili traditori; avevano consentito agli invasori di violare i sacri confini normanni!
Re Guglielmo allora, constatata la scarsa affidabilità della classe feudale, non esitò a perfezionare il sistema difensivo del Regno ideato dal padre. E decretò che, alle prime difficoltà provocate dai conti, sarebbe intervenuto l’esercito regio, opportunamente potenziato e organizzato.
La vittoria di Brindisi entrò negli annali del Regno di Sicilia come un grande successo del popolo e della monarchia.

Papa Adriano IV.
Da allora, Papa Adriano IV comprese che era conveniente negoziare con i Normanni anziché combatterli; e con il trattato di Benevento del 18 giugno 1156, rinnovò a Guglielmo il mandato a governare il Regno inclusa Capua e Napoli. Guglielmo giurò fedeltà al Papa ricevendo, analogamente a quanto era avvenuto per Ruggero nel 1239, l’investitura con tre vessilli.
Nel 1157 Guglielmo, forte del successo ottenuto a Brindisi, inviò nel mare Egeo il viceammiraglio Stefano – fratello di Maione di Bari suo primo ministro – al comando di una flotta di 140 navi che si scontrò con l’armata bizantina capeggiata da Costantino Angelo, zio dell’Imperatore. Le forze bizantine uscirono sconfitte; molte navi greche furono date alle fiamme, mentre quelle siciliane si ritirarono con numerosi importanti prigionieri.
Con questo gesto, il Re normanno intendeva compiere l’estrema vendetta nei confronti del Basileus, che nel 1158 fu costretto a firmare una pace trentennale e a riconoscere i diritti degli Altavilla sui territori italiani una volta appartenuti ai Bizantini.

Papa Adriano IV

Ristabilitasi la situazione continentale e quella siciliana, le vicende fin qui narrate non furono immuni da conseguenze per il futuro normanno nel bacino del Mediterraneo.
La dinastia musulmana berbera degli Almohadi, che già dominava il Marocco, l’Algeria e parte della Spagna, intendeva unificare il Nordafrica sotto il suo potere; e mise in discussione la tutela dei Normanni, iniziando con la riconquista delle loro piazzeforti.
Iniziò così un periodo di contenziosi e di guerre, inevitabilmente terminato con la vittoria delle preponderanti armi africane. L’ultimo baluardo, Mahddiyya, cadrà in gennaio 1160, concludendo il periodo del Mediterraneo normanno.

La perdita dei territori d’Africa accentuò lo scontento dei nobili, che attribuirono al detestato primo ministro Maione il mancato efficiente intervento nella zona, mentre questi asseriva che le scelte strategiche errate erano state imposto dal Re.
Le reazioni dei contestatori più accesi condussero ad aperti contrasti, alcuni feudatari calabresi ricorsero ad atteggiamenti di manifesta disobbedienza.
Nelle manovre delle parti fu coinvolto tale Matteo Bonello: un nobile originario di Caccamo, attivo nella politica governativa e per lungo tempo arbitro o semplice maneggione tra le opposte fazioni in lotta. Mentre i nobili ribelli si prodigavano per convincerlo a schierarsi contro Maione, questi, per tenerlo legato a sé, gli prometteva in moglie la propria figlia e gli conferiva il delicato incarico di sedare gli animi dei più facinorosi; il tutto con l’unica certa conseguenza di confondere ulteriormente la già ingarbugliata situazione.
Né sapremo forse mai quanto il Bonello sia stato uno scaltro doppiogiochista, piuttosto che un arrivista ingannato da personaggi più astuti di lui. Resta il fatto che l’ambiguo signore apparve ai contemporanei come l’astuto organizzatore di parecchie azioni difficilmente interpretabili.
Gli episodi criminosi si succedettero con impressionante rapidità. Ad aprire le ostilità fu proprio Matteo Bonello che il 10 novembre 1160, con altri congiurati, attirò in un agguato il Maione e lo uccise.
Re Guglielmo fu tentato di reagire al delitto con accanimento, ma alla fine fu convinto dai consiglieri più moderati a perdonare i congiurati. Alcuni di questi, fiduciosi, restarono nei loro possedimenti; altri uscirono dal regno, chi tenendosi prossimo ai confini, chi allontanandosi fino a Gerusalemme, rifugio in quel tempo di parecchi nobili avventurieri o disperati.
Nel frattempo i baroni organizzarono una congiura contro lo stesso Re, per costringerlo ad abdicare in favore del figlio. Mentre Matteo Bonello era assente da Palermo, nobili provocarono dei moti popolari; e il 9 marzo 1161, dopo aver catturato ed imprigionato Guglielmo nel suo palazzo, portarono l’infante Ruggero III per le vie della città in sella ad un cavallo, presentandolo come il nuovo Re.
Nella confusione generale che si era creata, ci fu chi approfittò per sfogare la propria intolleranza verso le comunità di cittadini musulmani e greci; i loro quartieri, negozi e fondachi furono distrutti, con ulteriore peggioramento del già precario ordine pubblico.
I rivoltosi non mancarono di saccheggiare il palazzo di Corte e i principali uffici dell’amministrazione regia; andarono bruciati molti documenti tra i quali i defectari feudalied i terrorum feudorumque distinctiones ritus et instituta Curiae, vale a dire l’intero catasto demaniale. Il popolo liberò il Re solo su intervento del clero, interessato a non destabilizzare ulteriormente l’area; ma durante le sommosse fu drammaticamente ucciso Ruggero, il piccolo erede al trono.
Reintegrato nella sua dignità, Re Guglielmo incaricò il Protonotario Matteo d’Ajello di compilare un nuovo registro dei feudatari del Regno e promise nuovamente clemenza a tutti i congiurati. Ma in seguito scatenò da par suo una micidiale vendetta. Il Bonello fu catturato con un agguato e rinchiuso nelle carceri, dove subirà la condanna riservata ai regicidi: sarà barbaramente ucciso, dopo essere stato accecato e sottoposto a tremende torture.
Successivamente, Guglielmo si dedicò a punire le comunità di terraferma che si erano sollevate contro di lui. Ridotte all’obbedienza le città e i feudatari ribelli della Calabria e della Puglia, arrivò in Campania; ma rinunciò ad attaccare Salerno a causa di una forte tempesta, e da qui fece ritorno in Sicilia.
Nell’ottobre 1163 Federico I il Barbarossa, trovandosi in Italia, ideò di rinvigorire e di utilizzare a proprio vantaggio la rivolta feudale scoppiata contro Guglielmo I. L’iniziativa non ebbe però seguito, perché i suoi consiglieri militari giudicarono troppo rischiosa l’invasione del Regno normanno.

Guglielmo I morì il 7 maggio del 1166 per complicazioni da dissenteria: un male diffuso nelle condizioni igieniche medievali, ma, soprattutto quando riguardava un illustre personaggio, un sintomo che lasciava sempre il dubbio di un avvelenamento. Le sue spoglie mortali riposano nel mausoleo all’interno del Duomo di Monreale.
Gli successe il figlio Guglielmo II che aveva solo dodici anni, incoronato con grande pompa nel duomo di Palermo. A causa della giovanissima età, la reggenza fu assunta dalla madre, Margherita di Navarra, la quale, preoccupata per gravità della situazione e per i complotti sempre più frequenti, chiamò in suo aiuto il cugino, Stefano di Rouen, conte di Perche. Questi fu nominato prima cancelliere poi arcivescovo di Palermo; ma ben presto, sentendosi circondato da una crescente corrente ostilità, si ritirerà in Terra Santa, un ambiente più confacente alle sue attitudini.

Duomo di Monreale, il sarcofago che conserva le spoglie mortali di Guglielmo I

Bibliografia:

• Errico Cuozzo, Quei maledetti Normanni, Cavalieri e organizzazione militare nel Mezzogiorno normanno, Napoli, 1989
• David Abulafia, Federico II. Un imperatore medievale, Enaudi, Torino, 1993.
• J. M. Martin, Errico Cuozzo, Federico II Le tre capitali del regno Palermo – Foggia – Napoli, Procaccini Editore, Napoli, 1995.
• Hubert Houben, Ruggero II di Sicilia, Un sovrano tra Oriente e Occidente, Editori Laterza, 1999.
• Hubert Houben, Normanni tra Nord e Sud. Immigrazione e acculturazione nel Medioevo, Di Renzo Editore, Roma 2003
• Errico Cuozzo; Federico II di Svevia e il regnum siciliae, lezioni; Gentile Editore Salerno.
• E. Cuozzo, Normanni e Svevi nel Mezzogiorno d’Italia.
• Matteo Camera; Memorie Storico-Diplomatiche dell’antica Città e Ducato di Amalfi; Centro di Cultura e Storia amalfitani
• Schola Salernitana, Studi e Testi; Romualdo II Guarna, Chronicon, a cura di Cinzia Sonetti; Avagliano editore.

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Ruggero II d’Altavilla re di Sicilia.

Ruggero, figlio secondogenito di Ruggero d’Altavilla e di Adelasia di Monferrato, nacque il 22 dicembre 1095 a Mileto, quando il padre aveva già 64 anni.

