CENNI STORICI
Itinerario:Navarrino dista da Molfetta oltre 12 Km. e trovarsi al vertice dei territori di Molfetta,Bisceglie e Terlizzi. Si accede per la via del Granticiello (la via a sinistra dopo il macello); bitumata fino al passaggio a livello il resto è tutto a fondo ghiaioso. Si prosegue sempre in quel senso, passando dapprima per la macchia dei pozzi, poi per il trappeto di biancolino. Giunto al quadrivio con la via delle pariete nuove, i prosegue passando per il Fondo Favale e per la Piscina Stammita; si continua passando per le casine De Judicibus-Capocchiani e Gagliardi-Gadaleta, lasciando a destra la stradetta che porta a torre Pettine. Si passa per il Boscarello, lasciando a destra la strada che porta alla Piscina Rossa e a sinistra la casina di Felice Tavella. Si giunge così ad un quadrivio; imboccando a sinistra un'altra stradetta più angusta e malinconcia si perviene al largo spiazzo della Piscina delle lacrime, diruta e quasi soffocata da uno sgroviglio di sterpi, di more, di smilaci scintillanti al sole, di cardi selvatici. Non è raro scorgere qualche querciuolo, testimonianza dell'antico bosco che ha dato il toponimo alla contrada Voscarieddo. Sulla sinistra ecco apparire maestosa e truce nello stesso tempo il complesso di Navarino.
Descrizione:Addossato alla Cappella dedicata a San Francesco di Paola è i corpo maggiore della costruzione, che comprende l'abitazione e un ampio androne (lamione) molto opacom che doveva servire alla stalla di buoi, poichè ci sono nicchie laterali per mangiatoie; all'ingresso c'è l'antico forno. Ancora più dietro due torri quadrate, unite fra loro da una cosrtuzione, che dà accesso ad un girdino cintato. le dua torri alte circa 10 m. a tre piani con affacci rotondi, quattro per ogni lato, fanno pensare fossero state costruite per vedette.Il complesso maggiore è rivolto a levante. dall'ingresso si accede ad un vano iputtosto scuro; di fronte alla porta d'ingresso trovasi la scala che immette al piano superiore. Sul muro della grande piscina è scolpito un grande Cristo.
Notizie storiche:Il nome Navarino fa nascere tante supposizione, poichè verso Terlizzi quella zona viene detta maseria di Annamaria, verso Bisceglie di Navario e a Molfetta, nel cui territorio si trova, Navarino, forse a ricordo dei rapporti con l'Ellade vicina. In una notte piovosa di novembre, una notte direi di tregenda, sentì bussare al portone, chiedendo asilo. Erano quattro volgari ladri sotto mentite spoglie di pellegrini. Il frate dette ordine ai suoi fidati di dare ospitaliltà ai pellegrini. I quattro aggredirono nel sonno il frate, derubandolo di denari, argenteria e oro. Volevano togliergli anche l'anello pastorale, che per fortuna non riuscirono a sfilare e per cui gli volevano mozzare il dito; ma uno di essi li dissuase. Il giorno dopo, per mezzo di un corriere a cavallo, mandò una lettera al Re, denunciando l'accaduto. Il brigantaggio era favorito dalla mancanza di strade, per cui il potere della legge era nulo. I ladri ritornarono in una notte di apocalisse, invocando ospitalità. Il graduato li fece entrare, nmenandoli a viva forza nel vano sprofondato e facendoli sorvegliare dagli altri gendarmi. Poi l'Abbate lesse la lettera al Re, che l'autorizzava a erigere la forca; tre dei quattro ladroni, successivamente, furono impiccati a tre alberi d'ulivi, per cui quella macchia viene tuttora chiamata Macchia delle Forche. All'efferato scempio assistettero molti biscegliesi e molfettesi.
Tra i luoghi della Molfetta misteriosa c’è sicuramente la “Torre di Navarino”. Tra le sue antiche pietre, la storia, il mistero e la leggenda corrono di pari passo da secoli.
