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Microstorie

La dimensione quotidiana del sacro

Dalle testimonianze raccolte da Angela Campanile in “Peschici nei ricordi” traspare una forte attestazione di religiosità popolare. Una fede che dava conforto e speranza di una vita migliore alle classi subalterne

Dalle testimonianze raccolte da Angela Campanile in Peschici nei ricordi traspare una forte attestazione di religiosità popolare. Una fede che dava conforto e speranza di una vita migliore alle classi subalterne

In Peschici nei ricordi, una scena ci visualizza le donne dei pescatori mentre, dalla Rupe del Castello, lanciano i santini dei santi protettori nei flutti del mare in tempesta. È emblematica della dimensione che il sacro assumeva nella vita quotidiana del primo Novecento. Anche i piccoli legni, simili a gusci di noce, in balia delle onde, presenti nelle tavolette votive donate alla Madonna di Loreto, simboleggiano l’uomo che stenta a trovare la sua strada nelle temperie della vita.

Il rapporto con i santi e con Gesù era diretto, confidenziale.

I fedeli, e come vedremo, i protagonisti dei “cunti”, si rivolgevano ad essi come se fossero loro conoscenti. Il tono era decisamente familiare. I pellegrini dell’Incoronata salutavano la Vergine con un «Statti bene Madonna mia / ci vediamo l’anno prossimo / e se non vi vedremo più, / in Paradiso ci porti tu!».

L’intervento miracoloso era invocato contro la natura, che spesso assumeva le sembianze di un terribile nemico senza volto. Quando scendeva il buio sulla rocca di Peschici, nelle piccole caverne rupestri o nelle casette di venticinque metri quadri, imbiancate di calce viva, prima di addormentarsi, si recitavano alacremente le preghiere della notte.

La paura di non svegliarsi il mattino dopo era una delle costanti della vita. L’incognita dell’aldilà costituiva un forte incentivo ad arrivarci preparati, imparando tutte le preghiere salvifiche, che diventavano un pass-partout ideale per l’eternità:

Verbe sacce/ e verbe dèiche/ verbe fu nostro Signàure/ che jè misse impassiàune,/ sàupe na cràuce jerte e belle,/ nu vracce nciàile /e n avite nterre./ Alla valle di Giasaffatte,/ allà iàrrimme/ e truàrrimme,/ truàrrimme a San Giuanne/ chi nu libre d’àure mane,/ che liggiàive e che scrivàive/ e che diciàive:/ piccatàure e piccatrìce/ chi sape u verbe di Dei / che ciù dicesse,/ chi no sape/ che ciù mparasse,/ sinnò, quanne jè morte,/ zàuca nfosse,/ spèine granate/ e mazze di ferre jnte a cape!” «Le parole che so le dico, le parole che parlano di nostro Signore che si è messo “in passione” su di una croce alta e bella, un braccio rivolto il Cielo, ed uno in Terra. Alla Valle di Giosafatte andremo, e troveremo San Giovanni, con un libro d’oro in mano. Egli leggerà, scriverà e dirà: “peccatori e peccatrici, chi sa pregare lo faccia, chi non lo sa fare lo impari, altrimenti, quando morirà, sarà punito”. Con corda bagnata, legno spinoso (spèine granate) e mazza di ferro in testa!».

L’invocazione della protezione divina si materializza nella visione di Dio, nella sua accezione trinitaria, e di tutti i santi più rappresentativi della cristianità.

Il dormiente, oltre ad avere nel cuore Gesù Cristo piccolino, con i riccioli che sono tanti fili d’oro, e la Madonna, vede intorno a sé un eccezionale schieramento di spiriti celesti.

A delimitare il sacro spazio di un sonno tranquillo, ci sono ben tredici angeli, sul letto ce ne sono altri tredici, Gesù adulto è a capo del letto, San Giuseppe è il suo avvocato difensore. «A capo del letto mio – recitava il fervente peschiciano – ci sta l’eterno Dio, sui due lati c’è lo Spirito Santo. Vicino a me c’è l’angelo che gioca, se Maria protegge la casa le disgrazie escono fuori, le cose belle restano dentro».

La protezione diventa planetaria quando, dai quattro angoli (cantoni) della casa, entrano altri super-protettori: san Luca, san Marco, san Matteo, e sant’Angelo Gabriele. Il quale non c’entra nulla con gli Evangelisti, ma è determinante per marcare la prima chiusa.

La preghiera continua ancora, con l’invocazione a «Maria Bambinella, tutta pura e tutta bella». Dovrà fare in modo che finiscano tutti i guai della casa protetta, dovrà farlo per l’amore che porta a Gesù. L’ultimo desiderio è di avere Maria per madre, san Giuseppe per padre, e soprattutto di fare una grossa “cumpagnie”, con Gesù, Giuseppe, sant’Anna, Maria, insieme a tutti gli altri santi del Paradiso.