Alla morte del gran conte, nel giugno del 1101 a Mileto, la vedova si ritrovò con due figli in tenera età e con la necessità di provvedere alla reggenza del regno, cosa che fece con l’aiuto di accorti consiglieri.  

La morte del fratello primogenito Simone, avvenuta nel 1105, lasciò erede unico Ruggero che a 10 anni divenne conte di Sicilia.

Della fanciullezza di Ruggero sappiamo poco. L’abate Alessandro di Telese riferisce che sin da bambino mostrava un carattere rude ed autoritario e che spesso, nel gioco, sottometteva il fratello.

Ruggero crebbe nell’ambiente cosmopolita della corte di Palermo, come sarebbe avvenuto anche al futuro Federico II, educato da precettori greci e musulmani. Imparò a parlare correntemente il greco, l’arabo ed il latino, cosa che gli consentì, da adulto di trattare in prima persona con i principi stranieri. Uscito dalla minore età nel 1112, Ruggero assunse le redini del governo e ben presto si dimostrò uomo di eccezionale talento sia nell’amministrazione interna sia nel programma espansionistico.

Avviò un’energica politica di consolidamento della contea continuando l’unificazione dello stato avviata dal padre tendente a dare a tutti i sudditi del regno, qualunque fosse la loro origine etnica, un’eguaglianza di fronte alle leggi e di fronte allo Stato e contemporaneamente una politica di espansione nel Mezzogiorno della penisola, col disegno di unificare i domini normanni d’Italia.

Ruggero II in tenuta da guerra. L’immagine è tratta dal manoscritto Liber ad honorem August di Pietro da Eboli, del 1196.

Nel 1126, senza bisogno di ricorrere alle armi, successe al cugino Guglielmo, duca di Puglia, morto senza eredi. Sbarcato dalla Sicilia nella terraferma per prendere possesso dei suoi nuovi domini, Ruggero si impadronì facilmente di Salerno ed Amalfi e ricevette l’omaggio di molte altre città. Questa signoria grande e potente che si andava formando nell’Italia meridionale non poteva, naturalmente, esser vista di buon occhio da papa Onorio II. Pertanto il pontefice scomunicò Ruggero e tutti coloro che lo avessero aiutato nella conquista della Puglia.

Ruggero dapprima tentò di ingraziarsi papa Onorio inviandogli ambasciatori con ricchissimi doni e dichiarandosi pronto a considerarsi vassallo della Santa Sede, ma il pontefice rinnovò la scomunica e guadagnò alla sua causa Roberto principe di Capua e Rainulfo d’Alife. 

Ruggero allora, radunate le sue efficienti milizie, marciò verso la Puglia ma Taranto, Otranto, Brindisi, Castro ed altre città si arresero senza opporre resistenza, riconoscendolo loro duca.

Nulla potendo la scomunica, il pontefice tentò la via delle armi e venne ad affrontarlo sul Bradano, nella pianura di Vado Petroso.

Ma Ruggero non lo affrontò direttamente, temporeggiò, quasi come in un assedio, per stancarne l’esercito mercenario che, in effetti, dopo qualche tempo si disperse prima ancora di iniziare una sola battaglia; il pontefice fu costretto a rifugiarsi a Benevento e a venire a patti: assolse Ruggero dalla scomunica e lo riconobbe duca di Puglia (agosto del 1128). Ma i baroni pugliesi non erano d’accordo e, tornato Ruggero in Sicilia, insorsero, ma questi, riattraversato lo stretto, ben presto li soggiogò, e ormai padrone del ducato, convocò una Dieta a Melfi, “in cui sancì che nessun barone, qual ne fosse la ragione, movesse guerra all’altro, o si attentasse di proteggere ladri e malfattori di ogni maniera; che anzi qualora ne vivessero nei loro stati, dovevano consegnarli ai magistrati incaricati; che nessuno osasse appropriarsi dei beni degli arcivescovi, di vescovi e di qualunque chierico o monastero, o di molestare o far molestare gli operai, gli agricoltori, i pellegrini, i mercanti e qualsiasi altra persona”.

Per mantenere la pubblica tranquillità e la sicurezza, Ruggero quindi rafforzò la sua autorità esigendo l’obbedienza dei più potenti vassalli senza far loro alcuna concessione.

Conte di Sicilia e duca di Puglia, il principe normanno assumeva così la veste di signore dell’Italia meridionale, anche se non ancora interamente conquistata. Tra il 1128 e il 1129 egli riuscì ad affermare il suo potere anche su Napoli, Bari, Capua e molte altre località e a continuare l’opera unificatrice.

Pochi sovrani in Europa avrebbero potuto competere con lui. Nessun monarca occidentale lo superava in ricchezze e Palermo, antica capitale degli emiri, ricca di magnifici palazzi, fiorentissima per le arti e per i commerci, fu la degna sede di un tal principe, che aveva adottato la pompa e i costumi arabi.

Il suo palazzo era adorno di preziosissimi arredi, popolato di eunuchi e fanciulle e difeso da un fortissimo corpo di soldati saraceni. Il fasto di Palermo era pari a quello delle più sontuose corti orientali e al fasto corrispondeva la potenza, perché in quel tempo Ruggero, i cui stati si estendevano quasi fino a Roma e avevano i porti frequentati dai crociati di passaggio, pesava molto nella politica europea.

E mentre l’autorità degli altri principi era limitata dalla potenza dei loro vassalli, quella di Ruggero andava ben oltre: quando, dove e come avesse voluto, egli era in grado di radunare un formidabile esercito, che le fedelissime milizie musulmane rendevano ancor più forte e temuto.

Mantello di Ruggero II (più tardi mantello per l’incoronazione degli imperatori svevi). 
Due leoni dilaniano due cammelli. 
LEGGENDA ARABA SULL’ORLO: ‹‹Questa fu fatta nell’officina reale (tirāz) per la buona fortuna e l’onore supremo e la perfezione e la forza e il meglio e la capacità e la prosperità e la custodia e la difesa e la protezione e la buona fortuna e la salvezza e la vittoria e l’abilità.
Nella capitale della Sicilia nell’anno 528 (dell’Egira) (1133-1134)›› (traduzione da Johns, I Titoli Arabi. p. 40), conservato a Vienna, presso il museo Kaiserliche Schatzkammer.

Data la potenza cui era pervenuto, Ruggero vide la necessità di costituire lo Stato in un’unità che desse al sovrano maggiore autorità: nel 1129, convocato a Salerno un Parlamento al quale parteciparono non solo gli ecclesiastici e i baroni, ma anche i cittadini più importanti, propose, vista l’estensione e la ricchezza dello Stato, di mutarlo in Regno.

Ottenuto il voto del Parlamento, Ruggero fece ritorno in Sicilia, dove il voto di Salerno fu confermato da un’altra assemblea siciliana.

Ruggero inoltre seppe trarre profitto delle discordie nate in seno al papato in seguito alla morte di Onorio e culminate in uno scisma (contemporaneamente erano stati eletti Innocenzo II e l’antipapa Anacleto II): con un piccolo capolavoro politico, appoggiando Anacleto, riuscì a dare “giustificazione” divina alla corona di Sicilia, diritto immortalato in un mosaico nella chiesa della Martorana a Palermo, dove Ruggero, in abiti orientali, riceve la corona dalle mani di Cristo.  

Il mosaico della chiesa della Martorana in Palermo ove Ruggero II appare incoronato da Cristo.

Fu tale la pompa che, ad un cronista del tempo, parve che tutte le ricchezze e le magnificenze del mondo si fossero riunite a Palermo. Le sale della reggia erano ricoperte di preziose tappezzerie, i pavimenti di tappeti di squisita fattura. Il nuovo re uscì preceduto da tutti i baroni e cavalieri del regno che incedevano a coppie, montati su superbi cavalli dai finimenti d’oro e d’argento; seguivano il monarca i più autorevoli personaggi, anch’essi riccamente vestiti e su cavalli magnificamente bardati. Giunto al duomo, Ruggero fu consacrato dagli arcivescovi di Benevento, di Capua, di Salerno e di Palermo e ricevette la corona dalle mani del principe di Capua. Era il 25 dicembre 1130.

Alla cerimonia seguirono sontuosi banchetti in cui non fu usato altro vasellame che d’oro e d’argento; gli scalchi, i paggi, i donzelli e perfino i valletti che servivano le mense erano vestiti di tuniche di seta.

L’avvento al regno fu seguito da un decennio di guerre, nel quale Ruggero II ebbe contro di lui coalizzati il papa Innocenzo II, l’imperatore Lotario II di Supplimburgo, il basileus Giovanni II Comneno, le repubbliche marinare di Genova, Pisa, Venezia e, nel regno, città e baroni ribelli. Nonostante rischiosissime avventure, Ruggero II riuscì ad estendere i confini del regno fino al Tronto, e, morto l’antipapa Anacleto II (1138), dopo aver inflitto una grave sconfitta a Innocenzo II (San Germano, 1139), ottenne anche da questo il titolo regio. La pace col pontefice consentì al re di ristabilire la sua autorità all’interno e di riprendere, con la collaborazione di Giorgio d’Antiochia e di altri valorosi ammiragli, l’espansione oltre mare, dalla Sicilia alla costa tunisina e dalla Puglia alla Grecia (con un attacco alla stessa Costantinopoli nel 1149). E fu proprio durante un viaggio di ritorno in Sicilia via mare, che il re s’imbatté in una violentissima tempesta. Per due giorni temettero di naufragare, poi in vista della rocca di Cefalù le acque, come per incanto, si calmarono. Ruggero lo interpretò come un segno della benevolenza divina e per questo fece innalzare sulla rocca quello che ancor oggi viene considerata una delle più belle cattedrali del mondo: il duomo di Cefalù.