Torre di Navarino, conosciuta anche come Casale Navarrino è un luogo misterioso, probabilmente uno dei più interessanti dell’intera regione Puglia. Il casale è il più lontano dal centro urbano, dista infatti da Molfetta oltre 12 chilometri e si trova al vertice dei territori di Molfetta, Bisceglie e Terlizzi.
Il nome Navarino è di origine incerta poiché quella zona verso Terlizzi viene denominata Masseria di Annamaria, verso Bisceglie di Navario e a Molfetta di Navarino.
Il toponimo “Navarino” appare per la prima volta nel 1582. Il nome della contrada ricorda la regione Navarra della Spagna della quale, forse, doveva essere oriundo don Ferrando Briones Yspanus, marito di Costanza Gadaleta, figlia di Giacomo, proprietario di un fondo rurale ubicato in questa zona.
Ferrante fu uno dei sei ispanici che stabilirono la loro dimora nella nostra città dopo l’uscita delle truppe di occupazione Francesi e la riconsegna della stessa agli spagnoli il 6 dicembre 1529. Morto tra il 1556 ed il 1561, come rivela il cognome, era nativo di Briones, città situata sulla frontiera tra Navarra e Castiglia (oggi nella provincia autonoma di La Rioja). Nel periodo 1535-42 don Ferrante possedeva una «pecia (de) terra maclosa q(ue) d(icitu)r d(e) la Nera» situata nella zona limitrofa a quella che poi sarà chiamata Navarino (1582) o Navaria (1635).
In epoca successiva, la «petia de la Nera» divenne proprietà della famiglia Gadaleta(prima di Francesco, nel 1552, poi di suo figlio Galante, nel 1556). Nel medesimo periodo (1554-56) il notaio Galante Gadaleta, poi barone di Binetto, in questa zona possedeva terreni seminatori con una “umile costruzione agricola” (lamia). L’8 febbraio 1598 i maestri muratori Natale de Mastro, Andrea di Corato, Vincenzo de Domenico di Bitonto e Vito de Scalera di Bitritto promisero a Cesare Gadaleta di costruire una sopraelevazione sulla torre già iniziata (preesistente ?) a Navarino.
Nel 1687 fu edificata una nuova cappella chiamata di San Francesco di Paola, costruita sulla strada vicinale, prima di entrare sul viale d’ingresso della masseria. L’anno seguente (1688) la «massaria co(n) casamenti … in loco detto Navarino, e chiamati la torre di Navarino» divenne di proprietà di Francesco Gadaleta.
Nel 1699, la visita di monsignor Pompeo Sarnelli, certifica che l’altare della cappella ivi presente aveva una piccola icona di san Francesco di Paola, mentre a destra dello stesso (altare) c’era un’icona maggiore con le immagini di santa Maria del Monte Carmelo, a destra s. Antonio, a sinistra s. Biagio.
Nel 1641 la struttura era indicata come «masseria nu(n)cupata di Navarino» ed era di proprietà di Giuseppe Gadaleta. Sei anni dopo (1647) la «massaria [situata] dove si dice Navarino» era dotata di una cappella dedicata in onore di S. Maria del Carmine.
Il primo nucleo del complesso di Navarino, risalente alla metà del XVI secolo, edificato in più fasi dalla famiglia Gadaleta, forse a partire dal 1554, comprende il casale con cappella, il palmeto e due torri gemelle con recinto e colombaia.