Nella precarietà dell’esistenza, la morte era un evento da preparare per tempo. Passati i quarant’anni, la donna cuciva il corredo “specifico” per sé e per il proprio compagno, poiché non si poteva mai sapere… «nu cunte, na càuse», meglio evitare di farsi trovare impreparati ed esporsi ai pettegolezzi della gente! Ogni anno, l’insolito corredo veniva lavato durante la “luscìa”: doveva essere sempre bianco e profumato di serpillo. «Nun putesse mai sirvì!»: era questo l’augurio che passava di bocca in bocca, mentre i vari capi di lino e di cotone, impreziositi da orli a giorno e da ricami, venivano lavati ed asciugati.

Ma la morte, ultima avventura della vita, arrivava spesso anzitempo. Sorretti da una gran fede, i parenti dell’infermo speravano in un miracolo: fino all’ultimo momento si accendeva la “lampe” davanti ai santi sottocampana, un “altare” consueto sul comò. Si pregava senza sosta, ma quando si sentiva il canto notturno della “mèruila marèine” era proprio la fine! Il detto era: «quando canta il merlo marino, fortunata la casa dove si posa, sfortunata quella che mira!». 

Il Paradiso ad ogni costo

Nella “Settena dei Morti”, che si recitava dal giorno di Tutti i Santi fino al giorno 7 novembre, si fa riferimento ad “alme purganti”, che innalzano mesti lamenti “nel mare del duol”. Esse, sono collocate nel Purgatorio, un carcere, un’oscura prigione, un mare di fuoco, dove l’arsura le brucia. Soffrono le pene dell’Inferno. Ma i morti temono soprattutto l’oblio e la dimenticanza. Le preghiere ed i suffragi da parte dei vivi servono affinché «le anime benedette del Purgatorio si possano rinfrescare (ci putèssine addifriscà)». Il Paradiso è “una bella cosa”. Chi ha la fortuna di arrivarci, dopo una vita di stenti e di duro lavoro, va a riposarsi: «U paravèise / jè na bella càuse / Chi  va / ci va a ripàuse».

Nei racconti di Gesù Cristo, viene descritto come un luogo inaccessibile. È delimitato da una porta, a guardia della quale c’è un san Pietro poco disponibile ad aprirla. Non solo a chicchessia, ma anche a chi ha avuto modo di ospitarlo, insieme a Gesù, durante la vita terrena.

Nei “cunti” di Peschici, però, i protagonisti, con la loro arguzia e con la loro intelligenza, riescono a varcare sempre la porta d’oro del Paradiso.

Come Quagghiarelle, che quando muore, va a bussare al Paradiso. A san Pietro, che chiede chi sia, risponde senza timore, dandogli del tu: «Sono Quagghiarelle, mi fai entrare?».

Al rifiuto deciso di san Pietro, egli non demorde. Chiede di poter sbirciare attraverso la porta, vuole vedere almeno com’è fatto il Paradiso. Poi butta la coppola dentro e, con la scusa di  riprendersela, entra. E comincia a suonare il suo micidiale fischietto, coinvolgendo, in una sorta di ballo frenetico, molto simile ad una “taranta”, tutti i santi del Paradiso.

Quando Gesù Cristo sente tutto quel rumore, chiama a rapporto san Pietro e lo rimprovera: «Ma che vi siete impazziti oggi?»; «Cos’è tutto questo fracasso (stu ribelle) che fate in Paradiso?».

Risponde san Pietro, sconsolato: «Che vuol essere? È arrivato Quagghiarelle, e vuole stare per forza in Paradiso!». E Gesù: «Pietro, Quagghiarelle a noi ci ha ospitato, e noi “l’amma fa stà o Paravèise!”».

In un altro racconto, il tema del Paradiso “conquistato” si ripete, con delle significative, insolite varianti. 

Ntiniucce, il protagonista, in vita ha ospitato Gesù e san Pietro, sorpresi da un temporale presso la sua casella di campagna. Il Maestro, per ringraziarlo, gli concede tre grazie, tra cui quella di poter vincere sempre al gioco delle carte.

Quando l’uomo bussa alla porta del Paradiso, san Pietro non lo fa entrare: «Potevi pure chiedere la grazia del Paradiso! Hai chiesto le “mupie”? Ora vattene all’Inferno!». 

Qui egli sfida Lucifero ad una partita a carte: la posta in gioco è il trasferimento al Paradiso. Ntiniucce vince, una ad una, tutte le anime dell’Inferno! Se le mette in un sacco, e ritorna a bussare insistente alla porta d’oro.

San Pietro, per levarselo di torno, accetta di giocare una partita a carte: la posta in gioco è il permesso d’entrare.  E fatalmente perde. Quando vede uscire dal sacco tutte quelle anime di peccatori, resta come un fesso! (nu fesse). 

E Ntiniucce, senza scomporsi: «Se tu mi avessi fatto entrare prima, ero solo io. Adesso arrangiati!».

 

©2004 Teresa Maria Rauzino.

Recensione del testo di ANGELA CAMPANILE, Peschici nei ricordi, 2° volume “I luoghi della memoria” Centro Studi Martella, Claudio Grenzi editore, Foggia 2000, Euro 16,52.

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