Caratteristica del regno siciliano fu l’esistenza di un’amministrazione centrale assai complessa, lascito delle dominazioni bizantina e araba: il re era assistito da sei ufficiali (i più importanti dei quali erano l’“ammiraglio”, carica di origine araba, capo delle forze armate ed il protonotario, capo della cancelleria) e da magistrati sparsi nelle province (iusticiarii e connestabuli). Esistevano un’amministrazione finanziaria (dohana) e una forma di autogoverno concessa alla comunità araba di Palermo, retta da un qadì. Speciali prerogative, in materia di organizzazione ecclesiastica, grazie all’apostolica legatia concessa da papa Urbano II al gran conte Ruggero in cambio d’appoggio militare, vennero riconosciute ai sovrani normanni, nominati legati papali, ossia diretti rappresentanti della Santa Sede. Pur essendo gli obiettivi principali imposti dai pontefici lo sradicamento dell’islamismo e la lotta contro l’influenza del Cristianesimo greco-bizantino, Ruggero II si guardò bene dall’interessarsi di crociate, problema che coinvolgeva il resto dell’Europa, e fu molto tollerante riguardo alle profonde differenze etniche e religiose esistenti tra i suoi sudditi, anzi incoraggiandone le attività artistiche e culturali.

Alla corte di Ruggero perdurò la cultura araba; egli accolse molti dotti, preferendo alla compagnia e alla conversazione dei monaci cristiani quella dei dotti arabi. Tra questi, ricordiamo il geografo al-Idrisi che per incarico del sovrano scrisse “Il sollazzo per chi si diletta di girare il mondo” più nota come Kitab-Rugiar, ossia Il libro di Ruggero, che costituisce una delle più importanti opere di geografia di tutto il medioevo. Al libro si accompagnava un grande planisfero d’argento, purtroppo andato distrutto (o, meglio, predato e fuso).

Ruggero II morì il 26 febbraio del 1154 a Palermo, dopo 24 anni di regno e dopo aver sottomesso buona parte delle terre che si affacciano nel Mediterraneo.

Sarcofago di Ruggero II – Cattedrale di Palermo

Due mesi dopo la sua morte nacque la figlia Costanza, che alcuni anni più tardi avrebbe partorito, in una pubblica piazza, lo Stupor mundi.

I Matrimoni e Figli

Ruggero sposò prima del 1118 Elvira di Castiglia (circa 1100 – 1135), dalla quale ebbe:

            • Ruggero, (1118 – 1148) duca di Puglia, che da una relazione con Bianca di Lecce ebbe Tancredi pretendente al regno di Sicilia;

            • Tancredi, (ca. 1120 – 1138) principe di Bari;

            • Alfonso (ca. 1120 – 1144), principe di Capua e duca di Napoli;

            • Guglielmo, (ca. 1120 o 1121 – 1166), duca di Puglia e poi Re di Sicilia (1154-1166), detto Guglielmo il Malo;

            • Adelasia (ca. 1126 – dopo il 1184), contessa di Firenze di diritto, che sposò Jozzelino, conte di Loreto e, in seconde nozze, Roberto, conte di Loritello e Conversano;

            • Enrico (ca. 1130 – prima del 1145), principe di Taranto.

Dopo la morta Elvira di Castiglia, nel 1149, dopo ben quattordici anni di vedovanza (con la preoccupazione della successione dinastica dopo la morte in successione dei suoi primi tre figli maschi), si unì in matrimonio con Sibilla di Borgogna (1126 – 1150) dalla quale ebbe:

            • Enrico (29 agosto 1149 – morto bambino);

            • un figlio (16 settembre 1150) nato morto, dopo poco muore anche Sibilla per complicazioni post parto.

Ruggero II e Sibilla di Borgogna. L’immagine è tratta dal manoscritto Liber ad honorem August di Pietro da Eboli, del 1196.

Quindi nel 1151 si affrettò a sposare Beatrice di Rethel (1135 – 1185) dalla quale nacque postuma la sola:

            • Costanza (1154 – 1198), imperatrice e regina di Sicilia, sposa di Enrico VI di Germania (1165-1197) e madre di Federico II di Svevia.

Re Ruggero II con Beatrice di Rethel, terza e ultima moglie. L’immagine è tratta dal manoscritto Liber ad honorem August di Pietro da Eboli, del 1196.

Bibliografia:

  • AA VV Storia della Sicilia. Società editrice Storia di Napoli e della Sicilia Santi Correnti Storia della Sicilia, Periodici locali Newton.
  • Giuseppe Quatriglio, Mille anni in Sicilia, Marsilio.
  • Denis Mack Smith Storia della Sicilia Medievale e moderna, Laterza. 
  • John Julius Norwich, I Normanni nel Sud 1016-1130. Mursia: Milano 1971 (ed. orig. The Normans in the South 1016-1130: Londra, Longman, 1967).
  • John Julius Norwich, Il Regno del Sole 1130-1194, Milano, Mursia, 1971 (ed. orig. The Kingdom in the Sun 1130-1194, Londra, Longman, 1970).
  • Hubert Houben, Ruggero II di Sicilia, Un sovrano tra Oriente e Occidente, Editori Laterza, 1999

 

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Ruggero I d’Altavilla

I Normanni, popolazione nota nell’alto Medioevo con il nome di Vichinghi, erano agguerrite bande di avventurieri che dalla terra di Scandinavia si diffusero, con una diaspora impressionante, in tutta Europa. Uno di questi avventurieri, Rollone, si insediò in Normandia fin dall’896, e divenne, per meriti di guerra, vassallo del re di Francia, ottenendo, nel 911, il riconoscimento dei suoi possedimenti.

È da questo ducato che, ormai cristiani, latinizzati nella lingua e in parte nel costume, i normanni muovono per le più importanti imprese. È da qui che Guglielmo “il Bastardo”, conosciuto poi come “il Conquistatore”, approda in Inghilterra, mentre altri gruppi di mercenari – per lo più figli cadetti dell’aristocrazia feudale in cerca di fortuna – penetrarono nell’Italia meridionale all’inizio dell’XI secolo. Scesi come mercenari, i normanni, ben presto riuscirono ad inserirsi nelle contese che opponevano i pontefici romani, i duchi longobardi di Benevento e di Salerno, gli arabi di Sicilia, i bizantini di Puglia e di Calabria. Protagonisti delle più importanti imprese furono i Drengot, dei quali Rainulfo divenne conte di Aversa, ma soprattutto i membri della famiglia di Tancredi di Altavilla (Hauteville).  Sbarcati nel 1030, iniziarono al servizio di Rainulfo la loro straordinaria carriera, destinata a concludersi con la conquista di tutta l’Italia meridionale e della Sicilia e con la costituzione di un regno che divenne il più potente ed importante dell’epoca.

È bene ricordare i protagonisti più famosi dell’impresa: Guglielmo Braccio di Ferro, che divenne conte di Puglia, Roberto il Guiscardo, duca di Puglia e Calabria, Ruggero il Bosso, conte di Calabria e Sicilia, e Ruggero II, primo re di Sicilia. 

Ruggero “il Bosso”, ultimogenito di Tancredi giunto in Italia nel 1055, inizia la sua carriera in sordina, all’ombra del fratello Roberto. Insieme si lanciano alla conquista dei principati longobardi di Benevento, Capua e Salerno, dei ducati, nominalmente ancora bizantini, di Napoli, Sorrento, Amalfi e Gaeta, del Catapanato di Puglia e di Calabria e dell’emirato arabo di Sicilia. Le conquiste degli Altavilla turbano non poco il Papa ma la loro ascesa è incontenibile anche a causa dell’appoggio dei principi locali che, ciecamente, continuano a considerarli dei semplici soldati di ventura. 

I rapporti tra i pontefici romani e gli Altavilla non saranno mai tranquilli, ma in virtù della loro supremazia militare (il Guiscardo era persino riuscito a catturare papa Leone IX ed a tenerlo prigioniero per nove mesi, nel 1053) con l’accordo di Melfi (1059) gli Altavilla ottengono il “privilegio” di considerarsi vassalli del pontefice, guadagnandosi il riconoscimento dei diritti feudali sull’Italia meridionale e sulla Sicilia, ancora da conquistare.   

Roberto viene riconosciuto duca di Puglia e di Calabria e Ruggero, come suo vassallo, ottiene il castello di Mileto, in Calabria, dove stabilisce la sua residenza e si circonda di una corte del Gran Contado sul modello bizantino. Ruggero farà di Mileto la sua capitale ed è in questa corte che egli esplica un’attività di potenziamento della propria strategia militare e politica e tesse una fitta trama di rapporti internazionali con capi di stato e pontefici. 