Il fabbricato principale, di base rettangolare, alto 10 metri su due livelli, dotato di quattro finestrelle provviste di inferriata e tre ingressi, presenta a piano terra quattro vani, l’accesso ai sotterranei, un focolare e un pozzo. Fino a qualche decennio fa, sull’entrata centrale, insisteva una targa (trafugata da ignoti), scolpita per ricordare la terribile esecuzione di alcuni fuorilegge avvenuta nei pressi della masseria, ma di questo vi parleremo fra poco. L’interno del piano terra è un ambiente voltato a botte a sezione ellittica. Due nicchie scavate sotto la scalinata che porta al primo piano, fanno presumere che qui, probabilmente, ci fosse un forno. Una di queste nicchie, con calotta, forse era destinata alla cottura delle pietanze mentre quella inferiore forse era usata per deposito di legna.
Una scala in pietra conduce al piano superiore, dotato di due grandi focolari, dal quale si accede alle terrazze ai lati della costruzione e al tetto, provvisto di garitte pensili, barbaramente deturpate. In alto a destra è presente anche una vedetta. La masseria, infatti, unisce tipici elementi abitativi e accorgimenti vari per difendersi dai nemici, come tante altre “torri” presenti sul territorio edificate in quel periodo storico.
Sono addossati su un lato del casale una stalla e un deposito comunicante all’esterno con una grande cisterna. Sul lato opposto si trova una cappella, ormai priva del campaniletto a vela, fatta costruire nel 1763 da Francesco Saverio Gadaleta, in quanto la vecchia cappella, sotto il titolo di San Francesco da Paola «era angusta e stava per crollare». Nella cappella è visibile un affresco completamente deturpato, un altare distrutto probabilmente da persone in cerca di (inesistenti?) “tesori” nascosti, delle aperture sul muro che ricordano, per forma e dimensioni, nicchie in cui venivano poste anticamente le acquasantiere. Purtroppo, l’azione dei vandali, ben visibile ovunque, nel corso degli anni ha contribuito a rendere quasi irriconoscibile un pezzo di storia che andrebbe invece tutelata e valorizzata.
L’edificio è circondato da un alto muro di recinzione che cingeva il giardino dei Gadaleta. Difronte al casale si trova il vecchio palmento dalle ampie arcate, la vasca destinata alla pigiatura dell’uva e alla fermentazione dei mosti, un ambiente col soffitto basso, tipico delle neviere: forse qui durante l’inverno veniva raccolta la neve, da conservare e utilizzare nella stagione calda per tenere al fresco il cibo. Ancora più dietro, un fabbricato in pietra con due torri a cupola con pinnacoli, a base quadrata, alte 10 metri e a tre piani, destinate alla vigilanza dell’agro circostante. Le due torri sono collegate da una singolare colombaia. Nel periodo 1818-1820, il comprensorio di Navarino era dotato di un centimolo (molino), un forno, una panetteria, due stanze (una chiamata panetteria e l’altra dirimpetto, sotto il palombaro).
Ultimi esponenti della famiglia Gadaleta a possedere questa masseria furono: Giulio Gadaleta (m. 11 novembre 1859), sua moglie Clementina Rubini(m. 1880) ed i loro figli.
Pur se nascosto dagli ulivi secolari e ormai parzialmente diroccato a causa del trascorrere inesorabile dei secoli ma anche per l’incuria dell’uomo che non riesce ancora pienamente a tutelare e preservare questi veri monumenti del passato, il complesso di Navarino si presenta ancora oggi al visitatore maestoso e truce nello stesso tempo. Questa antico complesso rurale fa parlare ancora di se, a distanza di secoli, non solo per la sua imponente architettura, ma anche per le antiche storie e leggende ad esso legate.
Torre di Navarino è davvero un luogo misterioso dove rumori sinistri, foto inspiegabili e ripetute apparizioni di fantasmi, attirano appassionati e ricercatori del paranormale. Sul luogo, aleggiano da secoli leggende riguardanti presunti spettri, visti più volte da diverse persone.