Trifollaro (Ruggero I gran conte, coniata a Mileto)
Dritto
ROQ E RIVS COME +S; Ruggero a cavallo a sx.
Verso
MARIA MATER DNI; La Madonna con in braccio il Bambino.

A Mileto nel Natale del 1061, si celebrano le nozze con la normanna Giuditta d’Evreux, si celebreranno le seconde nozze con la longobarda Eremburga e, infine, nel 1089 le terze nozze con Adelasia del Vasto, della famiglia degli Alemarici, marchesi del Monferrato.

Roberto il Guiscardo e Ruggero I

Affermata la loro supremazia nel meridione d’Italia, i fratelli Altavilla sbarcano in Sicilia chiamati dall’emiro di Catania, impegnato in una sanguinosa guerra con il califfo di Girgenti. L’aiuto all’emiro di Catania è solo un pretesto per iniziare la conquista della Sicilia ed essere nel contempo, considerati i “liberatori” delle residue popolazioni cristiane ancora presenti nell’isola dopo due secoli e mezzo di dominio musulmano. Nel febbraio del 1061 Ruggero organizza uno sbarco a Messina con poco più di un migliaio di soldati. Messina cade senza opporre resistenza per cui i Normanni arrivano facilmente fino a Castrogiovanni e Girgenti. Questo è solo l’inizio, perché la spedizione vera e propria viene organizzata nella primavera del 1062, quando Ruggero, con truppe fresche torna in Sicilia con l’intento di occupare l’intera isola. Gli anni della conquista sono duri. Un feroce scontro avviene a Cerami, a ovest di Troina. 

Il Malaterra riporta che le forze normanne erano esigue. Né il papato, né Pisa, né Genova, che tanto vantaggio trarranno dalle conquiste normanne, forniscono aiuti.  Ma Ruggero riesce egualmente a mettere in fuga i nemici. I normanni controllano ormai una vasta zona, da Messina a Troina, dove Ruggero pone la sua capitale isolana (1062). Con una serie di faticose battaglie che vedono cadere una ad una le più importanti città, nonostante i rinforzi arabi arrivati dall’Africa, nell’agosto del 1071 giunge alle porte di Palermo.

L’assedio dura fino al gennaio del 1072, quando Ruggero con l’aiuto del Guiscardo riesce a penetrare nella città fortificata e la capitale cade. Una messa solenne viene celebrata nell’antico Duomo, che per 240 anni era stato una moschea. A poco a poco cadono anche Castrogiovanni, Butera ed infine, nel 1091, Noto. Occorreranno trenta anni a Ruggero per conquistare l’intera Sicilia e le isole di Malta e Pantelleria, il cui possesso renderà sicuri i traffici nel canale di Sicilia e consentirà di avviare scambi commerciali con i paesi che si affacciano sul Mediterraneo. 

La consegna di Palermo da parte dei musulmani è un dipinto a fresco di Giuseppe Patania, datato 1830. Si trova nella volta della Sala Gialla del Palazzo dei Normanni (o Palazzo Reale) di Palermo.

Ruggero, inoltre, approfittando della lotta per le investiture tra il papato e l’impero germanico concede alcuni favori al papato, appoggiando papa Urbano II contro l’impero, ma pur mostrandosi generoso con le diocesi che egli stesso fondò e fece aderire a Roma non restituirà mai l’ingente patrimonio siciliano confiscato da Bisanzio.  Urbano II scende personalmente in Sicilia, a Troina, per ratificare il suo operato, ma quando, più tardi,  si permetterà di nominare il vescovo di Troina suo legato, Ruggero, imprigionerà il vescovo, farà annullare al papa la sua nomina ed infine, nel 1098, con la scusa di aver liberato dall’Islam la Sicilia, otterrà il titolo di Gran Conte di Sicilia e di Calabria e  la prerogativa di “legato apostolico” (l’apostolica legatia), che riconosce al Gran Conte e a tutti i suoi successori  giurisdizione su tutte le faccende ecclesiastiche purché non si infranga il dogma di fede o la salute dell’anima e per la quale tutti i vescovi siciliani (tranne quello di Lipari, la cui diocesi è successiva) erano direttamente nominati dal Re di Sicilia. Per la gestione di tale privilegio viene creato un apposito istituto giuridico, il tribunale della monarchia, dove con il termine “monarchia” si intende unità di comando amministrativo ed ecclesiastico. 

Con Ruggero, mentre la maggior parte dell’Europa è ancora feudale, si gettano, nel meridione d’Italia le basi di uno stato moderno. Il re non governa più tramite i suoi potenti feudatari, ma tramite i suoi funzionari (burocrati dello stato e non potenti signorotti). Diversamente dal resto d’Europa che diventa sempre più intollerante, egli è tollerante con i costumi e le tradizioni greche, latine ed arabe che in questo periodo coesistono nel meridione, lasciando le proprietà e la libertà di culto.

Non di bontà d’animo si tratta: quel rozzo guerriero ha capito che è più conveniente sfruttare i collaudati sistemi bizantini e musulmani piuttosto che imporre un sistema feudale di tipo europeo e per questo ha bisogno di funzionari che certamente non può trovare tra le sue truppe. Egli riesce a fondere i rapporti aristocratici feudali con il concetto orientale secondo il quale un capo non è “primo tra eguali”, ma è sovrano, quasi “divino”. 

Per non indebolire il suo potere tiene per sé la maggior parte dei territori e quando concede terre ad altri si riserva l’uso delle miniere, delle saline e delle foreste, revocando le terre in mancanza di eredi e in caso di infedeltà. Se da un lato rispetta le lingue e le religioni dei greci e degli arabi, di cui si serve per l’organizzazione dello stato, dall’altro si dedica alla ricristianizzazione e rilatinizzazione delle diocesi della Calabria, della Puglia, della Basilicata, già soggette al patriarcato di Costantinopoli, e della Sicilia, che per oltre 200 anni è stata musulmana, attraverso l’istituzione di numerosi monasteri latini, primo tra tutti la Santissima Trinità di Mileto. Fa costruire cattedrali come quella di Troina, prima capitale Normanna, e di Catania, istituisce nuove diocesi (grazie al legato apostolico di cui gode), e favorisce l’immigrazione di francesi, inglesi e lombardi, per ripopolare le sue terre in seguito alle guerre, alle carestie e all’espatrio dei musulmani. Con Ruggero d’Altavilla la Sicilia ritorna a far parte del mondo occidentale ma contemporaneamente non taglia i legami con l’oriente, mantenendo il Gran Conte armate musulmane e rapporti di amicizia e di commercio con tutto il bacino del mediterraneo. A tal proposito secondo un’ipotesi suggerita dallo storico musulmano Ibn al-Athìr (XII-XIII secolo) la conquista della Palestina è dovuta essenzialmente a una questione di equilibri geopolitici e di interessi economici tra sovrani e feudatari franco-normanni e potentati arabi. Essa sarebbe suggerita proprio dal Gran Conte Ruggero ai Franchi per distoglierli dalla conquista dell’Africa mediterranea, che interromperebbe o renderebbe più difficili i suoi traffici con le regioni musulmane dell’Africa. Narra infatti Ibn al-Athìr che giunse a Ruggero un’ambasciata da parte dei Franchi che chiedevano un’alleanza militare e un appoggio logistico in Sicilia per la conquista dell’Africa. Ruggero radunati i suoi consiglieri, favorevoli al disegno, manifesterebbe, invece, in maniera plateale e … rumorosa la sua disapprovazione, scoreggiando sonoramente (“levata una gamba fece una gran pernacchia dicendo: “Affé mia, questa vale più di codesto vostro discorso””), spiegando che egli non guadagnerà nulla dall’impresa, qualunque sia l’esito: “se conquistano il paese quello sarà loro e l’approvvigionamento dovranno averlo dalla Sicilia, venendo io a perderci il denaro che frutta qui ogni anno il prezzo del raccolto; e se invece non riescono, faranno ritorno qui al mio paese e mi daranno degli imbarazzi, e Tamim [l’emiro di Tunisi] dirà che l’ho tradito e ho violato il patto con lui, e si interromperanno i rapporti e le comunicazioni fra noi”. Per cui Ruggero risponde no all’alleanza, ma suggerisce un’alternativa: “Se avete deciso di far la guerra ai Musulmani, la cosa migliore è di conquistare Gerusalemme, che libererete dalle loro mani e di cui avrete il vanto”.

Ritratto di Ruggero I, collocato nella Cattedrale di Troina

Muore a Mileto il 22 giugno del 1101, all’età di settanta anni. Fu un capo ricco e potente ma al suo stato mancava ancora il senso della stabilità; egli era un nomade, come i suoi antenati vichinghi (e, purtroppo, come i suoi successori) e passò la sua vita viaggiando con la sua corte, la sua amministrazione ed il suo tesoro.  Rimase reggente la sua terza moglie, la gran contessa Adelasia, dalla quale aveva avuto due figli: Simone e Ruggero. Simone, il primogenito morì fanciullo, lasciando erede il piccolo Ruggero che a 10 anni divenne Gran Conte di Sicilia e che sarebbe divenuto il primo re di Sicilia. La figura e la personalità di Ruggero I, che insieme al fratello Roberto il Guiscardo aveva realizzato la conquista normanna nel Mezzogiorno d’Italia, rimane un punto di riferimento essenziale nella storia del medioevo europeo. Il rude guerriero protagonista di aspre e dure battaglie si era rivelato un saggio uomo di stato tanto da essere considerato il monarca più autorevole dell’Italia continentale.  

Bibliografia

  • Amari, Storia dei musulmani di Sicilia, Firenze 1854
  • Di Blasi, Storia di Sicilia, Palermo, 1864
  • D. Mack Smith Storia della Sicilia medievale e moderna, Laterza, Bari
  • L.  Natoli, Storia di Sicilia, Flaccovio Editore Palermo, 1979
  • J. J. Norwich, I normanni del Sud, Milano 1972
  • Peri, La Sicilia Normanna, Vicenza, 1962
  • G. Quatriglio, Mille anni in Sicilia, Marsilio, 1996
  • S. Tramontana, I normanni in Italia, Messina, 1970
  • Normanni tra nord e sud. Hubert Huben, Di Rienzo Editore
I 
  • Normanni del Sud 1016-1030. John Julius Norwich; Sellerio Editore


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Roberto il Guiscardo

Roberto il Guiscardo nacque molto verosimilmente nel 1015 ad Hauteville-la-Guichard, non è possibile parale di Roberto d’Altavilla senza un preambolo che spieghi l’arrivo dei normanni nel Sud dell’Italia.
 
I primi Normanni comparvero per la prima volta in Italia nel 1015, come soldati al servizio di Melo da Bari, duca di Puglia. Sembra che Melo li avesse incontrati presso il santuario dell’Arcangelo Michele sul Gargano. Melo era un nobile longobardo che veniva da Bari, costretto all’esilio avendo capeggiato un’insurrezione poi fallita contro i Bizantini che dominavano l’Italia meridionale (vedi nota). Il nobile longobardo li incoraggiò per combattere le truppe dell’impero bizantino promettendo ricchi compensi.
Nel 1016, un gruppo di pellegrini in viaggio per la Terrasanta, fece tappa a Salerno ed il principe Guaimario chiese loro aiuto contro i Saraceni che affliggevano la città. Erano solo in 40 e il principe di Salerno Guaimario III li avrebbe salutati vittoriosi: “Miles quadraginta … salve!”. Questi fatti sono stati ampiamente descritti anche dal monaco Amato di Montecassino.
Trovandosi il sud dell’Italia al centro di interessi di tre grandi aree geopolitiche, quella latino-occidentale, quella bizantina e quella arabo-islamica diventava per i guerrieri normanni una zona di grande interesse strategico militare. Inoltre va ricordato che alla fine del primo millennio la Sicilia era passata in gran parte sotto il dominio dei mussulmani.
Ai normanni, in cerca di avventure e ricchezze, quest’area intorno al mediterraneo offriva molte possibilità di crescita. Il meridione d’Italia era una terra ricca e fertile, con un clima mite, prospere città e monasteri. Inoltre era una zona in cui mancava un forte potere politico centrale.
Dalla Normandia giunsero nel sud Italia gli eredi della piccola e media nobiltà che in Francia non trovavano buone prospettive per il loro futuro.
Inizialmente i normanni furono dei veri e propri mercenari al servizio di vari potentati del sud.
Ma nel 1030 ci fu un consistente arrivo di Normanni in Campania capeggiati da Rainulfo Drengot e si stabilirono ad Aversa. Furono chiamati dal Duca di Napoli Sergio IV, nell’intento di contenere le mire del longobardo Pandolfo IV di Capua.
Rainulfo di Drengot, in cambio dell’aiuto dato, ebbe in premio Aversa, e sposò poi la sorella del duca Sergio. Nel 1038 la sua investitura fu riconosciuta ufficialmente dall’imperatore Corrado II, grazie anche all’intercessione del principe di Salerno Guaimario IV. Da qui comincia una dinastia di normanni “campani”: la contea di Aversa, più le conquiste successive, furono divise in sette feudi tra quelli che furono i successori di Rainulfo. In questo modo Rainulfo si trasformò da mercenario in signore, era ormai un conte titolare di un territorio con annesse giurisdizioni.
I sei fratelli Drengot venivano dal villaggio francese di Quarrel; il maggiore, Giselberto, era ricercato, per ordine di Rolf, conte di Normandia, per omicidio.

Effige di Rainulfo sulle mura normanne di Aversa.

Verso il 1030 erano scesi in Italia dalla penisola del Cotentin anche i cinque figli di Tancredi di Hauteville: Guglielmo Braccio di Ferro, Drogone e Umfredo (avuti dalla prima moglie, la normanna Muriella), e Roberto e Ruggero figli della seconda moglie, la nobildonna Fresinda.
Guglielmo divenne signore di alcune zone del Cilento (a quei tempi i confini tra Calabria, Basilicata e Campania non erano quelli odierni, e forse neppure ben definiti, per cui alcuni testi riportano, in luogo del Cilento, la Calabria o Basilicata occidentale). Drogone era a capo dei Normanni di Puglia ed aveva sposato una figlia del principe di Salerno Guaimario IV (per qualcuno V), morì il 10 agosto del 1051 a seguito di un attentato. Meno di un anno dopo, a seguito di una congiura, muore anche il suocero Guaimario e con lui finiva lo splendido periodo del principato di Salerno. Umfredo, che aveva preso il posto di Drogone, accorse a Salerno per scacciare, con l’intervento di Guido di Conza, l’usurpatore al trono di Salerno, Pandolfo, e per permettere al figlio di Guaimario, Gisulfo II, di succedere al padre.
Roberto si era attestato in Sila con un gruppo uomini a lui fedeli. Era lì che Drogone lo aveva mandato, forse anche per non averlo troppo vicino. Roberto sapeva che per poter aspirare a qualche possedimento doveva dar prova di forza, valore e decisione, in pratica doveva dimostrarsi degno della ormai leggendaria ferocia normanna. E Roberto se ne dimostrò subito all’altezza. In Calabria, assieme probabilmente a gruppi di autoctoni, compiva scorrerie, ruberie, stragi. Con uno stratagemma riuscì a sequestrare un nobile di Cosenza e a farsi corrispondere un notevole riscatto. Pare che proprio questo episodio gli abbia fatto guadagnare il soprannome di Guiscardo, cioè l’astuto. Gerardo di Buonalbergo, nobile di origine francese, fornì a Roberto 200 soldati per conquistare la Calabria e, per meglio stringere i rapporti con l’ambizioso giovane normanno, gli diede in moglie una sua zia: Alberada di Buonalbergo da cui nacque Marco Boemondo, il primo figlio maschio del Guiscardo.
Tra i Normanni vi erano discordie e attriti, ma sapevano riconciliarsi facevano fronte comune contro minacce esterne. E così fecero quando Papa Leone IX, originario dell’Alsazia, con l’aiuto del catapano Argiro e dell’imperatore Enrico III, organizzò, nel giugno 1053, una reazione all’invadenza normanna.
A Roberto toccò il compito di affrontare i mercenari svevi inviati dall’Imperatore. I cavalieri tedeschi erano convinti avrebbero avuto la meglio sui Normanni e i loro alleati (uomini del posto, soldati latini, slavi, lucani e saraceni) invece Roberto ebbe la meglio sui i tedeschi.

papa Leone IX


La battaglia di Civitate si concluse con la prigionia del papa Leone IX, che fu però rilasciato con la promessa che avrebbe legittimato le loro conquiste. Per questa operazione in Puglia i Normanni avevano chiesto aiuti a Gisulfo II, ma questi, che aveva tenuto sempre in odio i Normanni, ritenendoli causa dell’indebolimento del potere longobardo e, preoccupato, ne vedeva avanzare il potere, si era rifiutato e si era tenuto sempre fedele al Papa.

Roberto il Guiscardo ed il fratello Ruggero I il gran conte.