Tuoni, lampi e una pioggia scrosciante agitano la notte del 26 marzo 1746 quando l’abate Gregorio Gadaleta, fratello del defunto Giuseppe e zio dei proprietari (fratelli Francesco Saverio, Biagio, Giulio e Giuseppe postumo), che sta per andare a dormire nel piano alto della sua dimora, sente qualcuno bussare alla porta. Apre e si ritrova davanti tre uomini, bagnati dalla pioggia, che si presentano come pellegrini in cerca di un alloggio dove poter passare la notte. Gregorio li accoglie nella sua casa con molta tranquillità, ma sarà questo un gesto di cui si pentirà amaramente. Nel giro di pochi istanti sente delle mani che lo tengono immobilizzato mentre i presunti viandanti mettono a soqquadro le stanze della dimora arraffando tutto ciò che di prezioso trovano prima di fuggire. L’abate, dopo essersi liberato, ancora impaurito, cerca di scorgere nell’oscurità i suoi aggressori dei quali però non c’è più traccia. La banda, si saprà dopo, era composta in totale da nove uomini, capeggiati da Marco Cariati, Angelo Arcieri e Carmine Piturro, i materiali assalitori che rubarono dalla masseria tutta la roba di valore (argenteria, monete e altri oggetti) per un totale di 2.000 ducati.
È chiaro che i tre pellegrini non erano altro che briganti che avevano approfittato della generosità del religioso per derubarlo delle sue ricchezze. Un fatto che Gadaleta non vuole far passare impunito, infatti denuncia il tutto al Tribunale del Regno, la Regia Udienza di Trani, che avviò subito le indagini ma nel breve tempo non venne a capo di nulla. Dopo mesi, la consegna spontanea di alcuni di essi, portò alla cattura di tutti i componenti della banda.
Il 27 gennaio 1747, dopo un processo sommario, la Sacra Regia Udienza di Trani decretò che solo tre ladri erano colpevoli e che, pertanto, essi dovevano «morire sulle forche, e che l’esecuzione si facesse nel luogo del delitto; e che dopo morti i loro cadaveri si dividessero in pezzi, e si sospendessero agli arbori vicini».
Il 14 maggio 1749 la Real Camera di Santa Chiara, supremo tribunale la cui competenza territoriale si estendeva a tutto il Regno di Napoli, confermò il verdetto della Regia Udienza di Trani.
Un furto seguito dalla condanna a morte e dal macabro rito dello squartamento del cadavere del condannato. Una cosa orrenda e impensabile oggi nei paesi civili. A quei tempi, però, non era così. Durante il periodo vicereale durato fino al 1734, la condanna a morte veniva dispensata con una facilità impressionante ed i reati per i quali era prevista erano l’omicidio, il tentato omicidio, il furto, la pedofilia e l’omosessualità, le dichiarazioni diffamatorie, la falsificazione di monete e di titoli bancari, il proferimento di bestemmie contro immagini sacre, il possesso di armi ed ovviamente il tradimento alla fede giurata, le nuove ribellioni, la congiura e la lesa maestà. Per i soldati era prevista anche per la diserzione, ed inoltre, quando tra loro si era verificato un episodio ritenuto delittuoso e non si riusciva a trovare il colpevole, tra gli indiziati si procedeva per sorteggio. La macabra usanza fece decine di vittime soprattutto durante la reggenza di Carlo di Borbone.
In quel periodo storico si giustiziava talvolta nei luoghi dove era stato commesso il reato, questo a maggior soddisfazione per le famiglie delle vittime. Il popolo accorreva sempre numeroso, mosso da curiosità, talvolta impietosito, altre ancora per schernirsi del morente. E infatti, il 4 luglio del 1749, la sentenza di morte contro i tre colpevoli dell’aggressione e del furto operato in danno dell’abate Gregorio Gadaleta, fu eseguita in prossimità del luogo del misfatto.