Dopo Civitate Roberto si diede alla conquista della Calabria e, nel 1057, alla morte di Umfredo, si pose anche alla guida di quel feudo ereditato dal giovane e ancora troppo debole Abagelardo.
Intanto Ruggero, che prima era al seguito di Roberto, veniva alla ribalta ormai più forte e indipendente e così il fratello maggiore lo allontanò. Non mancarono le invidie tra i due fratelli che spesso si fecero vere e proprie guerre, ma guai se terzi prendevano iniziative contro uno di loro.
Conquistata la Calabria i due fratelli Altavilla fanno una puntata in Sicilia, dove Roberto lascia il fratello minore per correre in Puglia a fronteggiare un’invasione bizantina.
Dopo le conquiste dei Normanni, il principato di Salerno aveva perso molti domini e potere. Il Guiscardo mirava ormai ad Amalfi e Salerno. Sichelgaita, figlia di Guaimario IV, intuì che l’unica speranza di salvezza era in un’alleanza con i normanni, da concretizzarsi mediante le sue nozze con Roberto, ma il fratello Gisulfo si opponeva ad ogni apertura verso coloro che vedeva come predoni ed invasori.
Il Guiscardo intuì che il matrimonio con Alberada di Buonalbergo non era valido perché celebrato ignorando il divieto canonico di nozze tra consanguinei, per tanto ne chiese l’annullamento. Così ebbe via libera per sposare Sichelgaita. Gisulfo dovette cedere e divenne alleato dei normanni.
E fu così che a Melfi nel 1058 si celebrarono le nozze tra il rude, possente, prode e affascinante guerriero e la raffinata principessa longobarda molto più giovane di lui.
La storiografa e principessa bizantina Anna Comnena descrive Roberto: ”maestoso di volto, di statura alta, largo di spalle, perfetto di forme, di chioma e barba fulve, d’occhi vivaci e penetranti: pronto e scaltro d’ingegno, ambizioso oltre misura, maturo nei consigli, provvido nelle imprese, ardimentoso ed esperto nelle cose di guerra, rigoroso e prudente nel governo civile”. Oltre al fatto che avesse un tono di voce simile al tuono dice anche che firmasse con un segno di croce. 
Va detto anche che Roberto parlava anche il greco e forse il segno di croce era solo un simbolo che usava per sigillare i patti.  Pare tenesse molto in conto i consigli della colta moglie longobarda. Era lei che curava i rapporti con la Chiesa ed era in relazione di grande amicizia con il vescovo di Salerno, Alfano, suo parente, e con gli abati di Cava, di Montecassino e con Ildebrando di Soana, poi Gregorio VII, antichi compagni di cenobio di Alfano.
Nel 1059 papa Nicolò II durante il sinodo di Melfi riconobbe come suoi fedeli vassalli Riccardo Drengot di Capua e Aversa come principe di Capua e Roberto il Guiscardo Duca di Puglia e Calabria, ed in futuro, con l’aiuto di Dio e di San Pietro, della Sicilia. Così il Guiscardo divenè il difensore della cristianità con un rapporto di vassallaggio fra il Papa e i normanni. Egli accettò anche di versare un tributo annuo alla Santa Sede, in modo da mantenere titoli e terre e garantirsi la piena legittimità sulle future conquiste.
La capitale del ducato era Melfi, mentre Ruggero, conte di Calabria, aveva posto la capitale del suo feudo a Mileto.
Nella questione tra papato e l’imperatore Enrico IV, Roberto si schierò con il Papa pur essendo in precedenza venuto in contrasto con la Santa Sede per avere egli occupato i territori di Benevento. Nel frattempo aveva affidato a Ruggero il compito di portare a termine le conquiste in Sicilia.
Intanto, il fratellastro Guglielmo con le sue invasioni si era spinto in territori alle porte di Salerno. Questo preoccupava Gisulfo, ma anche il Guiscardo che aveva dato alla moglie il compito di mediare. Ma Guglielmo non intendeva ragione e non aveva voluto dare ascolto al Papa che il 1° agosto 1067 aveva indetto un concilio proprio a Melfi nella speranza di risolvere la questione normanna. Guglielmo fu scomunicato. Ma gli fu concesso partecipare alle Assise che papa Alessandro II poco dopo tenne a Salerno e a cui era accorso anche il Guiscardo. Nel frattempo Guglielmo modificò il suo atteggiamento e ottenne il perdono.
Roberto era consapevole del fatto che se non avesse definitivamente liberato il sud d’Italia dai Bizantini non avrebbe potuto concludere la conquista del mezzogiorno e della Sicilia. Per questo da più di tre anni aveva messo sotto assedio per mare e per terra Bari, la città rimasta fedele a Bisanzio. La città pugliese difesa da Avartutele resisteva ed era allo stremo. I normanni avevano sempre vinto, i Baresi chiesero rinforzi ma l’imperatore Romano IV Diogene non aveva risorse sufficienti per sostenerli. Aveva mandato una flotta di 20 navi agli ordini di Gozzelino, un ribelle normanno che si era rifugiato a Costantinopoli, ma furono intercettate nel febbraio 1071. Si era giunti all’epilogo, il catapano Stefano Paterano si rese conto che Bari non poteva più resistere, inviò a trattare con i normanni Argirizzo Joannacci, che ottenne condizioni buone, quindi il 15 aprile 1071 la città fu consegnata ai normanni. I Greci furono definitivamente cacciati dal sud Italia e il Guiscardo poté così rivolgere la propria attenzione ai grandi principati indipendenti di origine longobarda che ancora governavano vaste aree del meridione.

Papa Niccolò II, durante il primo Sinodo di Melfi, nomina Roberto il Guiscardo, Duca di Puglia e Calabria – da “La Nuova Cronica” di Giovanni Villani.

Nel 1072 Roberto accorse in aiuto a Ruggero e insieme riuscirono ad espugnare Palermo. Probabilmente lo raggiunse anche Sichelgaita e il 10 gennaio 1072 Roberto, Sichelgaita, Ruggero, seguiti dagli altri normanni e longobardi impegnati in quella spedizione, entrarono trionfalmente nella basilica di Santa Maria che i musulmani secoli prima avevano trasformato in moschea.
Roberto era ora effettivamente anche Duca di Sicilia, non ancora tutta conquistata. In seguito il fratello, a sorpresa, si fece nominare dal Papa Gran Conte di Sicilia, diretto feudatario del Papa.
Roberto aveva ormai circa 57 anni e si presentava il problema della successione al Ducato: il primogenito era Boemondo, valoroso ed instancabile guerriero, simile al padre e figlio di una normanna; la seconda moglie di Roberto voleva a tutti i costi la designazione al trono del suo primogenito Ruggero detto Borsa, anche perché ciò avrebbe accontentato quei nobili ancora legati ai longobardi. Ma Sichelgaita non riuscì nel suo intento per volere di Roberto.
Nel 1074 il Guiscardo stipulò un’alleanza col Basileus di Bisanzio, rafforzandolo con un patto matrimoniale tra la sua giovanissima figlia Olimpia, ed il successore, ancora bambino, al trono di Bisanzio. Ed è in quel periodo che l’erede al trono del ducato di Puglia, Calabria e Sicilia risulta essere stato designato Ruggero Borsa: il padre aveva dovuto conferire la dignità di “curopalata” ad uno dei suoi figli e questi risultava essere Ruggero; e nell’Exultet della Cattedrale di Bari, dopo i nomi di Michele VII, del suo erede, il figlio Costantino, e della sua fidanzata Olimpia, erano subito nominati Roberto, Sichelgaita e Ruggero Borsa. Ma nel 1078 la destituzione di Michele sconvolse l’alleanza e Roberto attese il momento propizio per una vendetta.
Nel 1074 il Papa scomunicava Roberto per aver invaso i possedimenti della Chiesa in quel di Benevento e riconfermò la scomunica nel 1075. 
Ma Roberto non era ancora contento delle sue conquiste, o forse si sarebbe accontentato di avere il principe di Salerno come alleato se Gisulfo non si fosse impegnato alla ricerca di alleanze e accordi contro il cognato. Fu così che i timori del principe divennero realtà: nei primi di maggio del 1076 il normanno iniziò l’assedio a Salerno che fu lungo e penoso. Nonostante la popolazione fosse allo stremo, il principe non voleva cedere all’evidenza. Nel 1077 consegnò la città agli invasori rifugiandosi prima a Nocera e poi a Roma dove il Papa accolse paternamente lui e la sua famiglia affidandogli incarichi di ambasciatore della Santa Sede. Infatti Gisulfo tornerà a Salerno in tale veste a seguito di Gregorio VII.  
Poco tempo prima della conquista di Salerno, Amalfi, temendo le continue mire di Gisulfo, si era assoggettata al normanno Roberto.
A Salerno nel 1070 i Duchi fecero erigere una nuova cattedrale ed una nuova reggia, più a oriente rispetto all’antico insediamento longobardo. Diedero nuovo vigore alle attività della città ed in particolare alla Scuola Medica, accogliendo il medico Costantino l’Africano, che in seguito Roberto elevò a proprio segretario. Il Guiscardo fece costruire anche altri monumenti nel suo ducato: la cattedrale di Aversa, di Melfi, di Foggia e la chiesa della SS. Trinità a Venosa.
Verso il 1078 Giordano e Gaitelgrima riuscirono a far insorgere alcuni feudatari di Puglia impegnando così il Guiscardo, Boemondo e Sichelgaita alla quale il marito, dovendosi spostare a Castellaneta, affidò il controllo militare di Trani.
Nel 1080, con la pace di Ceprano, al Normanno furono riconosciuti dal Papa Gregorio VII i suoi possedimenti nell’Italia meridionale, tranne quelli di Amalfi, Salerno, e della Marca Fermana. Motivo per cui, a differenza dei principi Longobardi, i Normanni non furono mai chiamati principi di Salerno. <>. Roberto giurò formalmente obbedienza alle richieste del Pontefice. 
Roberto non aveva dimenticato l’affronto subito dai bizantini e con questa scusa organizzò una spedizione nei Balcani a bordo di una notevole flotta. Per la verità per giustificare la spedizione pare si servisse di un altro dei suoi ‘astuti’ espedienti: in Calabria lo aveva raggiunto un monaco bizantino che egli disse essere lo spodestato imperatore d’oriente che si era rifugiato presso di lui chiedendo aiuto contro l’usurpatore nell’interesse proprio e del duca normanno.  Con la moglie e i figli Boemondo e Ruggero conquistò Durazzo, Corfù e Avlona. Grandi successi conseguirono Boemondo e Sichelgaita si distinsero per coraggio e intraprendenza secondo quanto racconta Anna Comnena: mentre il marito era impegnato a combattere in una zona distante, lei durante la battaglia fu colpita ad una spalla, ma vedendo che le truppe si stavano disperdendo, si strappò la freccia dalla spalla e continuò a combattere arringando i militi, riuscendo così a riguadagnare una posizione di vantaggio.
Ma il Papa a Roma, assediato dalle truppe dell’Imperatore, aveva bisogno di aiuto.
Intanto Ermanno, Abelardo ed Enrico di Conversano si erano ribellati al Duca. Roberto lasciò le operazioni militari in territorio bizantino nelle valide mani di Boemondo, e tornò in Italia.
Sconfisse le truppe imperiali sottoponendo Roma ad una feroce devastazione e portò con sé a Salerno Gregorio VII.
Un mese dopo la Cattedrale di Salerno veniva aperta al culto e consacrata proprio dal Papa.
Nell’ottobre 1084 i Duchi salernitani partirono per Brindisi nuovamente diretti alla conquista dei territori bizantini.

Il 25 maggio del 1085 moriva a Salerno Gregorio VII. Pochi mesi più tardi dopo la vittoria a Cefalonia, il 17 luglio moriva Roberto il Guiscardo. Fu sepolto nella cattedrale della Santissima Trinità a Venosa come molti altri suoi familiari e la prima moglie Alberada. L’abbazia della SS. Trinità di Venosa fu per i Normanni consapevolmente, forse, ciò che Saint-Denis era stata per i re di Francia.

Sepolcro degli Altavilla – tomba di Roberto il Guiscardo e dei suoi fratelli. – Venosa, chiesa del complesso della SS. Trinità – fine XI sec., affresco XV sec.

A Roberto succedette Ruggero Borsa e a Boemondo fu lasciata Taranto e pochi altri possedimenti, più quelli che fosse riuscito a conquistare. Boemondo non accettò di buon grado tale posizione e tra i due fratellastri ci furono aspre contese, finché non intervenne lo zio il gran conte Ruggero.
Alla fine Boemondo organizzò una spedizione in Terrasanta cui parteciparono con valore anche il nipote Tancredi e Roberto di Buonalbergo, oltre a molti altri nobili. Alla spedizione parteciparono cavalieri campani ed un notevole gruppo di calabresi. Boemondo fu insignito del principato di Antiochia ed estese i suoi domini anche in Siria Cilicia e Armenia. Tentò anche di tornare alla conquista della Grecia, ma, dopo una disfatta a Durazzo, morì nel 1111 mentre, ferito, cercavano di riportarlo a Salerno sperando in opportune cure. Fu sepolto nella Cattedrale di Canosa.
A lui successe il figlio Boemondo II, prima sotto la reggenza della madre Costanza, figlia del re di Francia Filippo I, che invano cercò di controllare le rivolte in Puglia. Fu più volte catturata. Morì in prigionia. Ad Antiochia successe poi la figlia di Boemondo II, Costanza, e poi il di lei figlio, Boemondo III. Seguirono Boemondo IV, V, VI, e VII (+ 1287) e con lui finì il principato.
La capitale del Ducato di Puglia e Calabria fu spostata a Salerno. Ruggero Borsa non aveva la stessa intraprendenza del padre e del fratellastro. Il suo regno fu segnato dall’impegno a mantenere i suoi domini. Sposò la danese Adala o Ada dalla quale ebbe il figlio Guglielmo. Ebbe alcuni contrasti con Boemondo riguardo il possesso di alcune zone della Puglia. Dopo che il primogenito del Guiscardo aveva cercato di impadronirsi di alcune città della Puglia, ci fu uno scontro nel beneventano, da cui il fratello maggiore uscì sconfitto, ma come riferisce Romualdo salernitano, in quella battaglia nessun combattente fu ucciso, tranne uno. Intanto il ducato di Amalfi, rimasto per alcuni anni, dalla morte del Guiscardo, ufficialmente senza un duca, era stato in seguito assegnato allo spodestato principe di Salerno Gisulfo II.  In seguito (morta Sichelgaita), il duca Ruggero estese il proprio dominio su Amalfi, a scapito dello zio longobardo. Nel 1092 chiede a papa Urbano II, che era a Salerno dopo aver consacrato la Basilica benedettina di Cava, l’investitura del Ducato di Puglia dichiarandosi suo vassallo.
In cambio di aiuti militari si sarebbe impegnato a cedere allo zio Ruggero Gran Conte di Sicilia una parte del suo ducato. Ruggero morì a 50 anni, dopo oltre 25 anni di governo del ducato.
 

Nota: Alla fine del VI secolo la penisola italiana, da poco annessa all’Impero bizantino, viene travolta dall’invasione dei longobardi, i quali sottraggono gran parte della penisola al controllo di Bisanzio. I territori rimasti vengono posti sotto la giurisdizione dell’Esarcato d’Italia, con capitale Ravenna.
Tra l’inizio del VIII e la fine dell’VIII secolo i bizantini perdono il controllo di tutti i loro possedimenti nell’Italia settentrionale e centrale. Gran parte di questi territori vengono conquistati dai longobardi a seguito di scontri militari: è il caso della Liguria, di numerose fortezze in Emilia, Umbria e Marche, e della stessa Ravenna, sede dell’esarca, che viene conquistata dal re longobardo Astolfo nel 751.
Solo il Lazio e la laguna veneta rimangono immuni alle conquiste longobarde nel Centro-Nord. Invece la situazione al Sud e nelle isole è ben diversa. L’avanzata longobarda nel Mezzogiorno, rappresentata dai ducati di Spoleto e di Benevento, viene frenata grazie ad una forte presenza militare bizantina in Puglia e Calabria, regioni facili da difendere e rifornire in quanto più vicine ai territori balcanici dell’Impero. Una roccaforte bizantina rimarrà per moti anni Bari.

Bibliografia:

  • Amato di Montecassino, Storia de’ Normanni volgarizzata in antico francese, a cura di V. De Bartholomaeis (Fonti per la storia d’Italia, 76), Roma 1935.
  • Mito di una città meridionale; Paolo Delogu; Liguori Editore
  • Salerno, profilo storico cronologico; Gallo- Troisi; Palladio
  • Memorie Storico-Diplomatiche dell’antica Città e Ducato di Amalfi; Matteo Camera; Centro di cultura e storia amalfitana
  • Chronicon di Romualdo II Guarna; a cura di Cinzia Bonetti; Avagliano Editore
  • Errico Cozzo; Salerno e la ribellione contro re Guglielmo d’Altavilla nel 1160/62. Atti del convegno dell’associazione italiana dei paleografi e diplomatisti Napoli-Badia di Cava dei Tirreni ottobre 1991.
  • Un santo nella tempesta- Gregorio VII dalle sue lettere; A. Sorrentino; tip. Europa, Salerno.
  • Sichelgaita Signora del Mezzogiorno; Michele Scozia; Alfredo Guida Editore
  • Sichelgaita tra Longobardi e Normanni; Dorotea Memoli Apicella; Elea Press
  • Notizie storiche delle antiche città e de’ principali luoghi del Cilento; G. Volpe; Ripostes
  • Normanni tra nord e sud. Hubert Huben, Di Rienzo Editore
I Normanni del Sud 1016-1030. John Julius Norwich; Sellerio Editore

  • Gli Amico e le rivolte dei conti normanni di Puglia contro gli Altavilla. Giuseppe Di Perna; Malatesta Editrice.

Per saperne di più leggi: Giovanni Amatuccio – Roberto il Guiscardo: Le gesta di un conquistatore. Disponibile su Amazon in formato digitale e cartaceo. https://www.amazon.it/dp/B0CLRGYS5P

©2024 Alberto Gentile (con la collaborazione di Astrid Filangieri).