Di fronte il casale, in un terreno situato nel territorio di Bisceglie, furono erette le forche scegliendo tre alberi di ulivo per l’esecuzione dell’impiccagione. Molti giunsero da altre masserie sparse nell’agro e città vicine per assistere al macabro spettacolo. A eseguire la sentenza fu il «maestro di giustizie» (il boia) del medesimo Tribunale di Trani. I tre furono impiccati uno per volta. Ciò trova conferma nel fatto che tra il materiale utilizzato sono presenti delle «lenzola in coprimento dell’afforcati affinché non siano visti dall’altri afforcandi».
A sentenza eseguita, i cadaveri dei tre uomini furono tagliati in “quarti” ed i pezzi furono sospesi su alberi prossimi alla masseria, alla strada di Giovinazzo, a quella di Bisceglie e portati sino a Barletta. A Molfetta, la testa del Cariati fu appesa all’entrata del complesso di San Domenico, un luogo certamente non casuale, quello della “Santa Inquisizione”, appannaggio dei frati domenicani.
Il giorno seguente, a ricordo del tragico evento e come monito per altri, i fratelli Gadaleta fecero collocare sul posto un’epigrafe (di cui conosciamo il testo ma che non è più visibile, come detto, perché trafugata da ignoti nel 1998): “Il 4 luglio 1749 re Carlo III di Borbone fece in loco Alberini impiccare tre ladroni: M. Arceri, A. Cariati, C. Piturro, a tre alberi di ulivo”. Giustizia era stata fatta, ma da allora quel posto non sarebbe stato più lo stesso, tanto da meritarsi il nome di “Macchia delle Forche”.
La vicenda dei tre morti impiccati (e poi squartati!) ha lasciato un segno indelebile, fino ai giorni nostri. Torre di Navarino divenne presto luogo sinistro, infestato dagli spiriti maligni, teatro di innumerevoli eventi inspiegabili. Oltre alle voci registrate e alle altre evenienze paranormali riscontrate da alcuni ghost hunters che hanno effettuato delle ricerche sul luogo in tempi recenti, una storia in particolare merita di essere raccontata. Un turista in vacanza in Puglia, durante un’escursione tra gli uliveti secolari, si imbatte in una struttura fatiscente, coperta da sterpaglie e in evidente stato di degrado; una struttura che non nasconde le pareti deturpate da scritte di ogni genere, priva di porte e all’interno della quale vige ovunque un vero e proprio scempio. Nonostante l’aspetto poco accogliente, l’uomo decide di addentrarsi in quella che un tempo era stata una dimora sfarzosa. In una delle stanze poste al primo piano, il visitatore scorge un caminetto molto particolare e non resiste alla tentazione di scattare qualche foto. Ebbene, quello che apparirà in seguito sull’immagine è sconcertante: si nota chiaramente la sagoma di un uomo vestito elegantemente, con giacca e camicia. Questo è solo uno dei tanti episodi inspiegabili legati a quel luogo. Secondo alcuni si tratterebbe dello spettro del vecchio proprietario dell’immobile, molto legato alla costruzione e, forse, intento a proteggerla.
Nei sotterranei dell’edificio, inoltre, alcuni affermarono di aver visto un’ombra nera, scambiata per la sagoma di un uomo, scomparire letteralmente nel nulla, lasciandoli in uno stato di profonda paura.
Il luogo, inevitabilmente, negli ultimi anni ha catalizzato l’attenzione degli appassionati di leggende, misteri e ghost tour, e non poteva essere diversamente. Qui gli ingredienti dell’horror ci sono tutti a cominciare dal luogo, abbastanza tetro e dalla storia dei tre impiccati e squartati che aleggia ancora tra le mura in rovina di questa antica masseria fortificata nelle campagne molfettesi. Stando all’Associazione Italiana del Mistero, in questo luogo ci sarebbero ancora gli spettri dei tre uomini impiccati e poi squartati nel lontano 1749. Non solo. Stando a quanto registrato da alcuni ghost hunters, questo posto è infestato da alcune voci paranormali.
Bibliografia e Sitografia
https://www.puglia.com/torre-navarino-molfetta-fantasmi/
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