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Adelasia del Vasto

Adelasia del Vasto, contessa di Sicilia e regina di Gerusalemme
di Fara Misuraca

 
Di Adelasia del Vasto, figlia di Manfredi Aleramo, marchese del Monferrato, contessa di Sicilia, la leggendaria contessa Adelasia dei palermitani, e regina di Gerusalemme non ci è rimasta nessuna immagine. Ma anche se di honestae faciei, come riporta Goffredo Malaterra, si dice che fosse donna volitiva e di grande fascino.
Fu la terza moglie di Ruggero I d’Altavilla, gran conte di Sicilia e Calabria e madre di Ruggero II, che fu nonno e precursore di Federico II.
Ebbe un’infanzia difficile. Infatti, in seguito alla morte di Manfredi, avvenuta nel 1079 durante una battaglia, e del successore, il fratello Anselmo, morto precocemente e senza figli, il marchesato finì nelle mani dell’avido e senza scrupoli Bonifazio che, incestuosamente, sposò la vedova del fratello Anselmo, riunendo nelle sue mani tutti i possedimenti degli Alerami. Nel marchesato non c’era più spazio per gli orfani di Manfredi, gli unici che potessero insidiare il potere di Bonifazio.
Adelasia e i suoi fratelli furono costretti a lasciare le terre natie per raggiungere luoghi più ospitali. In quegli anni molti settentrionali erano attratti dalla Sicilia, terra ricca ed ospitale, e anche la famiglia del Vasto pensò di approfittare dell’occasione per tentare di ricostruire le glorie e le fortune del defunto marchese, usurpate dal fratello Bonifazio.
I Normanni in quel periodo favorivano una politica d’immigrazione della loro gente, francese o dell’Italia settentrionale, allo scopo di rafforzare il ceppo latino che in Sicilia e Calabria era fortemente minoritario rispetto a greci, ebrei e saraceni.
Nel caso di Adelasia l’occasione di stabilirsi al sud si realizzò con la richiesta di matrimonio da parte del gran conte Ruggero, rimasto vedovo per la seconda volta.
Le nozze furono celebrate nella rocca di Mileto nel 1089. Ruggero aveva allora circa 60 anni e il matrimonio con la giovanissima Adelasia fu certamente un instrumentum regni, un calcolo politico teso a legare le sorti della gente lombarda a quelle del principe. Ruggero aveva, infatti, già 10 figli tra cui tre maschi, Goffredo, Maugero ed uno illegittimo, ma amatissimo, Giordano.
Adelasia, nonostante non fosse bellissima, era sicuramente una donna intelligente, ricca di fascino, energica e ambiziosa, ed esercitò su Ruggero una forte ascendenza.
 

Ruggero I d’Altavilla

Ebbe con lui due figli. Il primogenito Simone, nato nel 1092 debole e malaticcio che morì giovanissimo nel 1105, e Ruggero, forte, bruno e vigoroso, destinato a diventare il futuro re del regno di Sicilia, nato a Mileto il 22 dicembre 1095.
L’abile ed accorta Adelasia sfruttò abilmente il suo ascendente e seppe circondarsi di una fidata parentela, convincendo Ruggero a fidanzare i suoi due figli Goffredo e Giordano con due delle sue sorelle, mentre una figlia del Gran Conte, Flandina, andò sposa ad un fratello di Adelasia, Enrico, il quale trasferitosi in Sicilia ebbe in dote il ducato di Butera e di Paternò che lo rese il più potente barone della contea. L’abilità di Adelasia era stata veramente grande: infatti, mai prima d’allora Ruggero aveva elargito ad altri feudatari concessioni così vaste!
Il destino fu generoso con Adelasia, ben presto i figli maschi delle precedenti mogli morirono, così che dopo la morte di Ruggero, nel 1101, ella rimase reggente di Simone prima, e del futuro Ruggero II poi. Adelasia si ritrovò a capo dello stato più ricco e potente del meridione. La sua era una responsabilità immensa e molti pensarono che non potesse essere sopportata da una donna. Ma ella seppe difendere con coraggio e fermezza il trono dei suoi figli circondandosi, per prima cosa, di funzionari fedeli al marito tra i quali l’ammiraglio Cristodulo, nominato “protonobilissimo”, un calabrese di origini bizantine o, secondo altre fonti, arabe, mentre, quando fu necessario, seppe essere spietata, riuscendo a sedare con feroci rappresaglie le rivolte dei baroni ribelli. Attenta all’amministrazione della giustizia, intervenne con autorità per dirimere numerose controversie sorte tra gli abati di diverse abbazie. Protesse la chiesa greca e manifestò tutto il suo appoggio a Luca di Melicuccà e a Bartolomeo da Simeri, l’abate del Patirion di Rossano, concedendo vaste donazioni.
Non legata sentimentalmente come il marito alla Calabria, Adelasia trasferì la sua corte prima a Messina che era servita da base ai Normanni per  estendere il proprio dominio alla Sicilia, e poi a Palermo, città ricca e fiorente che a quel tempo contava circa 250.000 abitanti.
Adelasia aveva appreso dal marito non solo le arti del governare e della diplomazia, ma anche quella della mediazione, dote a lei congeniale che le consentì sempre di risolvere i conflitti che facilmente esplodevano in una realtà composita come quella siciliana, rispettando costumi e culture diverse integrate in un contesto nazionale multietnico, seguendo in questo la politica messa in atto da Ruggero. Latini, franchi, greci, arabi non dovevano sentirsi stranieri o percepire prevaricazioni dall’una o dall’altra etnia, bensì, secondo il progetto di Ruggero, che Adelasia seppe ben realizzare, dovevano sentirsi popoli di una stessa patria. Assolse a questo compito con grinta, coraggio e grande abilità fino al 1112, quando passò la mano al figlio Ruggero che in quell’anno compiva il suo diciassettesimo anno d’età.
Adelasia aveva concluso la sua opera, ma il suo carattere non era tale da consentirle di ritirarsi a vita privata e pur evitando accortamente di interferire con la politica e le decisioni del figlio, non si fermò e cominciò a cercare altre opportunità per riavere potere e signoria, e soprattutto per aiutare il figlio a diventare re. Ancora una volta la sorte aiutò Adelasia e, a seguito di alterne vicende, si rese disponibile ad un nuovo matrimonio e nello stesso 1112, un’ambasceria di Baldovino I di Fiandra, re di Gerusalemme, giunse a Messina per richiedere in moglie la quarantenne, ma ancora affascinante, Adelasia.
Fu certamente un matrimonio dettato da calcoli politici ed economici, che il torbido e avido Baldovino, che aveva da poco ripudiato la licenziosa moglie Adra dalla quale non aveva avuto figli, voleva concludere per contare su un’alleanza con i Normanni e soprattutto per mettere mano sulle notevoli ricchezze di Adelasia. Quest’ultima, però, fece introdurre nel contratto matrimoniale una clausola successoria con la quale, alla morte di Baldovino e in assenza di altri successori, erede del regno di Gerusalemme veniva designato Ruggero II.
Nell’estate del 1113 Adelasia lasciò Palermo, capitale di quella terra che aveva governato fermamente e saggiamente per circa 10 anni. Una moltitudine di sudditi si accalcò al porto per rendere omaggio e salutare la contessa in partenza per Gerusalemme. La squadra navale che la accompagnava era imponente, composta da 11 navi da guerra e mercantili cariche di soldati, tra i quali 500 arcieri saraceni, il cui valore era famoso in tutto l’occidente, viveri e mercanzie, oltre al tesoro personale della contessa.
Nel nuovo regno, Adelasia fu accolta con tutti gli onori e le nozze furono celebrate in una cornice di fasto orientale. Con questo matrimonio Baldovino risolveva i suoi problemi economici e militari, mentre Adelasia realizzava il proprio sogno di potenza e garantiva al figlio la tanto sospirata corona. Ma la buona sorte questa volta voltò le spalle alla regina. Ben presto le lagnanze del clero locale e dei potenti del regno che ritenevano nulle le nozze arrivarono alle orecchie del Papa Pasquale II. A queste si aggiunsero sicuramente le rimostranze dell’imperatore bizantino specie quando divenne di pubblico dominio il patto di nozze che riservava al conte di Sicilia la successione al trono di Gerusalemme. L’avido e privo di scrupoli Baldovino, che si era già impadronito del tesoro di Adelasia per pagare i suoi debiti, si lasciò facilmente convincere ad annullare le nozze quattro anni dopo, il 25 aprile 1117. Adelasia, addolorata per il raggiro, ma impotente, si imbarcò alla volta di Palermo. Ruggero rimase sconvolto e rabbioso per il trattamento subito dalla madre, ma doveva ancora pensare a consolidare la posizione delle contee di Sicilia e Calabria, prima di potersi permettere di intraprendere imprese di vendetta contro Baldovino. Forse fu questa una delle ragioni che determinò la sua avversione per le crociate.
Per alleviare le sofferenze della madre, Ruggero organizzò grandi festeggiamenti per il suo ritorno ma Adelasia, sensibile ed orgogliosa, preferì non restare a corte e si ritirò dapprima nel monastero di San Bartolomeo a Palermo e poi in un monastero lontano dalla capitale, a Patti, dove morì il 16 aprile 1118. Il suo corpo fu deposto in un sarcofago nella Cattedrale di Patti.

Il sarcofago di Adelaide del Vasto – cattedrale di Patti. La tomba, originariamente fatta costruire nel 1122 è stata sostituita con un sarcofago rinascimentale nel 1557.


Adelasia, che aveva circa cinquant’anni al momento della morte non era riuscita a veder realizzato il suo sogno: il proprio figlio Ruggero incoronato re di Sicilia. Solo nel 1130 Ruggero riuscì a realizzare quel sogno: sicuramente nel momento dell’incoronazione avrà avuto un pensiero per sua madre, la gran contessa Adelasia.
Bibliografia
• Goffredo Malaterra DE REBUS GESTIS ROGERII CALABRIE ET SICILIAE COMITIS.
• Pasquale Hamel ,  Adelaide del Vasto regina di Gerusalemme, Sellerio.
• AA VV  Storia della Sicilia.
• Santi Correnti Storia della Sicilia, Periodici locali Newton.
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